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Pubbl. Ven, 6 Ott 2023
Sottoposto a PEER REVIEW

L´actio interrogatoria e il chiamato nel possesso dei beni ereditari

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Ilaria Travaglione
AvvocatoUniversità degli Studi di Napoli Federico II



Il presente contributo ripercorre l’evoluzione giurisprudenziale e normativa che ha interessato la tematica dell’accettazione dell’eredità nell’ordinamento italiano, con particolare riguardo all’acquisto dell’eredità ex lege, anche contro la volontà del chiamato. Si propone, infine, di analizzare l’iter argomentativo seguito dalla Cassazione con l’ordinanza n. 15587/2023, che ha affermato che l’actio interrogatoria non è applicabile al chiamato nel possesso dei beni ereditari.


ENG

The “actio interrogatoria” and the person called into possession of the hereditary assets

The aim of present opinion is an overview of the interpretation provided by the caselaw and the Italian legislative framework concerning the inheritance and the nature of the acceptance of the succession, especially without acceptance. Than, the aim is to deal with the decision of Supreme Court of Cassation 15587/2023, stated that the “actio interrogatoria” is not available against who is in possession of the hereditary assets.

Sommario: 1) Premessa; 2) L’accettazione dell’eredità. Il principio della “saisine”; 3) Il possesso dei beni ereditari e le azioni di conservazione del patrimonio ereditario; 4) L’accettazione tacita dell’eredità; 5) La delazione ereditaria e l’actio interrogatoria; 6) L’acquisto dell’eredità senza accettazione o ex lege; 7) La rinunzia all’eredità da parte del chiamato nel possesso dei beni ereditari; 8) L’ordinanza della Cassazione n.15587 del 2023; 8.1) I fatti di causa; 8.2) I principi di diritto; 9) Conclusioni.

1. Premessa

L’analisi dei principi enunciati dalla Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza del giorno 01 giugno 2023, n. 15587 – secondo cui l’actio interrogatoria prevista dall’art. 481 c.c. non è applicabile al chiamato in possesso dei beni ereditari – offre l’occasione per passare in rassegna l’evoluzione normativa e gli approdi ermeneutici più significativi in ordine ad alcuni dei profili più rilevanti della disciplina successoria, con riferimenti comparatistici che consentono di meglio inquadrare l’istituto dell’accettazione dell’eredità, alla luce della recente elaborazione giurisprudenziale.

2. L’accettazione dell’eredità. Il principio della «saisine»

Diversamente da quanto accade in altri sistemi giuridici – come, ad esempio, in Francia dove vige il principio della «saisine» – nel nostro ordinamento l’acquisto della qualità di erede non è automatico, ma presuppone l’accettazione[1] (artt. 470 ss c.c.).

Un tempo, anche nel nostro ordinamento, l’acquisto del diritto ereditario avveniva ipso iure, senza bisogno di accettazione, per il principio della sesina: «le mort saisit le vif (le roi est mort, vive le roi!)»  , ossia il morto «impossessa» il vivo.

Lo scopo che giustificava tale regola era quello di non lasciare spazi di interruzione tra il momento della delazione – ossia l’attribuzione al chiamato del diritto di far propria l’eredità – e quello dell’acquisto dell’eredità stessa[2].

È ormai pacifico, in letteratura e in giurisprudenza, che – nel vigente ordinamento – «la delazione, che segue l’apertura della successione, pur rappresentandone un presupposto, non è di per sé sola sufficiente all’acquisto della qualità di erede, perché a tale effetto è necessaria anche, da parte del chiamato, l’accettazione mediante ‘aditio’ oppure per effetto di ‘pro herede gestio’ oppure per la ricorrenza delle condizioni di cui all’art. 485 c.c.» [3].

L’accettazione dell’eredità è, dunque, di regola, un atto volontario e consapevole, un negozio unilaterale non recettizio, con cui il chiamato acquista l’eredità che gli è stata devoluta per legge o per testamento (art. 457 c.c.).

L’accettazione – espressa o tacita che sia (artt. 475 e 476 c.c.) – è un negozio puro e irrevocabile, che determina, ordinariamente, la confusione ereditaria, in forza della quale l’erede è responsabile «ultra vires», ossia è tenuto al pagamento dei debiti ereditari e dei legati oltre il valore dei beni a lui pervenuti[4].

Inoltre, diversamente dalla rinuncia - che non produce effetti irreversibili, essendo revocabile finché il diritto di accettare non sia prescritto (art. 525 c.c.) - l’acquisto dello status di erede è irrevocabile, conformemente al tradizionale principio espresso dal brocardo latino «semel heres semper heres» .

3. Il possesso dei beni ereditari e le azioni di conservazione del patrimonio ereditario

L’acquisto della qualità di erede non è, dunque, automatico, ma presuppone l’accettazione volontaria e consapevole da parte del chiamato.

