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Pubbl. Gio, 31 Ago 2023
Sottoposto a PEER REVIEW

Gli usi civici e i beni collettivi

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Davide Ianni
Praticante NotaioUniversità degli Studi dell´Aquila



Il presente contributo ha come vocazione l´analisi e lo studio della recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione n. 12570 del 10 maggio 2023, con cui le Sezioni Unite sono tornate ad affrontare la dibattuta tematica degli usi civici. Dopo aver ripercorso l´evoluzione storico-normativa dell´istituto dei domini collettivi, la disamina si è incentrata sulla peculiare natura giuridica di tali vincoli legali nonchè sulle conseguenze e sui rimedi che l´ordinamento giuridico ha predisposto al fine di garantire la sopravvivenza di tali strumenti, in una generale ottica di armonizzazione e bilanciamento di interessi collettivi, pubblici e privati.


ENG

Civic uses and collective goods

The present contibution has as its vocation the analysis and study of the recent Supreme Court of Cassation ruling n. 12570 of May 10, 2023, in which the United Sections returned to address the debated issue of civic uses. After retracting the historical-normative evolution of the institution of collective domains, the examination focused on the peculiar legal nature of such legal constraints as well as on the consequences and remedies that the legal system has prepared in order to ensure the survival of such instruments, in a general perspective of harmonization and balancing of collective, public and private interests.

Sommario: 1.Introduzione; 2. Genesi e natura giuridica degli usi civici; 3. Il percorso evolutivo degli usi civici nella giurisprudenza della Corte di Cassazione; 4. Lo stato della legislazione attuale in tema di usi civici; 5. Le Sezioni Unite n.12570 del 10 maggio 2023; 6. Conclusioni.

1. Introduzione

L’istituto degli usi civici è da anni un tema molto dibattuto sia all’interno della dottrina che nella giurisprudenza.

Gli usi civici affondano le proprie radici in contesti sociali assai remoti, nati dalle esigenze della società feudale, e sono riusciti a sopravvivere all’evoluzione storica e culturale, non senza difficoltà[1].

In tale istituto si innestano connotati giuridici afferenti sia al diritto pubblico, come la natura demaniale di tali beni e la tutela paesaggistica delle aree interessate, che al diritto privato, come il delicato problema dei limiti al diritto di proprietà ed il lacunoso regime di circolazione dei beni gravati da usi civici.

La giurisprudenza ha fornito un contributo decisivo nell’evoluzione della disciplina di tale istituto, cercando di attuare un bilanciamento dei variegati interessi in gioco.

Tuttavia, ad oggi, sono ancora molti gli interrogativi ai quali non si è riusciti ad offrire adeguata risposta e la recentissima pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione del 10 maggio 2023 n.12570 fornisce un interessante spunto per dipanare la fitta nebbia che avvolge tale istituto giuridico.

2. Genesi e natura giuridica degli usi civici

Prima di affrontare lo studio e l’analisi della pronuncia oggetto del presente contributo, risulta di precipua ed urgente importanza ricostruire il percorso storico-giuridico che ha condotto alla nascita dell’istituto degli usi civici, nonché alla sua evoluzione.

La stessa Cassazione, nella sentenza in commento[2], percepisce la necessità di ripercorrere l’excursus della storia degli usi civici.

La loro antichità, infatti, sembra porsi apparentemente in aperta contraddizione con la dirompente attualità di tale istituto, anche alla luce della stessa controversa questione rimessa alle Sezioni Unite e considerata anche la progressione degli interventi normativi che si sono cronologicamente succeduti sulla materia, fino ai tempi più recenti, senza trascurare il rilevante dato fattuale ed oggettivo che ancora oggi - secondo attendibili stime - circa 1/4 del territorio nazionale è gravato da usi civici.

Dall’esame storico-giuridico condotto da diversi autori[3], è emerso come tale istituto abbia trovato la luce durante l’età del Medioevo.

In tale momento storico nasce, infatti, un nuovo concetto di proprietà, oggi conosciuto come «usi civici» a seguito di diverse evoluzioni storiche e giuridiche[4].

Con il consolidarsi del sistema feudale, la terra ha iniziato ad assumere un ruolo principale nell’economia della società ed il carattere collettivo della proprietà andrà a raffigurare in modo crescente l’antenato storico-giuridico dell’attuale concetto dei domini collettivi[5].

Successivamente, con l’abolizione del sistema feudale[6], il quadro normativo muta.

Tuttavia, la sorte degli usi civici[7] è stata ancorata alla futura approvazione di una specifica legge che avrebbe dovuto regolarne la disciplina.

E’ con la salita al potere del regime fascista che ritorna la necessità di disciplinare tali aree, soprattutto al fine di reperire terreni da distribuire ai contadini e ai reduci della Prima guerra mondiale[8].

E’ stata, quindi, approvata la l. n. 1766 del 1927[9] con cui i Comuni sono divenuti enti amministratori dei demani civici e, laddove vi fossero anche frazioni con un demanio proprio, è stato istituito un nuovo ente (c.d. A.S.B.U.C.) per l’amministrazione separata dei beni di uso civico, in rappresentanza degli abitanti delle suddette frazioni.

Tuttavia, la migrazione delle popolazioni italiane dalle campagne ai centri abitati, con abbandono conseguentemente delle terre che un tempo costituivano unica fonte di sostentamento, ha portato nuovamente la materia degli usi civici in un cono d’ombra che durerà diversi anni[10].

Nel recente passato, il legislatore è tornato a disciplinare in modo marginale la materia degli usi civici, esasperandone il carattere naturalistico[11].

L’uso civico diviene così strumento di gestione e sviluppo sostenibile del territorio[12].

Da ultimo, si è presentata come novità dirompente il recente intervento normativo costituito dalla l. n. 168 del 20 novembre 2017, la quale - a distanza di quasi novanta anni dalla legge del 1927 - è tornata nuovamente ad interessarsi della materia dei domini collettivi.

In primo luogo, tale norma non ha abrogato né modificato le norme già esistenti in tema di usi civici[13] ma, ciononostante, ha introdotto una serie di novità rilevanti[14].

Quanto alle origini dell’istituto in esame, è lampante la matrice squisitamente consuetudinaria.

Tale connotato rende difficoltosa la sua collocazione sistematica[15] dal momento che, in assenza di una catalogazione «autentica» da parte del legislatore, la dottrina si è lungamente interrogata sulla reale natura giuridica degli usi civici.

L’essenza collettiva degli usi civici ha portato la dottrina[16] a ricondurre tale istituto nell’ambito della comunione[17] senza quote di stampo germanico, definendola come «comunione di uso civico»[18].

Si è parlato a tal fine anche di «comunione forzosa», dato che sorge a prescindere da qualsiasi volontà delle parti interessate.

L’esistenza della comunità alla quale l’uso civico afferisce rende di fatto impossibile la risoluzione di un simile connotato collettivo, tanto che parte della dottrina ritiene che, solo laddove l’unità collettiva dovesse sciogliersi si potrebbe avere un fenomeno di «scorporazione» dell’unità in singole quote[19].

