Osservatorio Notarile - Luglio/Settembre 2023
Modifica paginaautori Giulia Fadda , Giorgianni Marco Filippo , Scatena Salerno Mauro
Osservatorio trimestrale su temi di interesse notarile. A cura del Notaio dottor Marco Filippo Giorgianni, del Notaio dottor Mauro Scatena Salerno e della dott.ssa Giulia Fadda. In questo numero sono presenti due contributi del dottor Davide Ianni uno sulla tematica degli usi civici e dei beni collettivi e l´altro sulla tematica della natura giuridica delle restrizioni inerenti al godimento della proprietà esclusiva in rapporto al regolamento di condominio. Inoltre, è presente anche un ulteriore contributo della dott.ssa Tiberi Tanya sulla tematica del condominio nella prassi notarile.
Notarial Observatory - July/September 2023
Quarterly observatory on issues related to the notarial profession. January-March 2023. Edited by the public Notary dott. Marco Filippo Giorgianni, the public Notary dott. Mauro Scatena Salerno and the dott.ssa Giulia Fadda. In this issue there are two contributions by Dr. Davide Ianni on the issue of civic uses and collective goods and on the legal nature of restrictions on the enjoyment of exclusive property in relation to condominium regulations. In addition, there is a further contribution by Dr.ssa TiberiTanya on the issue of condominium in notarial practiceTutti gli articoli pubblicati nell'Osservatorio Notarile sono stati sottoposti a revisione a doppio cieco e approvati da almeno un membro del Comitato scientifico della Rivista competente per il settore disciplinare di riferimento.
NOTA A SENTENZA
GLI USI CIVICI E I BENI COLLETTIVI[1]
Indice: 1) Introduzione; 2) Genesi e natura giuridica degli usi civici; 3) Il percorso evolutivo degli usi civici nella giurisprudenza della Corte di Cassazione; 4) Lo stato della legislazione attuale in tema di usi civici; 5) Le Sezioni Unite n.12570 del 10 maggio 2023; 6) Conclusioni.
(Cass., Sez. Un., 04 aprile 2023, dep. 10 maggio 2023, n.12570 - Pres. Virgilio - Rel. Carrato - A.A. c. B.B. e altri)
I diritti di uso civico gravanti su beni collettivi non possono essere posti nel nulla (ovvero considerati implicitamente estinti) per effetto di un decreto di espropriazione per pubblica utilità, poiché la loro natura giuridica assimilabile a quella demaniale lo impedisce, essendo, perciò, necessario, per l'attuazione di una siffatta forma di espropriazione, un formale provvedimento di sdemanializzazione, la cui mancanza rende invalido il citato decreto espropriativo che implichi l'estinzione di eventuali usi civici di questo tipo ed il correlato trasferimento dei relativi diritti sull'indennità di espropriazione.
1) Introduzione
L’istituto degli usi civici è da anni un tema molto dibattuto sia all’interno della dottrina che nella giurisprudenza.
Gli usi civici affondano le proprie radici in contesti sociali assai remoti, nati dalle esigenze della società feudale, e sono riusciti a sopravvivere all’evoluzione storica e culturale, non senza difficoltà[2].
In tale istituto si innestano connotati giuridici afferenti sia al diritto pubblico, come la natura demaniale di tali beni e la tutela paesaggistica delle aree interessate, che al diritto privato, come il delicato problema dei limiti al diritto di proprietà ed il lacunoso regime di circolazione dei beni gravati da usi civici.
La giurisprudenza ha fornito un contributo decisivo nell’evoluzione della disciplina di tale istituto, cercando di attuare un bilanciamento dei variegati interessi in gioco.
Tuttavia, ad oggi, sono ancora molti gli interrogativi ai quali non si è riusciti ad offrire adeguata risposta e la recentissima pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione del 10 maggio 2023 n.12570 fornisce un interessante spunto per dipanare la fitta nebbia che avvolge tale istituto giuridico.
2) Genesi e natura giuridica degli usi civici
Prima di affrontare lo studio e l’analisi della pronuncia oggetto del presente contributo, risulta di precipua ed urgente importanza ricostruire il percorso storico-giuridico che ha condotto alla nascita dell’istituto degli usi civici, nonché alla sua evoluzione.
La stessa Cassazione, nella sentenza in commento[3], percepisce la necessità di ripercorrere l’excursus della storia degli usi civici.
La loro antichità, infatti, sembra porsi apparentemente in aperta contraddizione con la dirompente attualità di tale istituto, anche alla luce della stessa controversa questione rimessa alle Sezioni Unite e considerata anche la progressione degli interventi normativi che si sono cronologicamente succeduti sulla materia, fino ai tempi più recenti, senza trascurare il rilevante dato fattuale ed oggettivo che ancora oggi - secondo attendibili stime - circa 1/4 del territorio nazionale è gravato da usi civici.
Dall’esame storico-giuridico condotto da diversi autori[4], è emerso come tale istituto abbia trovato la luce durante l’età del Medioevo.
In tale momento storico nasce, infatti, un nuovo concetto di proprietà, oggi conosciuto come «usi civici» a seguito di diverse evoluzioni storiche e giuridiche[5].
Con il consolidarsi del sistema feudale, la terra ha iniziato ad assumere un ruolo principale nell’economia della società ed il carattere collettivo della proprietà andrà a raffigurare in modo crescente l’antenato storico-giuridico dell’attuale concetto dei domini collettivi[6].
Successivamente, con l’abolizione del sistema feudale[7], il quadro normativo muta.
Tuttavia, la sorte degli usi civici[8] è stata ancorata alla futura approvazione di una specifica legge che avrebbe dovuto regolarne la disciplina.
E’ con la salita al potere del regime fascista che ritorna la necessità di disciplinare tali aree, soprattutto al fine di reperire terreni da distribuire ai contadini e ai reduci della Prima guerra mondiale[9].
E’ stata, quindi, approvata la l. n. 1766 del 1927[10] con cui i Comuni sono divenuti enti amministratori dei demani civici e, laddove vi fossero anche frazioni con un demanio proprio, è stato istituito un nuovo ente (c.d. A.S.B.U.C.) per l’amministrazione separata dei beni di uso civico, in rappresentanza degli abitanti delle suddette frazioni.
Tuttavia, la migrazione delle popolazioni italiane dalle campagne ai centri abitati, con abbandono conseguentemente delle terre che un tempo costituivano unica fonte di sostentamento, ha portato nuovamente la materia degli usi civici in un cono d’ombra che durerà diversi anni[11].
Nel recente passato, il legislatore è tornato a disciplinare in modo marginale la materia degli usi civici, esasperandone il carattere naturalistico[12].
L’uso civico diviene così strumento di gestione e sviluppo sostenibile del territorio[13].
Da ultimo, si è presentata come novità dirompente il recente intervento normativo costituito dalla l. n. 168 del 20 novembre 2017, la quale - a distanza di quasi novanta anni dalla legge del 1927 - è tornata nuovamente ad interessarsi della materia dei domini collettivi.
In primo luogo, tale norma non ha abrogato né modificato le norme già esistenti in tema di usi civici[14] ma, ciononostante, ha introdotto una serie di novità rilevanti[15].
Quanto alle origini dell’istituto in esame, è lampante la matrice squisitamente consuetudinaria.
Tale connotato rende difficoltosa la sua collocazione sistematica[16] dal momento che, in assenza di una catalogazione «autentica» da parte del legislatore, la dottrina si è lungamente interrogata sulla reale natura giuridica degli usi civici.
L’essenza collettiva degli usi civici ha portato la dottrina[17] a ricondurre tale istituto nell’ambito della comunione[18] senza quote di stampo germanico, definendola come «comunione di uso civile»[19].
Si è parlato a tal fine anche di «comunione forzosa», dato che sorge a prescindere da qualsiasi volontà delle parti interessate.
L’esistenza della comunità alla quale l’uso civico afferisce rende di fatto impossibile la risoluzione di un simile connotato collettivo, tanto che parte della dottrina ritiene che, solo laddove l’unità collettiva dovesse sciogliersi si potrebbe avere un fenomeno di «scorporazione» dell’unità in singole quote[20].
Ciò che distingue la comunione senza quote dal regime degli usi civici si rinviene, tuttavia, nel carattere assolutamente indisponibile del vincolo.
La comunità che usufruisce dei beni gravati da usi civici, infatti, non potrà mutare la sua destinazione, né attuare modifiche al bene, neppure all’unanimità, in considerazione della natura indisponibile, inalienabile ed inusucapibile dei diritti che ne formano oggetto.
Tuttavia, le difficoltà ricostruttive dell’istituto degli usi civici non hanno impedito alla dottrina[21] di predisporre l’individuazione di due distinte categorie giuridiche: da un lato gli usi civici c.d. in senso stretto e dall’altro il c.d. demanio civico.
Per quanto attiene ai primi, gli usi civici su terreni altrui sono terreni appartenenti ad un proprietario diverso dalla collettività degli utilizzatori e si atteggiano come iura in re aliena; diversamente, i demani collettivi sono diritti appartenenti congiuntamente ad una comunità su terre proprie e sono ricondotti alla fattispecie degli iura in re propria.
In entrambi i casi, l’aspetto soggettivo dell’istituto degli usi civici si riduce ad una collettività indifferenziata e mutevole di individui, considerati uti cives e non anche uti singuli.
La natura giuridica degli usi civici, nella loro richiamata duplice declinazione, è anch’essa oggetto di ampi dibattiti in dottrina.
Infatti, gli usi civici in senso stretto sono ricondotti nell’alveo dei diritti reali in re aliena, gravanti su terre altrui e caratterizzati dal diritto di seguito, dall’assolutezza e dalla dimensione erga omnes delle tutele.
Invece, il demanio civico è caratterizzato da connotati simili ad una c.d. proprietà collettiva, assimilabile alla natura dei beni demaniali, stante il regime di inalienabilità, inusucapibilità, immodificabilità e perpetuità del vincolo di destinazione paesaggistico.
Nello specifico, solo ed esclusivamente in relazione a tale tipologia di usi civici (c.d. in re aliena) è stato predisposto l’onere di denuncia di cui all’art. 3 della l. n. 1766 del 1927.
Al contrario, agli usi civici c.d. demaniali (c.d. in re propria) si riferiscono le disposizioni concernenti la c.d. sdemanializzazione, stante il loro regime di inalienabilità ed indisponibilità assimilabile a quello dei beni demaniali.
Pertanto, il concetto di domini collettivi si ritiene riconducibile e riferibile solo alla seconda delle due vesti degli usi civici, ossia agli usi civici in re propria.
La stessa giurisprudenza di legittimità ha da tempo recepito e cristallizzato la suddetta distinzione, come si avrà modo di precisare nei paragrafi successivi dedicati all’analisi della pronuncia di Cassazione oggetto del presente elaborato.
Infine, la dottrina si è interrogata anche su una possibile configurazione di un diritto reale atipico «sui generis» o di una situazione giuridica dominicale eccezionale rispetto al tradizionale sistema giuridico dei diritti reali[22].
In realtà, l’interrogativo sulla tipicità[23] o sull’atipicità del diritto «reale» di uso civico potrebbe essere superato[24], laddove si consideri che tale istituto sia stato disciplinato espressamente dal legislatore, seppur mediante una disciplina specifica e settoriale, al di fuori delle norme codicistiche[25].
Tuttavia, il percorso tracciato, specialmente dalla dottrina di stampo prettamente civilistico, ha portato all’accostamento degli usi civici - quali diritti reali di godimento su cosa altrui - ai diversi, ma affini, istituti del diritto di uso e della servitù prediale.
In entrambi i casi sono, tuttavia, emerse delle importanti divergenze[26].
Infine, non manca in dottrina chi[27] sostiene che gli usi civici costituiscano un’eccezionale ipotesi di atipicità sui generis di un diritto reale.
In particolare, tale autore definisce l’uso civico in re aliena come un «diritto reale su cosa altrui fondato su una consuetudine oramai recepita dal diritto vivente»[28].
Tale conclusione assume una portata dirompente, soprattutto alla luce del consolidato principio di tassatività, tipicità e del c.d. numerus clausus dei diritti reali[29], espresso dalla giurisprudenza di legittimità in più occasioni, anche con l’autorevolezza delle Sezioni Unite[30].
Alla luce della difficoltà dogmatica ed assiologica della riconduzione dell’istituto degli usi civici nell’alveo di categorie preesistenti e predefinite, altra parte della dottrina[31] ritiene preferibile prendere atto della peculiare natura giuridica di tali diritti, i quali - seppur strettamente connessi e connaturati al diritto di proprietà - sono portatori di elementi di originalità caratterizzati da una matrice collettiva che ha come fonte un elemento sociale nato con rango consuetudinario e che è stato poi nel corso del tempo normato e disciplinato mediante una disciplina speciale[32].
Preso atto dell’impossibilità di ricondurre gli usi civici entro i confini di un diritto reale già esistente, essi sono, pertanto, in via semplicistica ricondotti all’interno del concetto di proprietà plurale o collettiva.
Si attua, dunque, un passo in avanti, generalizzando la natura giuridica di tali diritti come espressione di una situazione giuridica soggettiva di matrice collettiva, rivolta ad una «unità plurale» di soggetti privati che costituiscono la comunità di riferimento.
3) Il percorso evolutivo degli usi civici nella giurisprudenza della Corte di Cassazione
Nel corso degli ultimi anni, la prassi giurisprudenziale, invece che agevolare l’affrancazione dei fondi dai vincoli di uso civico (come originariamente predisposto dal legislatore), ha proceduto al consolidamento degli stessi, in un’ottica alquanto conservativa.
Tale tendenza della giurisprudenza ha condotto il concetto di uso civico in una nuova dimensione moderna, la quale scardina i presupposti storici e si proietta come strumento di valorizzazione degli innovativi modelli di tutela ambientale.
Non a caso, dalla salda affermazione del principio della c.d. presunzione di demanialità[33] - giustificata dall’antica concezione secondo cui gli enti comunali sarebbero i successori dei feudatari nella rappresentazione degli interessi delle collettività che occupavano i fondi - negli anni successivi, il dibattito giurisprudenziale si è incanalato nella diversa questione inerente ai poteri del Commissario agli usi civici[34], stabilendo confini e compiti che erano rimasti fumosi nella definizione legislativa e che ancora oggi rendono difficoltosa l’individuazione del suo corretto raggio d’azione[35].
La materia degli usi civici sottoposta al vaglio della Cassazione[36] si è, inoltre, concentrata anche nella qualificazione dell’interesse attribuito dalla legge alle amministrazioni separate e rappresentative degli usi civici, riconoscendone la natura di «enti esponenziali» delle collettività.
Da ultimo, la riflessione della giurisprudenza di legittimità si condensa nella presa d’atto delle innovazioni apportate con la l. del 2017 n. 168.
L’excursus giurisprudenziale consente al Supremo Collegio[37] di approdare al riconoscimento della natura di enti di diritto privato con riferimento agli enti esponenziali delle collettività titolari dei diritti di uso civico e della proprietà collettiva, attribuendo agli stessi personalità giuridica e, inoltre, riconducendo la proprietà collettiva nell’alveo del concetto di proprietà - pertanto interna alla branca eminentemente civilistica, senza prevalenza della sua componente pubblicistica - riscontrandosi come la natura di enti di diritto privato, «terza» manifestazione di essa[38].
Nel susseguirsi dei decenni successivi, le vicende giudiziarie conducono all’attenzione dei giudici di legittimità il tema delle espropriazioni per pubblica utilità e della loro compatibilità con il regime giuridico degli usi civici.
La problematica è sorta per la necessità di addivenire ad un bilanciamento tra l’interesse statale e l’interesse collettivo della tutela dell’ambiente.
In tale frastagliato panorama normativo, è stata stabilita la supremazia e la prevalenza della legislazione in materia di usi civici su quella prevista in tema di espropriazione per pubblica utilità.
Tale vocazione universalistica degli usi civici quali strumenti di conservazione paesaggistica è nuovamente ribadita dalla Suprema Corte[39], al fine di individuare nella collettività il bene superiore da tutelare.
In tale ottica pluralista, la tematica di confronto interno alla giurisprudenza di legittimità pone nuovamente al centro del dibattito l’assimilazione del regime degli usi civici a quello dei beni demaniali[40], riscoprendo quanto già affermato dalle pronunce risalenti al secolo scorso.
Tuttavia, nella giurisprudenza più recente[41], si fa largo un pensiero che si pone parzialmente in conflitto con quanto precedentemente asserito[42].
La Cassazione è tornata dunque a pronunciarsi sul tema degli usi civici con una recentissima sentenza a Sezioni Unite - e per la cui analisi si rinvia ai paragrafi che seguono - riprendendo diversi percorsi argomentativi espressi precedentemente dalla stessa giurisprudenza di legittimità ed estendendo la sua analisi anche sul discusso tema della preventiva «sdemanializzazione», procedimento fortemente legato a quello dell’espropriazione, nonché alla necessità di bilanciamento di interessi pubblici e collettivi.
4) Lo stato della legislazione attuale in tema di usi civici
Nello schema delineato dal legislatore del 1927, ancora oggi vigente, si è proceduto al riordinamento della fattispecie degli usi civici, trattando allo stesso modo situazioni giuridiche differenti.
Come si è già avuto modo di precisare in precedenza, all’interno di tale fattispecie, si suole indicare sia il fenomeno degli usi civici in senso stretto (intesi come diritti reali di godimento in re aliena su beni appartenenti a soggetti privati), che la materia dei domini collettivi (intesi quali terre spettanti ad una collettività ben individuata di soggetti mediante un godimento promiscuo).
In quest’ultima fattispecie, il legislatore ha operato una specifica classificazione dei terreni, distinguendo gli stessi in due categorie: a) quali «convenientemente utilizzabili come bosco o come pascolo permanente»; b) quali «convenientemente utilizzabili per coltura agraria».
Per i primi, si prevedeva la conservazione nella proprietà pubblica del Comune, rimanendo in capo ai membri della comunità i diritti di uso civico, con conseguente preclusione all’alienazione o al mutamento di destinazione in assenza di autorizzazione amministrativa.
Per i secondi, già di proprietà del Comune o della frazione, si prevedeva, invece, l’apertura agli usi di tutti i cittadini del Comune o della frazione, destinando i medesimi a ripartizione (o quotizzazione) tra i coltivatori diretti della medesima zona, con impegno a trarne la maggiore utilità.
La ratio originaria della norma era quella di predisporre un meccanismo legale, in prospettiva liquidatoria, di trasformazione della proprietà c.d. collettiva in proprietà privata o pubblica.
L’originaria volontà legislativa era, pertanto, proiettata verso una libera propensione all’affrancazione dei fondi da un vincolo ritenuto oramai desueto o quantomeno strettamente collegato alle realtà agricole e rurali, mutevoli da un territorio all’altro, che non aderiva più alle esigenze attuali.
Tuttavia, l’entrata in vigore della menzionata l. n. 431 del 1985 (c.d. legge Galasso) ha inaugurato una nuova prospettiva, sulla cui scia si è poi innestato il successivo intervento normativo in materia di beni paesaggistici e culturali[43] e recepito dalla stessa giurisprudenza di legittimità, nonché dalla Corte costituzionale, cristallizzandone ed estendendone la concreta portata innovativa.
Il netto allontanamento dall’originaria tendenza liquidatoria degli usi civici ha, infine, trovato consacrazione nella nuova disciplina contenuta nella sopra citata l. n.168 del 2017[44], con cui si è consolidata la vocazione di salvaguardia ambientale degli usi civici.
Com’è stato nel corso degli anni ribadito anche dalla stessa Corte costituzionale[45], il carattere spiccatamente innovativo finalizzato alla protezione paesaggistica ha reso indispensabile sigillare e blindare gli usi civici all’interno di maglie ancora più strette, così da garantire in modo perpetuo la loro destinazione agro-silvo-pastorale.
In questo modo gli usi civici sono oggi soggetti al rigido regime giuridico della inalienabilità, indivisibilità, intrasferibilità, inusucapibilità ed imprescrittibilità.
La conservazione degli usi civici ha, pertanto, condotto a legare indissolubilmente tali diritti con i vincoli di carattere paesaggistico, al fine di garantire il loro servizio all’interesse superiore della collettività[46].
L’assetto legislativo attuale conduce, dunque, a ritenere come urgente l’intervento del legislatore in tale ambito, trattandosi sempre di esigenze di bilanciamento di interessi tra quelli inerenti alla tutela ambientale e il generale principio di certezza del diritto, messo in crisi anche dalla portata retroattiva delle pronunce della Corte costituzionale[47].
5) Le Sezioni Unite n.12570 del 10 maggio 2023
La Suprema Corte di Cassazione, con l’autorevolezza delle Sezioni Unite, mediante l’adozione della sentenza n.12570 del 10 maggio 2023, è tornata a chiarire alcuni aspetti relativi alla materia degli usi civici rimasti incerti a causa del repentino carattere di mutevolezza dell’ordinamento giuridico moderno.
La vicenda fattuale si snoda tra alcuni territori situati ai confini tra l’Abruzzo ed il Lazio, facenti parte dell’ex feudo di Roccasecca del Popolo di Alfedena al tempo della vigenza del Regno di Napoli.
La controversia ha ad oggetto un fondo sito nell’attuale comune di Alfedena (AQ), qualificato come «demanio collettivo» da un provvedimento commissariale del 1935.
In epoca successiva, con decreto n.30214 del 1960, il Prefetto di L’Aquila espropriava parte dei terreni dedotti in causa, autorizzando contestualmente l’occupazione degli stessi in favore dell’Ente Autonomo Volturno (dante causa degli attuali ricorrenti).
Con determina della Regione Abruzzo del 2006, il citato ente comunale otteneva il riconoscimento di alcuni terreni, tra cui quello oggetto di giudizio, come beni appartenenti al demanio.
Con sentenza di primo grado adottata in data 7 aprile 2015, il Commissario agli usi civici confermava la natura demaniale civica di tutti i terreni occupati dal bacino idroelettrico dedotti in causa, dichiarando, altresì, la nullità e l’inefficacia degli atti pubblici e privati intercorsi ed ordinando la reintegra nel possesso dei terreni a favore dell’ente comunale.
Nella sentenza è stata affermata l’illegittimità del provvedimento ablatorio di esproprio, in quanto posto in essere in spregio alle disposizioni contenute nella legge n.1766 del 1927 e del successivo regolamento attuativo n.332 del 1928.
Successivamente, anche la Corte di Appello di Roma - sezione specializzata per gli usi civici ha respinto le istanze di parte appellante, dichiarando inammissibile il reclamo incidentale ed affermando che: «1) doveva escludersi la ravvisabilità della decadenza del diritto di usi civici in danno del Comune di Alfedena, atteso che la dichiarazione prevista dalla L. n. 1766 del 1927, art. 3 trovava applicazione in relazione a diritti su terreni appartenenti al demanio universale o comunale, essendo diversamente prevista solo per i diritti di promiscuo godimento ossia per i diritti di uso civico su beni altrui; 2) non potevano ritenersi espropriabili per pubblica utilità i beni di uso civico appartenenti alla comunità per le loro caratteristiche (quali l'inalienabilità, l'imprescrittibilità e l'immutabilità della destinazione d'uso, con conseguente loro inalienabilità), senza l'osservanza delle procedure e dei criteri previsti dalla citata L. n. 1766 del 1927, art. 12 se non "previa sdemanializzazione"; 3) la qualitas soli era stata adeguatamente motivata sulla scorta di atti ufficiali approvati dalle autorità competenti e delle risultanze della CTU[48]».
La controversia è giunta così alla sezione II della Corte di Cassazione, la quale, tuttavia, alla luce dell’incerto e variegato quadro della giurisprudenza di legittimità e di quella costituzionale, con ordinanza interlocutoria n.34460 del 2022, stante l’attuale centralità della materia oggetto di scrutinio, ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, ponendo i seguenti interrogativi: «è ammissibile l'espropriazione per pubblica utilità dei beni gravati da usi civici di dominio della collettività, prescindendo da una loro preventiva espressa sdemanializzazione? O si può ritenere sussistente una incommerciabilità (rectius: una indisponibilità) relativa di tali beni, che viene a cessare allorquando sopravvenga e si faccia valere un diverso interesse statale (o pubblico che sia), del tipo di quelli che si accertano e realizzano con il procedimento espropriativo per pubblica utilità ovvero con altri atti formali?».
Chiarito il dato fattuale da cui si dipana l’intera vicenda giudiziaria, la Cassazione a Sezioni Unite, dopo aver ripercorso le origini storico-giuridiche dell’istituto degli usi civici, espone il panorama normativo, nonché il quadro giurisprudenziale sul quale è sorta, si è sviluppata ed, infine, si è evoluta la materia in oggetto.
E’ riconosciuta primaria importanza alla citata legge n.1766 del 1927, che resta punto di riferimento anche per l’attuale disciplina degli usi civici.
La successiva l. n.431 del 1985 (c.d. legge Galasso) ha assoggettato al vincolo paesaggistico le aree soggette ad usi civici, in un’ottica di valorizzazione del territorio e dell’ambiente, anche alla luce della l. n. 394 del 1991.
Tale principio resterà poi confermato dal d.lgs. n. 42 del 2004, con cui il legislatore ribadisce il regime giuridico di indisponibilità dei fondi gravati da usi civici, in considerazione della loro destinazione perpetua alla salvaguardia della sfera agro-silvo-pastorale.
Tali approdi sono stati più di recente convalidati dalla l. n. 168 del 2017, la quale ha avuto il pregio di aver riconosciuto i domini collettivi come «ordinamento giuridico primario delle comunità originarie», senza apportare sostanziali modifiche di rilievo alla disciplina previgente.
Pertanto, i giudici di legittimità prendono atto della valenza ambientale e paesaggistica che gli usi civici, nel corso degli anni, hanno assunto in modo crescente nell’ordinamento moderno, anche in considerazione della l. n.221 del 2015 in materia di c.d. green economy.