Attualmente, parte della dottrina rileva che il principio della sesina apparirebbe conservato nel nostro ordinamento esclusivamente per il passaggio del possesso, ritenendo che esso venga trasmesso ipso iure al momento dell’apertura della successione[5].

Il codice civile del 1865, all’art. 693, prevedeva la continuazione automatica del possesso in capo al successore a titolo universale, senza necessità di materiale apprensione del bene.

Tuttavia, all’art. 959, il codice prevedeva l’onere di redazione dell’inventario entro tre mesi dall’apertura della successione in capo all’erede che si fosse trovato nel possesso reale dei beni del defunto.

Dunque, la norma richiedeva anche una relazione materiale con il bene che si concretizzasse nel c.d. possesso reale, «in aggiunta al possesso fittizio e meramente giuridico di cui l’erede è investito per legge», in ragione della circostanza che «egli è in grado di far sparire gli oggetti ereditari».

Di converso, l’attuale codice civile, all’art. 460, riconosce al chiamato all’eredità - al c.d. delato - l’esercizio della tutela possessoria e conservativa dei beni ereditari, indipendentemente non solo dall’acquisto del diritto sugli stessi ma anche dalla loro materiale apprensione.

È, dunque, parso che l’art. 460 c.c. consentisse, in virtù del principio della saisine, la trasmissione ipso iure del possesso dell’eredità al momento dell’apertura della successione.

Tuttavia, secondo l’opinione dottrinale che appare preferibile la legittimazione del chiamato discende dalla specifica attribuzione della legge e non già dalla posizione di possessore, dal momento che si prescinde dalla necessaria materiale apprensione del bene, la quale, tuttavia, anche qualora ricorra, non determina l’attribuzione al c.d. delato di un potere di fatto, quanto piuttosto di un potere provvisorio per conto di chi spetta[6].

Nella Relazione al codice, n. 244, con riferimento all’art. 485 c.c., si legge, infatti: «Un'altra modificazione formale ho introdotta nel nuovo testo di questi articoli: ho soppresso, cioè, l'aggettivo «reale» posto a qualificare il possesso, perché l'art. 460 del c.c. esclude che il possesso di diritto passi nel chiamato per il solo fatto della delazione. Manca, in tal caso, la possibilità di contrapporre un possesso reale a un possesso di diritto» .

Parte della giurisprudenza più risalente riteneva che «il chiamato all’eredità che non abbia ancora accettato non può essere considerato quale possessore, sia pure fittizio, né continuatore del possesso del de cuius» [7].

L’art. 460 c.c. è, infatti, rivolto unicamente ad assicurare la tutela conservativa e possessoria dei beni del defunto nel periodo intercorrente tra la delazione e l’accettazione dell’eredità.

Altro orientamento giurisprudenziale, più di recente, ha, viceversa, sancito che il chiamato all’eredità subentra al de cuius nel possesso dei beni, con effetto dall’apertura della successione[8].

Al di là del contrasto ermeneutico, la nozione di possesso di cui all’art. 460 c.c. deve essere senza dubbio intesa in senso atecnico, non corrispondendo a quella offerta dall’art. 1140 c.c., secondo cui, invece, «il possesso è il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale» .

4. L’accettazione tacita dell’eredità

Al chiamato all’eredità spettano, dunque, solo la gestione conservativa dei beni del defunto, senza che ciò determini accettazione dell’eredità.

È pacifico, infatti, che gli atti di natura meramente conservativa che il chiamato può compiere ai sensi dell’art. 460 c.c. non possono costituire accettazione, neppure tacita, dell'eredità.

Invero, per aversi accettazione tacita ai sensi dell’art. 467 c.c. - «pro herede gestio»  - «non basta che un atto sia compiuto dal chiamato all'eredità con l'implicita volontà di accettarla, ma è necessario, altresì, che si tratti di un atto che egli non avrebbe diritto di porre in essere se non nella qualità di erede». Ad esempio, «il pagamento di un debito del de cuius, che il chiamato all'eredità effettui con denaro proprio, non è un atto dispositivo e comunque suscettibile di menomare la consistenza dell'asse ereditario, cioè tale che solo l'erede abbia diritto di compiere. In esso, pertanto, difetta il secondo dei suddetti requisiti, richiesti in via cumulativa e non disgiuntiva per l'accettazione tacita» [9].

L’accettazione tacita richiede, infatti, il compimento di un atto che necessariamente presuppone la volontà di accettare l’eredità.

Dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere che presupposti fondamentali ai fini di un’accettazione tacita sono, innanzitutto, «la presenza della consapevolezza, da parte del chiamato, dell’esistenza di una delazione in suo favore»  e che «il chiamato assuma un comportamento inequivoco, in cui si possa riscontrare sia l’elemento intenzionale di carattere soggettivo (c.d. animus), sia l’elemento oggettivo attinente all’atto, tale che solo chi si trovi nella qualità di erede avrebbe il diritto di compiere».