Ciò che distingue la comunione senza quote dal regime degli usi civici si rinviene, tuttavia, nel carattere assolutamente indisponibile del vincolo.

La comunità che usufruisce dei beni gravati da usi civici, infatti, non potrà mutare la sua destinazione, né attuare modifiche al bene, neppure all’unanimità, in considerazione della natura indisponibile, inalienabile ed inusucapibile dei diritti che ne formano oggetto.

Tuttavia, le difficoltà ricostruttive dell’istituto degli usi civici non hanno impedito alla dottrina[20] di predisporre l’individuazione di due distinte categorie giuridiche: da un lato gli usi civici c.d. in senso stretto e dall’altro il c.d. demanio civico.

Per quanto attiene ai primi, gli usi civici su terreni altrui sono terreni appartenenti ad un proprietario diverso dalla collettività degli utilizzatori e si atteggiano come iura in re aliena; diversamente, i demani collettivi sono diritti appartenenti congiuntamente ad una comunità su terre proprie e sono ricondotti alla fattispecie degli iura in re propria.

In entrambi i casi, l’aspetto soggettivo dell’istituto degli usi civici si riduce ad una collettività indifferenziata e mutevole di individui, considerati uti cives e non anche uti singuli.

La natura giuridica degli usi civici, nella loro richiamata duplice declinazione, è anch’essa oggetto di ampi dibattiti in dottrina.

Infatti, gli usi civici in senso stretto sono ricondotti nell’alveo dei diritti reali in re aliena, gravanti su terre altrui e caratterizzati dal diritto di seguito, dall’assolutezza e dalla dimensione erga omnes delle tutele.

Invece, il demanio civico è caratterizzato da connotati simili ad una c.d. proprietà collettiva, assimilabile alla natura dei beni demaniali, stante il regime di inalienabilità, inusucapibilità, immodificabilità e perpetuità del vincolo di destinazione paesaggistico.

Nello specifico, solo ed esclusivamente in relazione a tale tipologia di usi civici (c.d. in re aliena) è stato predisposto l’onere di denuncia di cui all’art. 3 della l. n. 1766 del 1927.

Al contrario, agli usi civici c.d. demaniali (c.d. in re propria) si riferiscono le disposizioni concernenti la c.d. sdemanializzazione, stante il loro regime di inalienabilità ed indisponibilità assimilabile a quello dei beni demaniali.

Pertanto, il concetto di domini collettivi si ritiene riconducibile e riferibile solo alla seconda delle due vesti degli usi civici, ossia agli usi civici in re propria.

La stessa giurisprudenza di legittimità ha da tempo recepito e cristallizzato la suddetta distinzione, come si avrà modo di precisare nei paragrafi successivi dedicati all’analisi della pronuncia di Cassazione oggetto del presente elaborato.

Infine, la dottrina si è interrogata anche su una possibile configurazione di un diritto reale atipico «sui generis» o di una situazione giuridica dominicale eccezionale rispetto al tradizionale sistema giuridico dei diritti reali[21].

In realtà, l’interrogativo sulla tipicità[22] o sull’atipicità del diritto «reale» di uso civico potrebbe essere superato[23], laddove si consideri che tale istituto sia stato disciplinato espressamente dal legislatore, seppur mediante una disciplina specifica e settoriale, al di fuori delle norme codicistiche[24].

Tuttavia, il percorso tracciato, specialmente dalla dottrina di stampo prettamente civilistico, ha portato all’accostamento degli usi civici - quali diritti reali di godimento su cosa altrui - ai diversi, ma affini, istituti del diritto di uso e della servitù prediale.

In entrambi i casi sono, tuttavia, emerse delle importanti divergenze[25].

Infine, non manca in dottrina chi[26] sostiene che gli usi civici costituiscano un’eccezionale ipotesi di atipicità sui generis di un diritto reale.

In particolare, tale autore definisce l’uso civico in re aliena come un «diritto reale su cosa altrui fondato su una consuetudine oramai recepita dal diritto vivente»[27].

Tale conclusione assume una portata dirompente, soprattutto alla luce del consolidato principio di tassatività, tipicità e del c.d. numerus clausus dei diritti reali[28], espresso dalla giurisprudenza di legittimità in più occasioni, anche con l’autorevolezza delle Sezioni Unite[29].

Alla luce della difficoltà dogmatica ed assiologica della riconduzione dell’istituto degli usi civici nell’alveo di categorie preesistenti e predefinite, altra parte della dottrina[30] ritiene preferibile prendere atto della peculiare natura giuridica di tali diritti, i quali - seppur strettamente connessi e connaturati al diritto di proprietà - sono portatori di elementi di originalità caratterizzati da una matrice collettiva che ha come fonte un elemento sociale nato con rango consuetudinario e che è stato poi nel corso del tempo normato e disciplinato mediante una disciplina speciale[31].

Preso atto dell’impossibilità di ricondurre gli usi civici entro i confini di un diritto reale già esistente, essi sono, pertanto, in via semplicistica ricondotti all’interno del concetto di proprietà plurale o collettiva.

Si attua, dunque, un passo in avanti, generalizzando la natura giuridica di tali diritti come espressione di una situazione giuridica soggettiva di matrice collettiva, rivolta ad una «unità plurale» di soggetti privati che costituiscono la comunità di riferimento.   

3) Il percorso evolutivo degli usi civici nella giurisprudenza della Corte di Cassazione

Nel corso degli ultimi anni, la prassi giurisprudenziale, invece che agevolare l’affrancazione dei fondi dai vincoli di uso civico (come originariamente predisposto dal legislatore), ha proceduto al consolidamento degli stessi, in un’ottica alquanto conservativa.

Tale tendenza della giurisprudenza ha condotto il concetto di uso civico in una nuova dimensione moderna, la quale scardina i presupposti storici e si proietta come strumento di valorizzazione degli innovativi modelli di tutela ambientale.

Non a caso, dalla salda affermazione del principio della c.d. presunzione di demanialità[32] - giustificata dall’antica concezione secondo cui gli enti comunali sarebbero i successori dei feudatari nella rappresentazione degli interessi delle collettività che occupavano i fondi - negli anni successivi, il dibattito giurisprudenziale si è incanalato nella diversa questione inerente ai poteri del Commissario agli usi civici[33], stabilendo confini e compiti che erano rimasti fumosi nella definizione legislativa e che ancora oggi rendono difficoltosa l’individuazione del suo corretto raggio d’azione[34].

La materia degli usi civici sottoposta al vaglio della Cassazione[35] si è, inoltre, concentrata anche nella qualificazione dell’interesse attribuito dalla legge alle amministrazioni separate e rappresentative degli usi civici, riconoscendone la natura di «enti esponenziali» delle collettività.

Da ultimo, la riflessione della giurisprudenza di legittimità si condensa nella presa d’atto delle innovazioni apportate con la l. del 2017 n. 168.

L’excursus giurisprudenziale consente al Supremo Collegio[36] di approdare al riconoscimento della natura di enti di diritto privato con riferimento agli enti esponenziali delle collettività titolari dei diritti di uso civico e della proprietà collettiva, attribuendo agli stessi personalità giuridica e, inoltre, riconducendo la proprietà collettiva nell’alveo del concetto di proprietà - pertanto interna alla branca eminentemente civilistica, senza prevalenza della sua componente pubblicistica - riscontrandosi come la natura di enti di diritto privato, «terza» manifestazione di essa[37].