Quanto al piano giurisprudenziale, sono due i principali orientamenti che si contrappongono e che avrebbero giustificato l’intervento delle Sezioni Unite: da un lato, la risalente sentenza a Sezioni Unite n.1671 del 1973[49] e, dall’altro, la più recente pronuncia della seconda sezione della Cassazione n.9986 del 2007[50].
Inoltre, a sostegno della necessità di un intervento chiarificatore, l’ordinanza interlocutoria attribuisce un ruolo di spicco anche alla recente sentenza della Corte costituzionale n.71 del 2020, con cui il giudice delle leggi si sarebbe espresso in modo netto rispetto alla priorità logico-giuridica della cessazione dell’uso civico rispetto ad un eventuale decreto di esproprio.
Ciò posto, la Cassazione ripercorre i due filoni giurisprudenziali, al fine di individuare la tesi alla quale aderire con l’obiettivo di superare l’impasse che si è creato nel tempo.
Quanto all’orientamento espresso nella richiamata sentenza del 1973, in esso i giudici, dopo aver distinto tra le due categorie di usi civici (quelli propriamente detti appartenenti a privati ed i domini collettivi), sostengono la necessaria preventiva sdemanializzazione al fine di procedere all’esproprio per pubblica utilità dei terreni gravati da usi civici, parificando il trattamento di questi ultimi (nella loro veste di domini collettivi) alla disciplina prevista in materia di beni appartenenti al demanio pubblico.
A tale orientamento, appare contrapporsi la successiva sentenza del 2007.
Nella richiamata pronuncia, la Cassazione ha condiviso l’impostazione adottata dalla Corte di Appello, secondo la quale anche in materia di usi civici deve ritenersi applicabile il dettato normativo previsto all’art. 52 della l. n.2359 del 25 giugno 1865, tuttavia limitando la sua portata esclusivamente agli usi civici gravanti su proprietà private, escludendo pertanto da tale visione estensiva la materia dei domini collettivi propriamente detti, equiparati anche in questa sede a beni demaniali.
La diretta conseguenza di una simile concezione consiste nella circostanza che i diritti di uso civico si ritengono estinti a seguito dell’adozione del provvedimento di espropriazione per pubblica utilità e successiva realizzazione dell’opera pubblica.
Ad avvalorare il carattere tutt’altro che consolidato della giurisprudenza nella materia di giudizio, l’ordinanza interlocutoria ha richiamato anche alcuni precedenti della Corte costituzionale[51].
Nello specifico, i giudici delle leggi sono sembrati propendere per un regime di espropriabilità dei terreni di uso civico, sia in iure propria che in iure aliena, sostenendo la soggezione degli stessi ad una «inalienabilità controllata» e come tali suscettibili di essere raggiunti da un provvedimento ablatorio per pubblica utilità, ammettendo quindi la sdemanializzazione c.d. «di fatto», ossia quale conseguenza diretta dell’adozione del solo decreto di esproprio.
Ripercorsi i ragionamenti giuridici adottati nelle citate pronunce, la Cassazione traccia in modo netta la propria decisione, propendendo per la tesi c.d.. «negativa» sostenuta dalle Sezioni Unite del 1973 e ritenuta ancora oggi non superata.
Al contrario, il recente intervento legislativo del 2017 ha suffragato platealmente quanto già molto tempo prima era stato espresso dalla Cassazione.
Prima di procedere con il ragionamento portato avanti dai giudici di legittimità, occorre compiere un passo indietro, al fine di meglio comprendere il delicato rapporto tra usi civici ed espropriazione.
Com’è stato in più occasioni ribadito, gli usi civici sono connotati da uno stringente vincolo di destinazione di uso, connaturato alle origini ed alle funzioni a cui essi sono preposti.
Alla luce di tale forte limite vincolistico, l’art. 4, comma 1 e 2 del d.P.R. n.327 del 2001 (T.U. espropriazioni) disciplina rispettivamente il demanio pubblico ed il patrimonio indisponibile.
È, tuttavia, solo con la citata l. n.221 del 2015 che si aggiunge una disciplina specifica anche per gli usi civici, prevedendo l’introduzione del comma 1 bis del citato art. 4 del menzionato testo unico sulle espropriazioni.
Tale disciplina predispone un peculiare procedimento di espropriazione, richiedendo in via preventiva un atto di sdemanializzazione o di mutamento di destinazione o di valutazione comparativa di interessi.
Tali adempimenti devono essere prodromici all’adozione da parte dell’autorità pubblica del provvedimento di esproprio, condizionandone l’esito favorevole.
Ciononostante, le perplessità permangono soprattutto se si tiene conto della clausola di salvaguardia introdotta nella medesima norma in cui si fanno salve «le ipotesi in cui l’opera pubblica o di pubblica utilità sia compatibile con l’esercizio dell’uso civico».
Torna nuovamente la necessità di ponderazione di valori ed interessi: da un lato, la tutela dell’interesse pubblico e generale e, dall’altro, la salvaguardia dell’interesse di una collettività al mantenimento della destinazione agro-silvo-pastorale del fondo.
Al carattere di potenziale inespropriabilità si affianca poi l’ordinario regime giuridico degli usi civici[52].
Tornando al caso in esame, se l’espropriazione deve escludersi per tutti i beni appartenenti al patrimonio indisponibile, a fronte del loro superiore vincolo di destinazione, per cui occorre un’espressa norma di legge per consentirne l’espropriazione per pubblica utilità, lo stesso principio deve ritenersi estendibile - a maggior ragione - al demanio pubblico (dello Stato e degli enti territoriali), che ha già una destinazione di interesse pubblico, la quale può essere modificata solo con il venir meno della demanialità, o con la destinazione ad altro uso, disposta dall’autorità competente.
La Cassazione, pertanto, ritiene come questa impostazione sia applicabile anche ai beni di uso civico collettivo dal momento che, propria od impropria che sia la loro qualificazione di beni demaniali (ai quali, tuttavia, sono certamente assimilabili), essa implica un regime di loro indisponibilità.
In tal senso, la Cassazione ribadisce la correttezza della tesi espressa nel 1973, secondo cui l’atto di sdemanializzazione può ravvisarsi soltanto nel provvedimento previsto dalla legge.
Il Commissario per gli usi civici conserva, pertanto, la propria giurisdizione - in tema di verifica delle occupazioni arbitrarie secondo le norme della citata legislazione - anche se il terreno oggetto d’indagine, ai fini della sua appartenenza o meno alla collettività degli utenti, risulti espropriato per pubblica utilità, in quanto né la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, né il provvedimento di espropriazione possono avere efficacia equipollente all’atto di sdemanializzazione del bene soggetto da uso civico[53].
La tesi secondo cui l’asserita demanialità civica dei terreni sarebbe venuta meno in conseguenza dell’adozione del provvedimento di espropriazione per pubblica utilità, poggia evidentemente sull’erroneo presupposto che l’espropriazione determini ex se o quanto meno ipso iure l’obiettiva eliminazione della classificazione del bene civico (una sdemanializzazione per equipollente o di diritto), con la conseguente conversione in diritto all’indennità, al pari di qualsiasi proprietà privata, dell’uso civico delle popolazioni su terre proprie.
La Cassazione, inoltre, qualifica il diverso ed erroneo orientamento del 2007 come espressione di un ragionamento radicalmente apodittico, fondato esclusivamente su una fallace considerazione degli usi civici, differenziando la disciplina dei beni demaniali in senso stretto e tecnico dal presunto regime di inalienabilità dei beni di uso civico, il quale non ridurrebbe i medesimi in beni non suscettibili di espropriazione forzata per pubblica utilità[54].
Poiché i beni gravati da uso civico di dominio collettivo sono assimilabili a quelli demaniali (costituendone - secondo alcuni indirizzi - una particolare categoria), l’approdo ermeneutico, in relazione al loro regime giuridico sul punto, non può essere che lo stesso, nel senso che l'esperimento della procedura espropriativa per pubblica utilità, affinché possa essere ritenuta legittima, deve essere proceduta dalla preventiva «sdemanializzazione» di siffatti tipi di beni.
I giudici, pertanto, sostengono che la sdemanializzazione degli usi civici collettivi non può verificarsi direttamente con l’esecuzione di una procedura di espropriazione per pubblica utilità, anche in virtù della ragione di fondo che, a fronte della garanzia della quale godono gli interessi primari della persona, nessuno spazio può considerarsi aperto a valutazioni discrezionali di autorità amministrative o, comunque, esercenti attività di corrispondente natura, potendo e dovendo esse operare nella più stretta osservanza delle norme e dei criteri prefissati dalla legge.
Tale processo interpretativo conduce a configurare i relativi provvedimenti come atti vincolati, ovvero adottabili con mera efficacia esecutiva, in virtù della funzione peculiarmente assolta.
La «sdemanializzazione» dovrà, quindi, realizzarsi tramite le procedure e sulla base dei criteri individuati dalla legge per ciascuna categoria di beni pubblici e non attraverso una mera comparazione di interessi pubblici connessi all’utilizzazione del bene attuata dall’autorità espropriante secondo le regole del diritto amministrativo comune.
Il punto di approdo delle Sezioni Unite si condensa nell’enunciazione del seguente principio di diritto: «I diritti di uso civico gravanti su beni collettivi non possono essere posti nel nulla (ovvero considerati implicitamente estinti) per effetto di un decreto di espropriazione per pubblica utilità, poiché la loro natura giuridica assimilabile a quella demaniale lo impedisce, essendo, perciò, necessario, per l'attuazione di una siffatta forma di espropriazione, un formale provvedimento di sdemanializzazione, la cui mancanza rende invalido il citato decreto espropriativo che implichi l'estinzione di eventuali usi civici di questo tipo ed il correlato trasferimento dei relativi diritti sull'indennità di espropriazione».
6) Conclusioni
La materia degli usi civici, nonostante gli annosi e remoti trascorsi storici, si attesta ancora oggi con la sua attualità al centro del dibattito dottrinario e giurisprudenziale, imponendosi come protagonista di un necessario dialogo tra interessi generali contrapposti.
Essi rappresentano l’ago della bilancia dell’attività di ponderazione tra i valori che l’ordinamento ha gradualmente riconosciuto e posto al vertice del proprio giudizio comparativo.
L’intrinseca natura contraddittoria degli usi civici si annida nel continuo dibattito circa la loro idoneità a svolgere il ruolo affidatogli dal legislatore.
L’elevatissimo privilegio di porsi come baluardi della salvaguardia e della protezione del territorio si scontra con un regime di giuridica indisponibilità del bene, ritenuto spesso come un ostacolo piuttosto che come un valore aggiunto o una qualitas positiva.
In questo panorama frastagliato di norme in cui la giurisprudenza si rincorre al fine di raggiungere un approdo stabile, coerente e duraturo, rimane cruciale ancora una volta la necessità di un intervento legislativo.
La propensione ad una maggiore elasticità procedimentale e alla semplificazione del sistema amministrativo è giustificata dai ritmi frenetici ai quali viaggia la società e l’economia moderna, richiedendo risposte rapide e quanto più stabili possibili.
In questa nuova ottica di equilibrismo, non può essere trascurato il nesso indissolubile esistente tra la tutela dell’interesse pubblico e la protezione degli interessi di singole collettività o realtà locali.
In tale prospettiva, si osserva come la portata della pronuncia in commento debba essere certamente ridimensionata, collocandola all’interno dei binari normativi.
Essa, infatti, parrebbe limitarsi a prendere atto di un orientamento pressoché stabile della giurisprudenza di legittimità, avallato anche dalla stessa Corte costituzionale, frutto della condivisione delle scelte adottate dal legislatore nella materia dei domini collettivi, avendo preso atto del vincolo, oramai indissolubile, esistente tra usi civici e salvaguardia ambientale e paesaggistica.
L’intento chiarificatore non è, tuttavia, frustrato dalla netta presa di posizione delle Sezioni Unite sulla tematica sottoposta al suo vaglio.
E’ necessario, infatti, elogiare l’ingente lavoro della giurisprudenza di legittimità, la quale - nel corso degli ultimi decenni - ha inteso valorizzare in maniera progressiva l’importante funzione nomofilattica ad essa riservata, specialmente nella materia degli usi civici.
Tuttavia, è la stessa Suprema Corte che nella sentenza sembra ritenere quasi superfluo il suo intervento, considerato oramai come pacifico il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità sul punto[55].
Deve, tuttavia, essere rintracciato un pregevole merito al percorso ermeneutico sostenuto da questa Cassazione: la portata innovativa si annida nell’aver distinto i due piani in cui si snodano gli usi civici nella loro veste di domini collettivi.
È stato sovente affermato come il concetto di demanio civico (o proprietà collettiva) condensa al suo interno una duplice anima: da un lato, vi è la qualitas del fondo che lo lega indissolubilmente al vincolo di uso civico, giustificato dall’attuale necessità di tutela e salvaguardia ambientale; dall’altro lato, invece, si inserisce la natura giuridica del fondo, la cui disciplina, nel corso degli anni, è stata di fatto assimilata a quella prevista per i beni demaniali.
La natura ambivalente dei domini collettivi si è andata via via a sovrapporre al regime giuridico attribuitogli negli anni, consistente di fatto in una condizione di indisponibilità pressoché perpetua.
Tale peculiare regime ha portato ad un’erronea concezione in cui si è addivenuti ad un’astratta equiparazione degli usi civici ai beni demaniali, non nel senso di favorirne un’applicazione analogica, bensì di trasformare la natura giuridica degli usi civici in beni demaniali veri e propri.
La diretta conseguenza dell’accoglimento di questa tesi è la circostanza secondo cui, al fine di «liberare» un fondo da tale specifico regime giuridico, sia sufficiente a permettere la fuoriuscita del bene dal demanio in cui si trova vincolato.
La Cassazione, invece, chiarisce nuovamente come i due piani siano e debbano rimanere ben separati e distinti, benché sia opportuno instaurare una dinamica dialogica tra i due sistemi di disciplina.
Gli usi civici, infatti, sono connotati da vincoli di per sé gravosi, i quali trovano la loro ragione ontologica della tanto celebrata salvaguardia del territorio agro-silvo-pastorale.
L’effetto di tale esito interpretativo porta, dunque, alla decisione delle Sezioni Unite, con cui è riconosciuta la necessità di previa sdemanializzazione, sottolineando la non autosufficienza del solo decreto di esproprio al fine di «spurgare» i vincoli di uso civico impressi sui fondi.
Per concludere, il concetto di pluralità nella materia degli usi civici ricorre in maniera pedissequa, sviluppandosi all’interno di un pensiero rinsaldato su alcuni vecchi dettami.
Non a caso, nel recente passato, si è parlato di «rivoluzione dei beni comuni[56]», per indicare quel fenomeno necessario ed inarrestabile che conduce sempre più intensamente al di là della dicotomia proprietà privata-proprietà pubblica, dimostrando invece la necessità di una connessione sempre più forte tra persone e mondo esterno e tra le persone tra loro, nonché rivelando il legame indissolubile tra diritti fondamentali e strumenti indispensabili per la loro attuazione.
Nel caso in esame, la tutela ambientale, della biodiversità e degli ecosistemi deve, pertanto, innestarsi all’interno dei nuovi programmi di gestione e di programmazione territoriale, al fine di meglio adeguarsi alle diverse e cangianti realtà locali.
Si schiude così un pensiero filosofico-giuridico più elevato che pone al centro del palcoscenico la pluralità della proprietà, in un’ottica di attuazione e di perseguimento dei principi fondamentali riconosciuti nella Carta costituzionale, a cui necessariamente il legislatore dovrà ispirarsi nell’addivenire ad una soluzione di equilibri e contrappesi alle attuali esigenze sociali, proiettate verso le nuove ed incoraggianti sfide del futuro, valorizzando la conservazione dell’ambiente anche mediante la predisposizione e la riscoperta degli strumenti giuridici tradizionali.
SAGGIO
IL CONDOMINIO NELLA PRASSI NOTARILE.
SPUNTI E RIFLESSIONI DERIVANTI DA UN RAPPORTO ANCORA IN FIERI[57]
Indice: 1) L’importante ruolo del notaio in materia condominiale. Da «levatrice del condominio» a «garante di legalità» e «progettista del futuro»; 2) La controversa natura giuridica del condominio e la sua costituzione in atto; 3) Le parti comuni: l’oggetto dell’atto tra presunzione di condominialità e titolo contrario; 4) La regolamentazione delle parti comuni condominiali. In particolare, il regolamento contrattuale; 5) La circolazione delle parti comuni condominiali. Questioni formali e diritto sostanziale; 6) Considerazioni conclusive.
1) L’importante ruolo del notaio in materia condominiale. Da «levatrice del condominio» a «garante di legalità» e «progettista del futuro»
A dieci anni dall’entrata in vigore della riforma del condominio[58], molte restano le questioni ancora aperte sul tema[59], sì da renderne estremamente interessante ed attuale la disamina.
Piuttosto che configurare ex novo un’apposita disciplina per il condominio -e risolvere anche l’annoso dibattito circa la qualificazione giuridica dello stesso- la legge n. 220 del 2012 ha, infatti, modificato ed innovato solo in alcuni punti l’assetto codicistico già vigente in ambito condominiale, contribuendo tale modus operandi[60] a colmare alcune delle lacune emergenti dal vecchio testo[61], senza, tuttavia, riuscire ad evitare la proliferazione di nuove controversie[62] generate da questioni interpretative rimaste insolute e, conseguentemente, dall’incerta applicazione pratica di molte norme.
Sul punto, la qualificazione in termini di annullabilità o di nullità delle delibere dell’assemblea condominiale di ripartizione delle spese (Cass. SS. UU. 14 aprile 2021, n. 9839), la configurabilità d’un diritto reale costituito negozialmente ed avente ad oggetto l’uso esclusivo su parti comuni dell’edificio condominiale (Cass. SS. UU. 17 dicembre 2020, n. 28972), l’installazione di un impianto per la telefonia mobile su lastrico solare (Cass. SS. UU. 30 aprile 2020, n. 8434), l’impugnazione incidentale tardiva del condomino non costituito nel grado precedente (Cass. SS. UU. 18 aprile 2019, n. 10934) rappresentano solo alcune delle numerose dispute che la Suprema Corte si è trovata recentemente ad affrontare[63].
Alla luce di quanto appena asserito non desta, dunque, alcuno scalpore il fatto che sia il «potere moderatore del magistrato»[64] a fare da garante di legalità nei frequenti casi in cui le naturali interferenze tra le singole proprietà e le indivisibili parti comuni finiscano per tradursi in supremazie individuali contrarie alla stabilità collettiva, ovvero in ingiuste riduzioni dei diritti facenti capo a ciascun condomino.
Se la giustizia successiva del giudice consente di risolvere conflitti già in atto ripristinando lo status quo ante perduto a seguito della violazione, la stessa non riesce, tuttavia, ad estirpare alla radice il problema, spiccatamente condominiale, delle frequenti liti e, di conseguenza, dell’ingente mole di contenzioso.
Invero, soltanto la predisposizione da parte del legislatore di un’inderogabile disciplina in grado di sintetizzare e sistematizzare la complessa fattispecie del condominio potrebbe rendere immune l’intero corpo sociale dall’insorgenza di molteplici controversie in materia[65].
In mancanza di un intervento in tal senso, risposte concrete all’esigenza di dare certezza e stabilità ai fragili rapporti condominiali senza fare ricorso all’intervento del giudice appaiono, comunque, offerte da un altro importantissimo operatore del diritto: il notaio.
Le specifiche funzioni di certificazione[66] e di adeguamento[67] degli interessi delle parti alle inderogabili norme di legge consentono, infatti, al summenzionato pubblico ufficiale e libero professionista di realizzare un’efficace giustizia preventiva nei settori più controversi della materia condominiale[68].
È, dunque, il ruolo antiprocessuale[69] del notaio a legare inscindibilmente tale figura al condominio, tanto da potersi parlare di un vero e proprio percorso comune e tuttora in fieri: il condominio nasce nella prassi notarile[70] e proprio nelle clausole degli atti pubblici -riadattate e modulate per soddisfare al meglio le esigenze del contesto sociale di riferimento- si sviluppa e si trasforma nel corso del tempo, rendendo il notaio «progettista del suo futuro».
Da quella verticale, tipica della ricostruzione postbellica, a quella orizzontale, da quella minima a quella nel sottosuolo, fino ad arrivare a quella parziale e al supercondominio, tutte le tipologie condominiali trovano origine e riscontro nei fascicoli dell’«interprete applicativo»[71] per eccellenza, che testimoniano, peraltro, l’avvenuto passaggio dalla cd. vendita “sulla carta” -emblema di un’economia improntata sulla costruzione- a forme più attente all’attuale situazione di stallo edilizio e bassa liquidità, come, ad esempio, il rent to buy[72].
Il tutto con l’obiettivo di sviluppare in ogni circostanza le soluzioni più adatte a valorizzare le potenzialità e virtù dell’istituto condominiale, funzionale alla realizzazione del diritto all’abitazione[73], cercando sempre di dare un ordine a questa communio mater discordiarum nel silenzio del legislatore e nel tumulto giurisprudenziale.
Tale impegno del notaio, lungi dall’esser ormai concluso, è costantemente ravvivato anche dalla corrente prassi[74], che necessita di risposte certe e rapide in riferimento, soprattutto, alla formazione e regolamentazione del condominio, nonché alla circolazione delle singole unità immobiliari che quest’ultimo compongono[75].
Da ciò, l’importanza di un atto pubblico che non dia adito a successive controversie, ma che anzi contribuisca ad evitare le stesse.
Profili rilevanti in tal senso sono indubbiamente rappresentati dalla corretta costituzione in atto del condominio, dalla legittimazione dell’amministratore a disporre delle parti comuni condominiali, nonché dall’individuazione, regolamentazione e circolazione di queste ultime.
Di conseguenza, tutti i summenzionati aspetti verranno analizzati più nel dettaglio nei successivi paragrafi del presente scritto, seguendo l’ordine che gli stessi assumono nella redazione dell’atto notarile.
2) La controversa natura giuridica del condominio e la sua costituzione in atto
La prima questione che si pone al notaio al momento del rogito di un atto in cui una delle parti sia un condominio è quella di stabilire come lo stesso vada costituito.
Nel tentativo di dare risposta al dilemma è, certamente, fondamentale l’individuazione della natura giuridica attribuibile all’istituto condominiale, posto che la comparsa in atto è inevitabilmente destinata a cambiare a seconda del modo in cui il condominio medesimo venga giuridicamente definito ed inquadrato.
Sul punto, nessuna soluzione certa appare rintracciabile nella vigente disciplina codicistica, ancora oggi carente di una definizione espressa dell’istituto condominiale e completamente silente circa la natura giuridica dello stesso.
Se tali problematiche non vengono risolte neppure dalla tanto auspicata riforma del 2012, la più attenta dottrina -facendo proprie le evidenze della prassi- individua già da tempo il condominio come proprietà limitata agli spazi comuni dell’edificio[76], ovvero come istituto giuridico in cui le proprietà esclusive dei singoli condomini si trovano a coesistere ed interagire con una comproprietà sulle parti comuni[77] in una commixtio che di regola nasce conseguentemente alla vendita della prima unità immobiliare da parte dell’unico proprietario dell’intero edificio[78].
Uscendo dal profilo oggettivo del diritto di proprietà[79], non mancano, peraltro, autorevoli opinioni volte a configurare il condominio come “formazione sociale destinata a realizzare e a tutelare le esigenze abitative”[80].
A prescindere da come si scelga di definire il condominio appare, comunque, manifesta la differenza sussistente tra il condominio medesimo e la comunione di cui agli artt. 1100 e ss c.c.[81].
Malgrado ciò, la collocazione dell’istituto condominiale nel Titolo del codice civile dedicato alla comunione ed il rimando alla disciplina di quest’ultima (effettuato dal medesimo articolo 1139 cc.), portano parte della dottrina a considerare il condominio come una vera e propria comunione, sia pur «speciale» data la stretta connessione tra le parti comuni e le unità in proprietà esclusiva[82].
Altri autori, dando maggior importanza alle differenze tra i due istituti e considerando la collocazione codicistica come una mera scelta tra le altre che il legislatore avrebbe potuto fare[83], sostengono, invece, che il condominio non rappresenti una species del più ampio genus della comunione, ma una fattispecie del tutto autonoma e sui generis[84].
L’inquadramento nell’uno o nell’altro senso, lungi dal non aver ricadute pratiche, esplica i suoi principali effetti riguardo alla possibilità di riconoscere o meno una soggettività giuridica in capo al condominio[85].
Se, infatti, quest’ultimo viene inquadrato come comunione speciale per il peculiare oggetto, è inevitabilmente destinata a prevalere la cd. teoria individualistica[86], posto che, non essendo la comunione un soggetto di diritto distinto dai singoli partecipanti, allora neppure i proprietari in condominio costituirebbero di per sé un ente.
Tale orientamento -seguito anche in altri Paesi come il Portogallo[87]- conferisce, dunque, prevalenza agli interessi individuali, sui quali si plasma qualitativamente e quantitativamente il diritto sulle parti comuni.
La considerazione del condominio come istituto sui generis lascia, invece, aperto il campo alla cd. teoria collettivistica[88], secondo cui lo stesso ben poterebbe configurare un ente collettivo, eventualmente avente anche una piena autonomia patrimoniale.
Come evidente, tale tesi -fatta propria da molti ordinamenti giuridici stranieri, tra cui quello francese, belga e svizzero[89]- ritiene dominante l’interesse del gruppo.
Tra quella individualistica e quella collettivistica si pone, poi, la cd. teoria mista[90] che, pur negando la soggettività del condominio -mancando l’espressa previsione di un interesse superiore condominiale da parte del diritto positivo- riconosce, però, l’esistenza di un interesse sovraindividuale o comune, quanto meno, alla maggioranza dei condomini.