Di norma, quindi, «vengono considerate forme di accettazione tacita di eredità: a) la proposizione da parte del chiamato dell’azione di rivendicazione, oppure, l’esperire l’azione di riduzione, l’azione, cioè, volta a far valere la qualità di legittimario leso o, comunque, pretermesso dalla sua quota; b) l’azione di risoluzione o di rescissione di un contratto; c) l’azione di divisione ereditaria, posto che può essere proposta solo da chi ha già assunto la qualità di erede; d) la riassunzione di un giudizio già intrapreso dal de cuius o la rinuncia agli effetti di una pronuncia in grado di appello; e) il pagamento da parte del chiamato dei debiti lasciati dal de cuius col patrimonio dell’eredità; f) ed infine, secondo la dottrina più attenta, anche, la voltura catastale determinerebbe un’accettazione tacita dell’eredità, nella considerazione che solo chi intenda accettare l’eredità assumerebbe l’onere di effettuare tale atto e di attuare il passaggio legale della proprietà dell’immobile dal de cuius a se stesso» [10].

La giurisprudenza di legittimità ha, viceversa, escluso che possa rilevare ai fini dell’accettazione dell’eredità la richiesta di registrazione del testamento e la sua trascrizione, trattandosi di adempimenti di carattere prevalentemente fiscale, inidonei ad esprimere un’intenzione univoca di accettare l’eredità.

5. La delazione ereditaria e l’actio interrogatoria

Se - come precisato - l’acquisto dello status di erede non è automatico, è evidente che dal momento dell’apertura della successione, corrispondente al tempo della morte del defunto, sino all’accettazione del chiamato, il compendio ereditario è temporaneamente privo di un effettivo titolare (c.d. patrimonio senza soggetto).

L’obiettivo del legislatore di non lasciare interruzione tra la delazione e l’acquisto dell’eredità - in precedenza garantito dalla sesina - è attualmente raggiunto attraverso la previsione dell’efficacia retroattiva della dichiarazione di accettazione dell’eredità, ai sensi dell’art. 459 c.c.

Invero, l’accettazione dell’eredità ha effetti che, per una finzione giuridica, retroagiscono al momento dell’apertura della successione, ossia della morte del de cuius[11].

L’effetto retroattivo ha, dunque, proprio lo scopo di evitare soluzioni di continuità nella titolarità del patrimonio del defunto, che rischierebbero di pregiudicare gravemente l’esigenza di certezza dei rapporti giuridici sottesa alla disciplina normativa delle successioni.

Tale situazione di incertezza in cui viene a trovarsi il patrimonio ereditario nel lasso intercorrente tra l’apertura della successione e l’accettazione dell’eredità è, tuttavia, destinata a protrarsi lungamente, in ragione del riconoscimento al chiamato di un termine per esercitare il diritto di accettare piuttosto lungo.

Il diritto di accettare l’eredità si prescrive, infatti, nel termine di dieci anni (art. 480 c.c.), decorrenti dal giorno di apertura della successione o, in caso di istituzione condizionale, da quando si verifica la condizione.

Si tratta, dunque, di un termine eccessivamente ampio, non soggetto a interruzione e la cui unica ipotesi di sospensione è contemplata al comma 3 dell’art. 480 c.c., secondo cui esso non corre per i chiamati ulteriori se i chiamati precedenti hanno accettato e il loro acquisto è successivamente venuto meno.

Parte della dottrina ritiene - nonostante il tenore letterale dell’art. 480 c.c. - che «il diritto di accettare l’eredità appare soggetto, più che a prescrizione, a decadenza» [12], in quanto tale diritto avrebbe natura di diritto soggettivo potestativo e il mancato esercizio di diritti potestativi comporterebbe di regola decadenza, non già prescrizione.

Sembra, tuttavia, pacifico in giurisprudenza che l’art. 480 c.c. preveda un termine di prescrizione estintiva (art. 2934 c.c.), la quale opera a favore di chiunque abbia interesse a farla valere[13].

Conseguentemente - sul presupposto che la prescrizione è un’eccezione in senso stretto, non rilevabile d’ufficio (art. 2938 c.c.) - il decorso del termine previsto all’art. 480, comma 1 c.c. non impedisce al chiamato di accettare l’eredità anche successivamente, qualora la parte interessata non abbia validamente sollevato la relativa eccezione[14].

Allo scopo di abbreviare il termine prescrizionale previsto dall’art. 480 c.c., l’ordinamento contempla la c.d. actio interrogatoria, che consente a chiunque vi abbia interesse di chiederne un’abbreviazione tramite specifica istanza al giudice (art. 749 c.p.c.).