Nel susseguirsi dei decenni successivi, le vicende giudiziarie conducono all’attenzione dei giudici di legittimità il tema delle espropriazioni per pubblica utilità e della loro compatibilità con il regime giuridico degli usi civici.

La problematica è sorta per la necessità di addivenire ad un bilanciamento tra l’interesse statale e l’interesse collettivo della tutela dell’ambiente.

In tale frastagliato panorama normativo, è stata stabilita la supremazia e la prevalenza della legislazione in materia di usi civici su quella prevista in tema di espropriazione per pubblica utilità.

Tale vocazione universalistica degli usi civici quali strumenti di conservazione paesaggistica è nuovamente ribadita dalla Suprema Corte[38], al fine di individuare nella collettività il bene superiore da tutelare.

In tale ottica pluralista, la tematica di confronto interno alla giurisprudenza di legittimità pone nuovamente al centro del dibattito l’assimilazione del regime degli usi civici a quello dei beni demaniali[39], riscoprendo quanto già affermato dalle pronunce risalenti al secolo scorso.

Tuttavia, nella giurisprudenza più recente[40], si fa largo un pensiero che si pone parzialmente in conflitto con quanto precedentemente asserito[41].

La Cassazione è tornata dunque a pronunciarsi sul tema degli usi civici con una recentissima sentenza a Sezioni Unite - e per la cui analisi si rinvia ai paragrafi che seguono - riprendendo diversi percorsi argomentativi espressi precedentemente dalla stessa giurisprudenza di legittimità ed estendendo la sua analisi anche sul discusso tema della preventiva «sdemanializzazione», procedimento fortemente legato a quello dell’espropriazione, nonché alla necessità di bilanciamento di interessi pubblici e collettivi.   

4. Lo stato della legislazione attuale in tema di usi civici

Nello schema delineato dal legislatore del 1927, ancora oggi vigente, si è proceduto al riordinamento della fattispecie degli usi civici, trattando allo stesso modo situazioni giuridiche differenti.

Come si è già avuto modo di precisare in precedenza, all’interno di tale fattispecie, si suole indicare sia il fenomeno degli usi civici in senso stretto (intesi come diritti reali di godimento in re aliena su beni appartenenti a soggetti privati), che la materia dei domini collettivi (intesi quali terre spettanti ad una collettività ben individuata di soggetti mediante un godimento promiscuo).

In quest’ultima fattispecie, il legislatore ha operato una specifica classificazione dei terreni, distinguendo gli stessi in due categorie: a) quali «convenientemente utilizzabili come bosco o come pascolo permanente»; b) quali «convenientemente utilizzabili per coltura agraria».

Per i primi, si prevedeva la conservazione nella proprietà pubblica del Comune, rimanendo in capo ai membri della comunità i diritti di uso civico, con conseguente preclusione all’alienazione o al mutamento di destinazione in assenza di autorizzazione amministrativa.

Per i secondi, già di proprietà del Comune o della frazione, si prevedeva, invece, l’apertura agli usi di tutti i cittadini del Comune o della frazione, destinando i medesimi a ripartizione (o quotizzazione) tra i coltivatori diretti della medesima zona, con impegno a trarne la maggiore utilità.

La ratio originaria della norma era quella di predisporre un meccanismo legale, in prospettiva liquidatoria, di trasformazione della proprietà c.d. collettiva in proprietà privata o pubblica.

L’originaria volontà legislativa era, pertanto, proiettata verso una libera propensione all’affrancazione dei fondi da un vincolo ritenuto oramai desueto o quantomeno strettamente collegato alle realtà agricole e rurali, mutevoli da un territorio all’altro, che non aderiva più alle esigenze attuali.

Tuttavia, l’entrata in vigore della menzionata l. n. 431 del 1985 (c.d. legge Galasso) ha inaugurato una nuova prospettiva, sulla cui scia si è poi innestato il successivo intervento normativo in materia di beni paesaggistici e culturali[42] e recepito dalla stessa giurisprudenza di legittimità, nonché dalla Corte costituzionale, cristallizzandone ed estendendone la concreta portata innovativa.

Il netto allontanamento dall’originaria tendenza liquidatoria degli usi civici ha, infine, trovato consacrazione nella nuova disciplina contenuta nella sopra citata l. n.168 del 2017[43], con cui si è consolidata la vocazione di salvaguardia ambientale degli usi civici.

Com’è stato nel corso degli anni ribadito anche dalla stessa Corte costituzionale[44], il carattere spiccatamente innovativo finalizzato alla protezione paesaggistica ha reso indispensabile sigillare e blindare gli usi civici all’interno di maglie ancora più strette, così da garantire in modo perpetuo la loro destinazione agro-silvo-pastorale.

In questo modo gli usi civici sono oggi soggetti al rigido regime giuridico della inalienabilità, indivisibilità, intrasferibilità, inusucapibilità ed imprescrittibilità.

La conservazione degli usi civici ha, pertanto, condotto a legare indissolubilmente tali diritti con i vincoli di carattere paesaggistico, al fine di garantire il loro servizio all’interesse superiore della collettività[45].

L’assetto legislativo attuale conduce, dunque, a ritenere come urgente l’intervento del legislatore in tale ambito, trattandosi sempre di esigenze di bilanciamento di interessi tra quelli inerenti alla tutela ambientale e il generale principio di certezza del diritto, messo in crisi anche dalla portata retroattiva delle pronunce della Corte costituzionale[46].   

5. Le Sezioni Unite n.12570 del 10 maggio 2023

La Suprema Corte di Cassazione, con l’autorevolezza delle Sezioni Unite, mediante l’adozione della sentenza n.12570 del 10 maggio 2023, è tornata a chiarire alcuni aspetti relativi alla materia degli usi civici rimasti incerti a causa del repentino carattere di mutevolezza dell’ordinamento giuridico moderno.

La vicenda fattuale si snoda tra alcuni territori situati ai confini tra l’Abruzzo ed il Lazio, facenti parte dell’ex feudo di Roccasecca del Popolo di Alfedena al tempo della vigenza del Regno di Napoli.

La controversia ha ad oggetto un fondo sito nell’attuale comune di Alfedena (AQ), qualificato come «demanio collettivo» da un provvedimento commissariale del 1935.

In epoca successiva, con decreto n.30214 del 1960, il Prefetto di L’Aquila espropriava parte dei terreni dedotti in causa, autorizzando contestualmente l’occupazione degli stessi in favore dell’Ente Autonomo Volturno (dante causa degli attuali ricorrenti).

Con determina della Regione Abruzzo del 2006, il citato ente comunale otteneva il riconoscimento di alcuni terreni, tra cui quello oggetto di giudizio, come beni appartenenti al demanio.