Non riprendendo alcuna delle summenzionate teorie, la giurisprudenza adotta da tempo la peculiare qualifica dell’ente di gestione[91].
In tal senso, il condominio non sarebbe dotato di soggettività giuridica, ma i suoi organi -quali l’assemblea e l’amministratore- si occuperebbero soltanto dell’amministrazione, gestione e buon uso dei beni comuni, lasciandosi, in tal modo, piena legittimazione ai singoli condomini ad agire autonomamente per far valere i propri diritti[92].
Se quello appena menzionato rappresenta, poi, l’orientamento pressoché costante dei giudici di legittimità, qualche voce ad esso contraria ha avuto modo di esprimersi a seguito della riforma del 2012, stante l’introduzione della richiesta di inserire l’eventuale denominazione, ubicazione e codice fiscale del condominio nella nota di trascrizione degli atti riguardanti il medesimo (art. 2659 co. 1, n. 1 c.c.).
Parte della dottrina[93] ha, infatti, interpretato tale articolo come attributivo di una soggettività giuridica al condominio[94]; soggettività, peraltro, configurabile non solo sotto il profilo pubblicitario, ma anche da un punto di vista fiscale[95].
Malgrado tali notevoli aperture, altri autorevoli Autori[96] ed altrettante pronunce della Cassazione[97] continuano tutt’ora a non riconoscere piena soggettività giuridica all’istituto condominiale, non potendosi, dunque, ritenere definitivamente superata la summenzionata tesi dell’ente di gestione.
Di conseguenza, lungi dal potersi pacificamente considerare il condominio come soggetto giuridico distinto dai singoli partecipanti e la figura dell’amministratore condominiale come organo e legale rappresentante dello stesso[98], la prevalente prassi notarile -seguendo la dominante dottrina[99] della rappresentanza volontaria ex mandato[100]- ritiene ancora oggi più corretta la costituzione in atto dell’amministratore debitamente munito di procura speciale da parte di ciascuno dei condomini.
Per lo stesso motivo saranno chiamati ad intervenire in atto tutti i condomini, ovvero il referente degli stessi munito di apposita procura, laddove i partecipanti al condominio non superino il numero di otto e non abbiano provveduto a nominare comunque un amministratore.
Il mancato riconoscimento della soggettività giuridica del condominio consente, peraltro, alla prevalente giurisprudenza di ritenere applicabile al condominio medesimo la normativa a tutela del consumatore[101] e ad autorevole dottrina di escludere la possibilità di attribuire la qualifica di imprenditore all’istituto condominiale[102].
Coerentemente all’assenza di autonomia patrimoniale in capo al condominio, i singoli condomini sono, infine, chiamati a rispondere per le obbligazioni contratte dall’amministratore secondo quanto previsto dall’art. 63 disp. att. C.c. come modificato con la riforma del condominio del 2012[103].
3) Le parti comuni: l’oggetto dell’atto tra presunzione di condominialità e titolo contrario
L’esigenza di disporre con apposito atto delle parti comuni condominiali -vuoi contestualmente alle singole unità immobiliari facenti parte del condominio, vuoi singolarmente laddove le stesse rappresentino veri e propri spazi autonomi- porta il notaio a doversi occupare anche della loro concreta individuazione, posto che solo quei beni effettivamente necessari o destinati all’uso comune sono assoggettati al regime normativo previsto per l’istituto condominiale.
Sul punto, l’attuale art. 1117 cc. rappresenta un fondamentale punto di avvio per il summenzionato professionista, offrendo un’ampia serie di esemplificazioni delle parti dell’edificio astrattamente definite come «oggetto di proprietà comune»[104].
Nell’elencare le parti comuni condominiali, la medesima norma consente, inoltre, di distinguere tre diverse tipologie: i) le parti necessarie all’uso comune; ii) le aree e i locali destinati ai servizi in comune o all’uso comune; iii) le opere, le installazioni, i manufatti e gli impianti destinati anch’essi all’uso comune.
Entrando nel merito delle singole classificazioni ed iniziando da quella dei cd. beni comuni necessari, l’art. 1117 co. 1 n. 1 cc. annoverava tra gli stessi, già prima della riforma del condominio, il suolo su cui sorge l’edificio[105], le fondazioni, i muri maestri, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni d’ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici e i cortili. La diversa realizzazione delle moderne costruzioni e la maggior attenzione al decoro architettonico[106] hanno, poi, portato il legislatore del 2012 ad inserire nella suindicata categoria anche i pilastri e le travi portanti, nonché le facciate.
Pur differenziandosi sotto un profilo definitorio e funzionale, i summenzionati beni risultano accomunati dalla necessaria presenza per l’esistenza dell’edificio condominiale (laddove ne rappresentino indispensabili componenti strutturali) ovvero dall’ontologica destinazione all’uso comune, consentendo ai singoli condomini di raggiungere ed utilizzare le rispettive proprietà esclusive.
Nulla peraltro impedisce che, in quest’ultimo caso, possa instaurarsi una comunione limitata ad un gruppo di condomini più ristretto rispetto a quello integrale del condominio[107].
Accade, infatti, spesso che in unico edificio siano presenti più scale (ad esempio la scala «A» e la scala «B») o diversi portoni d’ingresso volti a servire solo alcune delle unità abitative facenti parte dell’intero complesso condominiale, così come è anche piuttosto frequente che un andito, un vestibolo, un portico, ovvero un cortile interno o esterno risultino oggettivamente destinati ad una parte soltanto dell’edificio in condominio[108].
In tali ipotesi di cd. condominio parziale[109], la prevalente dottrina e la dominante giurisprudenza ritengono applicabile l’ordinaria disciplina condominiale limitatamente, però, ai soli titolari delle porzioni interessate all’uso e al godimento dei suddetti beni[110], come dimostrato anche dall’art. 1123 co. 4 c.c. sulle spese relative alla loro manutenzione[111].
A differenza delle parti necessarie all’uso comune, questioni peculiari circa la concreta destinazione d’uso hanno coinvolto la seconda categoria dei cd. beni comuni di pertinenza, comprensiva dei parcheggi[112], ivi introdotti solo con la riforma del 2012, e dei più vetusti locali per i servizi in comune (quali la portineria, incluso l'alloggio del portiere, la lavanderia, gli stenditoi e i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all'uso comune), posto che solo questi ultimi e non le prime sono separabili e suscettibili di utilizzazione individuale o di soggetti terzi[113].
La funzionalizzazione di fatto al servizio o all’uso comune avvicina, poi, i beni di cui all’art. 1117 co. 1 n. 2 alle opere, installazioni, manufatti ed impianti contemplati al n. 3 del medesimo articolo, notevolmente ampliato ed innovato nella terminologia dalla riforma del condominio.
Se resta, infatti, inalterato il riferimento ad ascensori, pozzi e cisterne, il legislatore del 2012 sostituisce «gli acquedotti, le fognature e i canali di scarico» con la più moderna locuzione «impianti idrici e fognari», nonché «gli impianti per l'acqua, per il gas, per l'energia elettrica, per il riscaldamento e simili» con l’ampia dicitura «sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione per il gas, per l'energia elettrica, per il riscaldamento ed il condizionamento dell'aria, per la ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti», maggiormente in linea con l’attuale società dell’informazione ed il diffuso impiego di impianti che utilizzano fonti rinnovabili.
Stabilendo, poi, i relativi collegamenti dei sistemi centralizzati di distribuzione e trasmissione «fino al punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condomini, ovvero, in caso di impianti unitari, fino al punto di utenza, salvo quanto disposto dalle normative di settore in materia di reti pubbliche», l’attuale art. 1117 co. 1 n. 3 c.c. fissa il luogo di ubicazione di tali collegamenti come criterio in base al quale verificare la sussistenza o meno di una proprietà comune degli stessi.
Illustrati i beni che l’art. 1117 cc. presume essere comuni alla totalità dei condomini, ovvero ad una sola parte di essi, occorre, altresì, precisare che tale presunzione legale non possa qualificarsi come assoluta.
Lo stesso art. 1117 cc. statuisce, infatti, che le parti dell’edificio in esso indicate siano oggetto di proprietà comune «se non risulta il contrario dal titolo», intendendosi quest’ultimo come dimostrazione che la proprietà esclusiva del bene appartenga al singolo partecipante al condominio.
Non avendo provveduto il legislatore della riforma ad introdurre un’apposita disciplina per il titolo contrario[114], dottrina e giurisprudenza si sono a più riprese interrogate sugli atti che in esso possano esser ricompresi.
Sul punto, non si pongono particolari dubbi per il primo atto con cui l’originario costruttore aliena una porzione dell’edificio, che certamente rientra nella nozione di titolo contrario, come affermato anche dalla Cassazione[115].
Sembra, invece, preferibile escludere dalla nozione di titolo contrario, ancorché la dottrina non sia univoca sul punto, non solo gli atti di successivo trasferimento delle unità immobiliari (perché non opponibili agli altri partecipanti al condominio), ma anche il regolamento condominiale -stante la sua natura meramente ricognitiva e, dunque, inidonea a dimostrare la sottrazione del bene al regime della proprietà condominiale- nonché l’inclusione del bene nelle tabelle millesimali come proprietà esclusiva di un condomino[116].
4) La regolamentazione delle parti comuni condominiali. In particolare, il regolamento contrattuale
Dopo aver esaminato l’elenco non tassativo dei principali beni comuni ex art. 1117 cc. ed aver sottolineato l’importanza di verificare che sia in concreto assente un titolo contrario alla presunzione di condominialità, ulteriori riflessioni devono esser effettuate sulla regolamentazione volontaria degli spazi comuni e, dunque, sul regolamento condominiale, posto che è precipuo compito del notaio quello di accogliere la volontà delle parti ed adeguare la stessa alle inderogabili norme di legge.
Tra le varie tipologie di regolamento condominiale[117], particolare attenzione verrà dunque dedicata al regolamento contrattuale e alle sue differenze rispetto a quello assembleare, tralasciandosi in tal sede una più dettagliata disamina del regolamento giudiziale, esulando quest’ultimo dalla volontà delle parti e conseguentemente dall’attività notarile[118].
Altresì noto come regolamento convenzionale, il regolamento contrattuale rappresenta il contratto plurilaterale[119] stipulato tra l’originario proprietario dell’intero edificio (o il costruttore) e gli acquirenti delle singole unità immobiliari, ovvero tra gli stessi partecipanti al condominio, contenete un insieme di regole vincolanti per la totalità dei condomini.
Relativamente alle parti stipulanti, ciò che normalmente si verifica nella prassi è la predisposizione del regolamento contrattuale da parte del costruttore o dell’unico proprietario dello stabile[120] e la successiva adesione al medesimo da parte dei soggetti che, a mano a mano, si accingono ad acquistare le singole unità immobiliari e che, nella maggior parte dei casi, rientrano nella categoria dei consumatori di cui all’art. 3 co. 1, lett. a) del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206[121].
L’adesione al regolamento contestualmente alla vendita, nonché la frequente applicabilità dell’art. 36 co. 2, lett. c) del codice del consumo[122] portano, dunque, il notaio non solo a doversi accertare che il regolamento contrattuale sia effettivamente conosciuto dal compratore, ma anche a procedere all’allegazione in atto del medesimo regolamento contrattuale, laddove ciò sia possibile[123].
Nulla impedisce, peraltro, che il regolamento contrattuale venga sottoscritto dalla totalità dei proprietari delle singole unità dinnanzi al notaio o che lo stesso possa esser adottato con voto unanime di tutti i condomini riuniti in assemblea.
In quest’ultimo caso, il regolamento contrattuale resta, comunque, nettamente distinto rispetto a quello assembleare sotto il profilo contenutistico.
Mentre, infatti, il regolamento convenzionale può incidere sui diritti dei singoli condomini, nonché sulle parti comuni e sugli spazi in proprietà esclusiva[124] -richiedendosi, pertanto, il consenso unanime di tutti i condomini per la sua adozione- il regolamento assembleare o maggioritario si limita, invece, a regolare l’uso e le modalità di godimento dei beni comuni (in modo, comunque, da assicurare la parità di tutti i condomini)[125], la ripartizione delle spese (secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino)[126], nonché la tutela del decoro dell'edificio e la sua amministrazione.
L’impossibilità ex lege per i condomini di apporre specifiche destinazioni ai beni comuni e di conseguire dei vantaggi a scapito degli altri partecipanti tramite la predisposizione di un regolamento assembleare fa sì che esso possa esser adottato con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio (art. 1138 co. 3 c.c.) e che per lo stesso non sia necessaria la trascrizione, essendo sufficiente la sola allegazione al registro dei verbali tenuto dall’amministratore (art. 1130 co. 1 n. 7 c.c.)[127].
La questione di una necessaria trascrizione ai fini di opponibilità a tutti gli acquirenti delle singole unità immobiliari si è, invece, posta con riferimento al regolamento condominiale contrattuale, contenente clausole «limitatrici dei diritti dei condomini sulle proprietà esclusive o comuni, ovvero clausole che attribuiscano ad alcuni condomini dei maggiori diritti rispetto agli altri»[128].
Se, infatti, la più risalente giurisprudenza di legittimità[129], nonché la circolare del Ministero delle Finanze (Dipartimento del territorio -Dir. Centrale Catasto -Servizio IV) n.128/T del 2 maggio 1995[130] appaiono fare riferimento alla trascrizione del regolamento di condominio, l’attuale inquadramento delle summenzionate clausole nelle servitù atipiche reciproche[131] fa sì che i più recenti orientamenti giurisprudenziali propendano per una regolazione dell’opponibilità di tali limiti "secondo le norme tipiche della servitù e, dunque, avendo riguardo alla trascrizione del relativo peso, mediante l’indicazione, nella nota di trascrizione, delle specifiche clausole limitative, ex artt. 2659 co. 1 n. 2 c.c. e art. 2665 c.c.”[132].
La difficoltà di tale pubblicità ed il frequente inadempimento della stessa[133] porta, tuttavia, la medesima giurisprudenza a ritenere opponibili le summenzionate clausole limitative al terzo acquirente che ne abbia preso atto in maniera specifica nel contratto di acquisto[134].
Se è, poi, vero che i condomini possono predisporre nel regolamento contrattuale anche clausole impositive di pesi e restrizioni alle proprietà esclusive, ciò deve sempre avvenire nel rispetto delle norme imperative, che, appunto, non possono esser derogate dalla volontà delle parti.
Sotto quest’ultimo profilo, importanti dubbi sono stati sollevati circa la possibilità o meno di costituire attraverso un regolamento contrattuale un diritto di uso esclusivo sulle parti comuni condominiali.
Molto diffuse nella prassi, con riferimento soprattutto alle aree cortilizie o destinate al parcheggio di autoveicoli, tali clausole -attributive di un non meglio definito diritto d’uso esclusivo e perpetuo su una porzione del bene comune ad una singola unità immobiliare e creatrici di un rapporto di pertinenzialità tra gli stessi- sono state dichiarate nulle dalla sentenza della Cassazione a Sezioni Unite del 17 dicembre 2020, n.28972[135], sulla base del fatto che esse sarebbero in contrasto sia con il principio di tipicità e del numero chiuso dei diritti reali[136] - costituendo un diritto reale atipico[137]- sia con l’art. 1102 c.c., ove si prevede che ciascun partecipante possa servirsi della cosa comune, purché non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto[138].
Ancorché siano state espresse molte autorevoli opinioni contrarie all’orientamento assunto dalla summenzionata pronuncia, non è, tuttavia, possibile ad oggi per il notaio ricevere atti contenenti una tale volontà, ponendosi, peraltro, il problema di riuscire a conservare, nell’eventuale interesse delle parti, l’efficacia dell’uso esclusivo costituito prima della sentenza del 2020 sui beni condominiali[139].
Diversamente da quanto accaduto per il diritto d’uso esclusivo, la più recente giurisprudenza di legittimità reputa, invece, pienamente ammissibile la costituzione di una servitù «atipica» di parcheggio, riconducendo il principio di tipicità alla sola struttura di tale diritto, ma non anche al suo contenuto[140].
Nessun problema di validità si pone, infine, per la costituzione tramite regolamento convenzionale di un diritto d’uso turnario o frazionato sui beni comuni condominiali o su porzioni degli stessi, posto che in tali ipotesi non si concentrerebbe l’uso in capo a uno o alcuni condomini soltanto con una completa compromissione del godimento degli altri condomini sulla cosa comune[141].
5) La circolazione delle parti comuni condominiali. Questioni formali e diritto sostanziale
L’inquadramento di un determinato bene tra quelli condominiali comporta l’applicazione di una specifica disciplina di circolazione, nonché l’osservanza nell’atto notarile di tutta una serie di formalismi che, dunque, saranno oggetto di esame nel presente capitolo.
Quando si parla di parti comuni ex artt. 1117 ss c.c. si deve, anzitutto, precisare che esse non possono costituire oggetto di autonoma cessione[142], poiché vincolate al servizio dell’edificio condominiale che ne impone, peraltro, un’inderogabile indivisibilità laddove non si riesca a conciliare la divisione con l’agevole uso del bene da parte di ciascuno dei partecipanti[143].
Conseguentemente, ogni quota di comproprietà sugli spazi ed enti comuni è destinata a seguire le vicende inerenti all’unità immobiliare al cui servizio la stessa è adibita, non potendo il singolo condomino-venditore trasferire il diritto di proprietà sull’unità immobiliare senza al contempo trasferire anche lo stesso diritto sulle corrispondenti quote di comproprietà e, in modo del tutto speculare, non potendo l’acquirente limitare la sua titolarità alle sole unità immobiliari attraverso il rifiuto delle summenzionate quote millesimali[144].
Se è poi escluso ogni atto di cessione pro quota dei beni comuni da parte dei singoli condomini, non è tuttavia precluso alla totalità degli stessi di cedere spazi condominiali non rientranti tra quelli necessari senza i quali non sarebbe possibile l’utilizzo da parte dei condomini delle singole proprietà esclusive (ad es. corridoi, pianerottoli, scale, ascensori, portoni d’ingresso, ecc.)[145].
Chiariti gli aspetti generali in tema di circolazione degli spazi comuni, appare opportuno soffermarsi sulle formalità che il notaio deve osservare in tutti i casi in cui si trovi a dover rogare un atto avente ad oggetto unità immobiliari site in un fabbricato condominiale, ovvero autonome parti comuni condominiali, stante il fatto che il mancato rispetto di molte delle stesse è previsto dalla legge a pena di nullità.
Seguendo l’ordine in cui i summenzionati formalismi rilevano in atto ed iniziando, dunque, dalla conformità dei dati catastali, l’art. 29, co.1-bis della L. 27 febbraio 1985, n.52 prevede l’indicazione dell’identificativo catastale, del riferimento alle planimetrie catastali e della dichiarazione di parte -o dell’attestazione rilasciata da un tecnico- sulla conformità di tali dati e planimetrie allo stato di fatto in tutti gli atti pubblici e le scritture private autenticate tra vivi aventi ad oggetto il trasferimento, la costituzione o lo scioglimento di comunione di diritti reali (ad esclusione di quelli di garanzia) su fabbricati già esistenti e unità immobiliari urbane.
Come evidente dalla lettura della norma, le parti comuni condominiali iscritte al Catasto come «beni comuni non censibili» ed individuate soltanto nell’elaborato planimetrico (come ad esempio le scale, gli androni, l’ingresso, ecc.) sono certamente escluse dall’ambito operativo della disciplina in esame, mancandone i presupposti oggettivi di applicazione[146].
Maggiori perplessità si sono, invece, presentate in riferimento alle parti comuni condominiali catastalmente identificate come “beni comuni censibili”, accatastate con planimetria e dotate di rendita (come, ad esempio, l’alloggio del portiere), stante il fatto che esse rientrano nella categoria delle unità immobiliari urbane menzionata nel suddetto art. 29 co.1-bis.
Intervenendo sul punto al fine di debellare ogni incertezza, la circolare dell’Agenzia del Territorio n.3/2010 ha espressamente distinto a seconda che venga posto in essere un trasferimento pro quota di beni comuni censibili, ovvero un trasferimento autonomo degli stessi, non essendo necessaria, nel primo caso, la dichiarazione di conformità catastale[147], la quale assume, invece, rilevanza nella seconda ipotesi, poiché l’unità immobiliare «perde la sua funzione di bene condominiale e, pertanto, si rende necessaria anche la relativa registrazione con una specifica intestazione, in luogo della partita speciale, per tenere in debita evidenza i diritti e le quote vantati da ciascun soggetto»[148].
Nel caso in cui il bene comune venga assegnato, attraverso un regolamento contrattuale, in uso individuale a singoli condomini, si deve, inoltre, sottolineare che non sarà mai applicabile la disciplina di conformità catastale ex art. 29 co. 1-bis se tali pattuizioni di uso individuale non fanno sorgere un diritto reale a favore del medesimo condomino[149].
Passando, poi, ad esaminare la disciplina prevista dal d.lgs. 19 agosto 2005, n.192 in tema di certificazione energetica, l’art. 6 co. 1 dispone che tutti i fabbricati comportanti un consumo energetico debbano esser dotati, al termine della costruzione o di una ristrutturazione importante, di un attestato di certificazione energetica a cura del costruttore o, in caso di edifici già esistenti, del proprietario dell’immobile, avente una validità temporale massima di dieci anni a partire dal suo rilascio e soggetto ad aggiornamento ad ogni intervento di ristrutturazione o riqualificazione che modifichi la classe energetica del fabbricato o dell’unità immobiliare (co. 5).
In presenza di un condominio, l'attestazione energetica può esser riferita anche a più unità immobiliari facenti parte dello stesso edificio, potendosi, tuttavia, produrre la stessa solo se tali unità abbiano la medesima destinazione d’uso, la medesima situazione al contorno, il medesimo orientamento e la medesima geometria e solo se esse sono servite dallo stesso impianto termico per la climatizzazione invernale e dallo stesso sistema di climatizzazione estiva, laddove presenti (co. 4).
Menzionando la normativa solo edifici e unità immobiliari, per le parti comuni condominiali non suscettibili di trasferimento autonomo, ma trasferite ex lege insieme all’unità principale, va dunque esclusa l’applicazione dell’obbligo di dotazione, consegna, informativa e allegazione dell’A.P.E., prevista ai commi 2 e 3 in caso di vendita, trasferimento di immobili a titolo gratuito o nuova locazione, appunto, di edifici o unità immobiliari[150].
Per la maggior parte dei beni comuni autonomamente trasferiti, l’esclusione dagli obblighi sopra menzionati discende, comunque, dalla normativa in vigore e, segnatamente, dall’art. 3 co. 3 del d.lgs. 192/2005, nonché dall’appendice A delle linee guida nazionali sulla certificazione energetica (D.M. 26/06/2015), ove si prevede la mancata soggezione alla disciplina in tema di certificazione energetica per tutti gli edifici che risultano non compresi nelle categorie di edifici classificati sulla base della destinazione d'uso di cui all'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 26 agosto 1993, n.412, quali box, cantine, autorimesse, parcheggi multipiano, depositi, strutture stagionali a protezione degli impianti sportivi, il cui utilizzo standard non prevede l'installazione e l'impiego di sistemi tecnici di climatizzazione.
Nei contratti che trasferiscono la proprietà di immobili è, poi, prassi inserire una specifica clausola con cui il cedente garantisce che il bene oggetto dell’atto è libero da pesi, oneri, servitù, privilegi anche fiscali, iscrizioni e trascrizioni pregiudizievoli, ovvero individua il vincolo di cui il bene risulta gravato.
In tale contesto, appare estremamente importante esaminare la disciplina dell’ipoteca e la sua concreta applicazione nel caso in cui entrino in gioco parti comuni condominiali, stante le notevoli ricadute pratiche della stessa.
In particolare, la dottrina si è a lungo interrogata sull’estensione o meno alle parti condominiali dell’ipoteca iscritta sulla correlata unità immobiliare, dividendosi a seconda che gli spazi ed enti comuni possano inquadrarsi tra le pertinenze ex art. 817 c.c., ovvero tra le accessioni.
Nella prima ipotesi, opinione prevalente in dottrina e fatta propria anche dalla giurisprudenza è quella per cui l’ipoteca non si estenda automaticamente alle pertinenze non specificamente indicate nel titolo o nella nota d’iscrizione dell’ipoteca medesima[151], non mancando, tuttavia, autori che, sulla base dell’art. 2810 n.1 c.c., non ritengono necessaria una tale indicazione (in deroga al principio di specialità dell’ipoteca)[152], nonché autori a sostegno dell’estensione automatica dell’ipoteca anche alle pertinenze solo in presenza di un nesso di pertinenzialità risultante in maniera evidente ed indiscutibile anche nei confronti dei terzi[153].
In caso di accessioni, l’art. 2811 cc. prevede, invece, che l’ipoteca iscritta sull’unità immobiliare si estenda automaticamente e per la proporzionale quota millesimale alle correlate parti comuni, anche se queste ultime non siano state espressamente indicate nel titolo o nella nota di iscrizione dell’ipoteca medesima e, in senso del tutto speculare, può altresì affermarsi che la cancellazione dell’ipoteca relativamente all’unità immobiliare è destinata a liberare anche le parti comuni sempre per la proporzionale quota millesimale[154].
Passando al diverso ambito delle menzioni urbanistiche si può, poi, sottolineare che gli artt. 40 della L. 28 febbraio 1985, n.47 e 46 del D.P.R. 6 giugno 2001, n.380 ne dichiarano applicabile la disciplina a tutti gli atti tra vivi aventi ad oggetto il trasferimento, la costituzione o lo scioglimento della comunione di diritti reali relativi a edifici o loro parti e, dunque, anche alle parti comuni condominiali.