Il procedimento per la fissazione dei termini è disciplinato nel Capo I del Titolo IV del Libro IV del codice di procedura civile, tra i procedimenti speciali relativi all’apertura delle successioni.

L’art. 481 c.c. dispone che «Chiunque vi ha interesse può chiedere che l’autorità giudiziaria fissi un termine entro il quale il chiamato dichiari se accetta o rinunzia all’eredità. Trascorso questo termine senza che abbia fatto la dichiarazione, il chiamato perde il diritto di accettare» .

Il termine fissato dal giudice ai sensi dell’art. 481 c.c. ha natura decadenziale, proprio in quanto volto ad eliminare lo stato di incertezza che caratterizza l’eredità fino all’accettazione del chiamato[15].

L’espressione generica «chiunque vi ha interesse»  consente di estendere ampiamente il novero dei soggetti legittimati alla proposizione dell’azione, con la conseguenza che non può ammettersi una lettura limitativa della suddetta locuzione secondo cui andrebbe riferita esclusivamente «a un soggetto che vanti una posizione successoria qualificata, ossia a chi, in conseguenza dell’accettazione o della rinuncia del chiamato, veda prodursi nella propria sfera giuridica effetti riguardanti l’eredità e non altre situazioni» [16].

Sono, pertanto, legittimati all’esperimento dell’actio interrogatoria anche i creditori del defunto nei confronti dei chiamati e i creditori degli stessi chiamati che non abbiano ancora accettato l’eredità, perché titolari di diritti diversi da quelli successori, la cui realizzazione è negativamente influenzata dall’inerzia del delato.

La pronuncia di legittimità in commento trae origine proprio da un’istanza per l’assegnazione del termine previsto dall’art. 481 c.c., formulata ai sensi dell’art. 749 c.p.c. da un Istituto di credito nei confronti del chiamato all’eredità.

La Cassazione, con ordinanza del 01/06/2023, n. 15587, ha precisato che «Essendo indubbio che scopo dell'actio interrogatoria sia l'abbreviazione del termine previsto dall'art. 480 c.c., la dottrina riconosce che essa non è applicabile al chiamato in possesso dei beni ereditari. Se il chiamato è nel possesso dei beni ereditari, egli deve, ex art. 485 c.c., conformarsi alle disposizioni sul beneficio di inventario, entro il termine di tre mesi dall'apertura delle successioni o dalla notizia della devoluta eredità, salvo per il caso in cui sia entrato nel possesso di beni ereditari dopo l'apertura della successione. Se non compie l'inventario entro questo termine acquista la qualità di erede puro e semplice».

Pertanto, l’actio interrogatoria non è applicabile al chiamato possessore dei beni ereditari.

Tale asserzione implica la necessità di risolvere altro quesito preliminare, ossia cosa si intenda per possesso dei beni ereditari.

6. L’acquisto dell’eredità senza accettazione o ex lege

Normalmente l’accettazione dell’eredità è un atto volontario e consapevole.

Vi sono, tuttavia, ipotesi eccezionali in cui l’acquisto dell’eredità avviene ex lege anche contro la volontà del chiamato, e dunque in assenza di un atto di accettazione, espressa o tacita.

Una di queste è rappresentata proprio dal caso in cui il chiamato all’eredità che sia anche nel possesso dei beni non provveda a redigere l’inventario nel termine trimestrale decorrente dal giorno dell’apertura della successione o della notizia della devoluzione dell’eredità.

Trascorso invano tale termine, eventualmente prorogato dal giudice per un tempo massimo di ulteriori tre mesi (art. 485 comma 1 c.c.), egli è considerato ipso iure erede puro e semplice (art. 485 comma 2 c.c.)

Parimenti accade nell’ipotesi in cui il chiamato possessore abbia sì formato l’inventario nei termini, ma non abbia poi deciso se accettare o rinunciare all’eredità entro i successivi quaranta giorni (art. 485 comma 3 c.c.) con dichiarazione a norma dell’art. 484 c.c.

Le due ipotesi di acquisto ex lege dell’eredità, se pur contemplate dal medesimo articolo, rispondono in realtà a rationes differenti.

La prima (comma 2 dell’art. 485 c.c.) ha una finalità essenzialmente sanzionatoria di un comportamento del chiamato che non permetta un’esatta individuazione dei beni facenti parte dell’asse ereditario e che di conseguenza pregiudichi le aspettative dei creditori; viceversa, la seconda (comma 3 dell’art. 485 c.c.) risponde piuttosto a un’esigenza di garantire la celerità nella liquidazione del passivo ereditario[17].

La situazione di possesso a qualsiasi titolo dei beni ereditari da parte del chiamato, rilevante per l’acquisto presunto della qualità di erede puro e semplice nel caso di mancato rispetto dei termini suddetti, deve essere inteso in senso atecnico[18].