Con sentenza di primo grado adottata in data 7 aprile 2015, il Commissario agli usi civici confermava la natura demaniale civica di tutti i terreni occupati dal bacino idroelettrico dedotti in causa, dichiarando, altresì, la nullità e l’inefficacia degli atti pubblici e privati intercorsi ed ordinando la reintegra nel possesso dei terreni a favore dell’ente comunale.

Nella sentenza è stata affermata l’illegittimità del provvedimento ablatorio di esproprio, in quanto posto in essere in spregio alle disposizioni contenute nella legge n.1766 del 1927 e del successivo regolamento attuativo n.332 del 1928.

Successivamente, anche la Corte di Appello di Roma - sezione specializzata per gli usi civici ha respinto le istanze di parte appellante, dichiarando inammissibile il reclamo incidentale ed affermando che: «1) doveva escludersi la ravvisabilità della decadenza del diritto di usi civici in danno del Comune di Alfedena, atteso che la dichiarazione prevista dalla L. n. 1766 del 1927, art. 3 trovava applicazione in relazione a diritti su terreni appartenenti al demanio universale o comunale, essendo diversamente prevista solo per i diritti di promiscuo godimento ossia per i diritti di uso civico su beni altrui; 2) non potevano ritenersi espropriabili per pubblica utilità i beni di uso civico appartenenti alla comunità per le loro caratteristiche (quali l'inalienabilità, l'imprescrittibilità e l'immutabilità della destinazione d'uso, con conseguente loro inalienabilità), senza l'osservanza delle procedure e dei criteri previsti dalla citata L. n. 1766 del 1927, art. 12 se non "previa sdemanializzazione"; 3) la qualitas soli era stata adeguatamente motivata sulla scorta di atti ufficiali approvati dalle autorità competenti e delle risultanze della CTU[47]».

La controversia è giunta così alla sezione II della Corte di Cassazione, la quale, tuttavia, alla luce dell’incerto e variegato quadro della giurisprudenza di legittimità e di quella costituzionale, con ordinanza interlocutoria n.34460 del 2022, stante l’attuale centralità della materia oggetto di scrutinio, ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, ponendo i seguenti interrogativi: «è ammissibile l'espropriazione per pubblica utilità dei beni gravati da usi civici di dominio della collettività, prescindendo da una loro preventiva espressa sdemanializzazione? O si può ritenere sussistente una incommerciabilità (rectius: una indisponibilità) relativa di tali beni, che viene a cessare allorquando sopravvenga e si faccia valere un diverso interesse statale (o pubblico che sia), del tipo di quelli che si accertano e realizzano con il procedimento espropriativo per pubblica utilità ovvero con altri atti formali?».

Chiarito il dato fattuale da cui si dipana l’intera vicenda giudiziaria, la Cassazione a Sezioni Unite, dopo aver ripercorso le origini storico-giuridiche dell’istituto degli usi civici, espone il panorama normativo, nonché il quadro giurisprudenziale sul quale è sorta, si è sviluppata ed, infine, si è evoluta la materia in oggetto.

E’ riconosciuta primaria importanza alla citata legge n.1766 del 1927, che resta punto di riferimento anche per l’attuale disciplina degli usi civici.

La successiva l. n.431 del 1985 (c.d. legge Galasso) ha assoggettato al vincolo paesaggistico le aree soggette ad usi civici, in un’ottica di valorizzazione del territorio e dell’ambiente, anche alla luce della l. n. 394 del 1991.

Tale principio resterà poi confermato dal d.lgs. n. 42 del 2004, con cui il legislatore ribadisce il regime giuridico di indisponibilità dei fondi gravati da usi civici, in considerazione della loro destinazione perpetua alla salvaguardia della sfera agro-silvo-pastorale.

Tali approdi sono stati più di recente convalidati dalla l. n. 168 del 2017, la quale ha avuto il pregio di aver riconosciuto i domini collettivi come «ordinamento giuridico primario delle comunità originarie», senza apportare sostanziali modifiche di rilievo alla disciplina previgente.

Pertanto, i giudici di legittimità prendono atto della valenza ambientale e paesaggistica che gli usi civici, nel corso degli anni, hanno assunto in modo crescente nell’ordinamento moderno, anche in considerazione della l. n.221 del 2015 in materia di c.d. green economy.

Quanto al piano giurisprudenziale, sono due i principali orientamenti che si contrappongono e che avrebbero giustificato l’intervento delle Sezioni Unite: da un lato, la risalente sentenza a Sezioni Unite n.1671 del 1973[48] e, dall’altro, la più recente pronuncia della seconda sezione della Cassazione n.9986 del 2007[49].

Inoltre, a sostegno della necessità di un intervento chiarificatore, l’ordinanza interlocutoria attribuisce un ruolo di spicco anche alla recente sentenza della Corte costituzionale n.71 del 2020, con cui il giudice delle leggi si sarebbe espresso in modo netto rispetto alla priorità logico-giuridica della cessazione dell’uso civico rispetto ad un eventuale decreto di esproprio.

Ciò posto, la Cassazione ripercorre i due filoni giurisprudenziali, al fine di individuare la tesi alla quale aderire con l’obiettivo di superare l’impasse che si è creato nel tempo.

Quanto all’orientamento espresso nella richiamata sentenza del 1973, in esso i giudici, dopo aver distinto tra le due categorie di usi civici (quelli propriamente detti appartenenti a privati ed i domini collettivi), sostengono la necessaria preventiva sdemanializzazione al fine di procedere all’esproprio per pubblica utilità dei terreni gravati da usi civici, parificando il trattamento di questi ultimi (nella loro veste di domini collettivi) alla disciplina prevista in materia di beni appartenenti al demanio pubblico.

A tale orientamento, appare contrapporsi la successiva sentenza del 2007.

Nella richiamata pronuncia, la Cassazione ha condiviso l’impostazione adottata dalla Corte di Appello, secondo la quale anche in materia di usi civici deve ritenersi applicabile il dettato normativo previsto all’art. 52 della l. n.2359 del 25 giugno 1865, tuttavia limitando la sua portata esclusivamente agli usi civici gravanti su proprietà private, escludendo pertanto da tale visione estensiva la materia dei domini collettivi propriamente detti, equiparati anche in questa sede a beni demaniali.

La diretta conseguenza di una simile concezione consiste nella circostanza che i diritti di uso civico si ritengono estinti a seguito dell’adozione del provvedimento di espropriazione per pubblica utilità e successiva realizzazione dell’opera pubblica.

Ad avvalorare il carattere tutt’altro che consolidato della giurisprudenza nella materia di giudizio, l’ordinanza interlocutoria ha richiamato anche alcuni precedenti della Corte costituzionale[50].

Nello specifico, i giudici delle leggi sono sembrati propendere per un regime di espropriabilità dei terreni di uso civico, sia in iure propria che in iure aliena, sostenendo la soggezione degli stessi ad una «inalienabilità controllata» e come tali suscettibili di essere raggiunti da un provvedimento ablatorio per pubblica utilità, ammettendo quindi la sdemanializzazione c.d. «di fatto», ossia quale conseguenza diretta dell’adozione del solo decreto di esproprio.

Ripercorsi i ragionamenti giuridici adottati nelle citate pronunce, la Cassazione traccia in modo netta la propria decisione, propendendo per la tesi c.d.. «negativa» sostenuta dalle Sezioni Unite del 1973 e ritenuta ancora oggi non superata.