Anche in tale contesto appare, tuttavia, necessario distinguere a seconda che il bene comune sia trasferito pro quota insieme all’unità abitativa, ovvero autonomamente: nel primo caso la menzione inerente al bene principale andrà, infatti, ad assorbire quella relativa agli spazi ed enti comuni facenti parte del medesimo stabile[155]; nella seconda ipotesi, se si tratta di parte comune dotata di una sua autonomia e realizzata in tempi diversi rispetto al fabbricato condominiale al cui servizio la stessa è posta, ovvero realizzata in modo che la stessa risulti soltanto annessa all’edificio principale, si dovranno inserire in atto anche gli estremi dei titoli abilitativi inerenti alla medesima[156].
Relativamente, invece, alle clausole sulla provenienza del bene, rilevanti questioni in tema di usucapione hanno interessato sia la dottrina che la giurisprudenza, che, in particolare, si sono interrogate sulla possibilità per il condomino di usucapire una parte comune, nonché sulla possibilità per lo stesso condominio di usucapire un’area in proprietà di privati.
Se particolari perplessità non sorgono per la prima ipotesi, propendendo la prevalente giurisprudenza di legittimità per l’usucapibilità da parte del singolo condomino della quota degli altri senza neppure la necessità di una interversione nel possesso[157], maggiori dubbi si sono posti laddove sia, invece, il condominio a sostenere di aver usucapito uno spazio privato.
Sul punto, se parte della giurisprudenza di merito ha negato al condominio la possibilità di usucapire un bene la cui proprietà sia stata riservata nell’atto notarile ad un terzo o all’originario proprietario[158], altre pronunce riconoscono, invece, tale possibilità[159], potendo l’amministratore munito di apposite procure da parte di tutti i condomini o la totalità dei condomini stessi agire per le domande di accertamento dell’avvenuto acquisto per usucapione[160].
Quanto, infine, alla trascrizione «a favore» o «contro» l’intero condominio dell’atto tra vivi inerente a beni comuni censibili, è opportuno precisare che l’art. 2659 c.c. -come modificato dalla riforma del 2012- prevede l’indicazione della denominazione, ubicazione e codice fiscale del condominio stesso nella nota da presentare, insieme con la copia del titolo, al conservatore dei registri immobiliari[161].
6) Considerazioni conclusive
Analizzate le principali questioni d’interesse notarile in ambito condominiale e tratteggiato lo stato dell’arte che oggigiorno interessa l’istituto del condominio sia a livello sostanziale sia sul piano formale, appare opportuno svolgere qualche ulteriore osservazione conclusiva, in riferimento soprattutto ai nodi lasciati insoluti dalla riforma del 2012 e alle possibili modalità di risoluzione degli stessi.
Rispettando l’ordine seguito nei precedenti paragrafi, una prima evidente criticità in ambito condominiale è indubbiamente rappresentata dall’ingente mole di contenzioso e dalla conseguente necessità di impiegare appositi strumenti che consentano di alleggerire il carico di lavoro dei magistrati e di avere risposte certe in maniera rapida, ma al contempo efficiente.
Tra gli stessi, un ruolo ancor più incisivo potrebbe esser svolto dagli strumenti ADR e, segnatamente, dall’arbitrato e dalla mediazione, recentemente rivisitata anche dalla riforma Cartabia[162].
Se il primo permette, infatti, di designare come arbitri figure esperte nella materia della specifica controversia avente ad oggetto diritti disponibili[163], nonché di addivenire al lodo in tempi molto brevi e sostenendo spese già definite e piuttosto contenute, il successo della seconda porta con sé anche vantaggiose agevolazioni fiscali, oltre al conseguimento di un accordo capace di soddisfare maggiormente gli interessi dei condomini.
Uscendo poi dalla disamina delle possibili soluzioni per liti già insorte, efficace strumento di prevenzione delle controversie condominiali è certamente rappresentato dall’importantissima funzione antiprocessuale del notaio. La maggior parte del contenzioso scaturisce, infatti, da questioni facilmente risolvibili attraverso la predisposizione da parte del professionista di atti completi e precisi: si pensi, ad esempio, alle frequenti problematiche causate dalle immissioni altrui[164], dalla difficile individuazione delle parti comuni[165], nonché dal corretto utilizzo delle stesse, che ben potrebbero esser evitate attraverso l’operato notarile.
Relativamente alle questioni ancora aperte di diritto sostanziale, la prassi notarile mostra la possibilità di definire il condominio come quel complesso di diritti che lega le parti comuni condominiali alle singole unità abitative site nello stesso edificio. Se, dunque, la proprietà -rectius, la comunione- rappresenta la situazione più semplice e lineare che possa in concreto verificarsi nel condominio, nulla impedisce ai condomini di costituire servitù, ovvero usi tipici ed altri diritti reali, nonché di accordarsi per utilizzare i beni comuni in maniera frazionata, turnaria o, comunque, non paritaria attraverso la predisposizione di appositi regolamenti contrattuali, le cui clausole andranno regolarmente trascritte laddove rispondenti a quanto previsto dall’art.2643[166] o dall’art.2645 cc.
La contitolarità dei beni comuni, laddove non sia presente alcun titolo contrario, porterebbe inoltre per sé stessa all’esclusione della possibile configurazione di diritti di uso esclusivo, intendendosi, tuttavia, con tale terminologia non la mera attribuzione di diritti che consentono anche agli altri condomini di godere dei beni comuni, sia pur in misura minore e non paritaria, ma l’attribuzione «mascherata» di un vero e proprio diritto di proprietà ad uno soltanto dei condomini, incompatibile, pertanto, con qualsivoglia contitolarità sul bene[167].
La summenzionata definizione del condominio come complesso di diritti lascerebbe, inoltre, propendere per un’assenza di soggettività giuridica del condominio medesimo, con la conseguente necessità di far intervenire in atto l’amministratore munito delle apposite procure da parte dei singoli condomini, non sembrando idonee a configurare un riconoscimento di soggettività giuridica all’istituto condominiale né la nomina dell’amministratore né la presenza dell’assemblea, maggiormente rispondenti ad una logica di ordine, gestione e semplificazione della convivenza tra i condomini (ancor più utile e necessaria in quei condomini ove è più alto il numero degli stessi).
La funzione sociale della proprietà porta, infine, anche il condominio a riscoprirsi sempre più come istituto con funzione ben più ampia ed ulteriore rispetto a quella meramente abitativa, come i recenti e sempre più diffusi impieghi dello stesso nel cd. co-housing[168] e senior-housing[169] dimostrano, dovendosi pertanto considerare sempre più di frequente anche tale dimensione nella disamina dello stesso.
NOTA A SENTENZA
LA NATURA GIURIDICA DELLE RESTRIZIONI ALLE FACOLTÀ INERENTI AL GODIMENTO DELLA PROPRIETÀ ESCLUSIVA ED IL REGOLAMENTO DI CONDOMINIO[170]
Indice: 1) Il condominio: natura giuridica e disciplina; 2) Limiti al diritto di proprietà: differenze tra regolamento condominiale assembleare e regolamento condominiale negoziale; 3) I vincoli e le restrizioni alle facoltà inerenti al godimento della proprietà esclusiva: il diritto di servitù; 4) Il caso sottoposto al vaglio della Suprema Corte di Cassazione: la sentenza n. 15222 del 30 maggio 2023; 5) Conclusioni.
(Cass., Sez. II, 16 maggio 2023, dep. 30 maggio 2023, n.15222 - Pres. Manna - Rel. Scarpa - A.A. c. B.B. e altri)
I divieti ed i limiti regolamentari di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva, devono risultare dal regolamento, trattandosi di servitù reciproche, e non possono ritenersi esplicitati nell’ipotesi di un riferimento generico a pregiudizi che si ha intenzione di evitare.
1) Il condominio: natura giuridica e disciplina
Il panorama giuridico in cui si dipana l’intera vicenda in commento concerne la realtà condominiale.
Pertanto, prima di procedere all’analisi della pronuncia in commento, è opportuno chiarire la natura giuridica e la disciplina dell’istituto del condominio.
La dottrina classica[171] fornisce una definizione di condominio da cui se ne desume il suo stesso collocamento nell’ordinamento giuridico, affermando come esso si concretizzi in uno specifico tipo di comunione degli edifici composti da più unità immobiliari in proprietà esclusiva[172].
Come anticipato, tale definizione contiene intrinsecamente al suo interno e fornisce un chiaro indizio della natura giuridica del condominio.
Esso infatti viene definito come una peculiare species di comunione.
Il condominio pertanto si condensa in quella peculiare fattispecie in cui in un medesimo fabbricato coesistono una pluralità di unità immobiliari di proprietà esclusiva di singoli condòmini e, al contempo, vi sia la presenza di parti comuni strutturalmente e funzionalmente connesse al complesso delle prime[173].
Il carattere di «comunione» sta pertanto nella compresenza, da un lato, di una pluralità di singole unità abitative e, dall’altro, dalla presenza di parti comune connesse alle prime.
Nello specifico, nel condominio sopravvive una comunione pro indiviso per quanto concerne le cose comuni ed una comunione pro diviso relativamente alle singole proprietà abitative.
La riconduzione dell’istituto del condominio al genus della comunione è inoltre confermata anche dal dato letterale della legge, laddove l’art. 1139 rinvia alle disposizioni sulla comunione in generale, adottando invece norma specifiche in alcune ipotesi.
Il richiamo dell’art 1139 c.c. alle norme della comunione comporta dunque l’applicazione di tutte quelle norme previste nel capo I del citato titolo VII del Codice civile (artt. 1110 ss c.c.) in quanto compatibili con la disciplina legale del condominio.
Nello specifico, il legislatore prevede infatti un’ulteriore regolamentazione in tema di condominio, prescrivendo: l’obbligatorietà del regolamento nei grandi condomini (almeno 10 condòmini); la regolamentazione dettagliata delle modalità di costituzione, funzionamento e attribuzioni dell’assemblea; l’obbligatorietà di un amministratore per condomini di particolare grandezza (almeno 8 condòmini).
Chiarito tale prodromico aspetto, il legislatore disciplina il condominio all’interno del codice civile.
Tuttavia, la disciplina del condominio è poi evoluta nel corso degli anni e l’incremento di tale fattispecie ha portato all’adozione di una specifica disciplina di settore, specialmente dopo l’entrata in vigore della L. n. 220/2012, la quale si estende anche al c.d. supercondominio[174].
È infine interessante ricordare l’approdo a cui si è addivenuti circa la modalità di costituzione del condominio.
Dopo diversi contrarsi sia in dottrina che in giurisprudenza, oggi si ritiene pacifico che il condominio venga ad esistenza in maniera pienamente automatica, semplicemente con la costituzione di una pluralità di proprietà (anche solo due: c.d. condominio minimo) sullo stesso edificio.
Venuto ad esistenza il condominio, si applicherà la relativa disciplina speciale ulteriore, oltre alle norme in tema di comunione con esse compatibili.
2) Limiti al diritto di proprietà: differenze tra regolamento condominiale assembleare e regolamento condominiale negoziale[175]
Il disfavore del Legislatore verso la comunione – inchiavardato nel brocardo latino communio est mater rixarum - è dimostrato dalla previsione di diverse prescrizioni, come ad esempio la facoltà di riconoscere ai condividenti di sciogliere lo stato di condivisione in ogni momento.
Tuttavia, nel caso del condominio, lo stato di comunione è intrinseco alla sua stessa natura. Pertanto, laddove c’è un condominio, ci dovrà essere necessariamente una comunione: i due elementi sono tra loro indissolubili.
In tal senso, la legge ha predisposto nel corso degli anni alcuni strumenti volti a rendere la condivisione degli spazi quanto più serena possibile e disciplinando la convivenza tra la pluralità di diritti in maniera più pacifica possibile.
Il mezzo con cui il legislatore ha deciso di perseguire tale fine è il regolamento di condominio, disciplinato dall’art. 1138 del codice civile.
In primo luogo, l’obbligatorietà del regolamento è prescritta dalla legge solo laddove i condòmini siano superiori a dieci (sicuramente maggiore è il numero di persone, più alta sarà la probabilità che sorgano contrasti sulla gestione dei beni comuni).
Quanto all’oggetto, esso regolamenta l'uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro dell'edificio e quelle relative all'amministrazione.
Ai fini della disamina in oggetto, fondamentale è il disposto dell’ultimo comma dell’art. 1138 c.c., il quale statuisce che le norme del regolamento non possono in alcun modo menomare i diritti di ciascun condomino, quali risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni, e in nessun caso possono derogare alle disposizioni degli articoli 1118, secondo comma, 1119, 1120, 1129, 1131, 1132, 1136 e 1137 del codice civile.
Tale ultimo punto è cruciale poiché evidenzia un peculiare atteggiamento del legislatore nel regolamentare la convivenza tra più proprietà in un unico edificio.
Tale statuizione ha portato dunque ad una distinzione tra due forme di regolamento: il regolamento c.d. improprio o negoziale ed il regolamento c.d. proprio o assembleare.
Quest’ultimo è il classico regolamento condominiale, disciplinato dal citato art. 1138 c.c. ed approvato dall’assemblea di condominio.
Mediante tale strumento, i condòmini possono decidere di predisporre una disciplina delle parti comuni o altre fattispecie che riguardino la gestione del condominio, senza menomare i diritti di ciascuno singolo condòmino sulle singole proprietà abitative.
Le norme poste dal regolamento assembleare, nei limiti di quanto predisposto dall’art. 1138 c.c., determinano il sorgere di obbligazioni propter rem, connotata dal carattere ambulatorio del vincolo.
In tal modo, il trasferimento del bene determinerà il sorgere in capo al nuovo titolare di una obbligazione avente il medesimo contenuto di quella esistente in capo all’alienante.
Si badi bene, in tal caso non si è in presenza di una successione nel rapporto obbligatorio poiché in capo al nuovo acquirente sorge una nuova obbligazione, seppur di identico contenuto di quella precedente.
Laddove le norme del regolamento assembleare eccedano i limiti di contenuto previsto all’art. 1138 c.c., allora non si avrà più un semplice regolamento bensì si sfocerà in una diversa fattispecie, la quale potrà consistere in una convenzione specifica che potrà far sorgere la costituzione di un diritto reale oppure una mera obbligazione personale.
La giurisprudenza[176] infatti ritiene che l’art. 1138, ultimo comma, c.c. si applica al solo regolamento approvato a maggioranza dall’assemblea condominiale e non anche a quello adottato all’unanimità con i consensi uti singuli dei condòmini, che invece hanno valore contrattuale. Inoltre si ritiene che il regolamento condominiale assembleare non vada trascritto laddove siano rispettati i limiti di competenza in merito al suo contenuto.
Tuttavia, riconoscendo agli stessi natura di obbligazioni propter rem, sorgeranno anche in capo ai successivi aventi causa, stante la loro già citata natura ambulatoria.
Pertanto, il regolamento assembleare ha natura meramente normativa poiché si limita a regolare l’uso delle parti comuni, lasciando estranee al suo ambito applicativo l’incidenza sui diritti dei singoli condòmini in relazione alle loro proprietà private.
Diversamente, il regolamento contrattuale o improprio eccede di per sé il campo di applicazione dell’art. 1138 c.c., disciplinando anche la sfera privata del diritto di proprietà dei singoli condòmini. Mediante l’adozione di tale strumento, i singoli condòmini decidono di regolamentare, oltre che le parti comune e la relativa gestione, anche elementi che si pongono al di là di tale ambito.
Nello specifico, i condòmini possono prevedere la creazione di veri e propri vincoli, aventi carattere reale, sia sulle parti comuni sia sulle singole unità abitative dei singoli. Normalmente in materia condominiale si parla sempre di «regolamento» per sottolineare il suo carattere «normativo» ed escludendo invece il carattere «dispositivo-costitutivo» che gli è estraneo.
Tuttavia, nell’ipotesi del regolamento c.d. negoziale, dal momento che si costituiscono diritti reali sui beni immobili, comuni o privati, si dovrebbe parlare più propriamente di veri e propri negozi o contratti costitutivi di diritti reali.
Non vi è più l’organo assembleare che dà vita al regolamento bensì l’incontro delle singole volontà dei condòmini che dovrà condensarsi all’interno di un negozio formale, come accade normalmente tra privati.
È infatti improprio parlare di consenso unanime inteso come consenso espresso da un organo collegiale poiché in tali fattispecie, trattandosi di veri e propri negozi, sarà necessaria l’espressione di volontà uti singuli di tutti i condòmini.
Tali negozi andranno pertanto trascritti nei registri immobiliari, concretizzandosi nella costituzione di diritti reali opponibili a terzi.
A riguardo, giova menzionare alcuni precedenti della Suprema Corte di Cassazione, la quale afferma infatti che le norme del regolamento condominiale che incidono sulla utilizzabilità e la destinazione delle parti dell’edificio di proprietà esclusiva, distinguendosi dalle norme regolamentari, che possono essere approvate dalla maggioranza dell’assemblea dei condomini, hanno carattere convenzionale e, se predisposte dall’originario proprietario dello stabile, debbono essere, pertanto, accettate dai condòmini nei rispettivi atti di acquisto o con atti separati; se deliberate, invece dall’assemblea, debbono essere approvate all’unanimità, dovendo, in mancanza considerarsi nulle, perché eccedenti i limiti dei poteri dell'assemblea[177].
3) I vincoli e le restrizioni alle facoltà inerenti al godimento della proprietà esclusiva: il diritto di servitù
Alla luce di quanto esposto in precedenza, concentrando l’analisi sul contenuto delle disposizioni inserite all’interno del regolamento condominiale c.d. negoziale o contrattuale (c.d. improprio), è sorto un dibattito in seno alla la giurisprudenza[178] su come qualificare i vincoli gravanti sulle singole proprietà costituenti il condominio.
Generalmente si parla di «vincoli di destinazione d’uso[179]».
In particolare, i condòmini possono infatti prevedere dei vincoli che, eccedendo la mera gestione delle parti comuni, sfociano invece in una vera e propria costituzione di diritti reali di servitù.
È stato infatti sostenuto[180] che tali forme di regolamenti debbano aver un contenuto peculiare: proprio in quanto istitutivi di diritti di servitù reciproca, la clausola convenzionale non può avere oggetto generico o indeterminato nell’oggetto, poiché altrimenti si verrebbe a creare una servitù di non facere o di non usare priva di qualsiasi specificità, di guisa che il condomino, o i condomini, che fossero - in ipotesi - tenuti ad osservarla si troverebbero di fatto privati di qualsiasi diritto di godimento di tutte o alcune delle parti comuni dell'edificio in condominio, senza che a tale loro sacrificio corrisponda alcuna concreta utilitas del fondo dominante.
Si è pertanto compreso come il regolamento di condominio contrattuale incida direttamente sui diritti soggettivi di ciascun condomino, ponendo restrizioni al godimento delle singole unità abitative in proprietà esclusiva o all’utilizzo delle parti comuni[181].
La caratteristica principale di tali norme negoziali è tuttavia nel loro carattere intrinsecamente reale. In particolare, le disposizioni del regolamento condominiale improprio, una volta trascritto, vincolano tutti i successivi acquirenti dell’unità abitativa, a prescindere dalla menzione o meno dei relativi vincoli nei titoli di acquisto.
Laddove invece il citato regolamento non venga trascritto, i vincoli in esso contenuti saranno opponibili ai terzi solo e nei limiti in cui essi siano stati menzionati (ed accettati) negli atti di acquisto o se vi sia un rinvio espresso al regolamento tale da formare parte integrante dell’atto stesso.
Diversamente, gli eredi subentreranno direttamente ed automaticamente nella stessa posizione giuridica del proprio dante causa, a nulla rilevando la previsione di ulteriori statuizioni.
Tornando a quanto espresso precedentemente, chiarito che i vincoli sulle singole abitazioni costituenti il condominio possono essere contenute esclusivamente nell’ambito di un negozio giuridico vero e proprio (il regolamento contrattuale o improprio), ci si è interrogati sulla natura giuridica da riconoscere ai suddetti vincoli di destinazione.
Nello specifico, essi possono consistere in pesi o limitazioni a favore di specifiche unità immobiliari e gravanti su altre unità immobiliari, al fine di perseguire un vantaggio collettivo condominiale. In passato, specialmente prima dell’intervento delle Sezioni Unite[12], si è lungamente dibattuto sulla possibilità di destinare alcuni beni comuni ad uso esclusivo di alcune unità immobiliari.
Tuttavia, com’è stato già evidenziato, la Cassazione - in forza del principio del numerus clausus e di tipicità dei diritti reali - esclude la natura «reale» di tali statuizioni, convertendole invece in un mero vincolo obbligatorio[182].
Sulla base di quanto finora affermato, la natura giuridica dei vincoli gravanti sulle singole unità immobiliari del condominio è oggetto di animato dibattito in giurisprudenza.
Nello specifico, vi è una parte della giurisprudenza[183] che riconduce tali restrizioni alla fattispecie degli oneri reali.
Tale figura giuridica, oramai desueta, si condensa in una prestazione a carattere periodico dovuta da un soggetto per il solo ed unico fatto che si trova nel godimento di un bene, avente carattere reale.
Tale ricostruzione, tuttavia, è fortemente criticata ed oggi risulta pressocché minoritaria poiché gli oneri reali, atteggiandosi come diritti reali, rientrano a pieno nel principio di tipicità e pertanto è indispensabile che essi siano espressamente previsti dalla legge, non potendo l’autonomia privata creare nuove figure di diritti reali[184].
Pertanto, altra parte della giurisprudenza[185] riconduce tale figura nell’alveo delle obbligazioni propter rem.
Come si è fatto notare in precedenza, tale fattispecie giuridica si dimostra invece dotata di una valenza meramente obbligatoria.
Anche in questo ultimo caso, tuttavia, gli ultimi approdi della giurisprudenza[186] hanno portato a ritenere che anche le obbligazioni propter rem, oltre che dalla accessorietà e dalla ambulatorietà dal lato soggettivo passivo, sono caratterizzate, al pari dei diritti reali, dal requisito della tipicità, con la conseguenza che non possono essere liberamente costituite dall’autonomia privata, ma sono ammissibili soltanto quando una norma giuridica consente che in relazione ad un determinato diritto reale e in considerazione di esigenze permanenti di collaborazione e di tutela di interessi generali il soggetto si obblighi ad una prestazione accessoria, che può consistere anche in un facere.
Per tali ragioni, anche esse devono ritenersi escluse dall’ambito di intervento dell’autonomia privata e quindi dello stesso regolamento contrattuale.
Il dibattito, ancora non definitivamente sopito, è giunto fino alla recente sentenza in commento, giungendo all’adozione di una soluzione che era in parte già stata propugnata dalla dottrina maggioritaria[187] e che era già stato espresso dalla giurisprudenza di Legittimità[188] da diverso tempo.
4) Il caso sottoposto al vaglio della Suprema Corte di Cassazione: la sentenza n.15222 del 30 maggio 2023
Dopo aver analizzato il sostrato giuridico in cui si dipana la vicenda giuridica in commento, è adesso opportuno ripercorrere le tappe del processo ermeneutico che ha portato alla statuizione della Cassazione oggetto del presente contributo.
La fattispecie processuale sorge dall’adozione di una delibera condominiale con cui si era prevista l’aggiunta, all’art. 9 del relativo regolamento condominiale (assembleare), di un ulteriore divieto consistente nell’impedire di adibire le singole unità immobiliari ad «asilo nido, ludoteca e centro per famiglie e bambini», nonché a non destinare gli appartamenti e gli altri enti dello stabile a uso diverso da quello figurante nel rogito di acquisto, aggiungendo «è vietato destinare gli alloggi a uso sanitario, gabinetti di cura, ambulatorio per malattie infettive e contagiose, scuole di musica, di canto, di ballo e pensioni».
La sentenza d'appello ha quindi sostenuto che l'art. 9 del regolamento deve intendersi volto a vietare, costituendo «un vincolo di natura reale», non solo il mutamento della destinazione d’uso degli alloggi rispetto a quanto configurato nei singoli rogiti di acquisto, ma anche l’esercizio di una serie di specifiche attività.
Sul punto, la Cassazione, dopo aver chiarito profili di natura processuale, la legittimazione all’azione e dopo aver circostanziato l’ambito del petitum, afferma come la Corte d'appello di Milano ha deciso le relative questioni di diritto non uniformandosi all’orientamento consolidato di della Suprema Corte, senza fornire elementi che possano indurre a modificare tale orientamento.
In particolare, i giudici del gravame hanno, quindi, sostenuto che l’art. 9 del regolamento deve intendersi volto a vietare, costituendo «un vincolo di natura reale», non solo il mutamento della destinazione d'uso degli alloggi rispetto a quanto configurato nei singoli rogiti di acquisto, ma anche l’esercizio di una serie di specifiche attività.
La Corte d’appello, pertanto, ritiene che l’attività di asilo nido privato incorrerebbe in entrambi i divieti regolamentari, avendo essa determinato: a) sia un mutamento della destinazione d’uso, ai sensi della legislazione della Regione Lombardia, sia pure in relazione a «sottocategorie del medesimo raggruppamento», ovvero da direzionale a produttiva; b) sia l’adibizione ad una delle attività specificamente vietate dal regolamento «essendo l'asilo una scuola ove si pratica notoriamente anche musica e canto oltre ad altre attività didattiche che, per l'affollamento dell'utenza, comportano quelle condizioni di rumorosità che la norma regolamentare ha inteso dl tutto inequivocabilmente vietare».
A questo punto, i giudici di Legittimità, aderendo all’orientamento prevalente in giurisprudenza[189], sostengono che le restrizioni alle facoltà inerenti al godimento della proprietà esclusiva contenute nel regolamento di condominio, volte a vietare lo svolgimento di determinate attività all’interno delle unità immobiliari esclusive (nel caso di specie, si tratta del divieto di «destinare gli appartamenti e gli altri enti dello stabile a uso diverso da quello figurante nel rogito di acquisto», ovvero di «destinare gli alloggi a uso sanitario, gabinetti di cura, ambulatorio per malattie infettive e contagiose, scuole di musica, di canto, di ballo e pensioni»), costituiscono servitù reciproche e devono perciò essere approvate mediante espressione di una volontà contrattuale, e quindi con il consenso di tutti i condomini, mentre la loro opponibilità ai terzi acquirenti, che non vi abbiano espressamente e consapevolmente aderito, rimane subordinata all’adempimento dell’onere di trascrizione del relativo peso.