Il possesso ai sensi dell'art. 485 c.c. si identifica, infatti, in una qualunque relazione materiale con i beni ereditari che consenta l’esercizio in concreto di poteri sui medesimi, non dovendo manifestarsi necessariamente in un’attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà.

Non è necessario che il possesso si riferisca all’intera eredità, essendo sufficiente si instauri una relazione di fatto che consenta l’esercizio di tali poteri anche su un solo bene che abbia un qualche rilevo economico e anche per mezzo di terzi detentori, nella consapevolezza della sua appartenenza al compendio ereditario[19].

Nella Relazione al codice, n. 244, sull’art. 485 c.c. si legge, infatti, che: «non può sorgere dubbio che la disposizione in esame si applica solo a chi possieda consapevolmente beni che fanno parte dell’eredità al momento dell’apertura della successione» .

In altri termini, si ritiene che la mancata conoscenza dell’appartenenza dei beni all’asse ereditario non consenta di produrre gli effetti di cui all’art. 485 c.c.

Ugualmente rilevante è la situazione di compossesso, in quanto non vi è dubbio che anche il compossesso consenta l’esercizio di concreti poteri sui beni ereditari.

La giurisprudenza di legittimità ha, invero, da tempo affermato che «il compossesso di un patrimonio ereditario indiviso non esonera il chiamato all’eredità dall’osservanza delle disposizioni di legge sul beneficio di inventario ove voglia evitare, trascorso il termine stabilito dall’art. 485 c.c., d’essere considerato erede puro e semplice» [20], sia nel caso in cui gli altri compossessori siano anch’essi tutti chiamati all’eredità, sia nel caso in cui taluno di questi non sia chiamato.

Va, tuttavia, precisato che ai fini dell’accettazione ex lege dell’eredità ai sensi dell’art. 485 c.c., il legittimario è considerato possessore dei beni solamente qualora non possa esibire un valido titolo di trasferimento dei beni in questione.

Pertanto, non può ritenersi tale colui che risulti essere donatario di beni che gli sono pervenuti per spirito di liberalità dal de cuius quando questi era ancora in vita. In tal caso, infatti, il trasferimento dei beni è giustificato dall’esistenza di un titolo - la donazione appunto - che impedisce che gli stessi entrino a far parte del patrimonio ereditario se non a seguito di collazione in natura o in conseguenza del vittorioso esercizio dell’azione di riduzione.

Ne consegue che, in tale evenienza, è escluso che il donatario possa divenire, per ciò soltanto, erede puro e semplice, nonostante il decorso del termine di cui all’art. 485 c.c.[21]

La più recente elaborazione giurisprudenziale, in distonia rispetto all’orientamento precedente[22], ha, altresì, escluso che il coniuge superstite che, dopo il decesso del de cuius, permanga nella residenza familiare possa ritenersi per ciò solo possessore di beni ereditari ai sensi dell’art. 485 c.c.

Invero, anche «nella successione legittima spettano al coniuge del de cuius i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano previsti dall'art. 540 c.c., comma 2» [23], con la conseguenza che il possesso attribuito al coniuge superstite in forza dei suddetti diritti non potrebbe mai condurre ad un’accettazione presunta ai sensi dell'art. 485 c.c.[24]

Sia il codice del 1865 (agli artt. 959 e 960 c.c.) che l’attuale disposizione normativa (art. 485) danno rilevanza alla sussistenza, ma non alla durata del possesso, con la conseguenza che nessun effetto può derivare dalla circostanza che, dopo aver posseduto anche per un solo giorno i beni ereditari, il chiamato perda tale possesso, rimanendo sempre a suo carico l’onere del compimento dell’inventario nei termini previsti[25].

Pertanto, la giurisprudenza di legittimità reputa esercizio del possesso rilevante ai sensi dell’art. 485 c.c. l’aver «condiviso l’abitazione della famiglia con gli altri chiamati (…) per un tempo limitato» , anche se unicamente «in occasione di festività e ferie», o l’aver posseduto per breve tempe il «letto e (…) alcuni effetti personali del de cuius»[26], o ancora «il solo ritiro dell’autovettura appartenente al de cuius dall’autolavaggio ove si trovava al momento della morte e la sua successiva collocazione in sosta, trattandosi comunque di condotta che assicura alla parte la conservazione dei suddetti poteri di amministrazione e disposizione (…) a nulla rilevando la circostanza che poi l’autovettura sia stata lasciata incustodita in luogo pubblico, posto che tale condotta, oltre a non rivelarsi inidonea a dismettere il possesso nel senso sopra indicato, farebbe in ogni caso seguito ad una presa di possesso, che rende irrilevante (…) il successivo abbandono del bene»[27].