Al contrario, il recente intervento legislativo del 2017 ha suffragato platealmente quanto già molto tempo prima era stato espresso dalla Cassazione.

Prima di procedere con il ragionamento portato avanti dai giudici di legittimità, occorre compiere un passo indietro, al fine di meglio comprendere il delicato rapporto tra usi civici ed espropriazione.

Com’è stato in più occasioni ribadito, gli usi civici sono connotati da uno stringente vincolo di destinazione di uso, connaturato alle origini ed alle funzioni a cui essi sono preposti.

Alla luce di tale forte limite vincolistico, l’art. 4, comma 1 e 2 del d.P.R. n.327 del 2001 (T.U. espropriazioni) disciplina rispettivamente il demanio pubblico ed il patrimonio indisponibile.

È, tuttavia, solo con la citata l. n.221 del 2015 che si aggiunge una disciplina specifica anche per gli usi civici, prevedendo l’introduzione del comma 1 bis del citato art. 4 del menzionato testo unico sulle espropriazioni.

Tale disciplina predispone un peculiare procedimento di espropriazione, richiedendo in via preventiva un atto di sdemanializzazione o di mutamento di destinazione o di valutazione comparativa di interessi.

Tali adempimenti devono essere prodromici all’adozione da parte dell’autorità pubblica del provvedimento di esproprio, condizionandone l’esito favorevole.

Ciononostante, le perplessità permangono soprattutto se si tiene conto della clausola di salvaguardia introdotta nella medesima norma in cui si fanno salve «le ipotesi in cui l’opera pubblica o di pubblica utilità sia compatibile con l’esercizio dell’uso civico».

Torna nuovamente la necessità di ponderazione di valori ed interessi: da un lato, la tutela dell’interesse pubblico e generale e, dall’altro, la salvaguardia dell’interesse di una collettività al mantenimento della destinazione agro-silvo-pastorale del fondo.

Al carattere di potenziale inespropriabilità si affianca poi l’ordinario regime giuridico degli usi civici[51].

Tornando al caso in esame, se l’espropriazione deve escludersi per tutti i beni appartenenti al patrimonio indisponibile, a fronte del loro superiore vincolo di destinazione, per cui occorre un’espressa norma di legge per consentirne l’espropriazione per pubblica utilità, lo stesso principio deve ritenersi estendibile - a maggior ragione - al demanio pubblico (dello Stato e degli enti territoriali), che ha già una destinazione di interesse pubblico, la quale può essere modificata solo con il venir meno della demanialità, o con la destinazione ad altro uso, disposta dall’autorità competente.

La Cassazione, pertanto, ritiene come questa impostazione sia applicabile anche ai beni di uso civico collettivo dal momento che, propria od impropria che sia la loro qualificazione di beni demaniali (ai quali, tuttavia, sono certamente assimilabili), essa implica un regime di loro indisponibilità.

In tal senso, la Cassazione ribadisce la correttezza della tesi espressa nel 1973, secondo cui l’atto di sdemanializzazione può ravvisarsi soltanto nel provvedimento previsto dalla legge.

Il Commissario per gli usi civici conserva, pertanto, la propria giurisdizione - in tema di verifica delle occupazioni arbitrarie secondo le norme della citata legislazione - anche se il terreno oggetto d’indagine, ai fini della sua appartenenza o meno alla collettività degli utenti, risulti espropriato per pubblica utilità, in quanto né la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, né il provvedimento di espropriazione possono avere efficacia equipollente all’atto di sdemanializzazione del bene soggetto da uso civico[52].

La tesi secondo cui l’asserita demanialità civica dei terreni sarebbe venuta meno in conseguenza dell’adozione del provvedimento di espropriazione per pubblica utilità, poggia evidentemente sull’erroneo presupposto che l’espropriazione determini ex se o quanto meno ipso iure l’obiettiva  eliminazione della classificazione del bene civico (una sdemanializzazione per equipollente o di diritto), con la conseguente conversione in diritto all’indennità, al pari di qualsiasi proprietà privata, dell’uso civico delle popolazioni su terre proprie.

La Cassazione, inoltre, qualifica il diverso ed erroneo orientamento del 2007 come espressione di un ragionamento radicalmente apodittico, fondato esclusivamente su una fallace considerazione degli usi civici, differenziando la disciplina dei beni demaniali in senso stretto e tecnico dal presunto regime di inalienabilità dei beni di uso civico, il quale non ridurrebbe i medesimi in beni non suscettibili di espropriazione forzata per pubblica utilità[53].

Poiché i beni gravati da uso civico di dominio collettivo sono assimilabili a quelli demaniali (costituendone - secondo alcuni indirizzi - una particolare categoria), l’approdo ermeneutico, in relazione al loro regime giuridico sul punto, non può essere che lo stesso, nel senso che l'esperimento della procedura espropriativa per pubblica utilità, affinché possa essere ritenuta legittima, deve essere proceduta dalla preventiva «sdemanializzazione» di siffatti tipi di beni.

I giudici, pertanto, sostengono che la sdemanializzazione degli usi civici collettivi non può verificarsi direttamente con l’esecuzione di una procedura di espropriazione per pubblica utilità, anche in virtù della ragione di fondo che, a fronte della garanzia della quale godono gli interessi primari della persona, nessuno spazio può considerarsi aperto a valutazioni discrezionali di autorità amministrative o, comunque, esercenti attività di corrispondente natura, potendo e dovendo esse operare nella più stretta osservanza delle norme e dei criteri prefissati dalla legge.

Tale processo interpretativo conduce a configurare i relativi provvedimenti come atti vincolati, ovvero adottabili con mera efficacia esecutiva, in virtù della funzione peculiarmente assolta.

La «sdemanializzazione» dovrà, quindi, realizzarsi tramite le procedure e sulla base dei criteri individuati dalla legge per ciascuna categoria di beni pubblici e non attraverso una mera comparazione di interessi pubblici connessi all’utilizzazione del bene attuata dall’autorità espropriante secondo le regole del diritto amministrativo comune.

Il punto di approdo delle Sezioni Unite si condensa nell’enunciazione del seguente principio di diritto: «I diritti di uso civico gravanti su beni collettivi non possono essere posti nel nulla (ovvero considerati implicitamente estinti) per effetto di un decreto di espropriazione per pubblica utilità, poiché la loro natura giuridica assimilabile a quella demaniale lo impedisce, essendo, perciò, necessario, per l'attuazione di una siffatta forma di espropriazione, un formale provvedimento di sdemanializzazione, la cui mancanza rende invalido il citato decreto espropriativo che implichi l'estinzione di eventuali usi civici di questo tipo ed il correlato trasferimento dei relativi diritti sull'indennità di espropriazione».

6. Conclusioni

La materia degli usi civici, nonostante gli annosi e remoti trascorsi storici, si attesta ancora oggi con la sua attualità al centro del dibattito dottrinario e giurisprudenziale, imponendosi come protagonista di un necessario dialogo tra interessi generali contrapposti.