I giudici di piazza Cavour pertanto aderiscono pienamente all’orientamento giurisprudenziale, anticipato già da parte della dottrina, secondo cui i vincoli imposti su singole unità immobiliari facenti parte di un condominio debbano rientrare nel genus del diritto reale di servitù, in particolare si atteggiano a servitù reciproche. Infatti, la legge con il brocardo latino «nemini res sua servit» espone uno dei principi fondamentali in tema di servitù prediale: affinché possa sorgere tale diritto, non è possibile che i due beni oggetto di servitù appartengano allo stesso proprietario poiché ciò renderebbe del tutto ultroneo e superfluo la previsione di un simile strumento.
Tuttavia, in accordo con quanto da tempo stabilito dalla giurisprudenza di legittimità[190], tale principio non opera in caso di comproprietà, ossia non opera laddove la servitù sia posta a carico o a favore di un bene di proprietà esclusiva ed a carico o a favore di un bene in comproprietà del quale è contitolare anche il proprietario esclusivo dell’altro bene.
È, inoltre, pacificamente riconosciuta[191] la possibilità di costituire servitù reciproche, ossia poste simultaneamente a favore e a carico di due o più beni, a reciproco vantaggio di entrambi.
In tali ipotesi ogni bene acquisirà contemporaneamente la qualitas di fondo servente e di fondo dominante.
Anche in tema di condominio pertanto tali servitù vengono ammesse, nei limiti sopra esposti.
Si ritiene infatti non violato il principio di unilateralità delle servitù poiché in tali fattispecie non vi è un’unica servitù che opera di entrambi i lati (servente e dominante) bensì vi sono una pluralità di servitù unilaterali che operano in direzioni opposte tra i medesimi beni gravati.
La ricostruzione operata dalla Cassazione nella sentenza in commento si adatta perfettamente ai precedenti orientamenti giurisprudenziali, giungendo a ritenere come tali restrizioni di godimento delle proprietà esclusive si atteggino a vere e proprie servitù reciproche.
Nell’affermare ciò, come già richiamato precedentemente, i giudici precisano che il regolamento condominiale può comunque prevedere limitazioni ai poteri ed alle facoltà spettanti ai condòmini sulle unità immobiliari di loro esclusiva proprietà, ma solo in quanto le medesime limitazioni siano enunciate nel regolamento in modo chiaro ed esplicito, dovendosi desumere inequivocabilmente dall’atto scritto, ai fini della costituzione convenzionale delle reciproche servitù, la volontà delle parti di costituire un vantaggio a favore di un fondo mediante l’imposizione di un peso o di una limitazione su un altro fondo appartenente a diverso proprietario.
Non è quindi sufficiente un semplice regolamento assembleare bensì è opportuno che i singoli proprietari delle unità immobiliari condominiali esprimano chiaramente la volontà di costituire un vero e proprio diritto reale di servitù.
Il contenuto di tale diritto si concreta pertanto nel corrispondente dovere di ciascun condomino di astenersi dalle attività vietate, quale che sia, in concreto, l’entità della compressione o della riduzione delle condizioni di vantaggio derivanti - come qualitas fundi, vale a dire con carattere di realità - ai reciproci fondi dominanti, e perciò indipendentemente dalla misura dell’interesse del titolare del condominio o degli altri condomini a far cessare impedimenti e turbative.
In tal senso, la Cassazione ripercorre l’indirizzo giurisprudenziale[192] già attestato in precedenza secondo cui non è dunque idoneo il richiamo operato non mediante elencazione delle attività vietate bensì con un generico riferimento ai pregiudizi che si ha intenzione di evitare, da verificare di volta in volta in concreto, sulla base della idoneità della destinazione, semmai altresì saltuaria o sporadica, a produrre gli inconvenienti che si vollero invece scongiurare.
I giudici inoltre richiamano l’orientamento risalente[193] che sostiene come il diritto di servitù sia un «diritto reale speciale», il quale seppur ricompreso nell’ambito di applicazione del principio di tassatività - diretta promanazione del numerus clausus dei diritti reali - esso può avere un contenuto variegato ed intrinsecamente atipico.
La servitù deve rispondere a requisiti imposti dalla legge al fine di rispettare la tipicità richiesta ma poi esso si snoda in diversi e nuovi contenuti.
A fronte di tale apertura, tuttavia, è necessario bilanciare tale autonomia (ossia la possibilità di costituire servitù prediali in base ai propri interessi ed esigenze nei limiti imposti dalla legge) con la salvaguardia dei connotati del diritto di proprietà. Il diritto del proprietario non potrà infatti risultare di fatto svuotato, tale da comportare l’esistenza di un diritto «vuoto».
Le prerogative del titolare del diritto di proprietà del bene servente non potranno essere ristrette e limitate fino al punto di svuotarne qualunque consistenza.
Per tali ragioni, la Cassazione precisa come la costituzione della servitù, concretandosi in un rapporto di assoggettamento tra due fondi, importa una restrizione delle facoltà di godimento del fondo servente ma tale restrizione, seppur commisurata al contenuto ed al tipo della servitù, non può risolversi nella totale elisione delle facoltà di disposizione del fondo servente, precludendo al titolare dello stesso ogni possibile mutamento di destinazione[194].
In tal senso potranno essere liberamente previsti degli accordi aventi rilevanza meramente obbligatoria, i quali - tuttavia - si pongono all’esterno dell’alveo del diritto reale di servitù[195].
Alla luce del percorso ermeneutico enunciato, la Cassazione adotta la seguente massima: «Il contenuto e la portata dei divieti e dei limiti regolamentari di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva, coerentemente con la loro natura di servitù reciproche, devono essere chiaramente espressi nel regolamento, non potendosi ritenere esplicitati nel caso in cui ci si limiti ad un generico riferimento a pregiudizi che si ha intenzione di evitare».
5) Conclusioni
L’approdo ermeneutico a cui giunge la Cassazione riporta al centro il dibattito sul rapporto tra diritto di proprietà esclusiva e condominio.
In particolare, l’insegnamento che si deve trarre dalla pronuncia in commento si annida in un contesto da tempo ampiamente dibattuto sia in dottrina che in giurisprudenza.
I numerosi precedenti richiamati sono infatti la testimonianza di come un simile argomento sia stato scandagliato a fondo nel corso degli anni.
Nello specifico, il tema concernente la liceità delle restrizioni al diritto di proprietà di singole unità immobiliari in condominio si risolve in una problematica molto diffusa nella prassi quotidiana e coinvolge una pluralità di elementi.
In primo luogo, sorge l’interrogativo del mezzo da utilizzare al fine di prevedere una simile fattispecie.
Com’è stato profusamente affermato nelle righe che precedono, l’indirizzo oramai pacifico ed indiscusso porta a ritenere che la costituzione di vincoli a carico della proprietà, costituenti vere e proprie servitù, debbano essere necessariamente costituite mediante un vero e proprio accordo negoziale avente ad substantiam la forma scritta.
È, infatti, indefettibile il requisito dell’incontro delle volontà dei singoli titolari del diritto di proprietà delle unità immobiliari condominiali, non essendo invece sufficiente una mera delibera condominiale.
Tale statuizione appare non molto chiara all’interno del testo adottato dalla Cassazione poiché essa si limita ad affermare che «il regolamento di condominio può stabilire dei limiti all'utilizzo delle proprietà private. Questi limiti, che sono delle servitù prediali che la proprietà sopporta in favore del condominio, per essere validi ed efficaci devono essere espressi in modo preciso e non possono essere ricavati in via interpretativa dal giudice».
Il riferimento sic et simpliciter al regolamento condominiale appare non aderente all’orientamento dominante e oramai attestato in giurisprudenza.
La Cassazione, tuttavia, dà certamente per scontato tale orientamento, uniformandosi ad esso.
In particolare, così come è stato chiarito in precedenza, la costituzione di diritti di servitù reciproca deve essere contenuta in un negozio ossia, nel caso del condominio, in un regolamento c.d. contrattuale o improprio.
Tale sintesi è, inoltre, corroborata da un ulteriore e semplice dato normativo.
Una volta ricondotti i vincoli suddetti nell’alveo dell’istituto della servitù, ad essi si applicheranno le regole previste dal codice civile a tale fattispecie legale.
Non a caso, l’art. 1031 c.c. – in tema di costituzione delle servitù prediali – afferma che esse possano essere costituite «coattivamente o volontariamente. Possono anche essere costituite per usucapione o per destinazione del padre di famiglia».
Il caso oggetto di scrutinio da parte della Cassazione prevede certamente un’ipotesi di servitù volontaria.
Sul punto, si ritiene pacifico ed indiscusso come la locuzione «volontariamente» vada intesa in senso restrittivo, comportando dunque che la costituzione della servitù debba essere predisposta esclusivamente mediante la stipulazione di un negozio giuridico ossia mediante di dichiarazione di volontà dei titolari dei diritti di proprietà sulle singole unità immobiliari (nel caso di specie, del condominio).
Inoltre, il richiamato principio di tipicità e tassatività dei diritti reali comporta che tali vincoli, seppur atipici nel contenuto, debbano rispettare i canoni imposti dalla legge in materia di servitù prediali.
Il diritto di proprietà pertanto non potrà risultare di fatto svuotato dalla previsione di tali vincoli.
La chiara distinzione che deve tuttavia prevalere consiste sempre nella costituzione di un diritto reale (es. servitù) o nella previsione di un mero obbligo di natura personale (es. obbligo di non ascoltare musica alta nelle ore pomeridiane).
Solo per la prima varranno le regole esposte finora, mentre la seconda resterà una convenzione tra due o più persone che potrà essere opponibile solo a chi l’ha espressamente accettata.
La vita condominiale dunque potrà essere gestita dai condòmini sia mediante il classico regolamento condominiale-assembleare sia mediante la previsione di espresse pattuizioni negoziali che esulino dalla mera disciplina delle parti comuni o delle spese.
In tale frastagliato panorama di norme, è interessante notare come, stante la stringete attualità della materia, anche il Consiglio Nazionale del Notariato[196] abbia predisposto una guida volta a garantire adeguata informazione sulle vicende giuridiche principale in materia di proprietà condominiale.
Per concludere, qualora in ambito condominiale si vogliano prevedere delle pattuizioni entro i limiti di cui all’art. 1138 c.c. sarà sufficiente adottare con le maggioranze richieste una semplice modifica al classico regolamento (c.d. assembleare o proprio) di condominio.
Laddove invece i condòmini vogliano prevedere delle limitazioni o restrizioni al diritto di proprietà esclusiva delle singole unità immobiliari (riconosciute pacificamente come servitù reciproche), allora essi dovranno condensare le loro volontà all’interno di un vero e proprio negozio giuridico (c.d. regolamento negoziale o improprio) all’unanimità (o meglio, tutti uti singuli).
Affinché tali limitazioni siano opponibili a terzi è infine necessario che il relativo atto venga trascritto, applicandosi la disciplina in materia di costituzione, modifica o estinzione di diritti reali.
[1] L’articolo è stato redatto dal dottor Davide Ianni.
[2] In particolare, centrale sarà l’ancoraggio degli usi civici al tema della tutela ambientale ad opera del legislatore.
[3] Cass., Sez. Un., 10 maggio 2023, n.12570.
[4] Pugliatti, La proprietà e le proprietà con riguardo particolare alla proprietà terriera, Milano, 1954; Pugliatti, La proprietà nel nuovo diritto, Milano, 1964; Grossi, «Un altro modo di possedere». L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, in Quad. fiorentini, quinta edizione, Milano, 1977; Perlingeri, Introduzione alla problematica della «proprietà», Napoli, 2011; Volterra, Istituzioni di diritto privato romano, Roma, 1999; Caravale, Storia del diritto nell’Europa moderna e contemporanea, Bari, 2012; Bonfante, «Res mancipi» e «nec mancipi», in Forme primitive ed evoluzione della proprietà romana - Scritti giuridici varii, II edizione, Torino, 1926; Vincenti, I fondamenti del diritto occidentale, Roma-Bologna, 2010.
[5] Calasso, Medio Evo del diritto, I edizione, Milano, 1954; Grossi, Proprietà, (dir. Interm.), in Enc. Dir., Milano, 1988.
[6] Marinelli Scienza e storia del diritto civile, Bari, 2009, 70 ss.; Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata, II edizione, Bologna, 1990.
[7] Art. 1 della l. 2 agosto 1806: «La feudalità con tutte le sue attribuzioni resta abolita. Tutte le giurisdizioni sinora baronali, ed i proventi qualunque, che vi siano stati annessi, sono reintegrati alla sovranità, della quale saranno inseparabili».
[8] Tali usi consistevano principalmente nel pascere, acquare, pernottare, legnare.
[9] Cerulli Irelli, Proprietà collettive, demani civici ed usi civici, in «Un altro modo di possedere». Quaranta anni dopo, Milano, 2017; Marinelli, Usi civici, cit., 120 ss.; Cervale, Usi civici e domini collettivi. La proprietà plurale e il diritto civile. Trattato di diritto civile del Consiglio Nazionale del Notariato, diretto da P. Perlingeri, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2022, 111 ss.
[10] La menzionata legge del 1927 costituisce ancora oggi un importante punto di riferimento. Essa è infatti il primo intervento normativo di disciplina in materia di usi civici e risulta tutt’oggi vigente, dal momento che la successiva legge n. 168 del 2017 sui domini collettivi, seppur intervenuta dopo circa 90 anni, non ha abrogato la precedente. Al fine di dare attuazione concreta a quanto imposto dalla legge, sarà poi adottato il regolamento contenuto nel regio decreto n. 332 del 1928, con cui si andrà a disciplinare il riordino degli usi civici del Regno.
[11] Si arriverà, solo dopo molti anni, alla l. 29 giugno 1939 n. 1497 poi alla l. 8 agosto 1985 n. 431 (c.d. legge Galasso) ed inoltre all’art. 142, comma 1, lett. h) del d.lgs. n. 42 del 22 gennaio 2004 (c.d. Codice dei beni culturali e del paesaggio).
[12] Si pensi alla l. n. 221 del 28 dicembre 2015, con cui si persegue l’obiettivo di predisporre dei piani di intervento volti alla tutela ed alla conservazione dell’ambiente attraverso l’adozione di misure di c.d. green economy.
[13] In tale ottica, al fine dell’analisi della pronuncia in commento, è importante evidenziare come il legislatore del 2015 abbia previsto espressamente che i beni gravati da usi civici non potranno essere espropriati o asserviti coattivamente se non viene pronunciato il mutamento di destinazione d’uso, salva la necessità di contemperare tale interesse con l’eventuale presenza di opere di pubblica utilità.
[14] Il riferimento è ancora una volta alla l. n. 1766 del 1927 ed al regolamento di esecuzione n. 332 del 1928.
[15] Tra gli altri, come meglio si dirà in seguito, l’inserimento della nuova definizione «domini collettivi» nonché, quanto al regime giuridico dei beni gravati da uso civico, la conferma della loro indisponibilità, indivisibilità, inusucapibilità e perpetua destinazione agro-silvo-pastorale.
[16] Catalani, La collocazione sistematica degli assetti fondiari collettivi in funzione del rapporto tra comunità e ambiente, in Archivio Scialoja-Bolla, Napoli, 2014.
[17] Gambaro, Il diritto di proprietà, in Tratt. Dir. Civ. comm., Milano, 1995, 570 ss; Cerulli Irelli, Proprietà collettive, demani civici e usi civici, cit., 70 ss; Pugliatti, La proprietà e le proprietà, cit., 165 ss; Filograno, Quota e bene comune nella comunione ordinaria, Napoli, 1973, 30 ss.
[18] Segré, Sulla natura della comproprietà in diritto romano, in Riv. It. Sc. Giur., Roma, 1888; Perozzi, Saggio critico sulla teoria della comproprietà, in Scritti giuridici, I edizione, Milano, 1948, 436 ss; Guarino, Comunione (dir. Rom.), in Enc. Dir., VIII edizione, Milano, 1961, 230 ss.
[19] L’elemento che avvicina maggiormente gli usi civici al concetto di comunione è la progressiva erosione del carattere dell’assolutezza e dell’esclusività che connota il concetto tradizione di dominio e di proprietà.
[20] Anche qui parrebbe rinvenirsi in questo orientamento l’applicazione analogica della disciplina in tema di comunione legale dei coniugi a seguito dello scioglimento del vincolo matrimoniale, laddove da comunione «legale» si passa ad una comunione ordinaria divisa in quote eguali.
[21] Cervale, Usi civici e domini collettivi. La proprietà plurale e il diritto civile. Trattato di diritto civile del Consiglio Nazionale del Notariato, diretto da P. Perlingeri, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2022, 45 ss; Marinelli, Usi civici, cit.; Marinelli, Usi civici. Aspetti e problemi delle proprietà collettive, Napoli, 2000; ID., Un’altra proprietà. Usi civici, assetti fondiari collettivi, beni comuni, Pisa, 2019; De Lucia, Gli usi civici tra autonomia delle collettività e accentramento statale, in Giur. Cost., Milano, 2018.
[22] Sul punto Marinelli, Gli usi civici, cit., 191 ss; Gazzoni, Manuale di diritto privato, seconda edizione, Napoli, edizioni scientifiche italiane, 1990, 250; Natucci, La tipicità dei diritti reali, II edizione, Padova, 1988.
[23] Burdese, Ancora sulla natura e tipicità dei diritti reali, in Riv. Dir. Civ., Milano, 1983, 230 ss.
[24] Marinelli, Gli usi civici, cit., 191 ss; Cervale, Usi civici e domini collettivi. La proprietà plurale e il diritto civile. Trattato di diritto civile del Consiglio Nazionale del Notariato, diretto da P. Perlingeri, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2022, 125.
[25] Si ricordi che il principio di tipicità, tassatività e del c.d. numerus clausus dei diritti reali rappresenta oramai un principio di diritto consolidato, pacifico ed indiscusso del nostro ordinamento giuridico, ribadito in più occasioni anche dalla stessa giurisprudenza di Legittimità (si pensi da ultimo alla sentenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione del 17 dicembre 2020, n. 28972).
[26] Per il diritto d’uso, l’art. 1021 c.c. si riferisce al concetto di bisogno ed utilità che, seppur presente nell’istituto dell’uso civico, in quest’ultimo rimane ancorato alla collettività ed inoltre presenta una vocazione perpetua; diversamente, per quanto concerne la servitù, il suo elemento essenziale è rintracciato nella predialità, assente invece nel concetto di uso civico.
[27] Marinelli, Usi civici, cit., 200 ss.
[28] Ibidem.
[29] Natucci, La tipicità dei diritti reali, II edizione, Padova, 1988.
[30] Da ultimo, tra le sentenze che sostengono tale principio di diritto si veda: Corte di Cassazione a Sezioni Unite del 17 dicembre 2020, n.28972.
[31] Gazzoni, Manuale di diritto privato, cit., 251 ss; Giorgianni, Contributo alla teoria dei diritti di godimento su cosa altrui, ristampa del 1996.
[32] Il riferimento è alle citate norme: l. n. 1766/1927; r.d. n. 332/1928; l. n. 168/2017.
[33] Cass. civ., Sez. Un., 16 luglio 1958 n.2598, in Riv. Giur. Umbro-abruzzese, 1960, 200, con cui si afferma che a qualsiasi bene che risulti essere di proprietà dell’ente comunale deve essere riconosciuta in via presuntiva la natura demaniale.
Tale principio si consolida successivamente anche con la Cass. civ., 21 giugno 1966 n.1592, la quale richiama anche una precedente sentenza Cass. civ., 13 ottobre 1953 n.3345 in Riv. Dir. Agr., 1966, II, 330.
[34] Tale figura, mutuata dall’esperienza del Regno di Napoli quale organo che condensava su di sé funzioni amministrative e giurisdizionali, viene ripresa dalla legge del 1927, la quale istituisce presso le sedi di Corte d’ Appello la figura del Commissario Regionale agli usi civici, forgiando tale ruolo come una sorta di giudice speciale (rectius: specializzato) appartenente all’ordine giudiziario, sostituendosi nelle mansioni ai Prefetti e Commissari ripartitori.
L’articolo 29, comma 2 della legge 1766 del 1927 individua l’ambito della competenza giurisdizionale del Commissario stabilendo che: «I Commissari decideranno tutte le controversie circa la esistenza, la natura e la estensione dei diritti suddetti, comprese quelle nelle quali sia contestata la qualità demaniale del suolo o l'appartenenza a titolo particolare dei beni delle associazioni, nonché tutte le questioni a cui dia luogo lo svolgimento delle operazioni loro affidate».
[35] Cass. civ., 14 giugno 1954 n.1997; Cass. civ., Sez. Un, 13 novembre 1961 n.2653; Cass. civ., Sez. Un., 28 gennaio 1994 n.858.
[36] Cass. civ., 29 luglio 2016 n.15938; Cass. civ., Sez. Un., 26 febbraio 2019, n.5644.
[37] Cass. civ., Sez. Un., 24 giugno 2020, n.12482.
[38] Sul punto anche una parte della dottrina era giunta alle medesime conclusioni: Volante, Un terzo ordinamento civile della proprietà. La l. 20 novembre 2017 n. 168 in materia di domini collettivi, in Nuove leggi civili comm., 2018, 1067 ss.
[39] Cass. civ., 28 settembre 2011 n.19792.
[40] Cass. civ., Sez. Un., 10 novembre 1980 n.6017; Cass. civ., 24 luglio 1986 n.4749; Cass. civ., Sez. Un., 14 febbraio 2011 n.3665; Cass. civ., 16 febbraio 2011 n.3811.
[41] Cass. civ., Sez. Un., 22 aprile 2016 n.7021.
[42] Nello specifico, è stato ritenuto che l’appartenenza di un determinato bene al peculiare regime degli usi civici non si pone come elemento assolutamente preclusivo ai fini dell’applicazione delle norme sull’espropriazione forzata su tali beni.
[43] D.lgs. n. 42 del 2004: Codice dei beni culturali e del paesaggio.
[44] Giulietti, La gestione dei domini collettivi dopo la legge n. 168 del 2017, in Domini collettivi e usi civici, Roma, 2018; Cervale, Usi civici, diritto civile e tutela del paesaggio: la nuova legge sui domini collettivi, in Rass. dir. civ., Napoli, 2018.
[45] Si tratta, da ultimo, della Corte cost. n.228 del 2021.
[46] L’art. 12 della l. n. 1766 del 1927, norma di riferimento in materia di «affrancazione» dei terreni da usi civici, prevede infatti che sia necessario ed indefettibile un provvedimento di «sdemanializzazione».
[47] Principato, I profili costituzionali degli usi civici in re aliena e dei domini collettivi, in Usi civici e attività negoziale nella legalità costituzionale, Torino, 2018, 39 ss; Di Genio, Gli usi civici nel quadro costituzionale (alla luce della legge n. 168 del 20 novembre 2017), Torino, 2019.
[48] Corte App. Roma n.6 del 4 aprile 2017.
[49] Cass. civ., Sez. Un., 11 giugno 1973 n.1671.
[50] Cass. civ., sez. II, 26 aprile 2007 n.9986.
[51] Corte cost. 11 luglio 1989 n. 391; Corte cost. 12 maggio 1995 n. 156.
[52] Inalienabilità, inusucapibilità, indisponibilità, indivisibilità, imprescrittibilità.
[53] Il complesso principio di diritto enunciato dalla richiamata Cassazione del 1973 è il seguente: «Qualora i beni appartenenti a privati, sui quali si esercita l'uso civico, vengano espropriati per pubblica utilità prima della liquidazione prevista dalla legislazione in materia (L. 16 giugno 1927, n 1766 e R.D. 26 febbraio 1928, n 332) le ragioni derivanti dai diritti di uso civico si trasferiscono sulla indennità di espropriazione. Se, invece, l'uso civico si esercita su beni appartenenti alla collettività (terre possedute dai comuni, frazioni di comune, comunanze, partecipanze, università ed altre associazioni agrarie), il regime di inalienabilità e di indisponibilità cui i beni stessi sono assoggettati - e che permane, per quelli concessi in enfiteusi, fino all'eventuale affrancazione, e per quelli conservati ad uso civico fino al decreto del ministro dell'agricoltura che ne autorizza l'alienazione - comporta che i beni anzidetti non sono espropriabili per pubblica utilità se non previa “sdemanializzazione”».
[54] Orientamento sostenuto ed avallato dalla menzionata sentenza della Corte cost. n.391 del 1989.
[55] Si riporta appresso un passo della sentenza in commento: «Del resto, l'unica vera pronuncia contraria successiva - la sentenza n. 9986 del 2007 della II Sezione civile - è sostanzialmente apodittica, ponendo riferimento, a fronte di un motivo, rigettato, ampiamente approfondito e sviluppato (basato sull'univoco quadro giurisprudenziale precedente), ad un'asserita interpretazione sistematica - avallata dalla sentenza n. 391/1989 della Corte costituzionale - conducente alla conclusione che “diversamente dalla disciplina dei beni demaniali in senso stretto e tecnico, al regime di inalienabilità dei beni di uso civico non inerisce la condizione di beni non suscettibili di espropriazione forzata per pubblica utilità”, con la loro conseguente assoggettabilità a quest'ultima procedura. Conclusione, invero, adottata senza confrontarsi con la pregressa giurisprudenza di legittimità, ivi inclusa la citata sentenza delle Sezioni unite n. 1671/1973, ed obliterando anche la pressoché univoca giurisprudenza costituzionale, pur essa contraria alla tesi dell'espropriabilità per pubblica utilità dei beni collettivi gravati da usi civici (oltre alla pronuncia della Corte costituzionale n. 156/1995, si ricordano le ulteriori, precedenti, decisioni recanti i nn. 78/1961, 18/1965, 99/1969 e 93/1970), come desumibile - per quanto prima posto in risalto - anche da quella successiva e più recente».