È bene, tuttavia, chiarire che il possesso dei beni ereditari da parte del chiamato di per sé non presuppone la volontà di accettare l’eredità; esso rappresenta piuttosto, unitamente alla mancata tempestiva redazione dell’inventario, una circostanza valutabile ai fini dell’accertamento dell’eventuale accettazione ex lege[28].

Invero, la giurisprudenza ha più volte chiarito che l’immissione nel possesso dei beni ereditari non comporta di per sé l’accettazione dell’eredità, atteso che l’art. 460 c.c. attribuisce al chiamato in quanto tale, e dunque prima dell’accettazione dell’eredità e peraltro senza bisogno della loro materiale apprensione, il potere di esercitare le azioni possessorie a tutela dei beni del defunto[29].

L’art. 460 c.c. riconosce, infatti, al chiamato all’eredità l’esercizio della tutela possessoria dei beni ereditari indipendentemente non solo dall’acquisto del diritto sugli stessi, ma anche dalla loro materiale apprensione.

La dottrina nega, infatti, che il chiamato sia un curatore o amministratore dell’eredità in attesa di accettazione.

7. La rinunzia all’eredità da parte del chiamato nel possesso dei beni ereditari

Una delle tematiche maggiormente sentite su cui non vi è sempre stata concordia in letteratura attiene all’ammissibilità di una valida rinunzia all’eredità da parte del chiamato possessore - prima del decorso del suddetto termine - che non sia anche corredata dall’inventario[30].

Secondo una certa ricostruzione ermeneutica, il chiamato possessore dovrebbe previamente redigere l’inventario anche nell'ipotesi in cui volesse rinunciare all’eredità. Queste tesi «trova la sua ratio nella esigenza di tutela dei terzi, sia per evitare ad essi il pregiudizio di sottrazioni ed occultamenti dei beni ereditari da parte del chiamato; sia per realizzare la certezza della situazione giuridica successoria, evitando che gli stessi terzi possano ritenere, nel vedere il chiamato in possesso da un certo tempo di beni della eredità, che questa sia stata accettata puramente e semplicemente» [31].

Del resto, la rinuncia non toglie al possesso dei beni ereditari quel carattere di equivocità e di pericolosità che, nella prospettiva del legislatore, giustifica la sanzione dell’acquisto ipso iure dell’eredità se si protrae oltre il trimestre.

Tale ricostruzione sembra confermata anche dalla più recente giurisprudenza di legittimità, secondo cui «se il chiamato che si trovi nel possesso di beni ereditari non compie l'inventario nei termini previsti non può rinunciare all'eredità, ai sensi dell'art. 519 c.c., in maniera efficace nei confronti dei creditori del de cuius, dovendo il chiamato, allo scadere dei termini stabiliti per l'inventario, essere considerato erede puro e semplice» [32].

Viceversa, non vi è dubbio che a seguito del decorso infruttuoso del termine previsto dall’art. 485 comma 2 c.c., assumendo il chiamato ipso iure la qualifica di erede puro e semplice, la successiva rinuncia dovrà considerarsi priva di effetto per il principio semel heres semper heres.

L’omessa redazione dell’inventario nei termini determina, infatti, un’ipotesi di decadenza dal diritto di mantenere la qualità di erede beneficiato, e l’attribuzione ipso iure di quella di erede puro e semplice, con il conseguente effetto della confusione dei patrimoni del de cuius e dell’erede, il quale pertanto risponderà illimitatamente, ossia anche con i propri beni, dei debiti e dei pesi gravanti sull’eredità.

La verificazione di siffatta decadenza va, tuttavia, senz'altro esclusa tutte le volte in cui l’eredità sia devoluta a un minore (art. 472 c.c.), potendo la decadenza dall’accettazione beneficiata derivare unicamente dalla diversa ipotesi contemplata dall’art. 489 c.c., ossia decorso un anno dal complimento della maggiore età[33].

Le persone giuridiche (art. 473 c.c.) non sono, viceversa, esonerate dalla redazione dell’inventario nel termine stabilito dall’art. 485 c.c.; tuttavia, potendo accettare l’eredità solo con il beneficio di inventario, il decorso infruttuoso del suddetto termine determina la decadenza dal beneficio e l’incapacità della persona giuridica a succedere nell’eredità, «non potendo trovare applicazione, per evidente incompatibilità, la diversa disposizione in forza della quale il beneficiario è da considerare erede puro e semplice»[34].                                                

8. L’ordinanza della Cassazione n. 15587 del 2023

La Cassazione con l’ordinanza in commento ha chiarito che l’art. 485 c.c., pur riferendosi letteralmente alle ipotesi in cui il chiamato sia già, al momento dell’apertura della successione, nel possesso dei beni ereditari, trova eguale applicazione anche nel caso in cui il possesso sia acquisito in un momento successivo.