Essi rappresentano l’ago della bilancia dell’attività di ponderazione tra i valori che l’ordinamento ha gradualmente riconosciuto e posto al vertice del proprio giudizio comparativo.

L’intrinseca natura contraddittoria degli usi civici si annida nel continuo dibattito circa la loro idoneità a svolgere il ruolo affidatogli dal legislatore.

L’elevatissimo privilegio di porsi come baluardi della salvaguardia e della protezione del territorio si scontra con un regime di giuridica indisponibilità del bene, ritenuto spesso come un ostacolo piuttosto che come un valore aggiunto o una qualitas positiva.

In questo panorama frastagliato di norme in cui la giurisprudenza si rincorre al fine di raggiungere un approdo stabile, coerente e duraturo, rimane cruciale ancora una volta la necessità di un intervento legislativo.

La propensione ad una maggiore elasticità procedimentale e alla semplificazione del sistema amministrativo è giustificata dai ritmi frenetici ai quali viaggia la società e l’economia moderna, richiedendo risposte rapide e quanto più stabili possibili.

In questa nuova ottica di equilibrismo, non può essere trascurato il nesso indissolubile esistente tra la tutela dell’interesse pubblico e la protezione degli interessi di singole collettività o realtà locali.

In tale prospettiva, si osserva come la portata della pronuncia in commento debba essere certamente ridimensionata, collocandola all’interno dei binari normativi.

Essa, infatti, parrebbe limitarsi a prendere atto di un orientamento pressoché stabile della giurisprudenza di legittimità, avallato anche dalla stessa Corte costituzionale, frutto della condivisione delle scelte adottate dal legislatore nella materia dei domini collettivi, avendo preso atto del vincolo, oramai indissolubile, esistente tra usi civici e salvaguardia ambientale e paesaggistica.

L’intento chiarificatore non è, tuttavia, frustrato dalla netta presa di posizione delle Sezioni Unite sulla tematica sottoposta al suo vaglio.

E’ necessario, infatti, elogiare l’ingente lavoro della giurisprudenza di legittimità, la quale - nel corso degli ultimi decenni - ha inteso valorizzare in maniera progressiva l’importante funzione nomofilattica ad essa riservata, specialmente nella materia degli usi civici.

Tuttavia, è la stessa Suprema Corte che nella sentenza sembra ritenere quasi superfluo il suo intervento, considerato oramai come pacifico il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità sul punto[54].

Deve, tuttavia, essere rintracciato un pregevole merito al percorso ermeneutico sostenuto da questa Cassazione: la portata innovativa si annida nell’aver distinto i due piani in cui si snodano gli usi civici nella loro veste di domini collettivi.

È stato sovente affermato come il concetto di demanio civico (o proprietà collettiva) condensa al suo interno una duplice anima: da un lato, vi è la qualitas del fondo che lo lega indissolubilmente al vincolo di uso civico, giustificato dall’attuale necessità di tutela e salvaguardia ambientale; dall’altro lato, invece, si inserisce la natura giuridica del fondo, la cui disciplina, nel corso degli anni, è stata di fatto assimilata a quella prevista per i beni demaniali.

La natura ambivalente dei domini collettivi si è andata via via a sovrapporre al regime giuridico attribuitogli negli anni, consistente di fatto in una condizione di indisponibilità pressoché perpetua.

Tale peculiare regime ha portato ad un’erronea concezione in cui si è addivenuti ad un’astratta equiparazione degli usi civici ai beni demaniali, non nel senso di favorirne un’applicazione analogica, bensì di trasformare la natura giuridica degli usi civici in beni demaniali veri e propri.

La diretta conseguenza dell’accoglimento di questa tesi è la circostanza secondo cui, al fine di «liberare» un fondo da tale specifico regime giuridico, sia sufficiente a permettere la fuoriuscita del bene dal demanio in cui si trova vincolato.

La Cassazione, invece, chiarisce nuovamente come i due piani siano e debbano rimanere ben separati e distinti, benché sia opportuno instaurare una dinamica dialogica tra i due sistemi di disciplina.

Gli usi civici, infatti, sono connotati da vincoli di per sé gravosi, i quali trovano la loro ragione ontologica della tanto celebrata salvaguardia del territorio agro-silvo-pastorale.

L’effetto di tale esito interpretativo porta, dunque, alla decisione delle Sezioni Unite, con cui è riconosciuta la necessità di previa sdemanializzazione, sottolineando la non autosufficienza del solo decreto di esproprio al fine di «spurgare» i vincoli di uso civico impressi sui fondi.

Per concludere, il concetto di pluralità nella materia degli usi civici ricorre in maniera pedissequa, sviluppandosi all’interno di un pensiero rinsaldato su alcuni vecchi dettami.

Non a caso, nel recente passato, si è parlato di «rivoluzione dei beni comuni[55]», per indicare quel fenomeno necessario ed inarrestabile che conduce sempre più intensamente al di là della dicotomia proprietà privata-proprietà pubblica, dimostrando invece la necessità di una connessione sempre più forte tra persone e mondo esterno e tra le persone tra loro, nonché rivelando il legame indissolubile tra diritti fondamentali e strumenti indispensabili per la loro attuazione.

Nel caso in esame, la tutela ambientale, della biodiversità e degli ecosistemi deve, pertanto, innestarsi all’interno dei nuovi programmi di gestione e di programmazione territoriale, al fine di meglio adeguarsi alle diverse e cangianti realtà locali.

Si schiude così un pensiero filosofico-giuridico più elevato che pone al centro del palcoscenico la pluralità della proprietà, in un’ottica di attuazione e di perseguimento dei principi fondamentali riconosciuti nella Carta costituzionale, a cui necessariamente il legislatore dovrà ispirarsi nell’addivenire ad una soluzione di equilibri e contrappesi alle attuali esigenze sociali, proiettate verso le nuove ed incoraggianti sfide del futuro, valorizzando la conservazione dell’ambiente anche mediante la predisposizione e la riscoperta degli strumenti giuridici tradizionali.


Note e riferimenti bibliografici

[1] In particolare, centrale sarà l’ancoraggio degli usi civici al tema della tutela ambientale ad opera del legislatore.

[2] Cass., Sez. Un., 10 maggio 2023, n.12570.

[3] Pugliatti, La proprietà e le proprietà con riguardo particolare alla proprietà terriera, Milano, 1954; Pugliatti, La proprietà nel nuovo diritto, Milano, 1964; Grossi, «Un altro modo di possedere». L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, in Quad. fiorentini, quinta edizione, Milano, 1977; Perlingeri, Introduzione alla problematica della «proprietà», Napoli, 2011; Volterra, Istituzioni di diritto privato romano, Roma, 1999; Caravale, Storia del diritto nell’Europa moderna e contemporanea, Bari, 2012; Bonfante, «Res mancipi» e «nec mancipi», in Forme primitive ed evoluzione della proprietà romana - Scritti giuridici varii, II edizione, Torino, 1926; Vincenti, I fondamenti del diritto occidentale, Roma-Bologna, 2010.

[4] Calasso, Medio Evo del diritto, I edizione, Milano, 1954; Grossi, Proprietà, (dir. Interm.), in Enc. Dir., Milano, 1988.