[56] Rodotà, I beni comuni. L'inaspettata rinascita degli usi collettivi, Napoli, 2018.
[57] L’articolo è stato redatto dalla dottoressa Tiberi Tanya, dottoranda di ricerca in diritto privato.
[58] Se, infatti, la riforma del condominio è stata introdotta con la legge n. 220 del 2012, essa è, tuttavia, entrata in vigore solo l’anno successivo e, segnatamente, il 18 giugno 2013. Per un approfondimento sulla summenzionata riforma si vedano, comunque, A Celeste e A. Scarpa, Riforma del condominio. Primo commento alla legge 11 dicembre 2012 n. 220, Giuffrè, Milano, 2013, passim; F. Lazzaro, Il condominio dopo la riforma, Milano, 2013, passim; F. Ruscello, La riforma del condominio tra novità e problemi irrisolti, in Vita Not., 1/2013, 361 ss; P. Paciello, La riforma del condominio, in Riv. Notarile, 3/2013, 164 ss; M. Corona, La riforma del condominio - Prime riflessioni su alcune delle nuove disposizioni di interesse notarile (studio n. 320-2013/C), in Studi e materiali. Quaderni trimestrali. Consiglio Nazionale del Notariato, 3/2013, 729 ss; A. Musto, Contributo allo studio della riforma del condominio: temi e questioni d’interesse notarile (studio n. 906-2013/C), in Studi e materiali. Quaderni trimestrali. Consiglio Nazionale del Notariato, 2/2014, 263 ss.
[59] All’indomani della riforma del condominio, già evidenziava le questioni dalla stessa lasciate aperte V. Carbone, Luci e ombre sulla nuova disciplina del condominio negli edifici, in Corr. giur., 2013, 161.
[60] In proposito, G. Di Rosa, Profili ricostruttivi della nuova disciplina del condominio negli edifici, in Riv. dir. civ., 4/2013, p. 790 afferma che quella effettuata dal nostro legislatore rappresenta “una delle possibili scelte in ordine alle modalità d’intervento su una normativa esistente, atteso che il legislatore, a fronte della possibilità (come in buona sostanza è avvenuto) di recepire le soluzioni giurisprudenziali, avrebbe ben potuto individuare regole ex novo, volte a costruire modelli differenti, innovando, anche strutturalmente, lo stesso istituto giuridico in esame”.
[61] Sul punto, M. Cavallaro, Il condominio negli edifici. Condominio, amministratore e assemblea. La nuova disciplina (Artt. 1129-1137), in Il Codice Civile Commentario, fondato e già diretto da P. Schlesinger, continuato da F. D. Busnelli e G. Ponzanelli, Milano, 2021, 2 sottolinea che «se la legge di riforma non risolve, almeno in via diretta, il problema della qualificazione del condominio negli edifici in termini di ente dotato di personalità o comunque di una mera soggettività giuridica, pur tuttavia essa interviene per colmare lacune e per tentare di chiudere alcune questioni di tipo ermeneutico che il vecchio testo aveva posto, attraverso l’introduzione di norme specifiche che riprendono massime giurisprudenziali già consolidate, oppure mirano a sanare contrasti interpretativi sorti in sede dottrinale e giurisprudenziale».
[62] Il problema del contenzioso non è, del resto, nuovo alla materia condominiale, ove la necessaria coesistenza «di proprietà individuali e parti in proprietà comune» (così G. Di Rosa, La condominialità nell’acquisto di unità immobiliari urbane, in Riv. giur. sarda, 2011, 681) ben si presta a creare «liti e discordie, per dirimere le quali il ricorso al magistrato è diventato sempre più frequente», come affermato, già nella prima metà degli anni Sessanta, da L. Salis, Gli edifici in condominio, in Rassegne sistematiche di giurisprudenza, raccolte da A. M. Sandulli, Napoli, 1964, 5.
[63] In tema cfr. F. Manna, Il condominio al vaglio delle sezioni unite: importanti interventi nomofilattici a fronte di un legislatore un po’ disattento, in Aa. Vv., Comunione e condominio, 3/2021, Roma, 19 ss.
[64] La citazione è di D. R. Peretti Griva, Il condominio delle case divise in parti, Torino, 1960, 8.
[65] In tal senso, D. R. Peretti Griva, op. ult. cit., 4, sosteneva fin dagli anni Sessanta «la necessità di una particolare disciplina che, se in gran parte può essere disposta in forma contrattuale, con regolamenti condominiali, è bene tuttavia trovi posto in un sistema legislativo, tanto più quando si consideri la opportunità che a taluni precetti attinenti agli aspetti d’ordine pubblico della proprietà, della libertà di attività e della tutela giurisdizionale dei diritti dei singoli, è desiderabile sia conferito il carattere di inderogabilità».
[66] In particolare, S. Di Meglio, L’atto notarile come strumento di prevenzione o di risoluzione della lite, in L’atto pubblico notarile come strumento di tutela nella società dell’informazione, a cura di P. Sirena, Quaderni della Fondazione Italiana del Notariato. Le ricerche, 1/2013, consultabile al sito https://elibrary.fondazionenotariato.it/, definisce tale funzione di certificazione come «l’attività mediante la quale il notaio raccoglie e racchiude le dichiarazioni di scienza e di volontà di uno o più soggetti in un documento atto per legge a suscitare certezze legali e a fornire prova fino a querela di falso. Si dice a questo proposito che la funzione di certificazione consiste nell’attribuzione della pubblica fede».
[67] Sempre S. Di Meglio, L’atto notarile come strumento di prevenzione o di risoluzione della lite, cit., sottolinea che la funzione di adeguamento del notaio, riconducibile anche agli artt. 28 e 47 della L. 89/1913, si estrinseca «nel controllo di legalità dell’atto, nella indagine circa l’effettiva volontà delle parti e nella riconduzione di questa alla norma giuridica, indirizzandola verso la soluzione più appropriata anche sotto il profilo economico». Tale funzione fu evidenziata per la prima volta da M. D’Orazi Flavoni, Sul contenuto della prestazione notarile, in Vita not., 1959, 107 ss.
[68] Relativamente alla giustizia preventiva del notaio in ambito condominiale si vedano, ex multis, L. Barassi, Notariato e condominio: per un rinnovato contributo, in Il condominio negli edifici tra realtà e personalità, a cura di E. Marmocchi, Quaderni del notariato, Milano, 2007, 80; A. Pastore, Il condominio nelle riforme del settore edilizio, in Il condominio negli edifici tra realtà e personalità, cit., p. 95; M. Corona, Regolamento di condominio e trascrizione, in Profili notarili della riforma del condominio, a cura di E. Marmocchi, Quaderni del notariato, Milano, 2014, 126 ss.
[69] Il primo a sottolineare il ruolo antiprocessuale del notaio fu F. Carnelutti, La figura giuridica del notaio, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1950, 927: sua è, infatti, l’affermazione «tanto più notaio, tanto meno giudice».
Di funzione antiprocessuale del notaio parlano anche N. Lipari, Rinnovamento del diritto privato e funzione del notaio, in Riv. not., 1973, I, 1033; Id., Il ruolo del notaio nella nuova realtà delle nullità contrattuali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2002, I,378; G. Baralis, Atto pubblico e contrattazione semplificata, in Riv. not., 1978, 698 ss; S. Monticelli, Il sistema delle nullità contrattuali e la funzione notarile, in Notariato, 2010, 694; A. Becu, Clausole abusive e nullità di protezione: il ruolo del giudice e il ruolo del notaio, in Riv. not., 3/2010, 665 ss.
[70] In tal senso, E. Marmocchi, Presentazione del tema, in Il condominio negli edifici tra realtà e personalità. Atti del convegno di studi. Bologna, 7 e 8 ottobre 2005, Quaderni del notariato, 12, Milano, 2007, 289 parla di notaio come “levatrice del condominio”.
[71] Così definisce il notaio E. Marmocchi, Condominio e Notariato: un percorso comune, in Aa. Vv., Il contributo della prassi notarile alla evoluzione della disciplina delle situazioni reali. Atti del convegno di Firenze dell’8 maggio 2015, Quaderni della Fondazione Italiana del Notariato, 2015, 171.
[72] Le varie tipologie del condominio e l’avvenuto passaggio dalla vendita «sulla carta» al rent to buy, passando per la permuta di cosa presente con cosa futura sono magistralmente descritti sempre da E. Marmocchi, op. ult. cit., 173 e ss.
[73] Sul punto, D. R. Peretti Griva, op. cit., 8 sottolinea che «quegli che non ha il mezzo di assicurarsi una sua proprietà del tutto individuale -ciò che non sarebbe agevole ottenere nelle città, nelle quali l’economia edilizia e il costo delle aree debbono indirizzare alla costruzione di grandi e popolosi fabbricati- deve poter nondimeno trovare, nella casa divisa in piani o alloggi, un sostitutivo non troppo dissimile da quella, che gli consenta il soddisfacimento normale delle sue aspirazioni, e non lo costringa a un regime di costrizione e di sacrificio che lo faccia pentire di essersi determinato a un atto ispirato a sane finalità di previdenza».
[74] Proprio l’esigenza di contribuire a risolvere alcuni dei dubbi più frequenti in materia condominiale ha recentemente portato il Consiglio Nazionale del Notariato, le Associazioni dei Consumatori e l’ANACI a redigere con metodo casistico l’apposita guida «Vivere in condominio. Casi e risposte pratiche», consultabile al sito https://notariato.it/.
[75] Per un approfondimento sull’importantissimo ruolo del notaio nella vita e nella costituzione del condominio, nonché nelle vicende circolatorie delle unità immobiliari in condominio si veda M. Corona, Il notaio e il condominio: la giustizia preventiva nelle vicende condominali (studio n. 7-2018/C), approvato dalla Commissione Studi Civilistici il 29/05/2018, consultabile al sito https://notariato.it/; Id., La mutevolezza della compagine condominiale: trasferimento dell’unità immobiliare, nascita dell’obbligo contributivo, àmbito del vincolo di solidarietà, in Aa. Vv., Comunione e condominio, cit., 203 ss.
[76] È di tale avviso la preminente dottrina rappresentata, tra gli altri, da G. Scaduto, Del condominio negli edifici, in Comm. c.c. D’Amelio e Finzi, Firenze, 1942, 899 ss; D. Peretti Griva, op. cit., 35 ss; S. Pugliatti, La proprietà nel nuovo diritto, Milano, 1964, 168 ss; M. Costantino, Contributo alla teoria della proprietà, Napoli, 2019, 268 ss; M. Basile, Regime condominiale ed esigenze abitative, Milano, 1979, 16 ss; R. Triola, Manuale del condominio, Milano, 1995, 1 ss; A. Cerulo, Il condominio in generale, in R. Triola (a cura di), Il nuovo condominio, Torino, 2017, 1 ss.
[77] Per tutti, si veda C.M. Bianca, Diritto civile. La proprietà, IV, Milano, 1999, 501, ove l’Autore afferma che il condominio «è la coesistenza delle realtà abitative in proprietà esclusiva nell’ambito di una struttura comune».
[78] Sulla nascita del condominio, cfr., ex multis, Cass. Civ. 18 dicembre 2014, n. 26766, in Riv. giur. edil., 2015, I, 373 con nota di P. Scalletaris, Ancora a proposito dell’ambito di applicazione della disciplina del condominio e Cass. Civ. 16 ottobre 2017, n. 24301, in Riv. notariato, 6/2018, II, 1191.
[79] Distingue tra profilo oggettivo e soggettivo al fine di individuare i vari tipi di proprietà P. Perlingeri, Introduzione alla problematica della «proprietà», Napoli, 2011, 150; Id., Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-europeo delle fonti, III, Situazioni soggettive, Napoli, 2020, 273 ss.
[80] Così, F. Ruscello, Condominio negli edifici, rapporto di convivenza e principio di solidarietà, in Rass. Dir. civ., 1989, 847.
[81] Pur trovando entrambe le fattispecie il proprio fondamento nell'ampio diritto di proprietà e non potendo esistere il condominio senza gli spazi comuni, l’istituto condominiale non si limita alla mera comproprietà di questi ultimi, ma accompagna alla stessa anche diritti individuali sulle singole unità immobiliari.
Proprio al valore delle unità immobiliari risulta, inoltre, commisurato il diritto di ciascun condomino di godere degli spazi comuni: la disciplina del condominio prescinde, infatti, da quella presunzione di uguaglianza delle quote operante nella comunione, posto che nel primo i diritti sulle parti comuni sono volti a soddisfare il miglior godimento delle unità in proprietà esclusiva. Diversamente, poi, dalla comunione ordinaria -temporanea e normalmente divisibile (art.1111 cc.)- quella configurabile nel condominio è una comunione disposta dalla legge e tendenzialmente indivisibile (art. 1119 cc.). Il diritto del singolo condomino sulle parti ed enti comuni risulta, pertanto, irrinunciabile (art. 1118 co. 2 cc.) e di regola indisponibile separatamente dall’unità immobiliare di riferimento. Anche la disciplina delle spese è difforme tra i due istituti: nel condominio è, infatti, escluso il rimborso delle spese non urgenti sostenute dal singolo condomino nella gestione delle parti comuni senza autorizzazione dell’amministratore o dell’assemblea (art. 1134 cc.), invece ammesso nella comunione (art. 1110 cc.). Spese eccessivamente gravose o voluttuarie rispetto alle particolari condizioni e all'importanza dell’edificio possono, inoltre, esser sostenute anche da alcuni condomini per la realizzazione di innovazioni consistenti in opere, impianti e manufatti suscettibili di utilizzazione separata, senza che alle stesse siano chiamati a contribuire gli altri proprietari che non intendano trarne vantaggio (art. 1121 cc.).
Sempre il condominio e non la comunione (art. 1106 cc.) è, infine, caratterizzato da un modello organizzativo perentorio, che impone l’adozione di un regolamento laddove presenti più di 10 condomini (art. 1138 cc.), la nomina di un amministratore se i condomini superano il numero di 8 (art. 1129 cc.) e la regolare costituzione dell’assemblea per le deliberazioni (art. 1136 cc.).
Di conseguenza, rimarrebbero poche le norme della comunione applicabili anche al condominio, assecondando quel richiamo alla prima effettuato dall’art. 1139 cc.
Sul punto, A. Ciatti Càimi, La soggettività del «condominio», in Dieci anni dopo la riforma del condominio: antiche questioni irrisolte e nuove problematiche. Atti del convegno di studi a cura di A. Celeste, M. Corona e L. Salciarini. Cagliari, 20 maggio 2022, Akademeia, 2023, 20 afferma che «le ipotesi nelle quali l’interprete deve rivolgere il proprio sguardo alla comunione in generale si contano sulle dita di una sola mano. Si tratta delle regole sull’uso delle cose comuni e sull’estensione del diritto sulle cose stesse da parte del condominio (art. 1102, 1° e 2°comma), del ricorso all’autorità giudiziaria in caso di condominio minimo (ove non è praticabile il metodo collegiale per assumere le deliberazioni necessarie ad amministrare quelle stesse cose: v. art. 1105, 4° comma), del consenso unanime richiesto ai partecipanti per la stipula degli atti di alienazione o di costituzione di diritti reali sul fondo comune e per le locazioni ultranovennali (art. 1108, 3° comma) e finalmente dei limiti di validità del patto d’indivisione delle parti comuni, stipulato tra i contitolari (art. 1111, 2° comma). Altre ipotesi in cui sia necessario riguardare alla comunione non mi pare ve ne siano».
[82] Tale è l’opinione della dottrina tradizionale. In proposito si veda, tra gli scritti più recenti, S. Cervelli, I diritti reali, IV ed., Milano, 2019, 329 ove l’Autrice afferma che «le parti comuni sono funzionalmente connesse alle singole unità abitative: questa connessione spiega la specialità del condominio, che rientra nella nozione di comunione, ed è pertanto regolato dalle norme di quest’ultima, ma si qualifica come «comunione speciale» data la particolarità del suo oggetto».
[83] Lo stesso codice civile del 1865 inseriva il condominio, nei pochi articoli allo stesso dedicati (artt. 562-564 cc.), nella Sezione «Delle servitù stabilite dalla legge», tanto che parte della dottrina del tempo inquadrava i reciproci rapporti condominiali nelle servitù o nei limiti legali del diritto di proprietà.
[84] Già R. Corona, Contributo alla teoria del condominio negli edifici, Giuffrè, Milano, 1974, 9, rimprovera «l’unanime passiva accettazione dell’opinione tradizionale, che il condominio negli edifici considera come una specie di comunione di proprietà, da cui si distinguerebbe soltanto per il peculiare oggetto».
[85] Tra i moltissimi Autori che si sono occupati del tema della soggettività del condominio si veda, in particolare, R. Corona, Appunti sulla situazione soggettiva di condominio, in Riv. not., 2006, pp. 633 e ss.
[86] Di tale avviso, tra gli altri, L. Salis, Il condominio negli edifici, in Tratt. dir. civ., diretto da F. Vassalli, Torino, 1956, 220.
[87] Non è, infatti, ivi riconosciuta la soggettività giuridica della cd. assembleia dos condóminos. Sul punto, cfr. V. J. A. de França pitão e G. França pitão, Condomínio e Propriedade Horizontal, 2a Ed., Lisboa, 2020, 123.
[88] Sul punto, G. Branca, Comunione, condominio negli edifici, in Comm. cod. civ., A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1965, 360 sottolinea che «il condominio è soprattutto comunione di cose e di opere d’un medesimo stabile; è, perciò, un ente collettivo proprietario come tale di esse».
In direzione simile si pone anche C. M. Bianca, Nozione di condominio, in Il condominio, a cura di C. M. Bianca, Torino, 2007, nn. 1-9, 1 ss.
[89] In particolare, in Francia già la legge n. 65-557 del 10 luglio 1965, riconosceva espressamente la soggettività del cd. syndicat des copropriétaires.
Quanto alla personalità giuridica dell’associazione dei contitolari (vereniging van mede-eigenaars) in Belgio si veda A. Salvé, La copropriétés forcées dans la réforme du droit des biens, in Le nouveau droit des biens, sous la direction de P. Lecocq e altri, Bruxelles, 2020, 188.
La soggettività giuridica della proprietà per piani (Stockwerkeigentum) svizzera è, infine, ricavabile dall’art. 712 del codice civile.
[90] Si veda, per tutti, F. Girino, Il condominio negli edifici, in Tratt. dir. priv., diretto da P. Rescigno, Torino, 1982, 340. In proposito, A. Scarpa, L’interesse istituzionale del condominio approda nelle sentenze, in Amministrazione immobili, 2012, n.162, 148 evidenzia che «si professa, così, una distinzione tra la situazione giuridica di contitolarità dei diritti e d’organizzazione dei condomini, dotata di propri organi aventi competenze esclusive e, in quanto tali, con imputazioni di diritti e doveri».
[91] In tal senso, già Cass. 22 febbraio 1957, Condominio via Bezzecca-Gori, in Mass. Giur. ital., 1957, 141; Cass., 17 gennaio 1977, n.227, in Giust. civ., 1977, I, 828 con nota di Albino e in Foro it., 1977, I, 648 con nota critica di Branca. Più di recente cfr. Cass. 6 febbraio 2013, n.2840; Cass. 19 febbraio 2013, n.4008; Cass. 21 febbraio 2013, n.4338; Cass. 21 giugno 2013, n.15713. Contra, Cass. SS. UU. 8 aprile 2008, n.9148, in Imm. e propr., 2008, 5, 311.
[92] Ancorché la giurisprudenza interpreti questa legittimazione dei singoli condomini come ulteriore conferma della teoria dell’ente di mera gestione, alcuni Autori, come V. De Gioia, Condominio. Diritti, obblighi, gestione, tutela processuale e mediazione, Torino, 2010, 410, evidenziano come la figura dell’ente, anche di gestione, non ammetta la surrogazione dei propri rappresentanti da parte dei singoli partecipanti.
[93] Così, F. Lorenzini, Codice commentato del nuovo condominio, Santarcangelo di Romagna, 2013, 178 e M. Monegat, Riforma del condominio, Milano, 2013, 284-285, ove l’Autrice dà atto che, pur dovendosi ancora intendere il condominio come «una organizzazione del gruppo, che non realizza la soggettività e neppure la esprime (…), la necessità sentita dal nuovo legislatore di intervenire sull’art. 2659 c.c. senza dubbio è destinata a lasciare spazio ad ampia discussione e magari anche ad una nuova rivisitazione del concetto di condominio».
Per un’interpretazione in tal senso è, comunque, necessario intendere la norma nel suo significato letterale e la trascrizione come avente funzione di pubblicità dichiarativa. Di quest’ultimo avviso è anche F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2013, 284-285.
[94] Invero, a seguito della riforma del 2012 e, dunque, successivamente alla modificazione dell’art. 2659 co. 1 c.c., anche qualche pronuncia della giurisprudenza di legittimità sembra aprire alla soggettività giuridica del condominio. In particolare, cfr. Cass. SS. UU. 18 settembre 2014, n.19663, ove è possibile leggere che «nel caso di giudizio intentato dal Condominio e del quale, pur trattandosi di diritti connessi alla partecipazione di singoli condomini al condominio, costoro non siano stati parti, spetta esclusivamente al Condominio, in persona del suo amministratore, a ciò autorizzato da delibera assembleare, far valere il diritto alla equa riparazione per la durata irragionevole di detto giudizio».
[95] G. Cassano, Manuale pratico del nuovo condominio, Santarcangelo di Romagna, 2013, 8-9; P. Petrelli, L’amministratore di condominio e le novità introdotte dalla legge di riforma sul condominio n. 220 dell’11 dicembre 2012, in Giur. it., 2013, 7, 1709.
[96] Tra gli autori contrari a ricondurre all’art 2659 co. 1 cc. il riconoscimento della soggettività giuridica del condominio, A. Cerulo, Il condominio in generale, in Il nuovo condominio, a cura di R. Triola, Torino, 2013, 24. Sul punto, A. Musto, Contributo allo studio della riforma del condominio: temi e questioni di interesse notarile (studio n. 906-2013/C), approvato dall’Area Scientifica-Studi Civilistici il 15 gennaio 2014 ed approvato dal CNN il 21 febbraio 2014, pubblicato in Studi e materiali, 2/2014, 263 ss. evidenzia che in tal senso andrebbero, per parte della dottrina: la Relazione di accompagnamento al disegno definitivo approvato dalla Camera, il nuovo art. 63 co. 2 disp. att. c.c., l’assenza di una norma analoga a quella di cui all’art. 37 e la nuova stesura dell’art. 1129 c.c., ove è fatto rinvio al mandato. Secondo tale orientamento, la trascrizione di cui all’art. 2659 co. 1 c.c. ha, dunque, valore di mera pubblicità notizia (così, G. Baralis, Pubblicità immobiliare e condominio dopo la legge di riforma, in Giur. it., 2013, 8/9, 1959 ss).
[97] In particolare, si veda Cass. SS. UU. 18 aprile 2019, n.10934, in cui la Suprema Corte ha modo di affermare che «la portata di S.U. 19663/14 va circoscritta alla peculiare situazione giuridica esaminata, cioè a quel diritto all’equa riparazione regolato dalle disposizioni sovranazionali prima ancora che da quelle nazionali di impronta applicativa» e che «l’impostazione tradizionale valorizza l’assenza di personalità giuridica del condominio e la sua limitata facoltà di agire e resistere in giudizio tramite l’amministratore nell’ambito dei poteri conferitigli dalla legge e dall’assemblea e per questa via giunge ad attribuire ai singoli condomini la legittimazione ad agire per la tutela dei diritti comuni e di quelli personali».
[98] In dottrina, parla di rappresentanza ex lege, tra gli altri, G. Palmieri, L’amministratore di condominio edilizio ed i suoi poteri rappresentativi in giudizio, in Dir. e giur., 1955, 112. Alla rappresentanza organica si riferisce, invece, G. Branca, Comunione. Condominio negli edifici, in Comm. Scialoja-Branca, sub artt. 1100-1139, Bologna-Roma, 1954, 405.
[99] Non mancano, infatti, orientamenti minoritari che inquadrano l’amministratore di condominio come un ufficio di diritto privato (così U. Natoli, La proprietà. Appunti delle lezioni, Milano, 1976, 270-271; A. Giusti, Il condominio negli edifici, in Tratt. dir. civ., II, t. II, a cura di Lipari e Rescigno, Milano, 2009, 302).
Altra parte della dottrina sostiene che quello tra il condominio ed il professionista sia un contratto di amministrazione (per tutti, cfr. R. Amagliani, L’amministratore, in Condominio negli edifici e comunione, a cura di Basile, in Trattato dei diritti reali, a cura di Gambaro e Morello, Milano, 2012, 372) o di mandato «strictu sensu professionale» (vedi G. Di Rosa, Prime note sulla riforma del condominio negli edifici, cit., 32-33). A. Luminoso, Il rapporto di amministrazione condominiale, in Riv. giur. sarda, 2017, 221 afferma, infine, che amministratore e partecipanti al condominio sono legati da due distinti rapporti giuridici tra loro funzionalmente collegati.
[100] Sostengono che l’amministratore vada a tutelare con la sua attività l’interesse dei singoli condomini, L. Salis, Condominio negli edifici, in NN. D. I., III, Torino, 1957, 1149; F. Girino e G. Baroli, voce Condominio negli edifici, in Dig. disc. priv., sez. civ., III, Torino, 1988, 417 ss; R. Triola, Beni, proprietà diritti reali, III, Il condominio, in Tratt. dir. priv., diretto da Bessone, VII, Torino, 2002, 178 ss; M. Dogliotti e A. Figone, voce Condominio, in Dig. disc. priv., sez. civ., Agg. II, t. I, Torino, 2003, 379.