Dunque, «se il chiamato è nel possesso dei beni ereditari, egli deve, ex art. 485 c.c., conformarsi alle disposizioni sul beneficio di inventario (…). Se non compie l'inventario entro questo termine acquista la qualità di erede puro e semplice» e al chiamato in possesso dei beni ereditari non è applicabile l’actio interrogatoria, in quanto il termine trimestrale per la sua redazione non può essere ulteriormente abbreviato.

Allo scopo di meglio chiarire e comprendere gli approdi ermeneutici della Suprema Corte di Cassazione nell’ordinanza della Seconda Sezione Civile del 01/06/2023, n.15587, occorre, innanzitutto, brevemente passare in rassegna la vicenda fattuale e processuale oggetto della pronuncia in commento.

8.1 I fatti di causa

In seguito alla morte del de cuius, avvenuta in data 28 aprile 2014, era stata disposta la nomina di un curatore dell’eredità giacente, a norma dell’art. 528 c.c.

Con ricorso ai sensi dell'art. 702 bis c.p.c., l’odierno ricorrente - discendente del de cuius - chiedeva al Tribunale di prime cure di voler accertare e dichiarare la propria qualità di erede puro e semplice del defunto.

Il Tribunale adito rigettava la domanda, ritenendo inutilmente decorso il termine assegnato a norma degli artt. 481 c.c. e 749 c.p.c. su istanza del creditore entro il quale il ricorrente avrebbe dovuto dichiarare se accettare o rinunciare all’eredità, ed escludendo, altresì, i presupposti idonei ad integrare un’accettazione tacita ai sensi dell’art. 476 c.c.

La decisione è stata confermata dalla Corte d’Appello, la quale ha riconosciuto l’applicabilità dell’art. 481 c.c. al caso di specie e il conseguente maturarsi della decadenza in danno dell’intimato.

La Corte territoriale ha fondato il proprio convincimento sulla base della considerazione che gli elementi documentali e probatori offerti a sostegno della domanda dimostravano come il ricorrente fosse entrato nel possesso dei beni ereditari solo in epoca successiva all’apertura della successione, in special modo a partire dal 2015, e che il chiamato non avesse fornito prova di essere divenuto erede puro e semplice ai sensi dell'art. 485 c.c., prima del deposito del ricorso ai sensi dell'art. 481 c.c., avvenuto nell’ottobre 2014, per non aver redatto l’inventario entro il mese di luglio 2014.

La sentenza è stata impugnata per un duplice ordine di ragioni.

Col primo motivo, il ricorrente ha dedotto la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 476 e 485 c.c., per avere la Corte territoriale disconosciuto la valenza probatoria della documentazione prodotta ai fini della prova del possesso dell’immobile ereditario, perché di molto successiva rispetto all’apertura della successione.

Col secondo motivo, ha denunciato la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 481 c.c., per non aver la Corte d’Appello considerato che l’art. 481 c.c. si applica solo qualora il chiamato non sia anche nel possesso dei beni ereditari.

8.2 I principi di diritto

La Corte di Cassazione, sez. II, 01/06/2023, n. 15587, ha accolto il ricorso, cassando la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di merito affinché, in diversa composizione, riesamini il materiale probatorio alla luce delle seguenti argomentazioni.

La Corte d’Appello sarebbe incorsa in evidenti errori di diritto.

Il primo motivo di ricorso è fondato e va accolto, in quanto l’interpretazione fornita dalla Corte territoriale non trova riscontro nell’art. 485 c.c.

La norma, infatti, pur riferendosi letteralmente alle ipotesi in cui il chiamato sia già, al momento dell’apertura della successione, nel possesso dei beni ereditari, trova eguale applicazione anche nel caso in cui il possesso sia acquisito in un momento successivo.

In tale evenienza, il decorso del termine trimestrale per il compimento dell’inventario decorre non già dalla morte del de cuius, ma dal momento dell’inizio del possesso[35].

Anche il secondo motivo di ricorso è fondato e va accolto.

Scopo dell’actio interrogatoria ai sensi dell'art. 481 c.c. è abbreviare il termine decennale di prescrizione previsto dall’art. 480 c.c.; ne consegue che essa non può essere proposta contro il chiamato che sia possessore ai sensi dell'art. 485 c.c., in quanto in tale evenienza egli è tenuto a conformarsi alle disposizioni sul beneficio di inventario e il termine trimestrale per la sua redazione non può essere ulteriormente abbreviato.