[5] Marinelli, Scienza e storia del diritto civile, Bari, 2009, 70 ss.; Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata, II edizione, Bologna, 1990.

[6] Art. 1 della l. 2 agosto 1806: «La feudalità con tutte le sue attribuzioni resta abolita. Tutte le giurisdizioni sinora baronali, ed i proventi qualunque, che vi siano stati annessi, sono reintegrati alla sovranità, della quale saranno inseparabili».

[7] Tali usi consistevano principalmente nel pascere, acquare, pernottare, legnare.

[8] Cerulli Irelli, Proprietà collettive, demani civici ed usi civici, in «Un altro modo di possedere». Quaranta anni dopo, Milano, 2017; Marinelli, Usi civici, cit., 120 ss; Cervale, Usi civici e domini collettivi. La proprietà plurale e il diritto civile. Trattato di diritto civile del Consiglio Nazionale del Notariato, diretto da P. Perlingeri, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2022, 111 ss.

[9] La menzionata legge del 1927 costituisce ancora oggi un importante punto di riferimento. Essa è infatti il primo intervento normativo di disciplina in materia di usi civici e risulta tutt’oggi vigente, dal momento che la successiva legge n. 168 del 2017 sui domini collettivi, seppur intervenuta dopo circa 90 anni, non ha abrogato la precedente. Al fine di dare attuazione concreta a quanto imposto dalla legge, sarà poi adottato il regolamento contenuto nel regio decreto n. 332 del 1928, con cui si andrà a disciplinare il riordino degli usi civici del Regno.

[10] Si arriverà, solo dopo molti anni, alla l. 29 giugno 1939 n. 1497 poi alla l. 8 agosto 1985 n. 431 (c.d. legge Galasso) ed inoltre all’art. 142, comma 1, lett. h) del d.lgs. n. 42 del 22 gennaio 2004 (c.d. Codice dei beni culturali e del paesaggio).

[11] Si pensi alla l. n. 221 del 28 dicembre 2015, con cui si persegue l’obiettivo di predisporre dei piani di intervento volti alla tutela ed alla conservazione dell’ambiente attraverso l’adozione di misure di c.d. green economy.

[12] In tale ottica, al fine dell’analisi della pronuncia in commento, è importante evidenziare come il legislatore del 2015 abbia previsto espressamente che i beni gravati da usi civici non potranno essere espropriati o asserviti coattivamente se non viene pronunciato il mutamento di destinazione d’uso, salva la necessità di contemperare tale interesse con l’eventuale presenza di opere di pubblica utilità.

[13] Il riferimento è ancora una volta alla l. n.1766 del 1927 ed al regolamento di esecuzione n. 332 del 1928.

[14] Tra gli altri, come meglio si dirà in seguito, l’inserimento della nuova definizione «domini collettivi» nonché, quanto al regime giuridico dei beni gravati da uso civico, la conferma della loro indisponibilità, indivisibilità, inusucapibilità e perpetua destinazione agro-silvo-pastorale.

[15] Catalani, La collocazione sistematica degli assetti fondiari collettivi in funzione del rapporto tra comunità e ambiente, in Archivio Scialoja-Bolla, Napoli, 2014.

[16] Gambaro, Il diritto di proprietà, in Tratt. Dir. Civ.  comm., Milano, 1995, 570 ss; Cerulli Irelli, Proprietà collettive, demani civici e usi civici, cit., 70 ss; Pugliatti, La proprietà e le proprietà, cit., 165 ss; Filograno, Quota e bene comune nella comunione ordinaria, Napoli, 1973, 30 ss.

[17] Segré, Sulla natura della comproprietà in diritto romano, in Riv. It. Sc. Giur., Roma, 1888; Perozzi, Saggio critico sulla teoria della comproprietà, in Scritti giuridici, I edizione, Milano, 1948, 436 ss; Guarino, Comunione (dir. Rom.), in Enc. Dir., VIII edizione, Milano, 1961, 230 ss.

[18] L’elemento che avvicina maggiormente gli usi civici al concetto di comunione è la progressiva erosione del carattere dell’assolutezza e dell’esclusività che connota il concetto tradizione di dominio e di proprietà.

[19] Anche qui parrebbe rinvenirsi in questo orientamento l’applicazione analogica della disciplina in tema di comunione legale dei coniugi a seguito dello scioglimento del vincolo matrimoniale, laddove da comunione «legale» si passa ad una comunione ordinaria divisa in quote eguali.

[20] Cervale, Usi civici e domini collettivi. La proprietà plurale e il diritto civile. Trattato di diritto civile del Consiglio Nazionale del Notariato, diretto da P. Perlingeri, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2022, 45 ss; Marinelli, Usi civici, cit.; Marinelli, Usi civici. Aspetti e problemi delle proprietà collettive, Napoli, 2000; Marinelli, Un’altra proprietà. Usi civici, assetti fondiari collettivi, beni comuni, Pisa, 2019; De Lucia, Gli usi civici tra autonomia delle collettività e accentramento statale, in Giur. Cost., Milano, 2018.

[21] Sul punto Marinelli, Gli usi civici, cit., 191 ss; Gazzoni, Manuale di diritto privato, seconda edizione, Napoli, edizioni scientifiche italiane, 1990, 250; Narucci, La tipicità dei diritti reali, II edizione, Padova, 1988.

[22] Burdese, Ancora sulla natura e tipicità dei diritti reali, in Riv. Dir. Civ., Milano, 1983, 230 ss.

[23] Marinelli, Gli usi civici, cit., 191 ss; Cervale, Usi civici e domini collettivi. La proprietà plurale e il diritto civile. Trattato di diritto civile del Consiglio Nazionale del Notariato, diretto da P. Perlingeri, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2022, 125.

[24] Si ricordi che il principio di tipicità, tassatività e del c.d. numerus clausus dei diritti reali rappresenta oramai un principio di diritto consolidato, pacifico ed indiscusso del nostro ordinamento giuridico, ribadito in più occasioni anche dalla stessa giurisprudenza di Legittimità (si pensi da ultimo alla sentenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione del 17 dicembre 2020, n. 28972).

[25] Per il diritto d’uso, l’art. 1021 c.c. si riferisce al concetto di bisogno ed utilità che, seppur presente nell’istituto dell’uso civico, in quest’ultimo rimane ancorato alla collettività ed inoltre presenta una vocazione perpetua; diversamente, per quanto concerne la servitù, il suo elemento essenziale è rintracciato nella predialità, assente invece nel concetto di uso civico.

[26] Marinelli, Usi civici, cit., 200 ss.

[27] Ibidem.

[28] Natucci, La tipicità dei diritti reali, II edizione, Padova, 1988.

[29] Da ultimo, tra le sentenze che sostengono tale principio di diritto si veda: Corte di Cassazione a Sezioni Unite del 17 dicembre 2020, n.28972.

[30] Gazzoni, Manuale di diritto privato, cit., 251 ss; Giorgianni, Contributo alla teoria dei diritti di godimento su cosa altrui, ristampa del 1996.