In giurisprudenza, cfr. Cass. 16 aprile 2012, n.5984, in Riv. giur. edil., 2012, 650.
[101] In tal senso, ex multis, Cass. 22 maggio 2015, n.10679 e Cass. 16 maggio 2017, n.12164.
Tale orientamento appare, inoltre, avallato anche dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (cfr. Corte giust., 2 aprile 2020, c. C-329/2019, Condominio di Milano, via Meda, c. Eurothermo SpA, in Corr. giur., 2020, 893 ss) che, pur non fornendo una soluzione diretta ed univoca sul punto, non esclude che, laddove il singolo Stato lo ritenga opportuno, possa estendere la disciplina del consumo anche alla realtà condominiale.
[102] Sul punto cfr. F. G. Viterbo, Variabilità e relatività dei rapporti condominiali. Proprietà, persone, «gruppo», in P. Perlingeri (a cura di), Pubblicazioni della Scuola di specializzazione in diritto civile dell’Università di Camerino, Napoli, 2021, 199-200.
[103] Se la giurisprudenza più risalente chiamava i condomini a rispondere solidalmente delle obbligazioni contratte dall’amministratore del condominio, la Cass. SS. UU. 8 aprile 2008, n 9148, rovesciando tale orientamento, ha sancito che in tale fattispecie l’obbligazione dei condomini dovesse intendersi come parziaria. La modifica dell’art. 63 disp. att. C.c. a seguito della riforma del condominio del 2012 ha, infine, optato per la solidarietà, limitando, però, la facoltà di scelta del creditore, potendo quest’ultimo aggredire il patrimonio dei condomini in regola con i pagamenti solo dopo aver escusso gli altri morosi. Per un approfondimento sul punto si veda, comunque, J. Alcini, Il condomino in regola con i pagamenti può opporsi al precetto eccependo la preventiva escussione dei morosi, in Riv. Cammino diritto, 4/2023, 2 ss.
[104] Con particolare riferimento alla non tassatività dell’art. 1117 cc. si vedano M. Dogliotti, Comunione e condominio, Torino, 2006, 172 e A. Scrima, Le parti comuni, in R. Triola (a cura di), Il nuovo condominio, Torino, 2013, 35 ss.
In giurisprudenza, cfr. Cass. Civ., 6 luglio 2011, n.14885, in Riv. giur. edil., 2011, I, p. 1215; Cass. Civ., 23 settembre 2011, n.19490; Cass. Civ. 26 luglio 2012, n.13262, in Diritto & Giustizia, 27 luglio 2012; Cass. Civ., 29 gennaio 2014, n.1947, in Riv. giur. edil., 3/2014, I, 537; Cass. Civ., sez. II, 29 gennaio 2015, n.1680, in Archivio delle locazioni, 3/2015, 281; Cass. Civ., sez. II, 14 giugno 2017, n.14794, in Diritto & Giustizia, 15 giugno 2017.
[105] Un dibattito di notevole interesse -date le rilevanti conseguenze pratiche- ha avuto modo di svilupparsi proprio in riferimento alla titolarità del suolo su cui sorge l’edificio. Durante la vigenza del codice del 1865 -che inseriva la disciplina del condominio nella parte dedicata alle servitù legali- molto diffusa era, infatti, l’opinione che considerava il suolo di proprietà del titolare del piano terreno, al quale venivano riconosciuti tutti i diritti alle modificazioni e costruzioni al di sopra o al di sotto dello stesso, sia pur entro i limiti della servitus oneris ferendi. Il tenore letterale dell’art. 1117 del codice civile del 1942 appare, invece, superare tale interpretazione, inserendo il suolo su cui sorge l’edificio tra i beni di proprietà comune.
Non mancano, tuttavia, opinioni discordanti che, mettendo in relazione la presunzione della condominialità di tali beni con l’atteggiamento ostile alla comunione presente nell’intero assetto codicistico, ritengono preferibile intendere le parti necessarie all’uso comune (e, dunque, anche il suolo) come beni in proprietà esclusiva, salvo che non si renda indispensabile l’inquadramento nella proprietà comune; in quest’ultimo senso cfr. D. R. Peretti Griva, op. cit., 86 ss.
[106] Secondo Cass. Civ. 30 agosto 2004, n.17398, il decoro architettonico ex art. 1120 cc. attiene a tutto ciò che si riferisce alle linee essenziali del fabbricato, cioè alla sua particolare struttura e fisionomia estetica ed armonica, che contribuisce a dare ad esso una sua specifica identità.
[107] Caso che, peraltro, si è posto anche in riferimento alle “opere, installazioni, manufatti ed impianti destinati all’uso comune” di cui all’art. 1117 co. 1 n. 3 c.c. come magistralmente sottolineato da C. Costabile, L’estensione della proprietà condominiale ad edifici autonomi e separati dal condominio, in Imm. propr., 2013, 8/9, 489 ss.
[108] Diverso dall’oggettiva destinazione del bene a servire solo una parte delle unità abitative in condominio è l’eventuale maggiore o minore uso o godimento che un condomino può esercitare su un bene oggettivamente destinato a servire l’intero complesso condominiale, come ad esempio accade per l’unica scala o l’unico ascensore volti a servire tutte le unità immobiliari dell’edificio, ma destinati ad esser maggiormente utilizzati da chi abita nei piani superiori dello stesso.
[109] Sull’ammissibilità del condominio parziale, si veda, in particolare, Cass. Civ. 12 febbraio 2001, n.1959, in Giust. civ., 2001, I, 1538, nel cui testo è possibile leggere che «come è noto l'esistenza del condominio parziale è ritenuta possibile sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza (cfr. ex plurimis: Cass. Civ. 27 febbraio1995, n.7885; Cass. Civ. 2 febbraio 1995, n.1255; Cass. Civ. 29 ottobre 1992, n.11775; Cass. SS. UU. 7 luglio 1993, n.7449) allorché all'interno del cd. condominio allargato talune cose -qualificate come comuni ex art. 1117 c.c.- siano per oggettivi caratteri materiali e funzionali necessarie per l'esistenza o per l'uso, ovvero siano destinate all'uso o al servizio, non di tutto l'edificio, ma di una sola parte o di alcune unità abitative di esso».
[110] Così anche la recente Cass. Civ., sez. II, 22 giugno 2022, n.20112, in Guida al diritto, 2022, 31-32.
[111] Il quarto comma dell’art. 1123 cc. enuncia, infatti, che «qualora un edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinati a servire una parte dell'intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo di condomini che ne trae utilità».
[112] Con particolare riferimento alle aree destinate al parcheggio occorre distinguere a seconda che si tratti di posti auto «Ponte», di posti auto «Tognoli», ovvero di parcheggi liberi.
Disciplinata nell’art. 41-sexies della L. 17 agosto 1942, n.1150, la prima categoria si compone di parcheggi cd. obbligatori, non potendo la Pubblica Amministrazione rilasciare il necessario provvedimento abilitativo a costruire se nel progetto non sia contemplata un’apposita area riservata a tali parcheggi, nel rispetto, peraltro, del rapporto planovolumetrico fissato dalla legge ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione.
I parcheggi «Tognoli» vengono, invece, distinti dall’art. 9 della legge 24 marzo 1989, n. 122 in privati e pubblici a seconda del luogo di realizzazione: se, infatti, entrambe le tipologie sono rappresentate da posti auto cd. facoltativi, i parcheggi «Tognoli» privati sono, tuttavia, realizzati nel sottosuolo dell’edificio o di aree pertinenziali esterne allo stesso, ovvero nei locali posti al piano terra del fabbricato, mentre i parcheggi «Tognoli» pubblici trovano allocazione su aree comunali o nel sottosuolo delle medesime e vengono concessi ai proprietari delle singole unità immobiliari in diritto di superficie. Per gli spazi privati destinati a parcheggio non assoggettati alla disciplina prevista dalla legge “Ponte" e non ricompresi neppure nella categoria dei posti auto «Tognoli», la dottrina e la giurisprudenza hanno, infine, elaborato l’apposita categoria dei cd. parcheggi liberi, nella quale venivano inizialmente ricondotti: i) i parcheggi realizzati prima del 1 settembre 1967 (data dell’entrata in vigore della legge «Ponte»); ii) i parcheggi costruiti in eccedenza rispetto allo standard urbanistico di cui all’art. 41-sexies della legge 17 agosto 1942, n.1150, ritenendo l’orientamento prevalente che la costituzione del vincolo pertinenziale inerente agli stessi fosse rimessa alla volontà e all’autonomia del proprietario; iii) i parcheggi costruiti successivamente all’edificio con i comuni titoli abilitativi e senza alcuna agevolazione prevista dalla normativa «Tognoli». A seguito dell’entrata in vigore dell’art. 12 co. 9 della legge 28 novembre 2005, n.246 si sono, peraltro, aggiunti agli spazi appena descritti anche i parcheggi «Ponte» realizzati, nel periodo successivo alla stessa, insieme all’edificio condominiale.
[113] In tal senso, cfr. A. C. Nazzaro, Parti comuni nel condominio tra declino della logica proprietaria e qualità dell’abitare, in Rass. dir. civ., XXXVI, 3/2015, 892.
[114] In particolare, sul titolo contrario M. Cavallaro, Il condominio negli edifici. Condominio, amministratore e assemblea. La nuova disciplina (Artt. 1129-1137), in Il Codice Civile Commentario, cit., Milano, 2021, 5 afferma che “una più puntuale disciplina del cd. titolo contrario avrebbe concorso a superare una serie di dubbi interpretativi riguardanti la forma e il contenuto dello stesso, e la relativa opponibilità agli aventi causa, nonché la sostituibilità dello stesso con destinazioni di fatto del bene che ne escluderebbero la contitolarità”.
[115] Cfr. Cass. Civ., sez. II, 07 agosto 2002, n.11877, in Rass. locazioni condom., 2003, 112 ove si sottolinea che «al fine di stabilire se sussista un titolo contrario alla presunzione di comunione di cui all'art. 1117 c.c., occorre fare riferimento all'atto costitutivo del condominio e, quindi, al primo atto di trasferimento di un'unità immobiliare dell'originario proprietario ad altro soggetto, atto dal quale, peraltro, devono risultare in modo chiaro ed inequivocabile elementi rivelatori della esclusione della condominialità del cortile»; Cass. Civ., sez. II, 27 maggio 2011, n.11812, in Giust. civ. Mass. 5/2011, 823; Cass. Civ., sez. II, 06 marzo 2012, n.3473; Cass. Civ., sez. II, 05 maggio 2016, n.9035; Cass. Civ., sez. II, 09 agosto 2018, n.20693.
[116] In tal senso si veda, ex alteris, Cass. Civ. 13 marzo 2009, n.6175.
[117] Definisce il regolamento condominiale come la “legge interna del condominio” R. Cusano, Il nuovo condominio, Napoli, 2015, 137.
In tema di regolamento condominiale, la letteratura è, peraltro, vastissima: tra gli altri, si vedano, M. Andreoli, I regolamenti di condominio, Torino, 1961, passim; L. Salis, Regolamento contrattuale di condominio e regolamento predisposto, In Scritti in onore di S. Pugliatti, I, 2, Milano, 1978, 1827 ss; F. Ruscello, I regolamenti di condomino, Napoli, 1980, passim; Id., «Nuovo» condominio e…«vecchio» regolamento. Riflessioni sulla proposta di (non) riforma del regolamento di condominio, in Nuova giur. Civ. Comm., 2012, 413 ss; N. Proto, Regolamento di condominio e limitazioni della proprietà: il punto su dottrina e giurisprudenza, in Riv. not., 1986, 661 ss; E. Del Prato, I regolamenti privati, Milano, 1988, 113 ss; A. Scarpa, Le norme inderogabili e il regolamento di condominio cd. «contrattuale», in Imm. Propr., 2019, 499 ss.
[118] Il regolamento condominiale giudiziale è, infatti, approvato dal giudice -su iniziativa anche di un singolo condomino ex art. 1138 co. 2 c.c.- laddove, in un condominio con più di dieci partecipanti, l’assemblea non abbia provveduto, ovvero abbia rigettato, o, ancora, non sia riuscita a trovare un accordo circa la formazione del regolamento stesso. Esso rappresenta, pertanto, un regolamento coattivamente adottato e produttivo di effetti vincolanti per tutti i partecipanti al condominio dal passaggio in giudicato della sentenza (art. 2909 c.c.).
[119] In tal senso, cfr. Cass. Civ., sez. II, 21 maggio 2008, n.12850, in Giust. civ. Mass., 5/2008, 769 ove si afferma che «il regolamento di condominio cosiddetto contrattuale, quali ne siano il meccanismo di produzione ed il momento della sua efficacia, si configura, dal punto di vista strutturale, come un contratto plurilaterale, avente cioè pluralità di parti e scopo comune (…)».
[120] La predisposizione del futuro regolamento condominiale, con il vincolo della sua osservanza, può anche esser effettuata dal costruttore o dall’unico proprietario dell’edificio nel testamento in cui lo stesso disponga delle singole unità abitative a favore degli eredi o legatari.
È, peraltro, ritenuto nullo per indeterminatezza dell’oggetto il cd. mandato in bianco con cui l’acquirente conferisce al venditore (costruttore o primo unico proprietario) il potere di redigere in un successivo momento il regolamento condominiale, non ancora predisposto al momento della vendita.
Così Cass. Civ., sez. II, 6 agosto 1999, n.8486, in Notariato, 1999, 508; Cass. Civ., sez. II, 26 gennaio 2000, n.856, in Riv. not., 2000, 931 e la più recente Cass. Civ., sez. II, 11 aprile 2014, n.8606, in Riv. not., 2014, 506.
[121] In particolare l’art. 3 co. 1 lett. a) del codice del consumo definisce come consumatore «la persona fisica che agisce per scopi estranei all'attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta».
[122] Al fine di tutelare il consumatore l’art. 36 co. 2 lett. c) del codice del consumo statuisce, infatti, la nullità di quelle clausole che, quantunque oggetto di trattativa, abbiano per oggetto o per effetto di «prevedere l'adesione del consumatore come estesa a clausole che non ha avuto, di fatto, la possibilità di conoscere prima della conclusione del contratto».
[123] In tema, cfr. M. Corona, Il notaio e il condominio: la giustizia preventiva nelle vicende condominiali, Studio n.7-2018/C, approvato dalla Commissione Studi Civilistici il 29/05/2018 e consultabile al link https://notariato.it/.
[124] Sul punto, la Cass. SS. UU. 30 dicembre 1999, n. 943 in Giust. Civ., 2000, I, 320 ha statuito, infatti, che solo il regolamento contrattuale può contenere clausole che limitino i diritti dei condomini sulle proprietà esclusive o comuni o clausole che attribuiscano ad alcuni condomini maggiori diritti rispetto agli altri.
[125] Particolarmente interessante è, in tema, la pronuncia della Cass. Civ., sez. II, 27 maggio 2016, n.11034, in condominioelocazione.it, con nota di A. Celeste, È vietato assegnare a maggioranza in via esclusiva e a tempo indefinito i posti auto del cortile, in cui l’Autore ha modo di evidenziare: i) l’illegittimità dell’assegnazione, attraverso una delibera assembleare adottata a maggioranza, di posti macchina all’interno di un’area condominiale in via esclusiva e per un tempo indefinito (al di fuori, dunque, di ogni logica di turnazione), determinando ciò una limitazione dell’uso e del godimento che gli altri condomini hanno diritto di esercitare sul bene comune; ii) la nullità della delibera assembleare adottata a maggioranza che abbia approvato tale utilizzazione.
[126] In tema di ripartizione delle spese e delibere assembleari, la Cass. SS. UU. 14 aprile 2021, n.9839, in Giust. Civ. Mass., 2021 statuisce che «sono nulle le deliberazioni con le quali, a maggioranza, siano stabiliti o modificati i generali criteri di ripartizione delle spese previsti dalla legge o dalla convenzione, da valere per il futuro, trattandosi di materia che esula dalle attribuzioni dell'assemblea previste dall'art. 1135, nn. 2) e 3), c.c., mentre sono meramente annullabili le deliberazioni aventi ad oggetto la ripartizione in concreto tra i condomini delle spese relative alla gestione delle parti e dei servizi comuni adottate in violazione dei criteri generali previsti dalla legge o dalla convenzione stessi, trattandosi di deliberazioni assunte nell'esercizio di dette attribuzioni assembleari, cosicché la relativa impugnazione va proposta nel termine di decadenza previsto dall'art. 1137, comma 2, c.c. ».
[127] C. Iorio, Atti di rinuncia ed atti unilaterali, in Aa. Vv., La trascrizione, opera diretta da E. Damiani, Zanichelli Editore, 2023, 182 sottolinea che «tale allegazione ha funzione di pubblicità notizia, e va distinta dall’eventuale trascrizione di talune sue clausole».
[128] Terminologia ripresa da Cass. SS. UU. 30 dicembre 1999, n. 943, in Giust. Civ., 2000, I, 320.
Relativamente alle clausole «limitatrici dei diritti dei condomini sulle proprietà esclusive o comuni» più frequenti nella prassi, si segnalano, in particolare, quelle che impongono o vietano specifiche destinazioni a tutte le unità immobiliari o alcune soltanto delle stesse, quelle che vietano l’esercizio di determinate attività nelle unità immobiliari, nonché quelle che vietano di possedere o detenere animali domestici, laddove, però, non si consideri come imperativo l’art. 1138, ultimo comma, cc. in cui si afferma che «le norme del regolamento non possono vietare di possedere o detenere animali domestici».
Esempio di clausole che attribuiscono ad alcuni condomini maggiori diritti rispetto agli altri è, invece, costituito dai cd. usi individuali, richiamati anche dall’art. 1122 c.c.
[129] Sull’evocazione da parte della giurisprudenza di legittimità di un regolamento condominiale «regolarmente trascritto», cfr., ex multis, Cass. Civ., sez. II, 17 marzo 1994, n.2546, in Giust. civ., 1994, I, 1481 con nota di R. Triola, La trascrizione delle limitazioni alle proprietà individuali previste nel regolamento di condominio; Cass. Civ., sez. II, 15 aprile 1999, n.3749; Cass. Civ., sez. II, 18 aprile 2002, n.5626; Cass. Civ., sez. II, 31 luglio 2014, n.17493.
[130] Di tale circolare si occupa M. Corona, op. ult. cit., il quale sottolinea che la stessa abbia portato all’affermazione della prassi di far ricevere al notaio il verbale di deposito e custodia tra i suoi atti del regolamento contrattuale di condominio per eseguirne la trascrizione negli uffici dei registri immobiliari; prassi, peraltro, fortemente criticata in dottrina.
[131] Se, infatti, la giurisprudenza più risalente propendeva ad inquadrare le limitazioni contenute nel regolamento contrattuale come oneri reali (v., per tutte, Cass. Civ., sez. II, 18 ottobre 1991, n.11019, in Arch. loc., 1992, 287), ovvero come obbligazioni propter rem (così, tra le altre, Cass. Civ., sez. II, 5 settembre 2000, n.11684, in Giur. it., 2001, 446) -non passibili di trascrizione poiché non espressamente richiamati dall’art. 2643 c.c.- gli orientamenti più recenti hanno ricondotto le stesse tra le servitù (in tal senso, Cass. Civ., sez. II, 25 ottobre 2001, n.13164, in Arch. loc., 2002, 292) e, da ultimo, tra le servitù atipiche reciproche (cfr. Cass. Civ., sez. II, 18 ottobre 2016, n.21024, in Riv. Giur. Edil., 6/2016, I, 1040; Cass. Civ., sez. II, 19 marzo 2018, n.6769).
[132] In tal senso, v. Cass. Civ., 25 febbraio 2022, n.6357, in Diritto e Giustizia, 40/2022, 5 con nota di D. Palombella, Quando valgono i vincoli contenuti nel regolamento di condominio? Secondo tale pronuncia non si deve, dunque, provvedere alla trascrizione del regolamento, ma della convenzione costitutiva delle servitù reciproche, essendo quest’ultima una clausola del regolamento solo formalmente.
[133] Laddove ravvisabile una servitù reciproca occorre, infatti, trascrivere sia «a favore» dell’alienante e «contro» l’acquirente sia «a favore» dell’acquirente e «contro» l’alienante, ripetendosi tale meccanismo fino alla vendita dell’ultima unità abitativa.
Sul punto, V. A. Ciatti Càimi, Della trascrizione degli atti relativi ai beni immobili, in Comm. Schlesinger, Milano, 2018, 237 ss.
[134] Sempre nella pronuncia della Cass. Civ., 25 febbraio 2022, n.6357, cit., si afferma infatti che «in assenza di trascrizione queste disposizioni del regolamento, che stabiliscono limiti alla destinazione delle proprietà esclusive, valgono soltanto nei confronti del terzo acquirente che nel medesimo contratto d’acquisto prenda atto in maniera specifica del vincolo reale gravante sull’immobile, manifestando tale presa d’atto con una dichiarazione di conoscenza comprendente la precisa indicazione dello ius in re aliena gravante sull’immobile oggetto del contratto».
[135] Le note a tale sentenza sono moltissime. Tra le altre, si segnalano, A. Torroni, Il diritto di uso esclusivo in ambito condominiale al vaglio delle Sezioni Unite. La Cassazione snobba la servitù e mette all’indice l’uso esclusivo, in Riv. del Notariato, 1/2021, 70 ss; M. Carpinelli, La parabola del diritto «reale» di uso esclusivo su beni condominiali, in NGCC, 2/2021, 246 ss; P. Scalettaris, Gli effetti dell’esclusione della configurabilità del diritto reale d’uso esclusivo su una parte comune del condominio, in Imm. e propr., 6/2021, 363 ss; M. Corona, L’uso esclusivo dei beni condominiali e le sez. un. della corte di cassazione, in Riv. del Notariato, 3/2021, 457 ss; F. Mezzanotte, L’uso «esclusivo» e il «numerus clausus dei diritti reali» secondo le sezioni unite, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2/2021, 547 ss; G. Petrelli, Condominio negli edifici, “usi esclusivi” e “usi individuali”, in Riv. del Notariato, 2/2021, 215 ss.
[136] Per un approfondimento sui due principi si vedano, in particolare, A. Fusaro, Il numero chiuso dei diritti reali, in Riv. crit. dir. priv., 2000 ss e A. Burdese, Ancora sulla natura e tipicità dei diritti reali, in Riv. dir. civ., 1983, II, 226 ss.
[137] La Suprema Corte esclude, infatti, che tali diritti di uso esclusivo rientrino tra gli usi ex art. 1021 ss o tra le servitù di cui agli artt. 1027 ss.
Quanto al diritto d’uso, la Corte afferma, infatti che «l’uso esclusivo di cui si discute, in ogni caso, non potrebbe essere ricondotto alla previsione dell'art. 1021 c.c.
Difatti, l'«uso» ivi previsto è manifestazione del diritto, per il titolare, di servirsi di una cosa (e, se fruttifera, di raccoglierne i frutti) per quanto occorra ai bisogni suoi e della sua famiglia. Inoltre, secondo l'art. 1024 c.c., il diritto d'uso non si può cedere o dare in locazione, e la durata dello stesso, secondo l'art. 979 c.c., richiamato dall'art. 1026 c.c., non può eccedere la vita del titolare, se persona fisica, o trenta anni, se persona giuridica».
Relativamente all’inquadramento nelle servitù, la corte prosegue dichiarando che ad esso non osta il principio nemini res sua servit, ma «la conformazione della servitù, che può sì essere modellata in funzione delle più svariate utilizzazioni (…), ma non può mai tradursi in un diritto di godimento generale del fondo servente, il che determinerebbe lo svuotamento della proprietà di esso, ancora una volta, nel suo nucleo fondamentale».
La Corte esclude, altresì, che il diritto di uso esclusivo possa esser ricondotto alla categoria delle obbligazioni propter rem o degli oneri reali, poiché gli stessi sono caratterizzati dal requisito della tipicità e, quindi, possono sorgere per contratto solo nei casi e con il contenuto previsti dalla legge.
Nella summenzionata pronuncia, la Corte si chiede, infine, se la creazione di un atipico «diritto reale di uso esclusivo», tale da svuotare di contenuto il diritto di comproprietà, possa essere il prodotto dell'autonomia negoziale, per poi escludere tale ipotesi, «essendovi di ostacolo il principio, o i principi, sovente in dottrina tenuti distinti, sebbene in gran parte sovrapponibili, del numerus clausus dei diritti reali e della tipicità di essi: in forza del primo solo la legge può istituire figure di diritti reali; per effetto del secondo i privati non possono incidere sul contenuto, snaturandolo, dei diritti reali che la legge ha istituito».
[138] Asserita l’applicazione dell’art. 1102 cc. (dettato in tema di comunione) al condominio per il tramite dell’art. 1139 cc., la Cass. afferma che «l'art. 1102 c.c., ribadisce ulteriormente il carattere intrinseco e caratterizzante dell’ uso della cosa comune laddove istituisce l'obbligo del partecipante di non impedire agli altri di farne parimenti uso secondo il loro diritto», non escludendo ciò «la possibilità di un «uso«» più intenso da parte di un condomino rispetto agli altri» previsto anche dagli artt. 1123 e 1124 c.c., né il possibile uso turnario o frazionato, mantenendosi tuttavia ferma la paritarietà mediante un congegno di reciprocità.