9 Conclusioni

In conclusione, la Suprema Corte, con il recente approdo ermeneutico, evidenzia, dunque, che l’actio interrogatoria, proprio perché finalizzata ad abbreviare il termine decennale di prescrizione previsto dall’art. 480 c.c., può essere proposta solo contro il chiamato non possessore, e che ai fini dell’applicazione della disciplina di cui all’art. 485 c.c. rileva non solo il possesso già esistente al tempo di apertura della successione o immediatamente successivo, ma anche quello acquisito in un secondo momento.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Per un corretto inquadramento sistematico dell’istituto si vedano: F. Gazzoni, Manuale di Diritto Privato, XX ed. 2021, Edizioni Scientifiche Italiane, 449 ss.; F. Bocchini, E. Quadri, Diritto privato, 6° ed. 2106, Giappichelli Editore, 1326 ss.; A. Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, 44° ed. 2010, CEDAM, 485 ss.; F. Caringella, L. Buffoni, Manuale di diritto civile, XII ed. 2022, DIKE Giuridica, 1923 ss.; G. Chiné, M. Fratini, A. Zoppini, Manuale di diritto civile, X ed. 2018/2019, nel Diritto Editore, 396 ss.

[2] In giurisprudenza, cfr. Cass. 24 gennaio 1950, n. 201. In letteratura, v. A. Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, 44° ed. 2010, CEDAM, 485 ss.

[3] Cassazione n. 30761/2022.

[4] V. art. 490 c.c., sugli effetti dell’accettazione beneficiata.

[5] Per un corretto inquadramento del tema si vedano: A. Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, 44° ed. 2010, CEDAM, 485 ss.; G. Sicchiero, La rinuncia del chiamato in possesso dei beni ereditari (artt. 485 e 519 c.c.), in Rivista di Diritto Civile, anno LXIV - n. 2, Marzo-Aprile 2018, CEDAM.

[6] F. Caringella, L. Buffoni, Manuale di diritto civile, XII ed. 2022, DIKE Giuridica, 1938 ss.

[7] Cass., sez. II, 30 ottobre 1992, n.11831.

[8] Cass., sez. II, 28 gennaio 2005, n.1741.

[9] cfr. Cass., Sez. II, 30 settembre 2020, n.20878; Cass., Sez. III, 17 novembre 1999, n.12753; Cass., Sez. II, 26 marzo 1965, n.497; Cass., Sez. II, 9 novembre 1974, n.3492; Cass., Sez. II, 27 agosto 2012, n.14666; Cass., Sez. II, n. 16315 del 2016; Cass., n. 17535 del 2016.

[10] Cass. civ. Sez. II, Ord., 19 febbraio 2019, n.4843.

[11] Cfr. Cass. 15690/2020; n.10525/2010; n.5247/2018.

[12] A. M. Garofalo, Sulla prescrizione del diritto di accettare l’eredità, in Riv. Familia di Pacini Giuridica.

[13] Cass. sez. II, 22 giugno 1989, n.2975.

[14] Tribunale di Treviso, sentenza del 06.05.2021, n.837.

[15] Cass. sez. II, 26 marzo 2012, n.4849.

[16] Tribunale Bari, 1 dicembre 2003.

[17] F. Gazzoni, Manuale di Diritto Privato, XX ed. 2021, Edizioni Scientifiche Italiane, 449 ss.

[18] Cass. sez. VI, 1 marzo 2019, n.6167; Cass. 4456/2019; Cass. sez. II, 22 giugno 1995, n.7076.

[19] Cass. 15530/2017; Cassazione Sez. II sentenza n. 11018 del 5 maggio 2008; Cass. sez. II, 14 maggio, n.4707; Cass., sez. I, 5 giugno 1979, n.3175.

[20] Cass. sez. VI, 1 marzo 2019, n.6167; Cass. 3034/1983; Cass. 1590/1967.

[21] Cass., 07 febbraio 2020, n.2914; Cass.14/06/2007, n.13972; Cass. 14/10/70, n.2014.

[22] Cass., sez. II, 5 maggio 2007, n.11018.

[23] Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 27-02-2013, n. 4847.

[24]Corte di Cassazione, sez. VI, n. 23406/15; Trib. Napoli Sez. VIII, 15 febbraio 2023, n.1666; App. Napoli Sez. VI, 25 maggio 2022, n.2310.

[25] Cass. 15530/2017; Cass. 24.2.1984, n.1317.

[26] Cass. 4456/2019.

[27] Cass. 15530/2017.

[28] Cass., Sez. V, 19 luglio 2006, n.16507.

[29] Cass. sez. II, 15 febbraio 2005, n.3018.

[30] Sul tema, in particolare: G. Sicchiero, La rinuncia del chiamato in possesso dei beni ereditari (artt. 485 e 519 c.c.), in Rivista di Diritto Civile, anno LXIV - n. 2, Marzo-Aprile 2018, CEDAM; M. T. Ligozzi, La rinunzia all’eredità da parte del chiamato possessore, Studio n. 406-2017/C, Consiglio Nazionale del Notariato.

[31] Cass. 29 marzo 2003 n.4845.

[32] Cass. 36080/2021.

[33] Cass., Sez. II, 24 luglio 2000, n.9648.

[34] Cass., Sez. II, 29 settembre 2004, n.19598.

[35] Cass. 15690/2020; n. 1438/2020.