[31] Il riferimento è alle citate norme: l. n. 1766/1927; r.d. n. 332/1928; l. n. 168/2017.

[32] Cass. civ., Sez. Un., 16 luglio 1958 n.2598, in Riv. Giur. Umbro-abruzzese, 1960, 200, con cui si afferma che a qualsiasi bene che risulti essere di proprietà dell’ente comunale deve essere riconosciuta in via presuntiva la natura demaniale.

Tale principio si consolida successivamente anche con la Cass. civ., 21 giugno 1966 n.1592, la quale richiama anche una precedente sentenza Cass. civ., 13 ottobre 1953 n.3345 in Riv. Dir. Agr., 1966, II, 330.

[33] Tale figura, mutuata dall’esperienza del Regno di Napoli quale organo che condensava su di sé funzioni amministrative e giurisdizionali, viene ripresa dalla legge del 1927, la quale istituisce presso le sedi di Corte d’ Appello la figura del Commissario Regionale agli usi civici, forgiando tale ruolo come una sorta di giudice speciale (rectius: specializzato) appartenente all’ordine giudiziario, sostituendosi nelle mansioni ai Prefetti e Commissari ripartitori.

L’articolo 29, comma 2 della legge 1766 del 1927 individua l’ambito della competenza giurisdizionale del Commissario stabilendo che: «I Commissari decideranno tutte le controversie circa la esistenza, la natura e la estensione dei diritti suddetti, comprese quelle nelle quali sia contestata la qualità demaniale del suolo o l'appartenenza a titolo particolare dei beni delle associazioni, nonché tutte le questioni a cui dia luogo lo svolgimento delle operazioni loro affidate».

[34] Cass. civ., 14 giugno 1954 n.1997; Cass. civ., Sez. Un, 13 novembre 1961 n.2653; Cass. civ., Sez. Un., 28 gennaio 1994 n.858.

[35] Cass. civ., 29 luglio 2016 n.15938; Cass. civ., Sez. Un., 26 febbraio 2019, n.5644.

[36] Cass. civ., Sez. Un., 24 giugno 2020, n.12482.

[37] Sul punto anche una parte della dottrina era giunta alle medesime conclusioni: Volante, Un terzo ordinamento civile della proprietà. La l. 20 novembre 2017 n. 168 in materia di domini collettivi, in Nuove leggi civili comm., 2018, 1067 ss.

[38] Cass. civ., 28 settembre 2011 n.19792.

[39] Cass. civ., Sez. Un., 10 novembre 1980 n.6017; Cass. civ., 24 luglio 1986 n.4749; Cass. civ., Sez. Un., 14 febbraio 2011 n.3665; Cass. civ., 16 febbraio 2011 n.3811.

[40] Cass. civ., Sez. Un., 22 aprile 2016 n.7021.

[41] Nello specifico, è stato ritenuto che l’appartenenza di un determinato bene al peculiare regime degli usi civici non si pone come elemento assolutamente preclusivo ai fini dell’applicazione delle norme sull’espropriazione forzata su tali beni.

[42] D.lgs. n. 42 del 2004: Codice dei beni culturali e del paesaggio.

[43] Giulietti, La gestione dei domini collettivi dopo la legge n. 168 del 2017, in Domini collettivi e usi civici, Roma, 2018; Cervale, Usi civici, diritto civile e tutela del paesaggio: la nuova legge sui domini collettivi, in Rass. dir. civ., Napoli, 2018.

[44] Si tratta, da ultimo, della Corte cost. n.228 del 2021.

[45] L’art. 12 della l. n. 1766 del 1927, norma di riferimento in materia di «affrancazione» dei terreni da usi civici, prevede infatti che sia necessario ed indefettibile un provvedimento di «sdemanializzazione».

[46] Principato, I profili costituzionali degli usi civici in re aliena e dei domini collettivi, in Usi civici e attività negoziale nella legalità costituzionale, Torino, 2018, 39 ss; Di Genio, Gli usi civici nel quadro costituzionale (alla luce della legge n. 168 del 20 novembre 2017), Torino, 2019.

[47] Corte App. Roma n.6 del 4 aprile 2017.

[48] Cass. civ., Sez. Un., 11 giugno 1973 n.1671.

[49] Cass. civ., sez. II, 26 aprile 2007 n.9986.

[50] Corte cost. 11 luglio 1989 n. 391; Corte cost. 12 maggio 1995 n.156.

[51] Inalienabilità, inusucapibilità, indisponibilità, indivisibilità, imprescrittibilità.

[52] Il complesso principio di diritto enunciato dalla richiamata Cassazione del 1973 è il seguente: «Qualora i beni appartenenti a privati, sui quali si esercita l'uso civico, vengano espropriati per pubblica utilità prima della liquidazione prevista dalla legislazione in materia (L. 16 giugno 1927, n 1766 e R.D. 26 febbraio 1928, n 332) le ragioni derivanti dai diritti di uso civico si trasferiscono sulla indennità di espropriazione. Se, invece, l'uso civico si esercita su beni appartenenti alla collettività (terre possedute dai comuni, frazioni di comune, comunanze, partecipanze, università ed altre associazioni agrarie), il regime di inalienabilità e di indisponibilità cui i beni stessi sono assoggettati - e che permane, per quelli concessi in enfiteusi, fino all'eventuale affrancazione, e per quelli conservati ad uso civico fino al decreto del ministro dell'agricoltura che ne autorizza l'alienazione - comporta che i beni anzidetti non sono espropriabili per pubblica utilità se non previa “sdemanializzazione”».

[53] Orientamento sostenuto ed avallato dalla menzionata sentenza della Corte cost. n.391 del 1989.

[54] Si riporta appresso un passo della sentenza in commento: «Del resto, l'unica vera pronuncia contraria successiva - la sentenza n. 9986 del 2007 della II Sezione civile - è sostanzialmente apodittica, ponendo riferimento, a fronte di un motivo, rigettato, ampiamente approfondito e sviluppato (basato sull'univoco quadro giurisprudenziale precedente), ad un'asserita interpretazione sistematica - avallata dalla sentenza n. 391/1989 della Corte costituzionale - conducente alla conclusione che “diversamente dalla disciplina dei beni demaniali in senso stretto e tecnico, al regime di inalienabilità dei beni di uso civico non inerisce la condizione di beni non suscettibili di espropriazione forzata per pubblica utilità”, con la loro conseguente assoggettabilità a quest'ultima procedura. Conclusione, invero, adottata senza confrontarsi con la pregressa giurisprudenza di legittimità, ivi inclusa la citata sentenza delle Sezioni unite n. 1671/1973, ed obliterando anche la pressoché univoca giurisprudenza costituzionale, pur essa contraria alla tesi dell'espropriabilità per pubblica utilità dei beni collettivi gravati da usi civici (oltre alla pronuncia della Corte costituzionale n. 156/1995, si ricordano le ulteriori, precedenti, decisioni recanti i nn. 78/1961, 18/1965, 99/1969 e 93/1970), come desumibile - per quanto prima posto in risalto - anche da quella successiva e più recente».

[55] Rodotà, I beni comuni. L'inaspettata rinascita degli usi collettivi, Napoli, 2018.