[139] Sul punto, lo studio del Consiglio Nazionale del Notariato n.136-2022/C fornisce utili strumenti di soluzione alla questione da ultimo menzionata, asserendo la necessità per il notaio di verificare nei singoli casi concreti se le parti, piuttosto che costituire un diritto di uso esclusivo vietato, avessero l’intenzione di trasferire la piena proprietà del bene comune al singolo condomino, ovvero volessero costituire in favore di quest’ultimo un tipico diritto d’uso ex art. 1021 cc. o fossero propense a costituire un diritto d’uso esclusivo e perpetuo avente, però, natura obbligatoria. Anche laddove si aderisse al divieto recentemente prospettato dalla giurisprudenza, lo studio -facendo leva sull’ordinanza della Cassazione del 21 giugno 2022, n.19940- ritiene, comunque, possibile per il titolare del diritto d’uso esclusivo invocare l’accessione nel possesso di cui all’art. 1146 co. 2 c.c. e, così, unire il proprio possesso a quello del precedente titolare ai fini della maturazione dell’usucapione.
[140] Orientamento a lungo prevalente in giurisprudenza, inaugurato da Cass. Civ. 28 aprile 2004, n.8137, in Rep. Foro It., 2004, voce «Servitù», n. 9, negava la possibilità di costituire un diritto di servitù di parcheggio sulla base dell’assenza della realitas, ritenendosi che nelle servitù di parcheggio difettasse quell’utilità strumentale, per la quale si costituisce il peso a carico di un fondo e a favore di un altro fondo, posto che la commoditas di parcheggiare l’auto andasse ad esclusivo vantaggio non del fondo dominante, ma del proprietario dello stesso. In tal senso, cfr. anche Cass. Civ., 21 gennaio 2009, n.1551, in Rep. Foro. It., 2009, voce «Possesso», n.19; Cass. Civ. 23 settembre 2009, n.20409, in Diritto e giustizia, 2009, 2, con nota di A. Gallucci, Condominio: non è configurabile la servitù di parcheggio in area comune; Cass. Civ. 13 settembre 2012, n.15334, in Riv. notariato, 5/2012, 1136, con nota di G. Musolino, Il parcheggio tra servitù prediale, servitù irregolare e servitù personale (diritto di uso); Cass. Civ. 7 marzo 2013, n.5769, in Mass. Giust. Civ., 2013; Cass. Civ. 6 novembre 2014, n.23708, in Foro it., 2015, I, 499.
L’ampliamento del concetto di utilitas, ha portato, tuttavia, altra parte della giurisprudenza -a partire da Cass. 23 marzo 1995, n. 3370, in Giur. It., 1996, I, 516, ma ancor di più a partire da Cass. Civ. 6 luglio 2017, n.16698, in Foro It., 2017, I, 3027- a schierarsi a favore della configurabilità della servitù di parcheggio, ritenendosi «sufficiente che l’utilità sia strumentalmente collegata all’utilizzo del fondo secondo la sua destinazione, potendo poi i privati riempire liberamente tale schema» (così R. Casini, Sulla configurabilità della servitù di parcheggio, in NGCC, 5/2019, 947 ss).
In senso analogo appare orientata anche la dottrina dominante.
[141] Sempre la summenzionata Cass. Sezioni Unite del 17 dicembre 2020, n. 28972 non esclude che «l’uso della cosa comune possa assumere caratteri differenziati rispetto alla regola della indistinta paritarietà, tuttavia pur sempre mantenuta ferma mediante un congegno di reciprocità: così per l'uso frazionato e per l'uso turnario, ipotesi, quest'ultima, ricorrente nel caso della destinazione di cortili a posti auto in numero insufficiente a soddisfare simultaneamente le esigenze di tutti i condomini».
[142] In tal senso, cfr. A. Scrima, Le parti comuni, in Il nuovo condominio, a cura di R. Triola, Torino, 2013, 75; M. V. Maccari, Indisponibilità pro quota dei beni condominiali (artt. 1117 e 1118 cc.), in Glossario notarile, a cura di L. Mambelli e J. Ballottin, Milano, 2012, 192.
[143] Diverso dalla divisione è lo scioglimento del condominio.
Mentre la prima determina come effetto tipico il trasferimento del diritto in senso proprio e la sostituzione della proprietà solitaria alla comproprietà, il secondo comporta la perdita del diritto di proprietà su talune cose, servizi ed impianti da parte di alcuni dei partecipanti al condominio originario, la cui quota si accresce a quella degli altri con conseguente modificazione proporzionale del diritto di godimento sulle cose comuni e del correlativo obbligo di partecipazione alle spese.
Sul punto, v. Cass. Civ. 23 gennaio 2008, n. 1460, in Giust. Civ. Mass., 1/2008, 78; per un approfondimento in tema di scioglimento del condominio cfr. L. Giustozzi, Trascrizione della divisione, in Aa. Vv., La trascrizione, cit., 306-307.
[144] Sul punto, già G. Branca, Art. 1118, in Comm. cod. civ., a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1972, 410 affermava che «non è credibile che il titolo o il contratto possano consentire, per il futuro, ai singoli condomini una rinunzia a cose comuni indipendentemente dalla rinuncia al proprio alloggio (…). Del resto, le conseguenze, alle quali condurrebbe talora la derogabilità (se fosse ammessa), confinerebbero coll’assurdo».
[145] Così, ex multis, Cass. Civ., 18 gennaio 2005, n. 962, in Imm. e propr., 2005, 286 e Cass. Civ., 6 febbraio 2005, n.3102 ove si afferma che «tra le cose comuni ed i piani o le porzioni di piano può, anzitutto, sussistere un legame materiale di incorporazione che rende le prime indissolubilmente legate alle seconde ed essenziali per la stessa esistenza o per l’uso di queste, dalle quali i beni comuni (muri, pilastri, travi portanti, tetti, fondazione, ecc.) non possono essere separati; può ravvisarsi, poi, una congiunzione tra le cose che possono essere fisicamente separate senza pregiudizio reciproco, che è data dalla destinazione, la quale, a sua volta, importa, un legame di diversa resistenza a seconda che le parti comuni siano essenziali per l’esistenza ed il godimento delle unità singole, nel qual caso il vincolo di destinazione è caratterizzato dall’indivisibilità, ovvero che siano semplicemente funzionali all’uso e al godimento delle stesse, nel qual caso la cessione in proprietà esclusiva può essere separata dal dritto di condominio sui beni comuni sicché la presunzione di cui all’art. 1117 cod. civ. risulta superata dal titolo».
Tra i beni destinati all’uso o al servizio comune ex art. 1117 co. 1 n. 2 c.c., specifiche normative di circolazione si possono, peraltro, rilevare con particolare riferimento ai parcheggi «Ponte» e «Tognoli»: se per i primi -come ogni parcheggio libero- è oggigiorno sancita la commerciabilità senza vincoli di sorta, applicandosi la normativa «Ponte» solo laddove il parcheggio sia stato realizzato prima dell’entrata in vigore della legge 28 novembre 2005, n.246 e sia avvenuta prima di tale entrata in vigore anche una sola vendita delle unità immobiliari, per i parcheggi «Tognoli» privati è, invece, ammessa la circolazione separatamente dall’unità immobiliare cui gli stessi accedono «solo con contestuale destinazione a parcheggio trasferito a pertinenza di altra unità immobiliare sita nello stesso comune», mentre per i parcheggi «Tognoli» pubblici è ancora fermo il divieto di alienazione autonoma senza previo rilascio di apposita autorizzazione comunale.
[146] In tal senso anche la Circolare del Consiglio nazionale del notariato 28 giugno 2010, n. 123, ove si afferma che «con riferimento alle parti comuni condominiali, posto che queste si trasferiscono, pur nel silenzio del contratto, per quote millesimali unitamente al bene condominiale di proprietà esclusiva (cfr. art. 1117 c.c.) e non sono autonomamente cedibili, le stesse si devono ritenere escluse dal perimetro applicativo della norma».
[147] In senso analogo, si vedano in dottrina G. Rizzi, La normativa in materia di conformità dei dati catastali (D.L. 78/2010) e G. Petrelli, Conformità catastale e pubblicità immobiliare, Milano, 2010, 118.
[148] Citazione tratta dalla stessa circolare dell’Agenzia del Territorio n.3/2010 consultabile al sito https://def.finanze.it/.
[149] Così A. Ferrucci, Atti notarili. Tecniche di redazione commentate, esempi, formule, Giuffrè, 2021, 62.
Con particolare riferimento alle aree destinate al parcheggio di autoveicoli attribuite in «uso esclusivo», G. Rizzi, Posti auto condominiali e diritto all’uso esclusivo: la questione della conformità catastale, in Notariato, 1/2019, consultabile anche al sito web www.altalex.com, sottolinea che «comunque si voglia qualificare il diritto resta comunque esclusa l’applicazione della disciplina in tema di conformità catastale di cui all’art. 29, comma 1 bis, L. 27 febbraio 1985, n.52: (a) nel primo caso (qualificazione del diritto esclusivo sul posto auto come servitù di parcheggio intesa in senso lato, comprensiva anche del diritto di uso esclusivo di matrice giurisprudenziale) non ricorrono i presupposti per l’applicazione dell’art. 29, comma 1 bis, L. 27 febbraio 1985, n.52 in quanto, in questo caso, non viene costituito un nuovo diritto di servitù; né si ha un trasferimento in senso tecnico della servitù: la servitù segue il bene a favore del quale risulta costituita, senza possibilità di «circolazione» in maniera autonoma. In pratica oggetto di trasferimento è la proprietà di un alloggio che gode del diritto di servitù di parcheggio sul posto auto condominiale. La disciplina in tema di conformità catastale di cui all’art. 29, comma 1 bis, L. 27 febbraio 1985, n.52 riguarda, pertanto, soltanto l’alloggio ma non anche il posto auto (la cui situazione giuridica rimane invariata, risultando sempre posto a servizio di quel determinato alloggio); (b) nel secondo caso (qualificazione del diritto esclusivo come fattispecie complessa che presenta sia profili di realità che profili di obbligatorietà) il posto auto, benché vi sia uno specifico regolamento per la disciplina dell’uso a sosta veicoli (e/o a eventuali diversi usi) rimane qualificabile quale «parte condominiale», e come tale rimane esclusa dall’ambito di applicazione dell’art. 29, comma 1 bis, L. 27 febbraio 1985, n. 52. Se non ricorrono, invece, le condizioni sopra indicate (…), non siamo più in presenza di un uso «ripartito» della cosa comune, ma di una disciplina volta ad escludere per taluni beni la «condominialità», una forma, probabilmente, molto comoda per sfuggire alla tassazione degli immobili».
[150] In tal senso si è espresso anche lo Studio n. 657-2013/C, La certificazione energetica (dall’attestato di certificazione all’attestato di prestazione energetica), est. G. Rizzi, in CNN del 25 ottobre 2013, ove si sottolinea che «per quanto riguarda le parti comuni condominiali va escluso l’obbligo di dotazione e di allegazione dell’attestato di prestazione energetica».
[151] Sulla questione relativa alla necessità di una specifica e chiara indicazione nella nota di iscrizione ipotecaria delle pertinenze immobiliari che accedono al bene principale, si vedano R. Franco, La pretesa implicita ipoteca su quote di proprietà condominiale. Ovvero: notarelle sparse sull’ipoteca occulta, in Vita not., 2010, 1219 e A. Chianale, Le ipoteche, in Tratt. dir. civ., diretto da R. Sacco, Torino, 2010, 145.
[152] Così, A. Ravazzoni, Le ipoteche, in Tratt. di dir. priv., diretto da P. Rescigno, vol. 20, Torino, 1985, 24 ss; D. Rubino, L'ipoteca mobiliare ed immobiliare, Milano, 1956, 157; G. Gorla e P. Zanelli, Del pegno e delle ipoteche, in Comm. cod. civ., a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1945, 407; G. B. Ferri, Ipoteca su opificio industriale e nuove acquisizioni, in Riv. dir. comm., 1979, I, 52; E. Bassanelli, La legge di circolazione delle pertinenze, in Aa. Vv., Studi in onore A. Cicu, Milano, 1951, II, 673.
[153] In tal senso, cfr. in giurisprudenza, Cass. Civ., 16 luglio 1965, n.1570, in Giust. civ., 1965, 2004; Cass. Civ., 17 marzo 1964, n.611, in Giust. civ., 1964, I, 1619 ss; Cass. Civ., 11 febbraio 2011, n.3359; Cass. Civ., 16 novembre 2000, n.14863; Cass. Civ., 28 luglio 1965, n.1807, in Giust. civ., 1966, I, 561.
[154] Diversa da quella illustrata è l’ipotesi in cui l’amministratore di condominio consenta alla cancellazione dell’ipoteca giudiziale iscritta in favore del condominio medesimo, una volta che il credito risulti essere soddisfatto.
Tale potere viene, infatti, riconosciuto all’amministratore anche dalla Risoluzione dell’Agenzia del Territorio, 22 novembre 2005, n.2., muovendo dal combinato disposto delle norme contenute rispettivamente negli artt.63 disp. att. c.c. e dall’art.1131 c.c., senza necessità di una apposita autorizzazione da parte dell’assemblea, in quanto l’amministratore sarebbe titolare di un potere «autonomo» di gestione del credito condominiale. In dottrina, G. Terzago, Il condominio. Trattato teorico-pratico, Milano, 2010, 511-512 afferma, in tema, che «merita di essere ricordato fra i poteri dell’amministratore quello di prestare il proprio consenso alla cancellazione della suindicata ipoteca a seguito dell’adempimento del debito da parte del condomino moroso».
In senso analogo anche G. Bordoli, La ripartizione delle spese condominiali, Milano, 2011, 333.
[155] Cfr. S. Cervelli, Diritti reali, Milano, 2007, 296; Sul punto, v. G. Rizzi, Il condominio riflessi sull’attività notarile, Padova, 08 ottobre 2013, consultabile in www.notairizzitrentin.it; M. Pizzullo, La comunione e il condominio, in L’agente immobiliare, Santarcangelo di Romagna, 2014, 98.
[156] Cfr. G. Rizzi, op. ult. cit., in cui l’A. sottolinea che qualora si tratti di bene comune realizzato in epoca diversa rispetto a quella di edificazione del fabbricato, ed avente una sua autonomia funzionale, occorre citare anche gli estremi del titolo relativo alla parte comune.
Così, anche se si tratti di diritti di comproprietà vantati dai condomini su di un bene loro spettante in comunione ordinaria.
Ugualmente anche per quanto riguarda le parti realizzate in tempi diversi rispetto al fabbricato principale, del quale fanno parte, ora materialmente (ad esempio un ascensore esterno al fabbricato), ora funzionalmente, per esservi destinata a servizio (es. piscina condominiale con edificio ad uso spogliatoi); Id., Menzioni urbanistiche e validità degli atti notarili, Studio del Consiglio nazionale del Notariato, 30 ottobre 2004, n.5389.
[157] Così, ex multis, Cass. Civ., sez. II, 09 novembre 2021, n.32808, in Guida al diritto, 2021, 47 ove si afferma che «Il condomino può usucapire la quota degli altri senza che sia necessaria una vera e propria interversione del possesso, ma a tal fine non è sufficiente che gli altri condomini si siano astenuti dall'uso del bene comune, ed occorre piuttosto allegare e dimostrare di aver goduto del bene stesso attraverso un possesso esclusivo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare un'inequivoca volontà di possedere «uti dominus» e non più «uti condominus», senza opposizione, per il tempo utile a usucapire. Ai fini della decorrenza del termine per l'usucapione del bene condominiale occorre, dunque, un atto (o un comportamento) il cui compimento da parte di uno dei comproprietari realizzi l'impossibilità assoluta per gli altri partecipanti di proseguire un rapporto materiale con il bene e, inoltre, denoti inequivocamente l'intenzione di possedere il bene in maniera esclusiva, sicché, in presenza di un ragionevole dubbio sul significato dell'atto materiale, il termine per l'usucapione non può cominciare a decorrere ove agli altri partecipanti non sia stata comunicata, anche con modalità non formali, la volontà di possedere in via esclusiva».
[158] In tal senso, cfr. Trib. Savona, 5 ottobre 2006, in Redazione Giuffrè, 2007.
[159] V. Trib. Napoli, 14 febbraio 2005, in Corriere del merito, 4/2005, 380.
[160] Così, Cass. Civ., 13 marzo 2007, n.5862 e Corte Appello Roma, 6 settembre 2010, n.3417, in Redazione Giuffrè, 2010.
[161] Per un approfondimento sul punto, v. M. Corona, La riforma del condominio - Prime riflessioni su alcune delle nuove disposizioni di interesse notarile (studio n. 320-2013/C), cit.
[162] Nello specifico, la summenzionata riforma ha introdotto il nuovo art. 5-ter nel D.L. 28/2010, che va ad integrarsi al preesistente art. 71-quater disp. att. cc. di cui vengono abrogati i commi 2, 4, 5 e 6, nonché modificato il terzo comma sostituendosi la locuzione «previa delibera assembleare da assumere con la maggioranza di cui all’articolo 1136, secondo comma, del codice» con «secondo quanto previsto dall’articolo 5-ter del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28».
Per quanto poi concerne il nuovo articolo 5-ter, lo stesso dispone che «l’amministratore del condominio è legittimato ad attivare un procedimento di mediazione, ad aderirvi e a parteciparvi. Il verbale contenente l’accordo di conciliazione o la proposta conciliativa del mediatore sono sottoposti all’approvazione dell’assemblea condominiale, la quale delibera entro il termine fissato nell’accordo o nella proposta con le maggioranze previste dall’articolo 1136 del codice civile. In caso di mancata approvazione entro tale termine la conciliazione si intende non conclusa».
Come evidente, in base alla nuova normativa l’amministratore di condominio potrà partecipare al procedimento di mediazione anche in assenza della delibera assembleare, la quale verrà interpellata solo in un secondo momento in caso di proposta conciliativa del mediatore o in caso di emersione di un accordo di conciliazione.
[163] Invero, sotto il profilo della compatibilità tra arbitrato e contenzioso condominiale si è formato in passato un aspro dibattito, ormai superato, sulla base del fatto che nessuna disposizione vieta il ricorso all’arbitrato per questa tipologia di controversie, il quale appare, anzi, favorito dallo stesso art. 806 c.p.c. ove si ritengono arbitrabili le materie aventi ad oggetto diritti disponibili, tipici della variegata casistica condominiale.
[164]Quali, ad esempio, il ticchettio di scarpe, o lo spostamento di tavoli, sedie, mobili a tarda ora, ovvero gli odori provenienti dalla cucina altrui o la prassi di innaffiare piante che produca stillicidio ai piani inferiori.
[165] Sul punto, M. Corona, Il notaio e il condominio: la giustizia preventiva nelle vicende condominiali, Studio n.7-2018/C, cit., suggerisce come best practice per assicurare trasparenza e certezza nell’individuazione dei beni comuni una loro «puntuale e analitica indicazione in ciascuna delle vendite delle unità immobiliari in condominio compiute dal costruttore», nonché di intestare al condominio gli eventuali beni comuni censibili.
[166] Sulla diversa soluzione di introdurre un apposito spazio nell’art. 2643 cc. per il regolamento condominiale si veda il disegno di legge n.662 presentato durante la XIV legislatura dal notaio A. Pastore, menzionato anche da G. Gabrielli, Regole condominiali e trascrizione, in Il condominio negli edifici tra realtà e personalità, Quaderni del notariato, 12/2007, 205.
[167] Ciò apparirebbe dimostrato dal riferimento che l’art. 1126 cc. fa all’uso esclusivo dei lastrici solari, che si esplica «quando l’uso degli stessi o di una loro parte non è comune a tutti i condomini».
Di conseguenza, due sarebbero le possibili ipotesi: i) proprietà esclusiva del lastrico, avendo certamente l’unico condomino/costruttore titolare del lastrico l’uso esclusivo dello stesso; ii) uso turnario, spettando l’uso esclusivo al condomino «di turno» per un determinato periodo.
[168] Per co-housing (conosciuto anche come condominio solidale) si intende una formula abitativa, nata nei paesi del nord Europa negli anni ‘60, che consiste in una sorta di comunità ove più persone o famiglie vivono in case private ma con molti spazi e servizi comuni.
Diverso dal co-housing è perciò il co-living, che mira alla condivisione non solo degli spazi ma anche di esperienze e progetti comuni, andando dunque oltre al semplice usufruire di spazi comuni e servizi in sharing.
[169] Il Senior Housing, altresì noto come Independent Senior Living, rappresenta un sistema di appartamenti indipendenti che rispettano la privacy, organizzati però intorno a una serie di servizi comuni aggiuntivi pensati per i bisogni di anziani ancora in buona salute e dinamici nato nel nord Europa alla fine degli anni ’60 e poi diffusosi negli Stati Uniti, in Canada, Giappone ed in tutti quei paesi ove minore è la presenza della famiglia «assistenziale» o «allargata».
[170] L’articolo è stato redatto dal dottor Davide Ianni.
[171] C.M. BIANCA, La proprietà, in Diritto civile, 6, Milano, 2017, 358 ss; M. BASILE, Condominio negli edifici: I) Diritto civile, in Enc. Giur. Treccani, VIII, 1988; L. SALIS, Il condominio di edifici, Torino, 1959, 30 e ss.
[172] Tale definizione viene ripresa anche da altri autori, tra cui: T. CAMPANILE, F. CRIVELLARI, L. GENGHINI, I diritti reali, in Manuali notarili a cura di Lodovico Genghini, Milano, 2020, 607 ss; S.CERVELLI, I diritti reali, in Collana notarile Guido Capozzi, Milano, 2019, 329 ss;
[173] A. TORRENTE, P. SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, Milano, 2014, 320-321.
[174] Disciplinato all’art 1117 bis c.c., il «supercondominio» é definito come il complesso di più condomini che hanno in comune delle parti destinate al loro servizio ed in tutti i casi in cui più edifici o più condominii di unità immobiliari o di edifici abbiano parti comuni ai sensi dell’art. 1117 c.c.
[175] C.M. BIANCA, La proprietà, in Diritto civile, 6, Milano, 2017, 362 ss; F. GIRINO, Il condominio negli edifici, in Tratt. Dir. Priv., diretto da P. Rescigno, vol. 8, Torino, 1982, 394 ss; S.CERVELLI, I diritti reali, in Collana notarile Guido Capozzi, Milano, 2019, 335 ss; D. IANNI, Le Sezioni Unite sulla natura del diritto d’uso esclusivo condominiale, in Riv. Cammino Diritto, ISSN 2421-7123 Fasc. 02/2021.
[176] Cass. civ., sez. II., n. 1195 del 1987.
[177] Cass. civ., 12 maggio 1994 n. 4632; Cass. civ., 9 luglio 1994 n. 6501.
[178] Cass. civ., sez. II, 27 luglio 2021, n. 21478; Cass. civ., 7 gennaio 1992 n. 49.
[179] M. CEOLIN, Destinazione e vincoli di destinazione nel diritto privato, Padova, 2010, pag. 105 e ss.
[180] Tra le altre, la più recente: Cass. civ., sez. II, 27 luglio 2021, n. 21478.
[181] Cass. civ., 14 novembre 1991 n. 12173.
[182] Sul punto, per una disamina più analitica della questione: D. IANNI, Le Sezioni Unite sulla natura del diritto d’uso esclusivo condominiale in Riv. Cammino Diritto, ISSN 2421-7123 Fasc. 02/2021.
[183] Cass. civ., sez. II, 21 maggio 1997 n. 4509; Cass. civ., sez. II, 26 ottobre 1974 n. 3168.
[184] Concetto ribadito da ultimo nella già citata sentenza delle Sezioni Unite n. 28972 del 2020.
[185] Cass. civ., sez. II, 25 marzo 2005 n. 6474; Cass. civ., sez. II, 5 settembre 2000 n. 11684.
[186] Apripista di questo filone interpretativo è certamente la Cass. civ., sez. II, 2 gennaio 1997 n. 8.
[187] C.M. BIANCA, La proprietà, in Diritto civile, 6, Milano, 2017, 366 ss; L. SALIS, Il condominio di edifici, Torino, 1959, 30 ss.
[188] Cass. civ., 7 gennaio 1992 n. 49; Cass. civ., sez. II, 25 ottobre 2001 n. 13164; Cass. civ., sez. II, 15 aprile 1999 n. 3749.
[189] cfr. Cass. civ., n. 23 del 2004; Cass. civ., n. 5626 del 2002; Cass. civ., n. 4693 del 2001; Cass. civ., n. 13164 del 2001; Cass. civ., n. 49 del 1992; Cass. civ., n. 21024 del 2016; Cass. civ., n. 6769 del 2018; Cass. civ., n. 3852 del 2020; Cass. civ., n. 24526 del 2022.
[190] Cass. civ., 17 luglio 1998 n. 6994.
[191] Cass. civ., 8 marzo 2006 n. 4920; Cass. civ., 25 ottobre 2001 n. 13164.
[192] Cass. civ., n. 38639 del 2021; Cass. civ., n. 33104 del 2021; Cass. civ., n. 24188 del 2021; Cass. civ., n. 21307 del 2016; Cass. civ., n. 23 del 2004.
[193] Cass. civ., n. 1056 del 1950; Cass. civ., n. 1343 del 1950; Cass. civ., n. 4530 del 1984.
[194] Già precedentemente: Cass. civ., n. 1037 del 1966.
[195] Cass. civ., SS.UU., n. 28972 del 2020; sul punto, per una più approfondita disamina sull’argomento: D. IANNI, Le Sezioni Unite sulla natura del diritto d’uso esclusivo condominiale, in Riv. Cammino Diritto, ISSN 2421-7123 Fasc. 02/2021.
[196] Guida «Vivere in Condominio - Casi e risposte pratiche», realizzata dal Consiglio Nazionale del Notariato insieme ad Anaci (Associazione Nazionale Amministratori Condominiali e Immobiliari) e 14 Associazioni dei Consumatori (Adiconsum, Adoc, Adusbef, Altroconsumo, Assoutenti, Casa del Consumatore, Cittadinanzattiva, Confconsumatori, Federconsumatori, Lega Consumatori, Movimento Consumatori, Movimento Difesa del Cittadino, U.Di.Con, Unione Nazionale Consumatori), Roma, 19 aprile 2023.