Pubbl. Gio, 26 Dic 2019
Lo stabile asservimento del pubblico ufficiale a interessi di terzi integra il reato di corruzione per l´esercizio della funzione
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Giovanni Maria Sacchi
Secondo la più recente giurisprudenza di legittimità, la corruzione per esercizio della funzione si configura anche quando dallo stabile asservimento della funzione pubblica derivino atti formalmente riconducibili ai doveri del pubblico ufficiale, anche quando questi abbia piegato la discrezionalità di cui disponeva ad interessi privati.
Sommario: 1. Il fatto; 2. La pronuncia; 3. Il percorso evolutivo della normativa in tema di corruzione; 4. La questione; 5. La ricostruzione del concetto di atto contrario ai doveri di ufficio: il nodo dell provvedimento discrezionale; 6. Conclusioni
Abstract [eng]: The Sixth Section of the Suprema Corte di Cassazione, with the Judgment n. 45184 of November 6th 2019, took a position on the complex relationship between corruption for the exercise of the function pursuant to the Art. 318 c.p., punished with a sentence from one to six years of imprisonment, and corruption for an act contrary to the duties of the office, sanctioned with a sentence from six to ten years. It has decided to place itself in the perspective of the jurisprudential orientation that - by exploiting the literal formulation of the most recent legislation - has qualified the crime referred to in art. 318 c.p. as a crime of presumed danger, aimed at repressing the agreement concerning the "making available of the function", regardless of the production of an act contrary to the duties of one's office. In truth, the solution offers the side to a series of criticalities connected to a dreaded sanctioning inconsistency existing between the two crime figures, critical points highlighted by another jurisprudential guideline that, if revived, could provoke a future intervention to clarify the United Sections.
Abstract [ita]: La sesta sezione della Suprema Corte di Cassazione, con la Sentenza 45184 del 6 novembre 2019, ha preso posizione sul complesso rapporto esistente fra la corruzione per l'esercizio della funzione di cui all'art. 318c.p., punita con una pena da uno a sei anni, e la corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio, sanzionata con una pena da sei a dieci anni. Essa ha deciso di porsi sulla scia di quell’ orientamento giurisprudenziale che - valorizzando la formulazione letterale della normativa più recente - ha qualificato il reato di cui all'art. 318c.p. come reato di pericolo presunto, rivolto a reprimere l'accordo avente ad oggetto la "messa a disposizione della funzione", a prescindere dalla produzione di un atto contrario ai doveri del proprio ufficio. La soluzione, in realtà, offre il fianco ad una serie di criticità connesse ad una paventata incoerenza sanzionatoria esistente fra le due figure di reato, criticità evidenziate da un altro filone giurisprudenziale che, se ravvivato, potrebbe provocare un futuro intervento chiarificatore delle Sezioni Unite.
1. Il fatto
La Sentenza in commento chiude una vicenda che vede come protagonista un dirigente responsabile dell’area tecnica edilizia di un Comune, il quale aveva fatto in modo da garantire al fratello del Sindaco la propria disponibilità nell’orientare le procedure ad evidenza pubblica bandite per l’affidamento del servizio di trasporto e gestione dei rifiuti solidi urbani, disponibilità che effettivamente si concretizzava nella aggiudicazione di una gara di appalto bandita nel 2017. In sede di indagini preliminari il Gip aveva emesso la misura coercitiva degli arresti domiciliari ravvisando gravi indizi di colpevolezza con riferimento alle imputazioni provvisorie di corruzione propria in continuazione ex art. 319 e 81 c.p., in concorso con il reato di turbativa d’asta ex art. 353 e 110 c.p.
In sede di riesame, il Tribunale ravvisava che, per quanto il dirigente avesse posto in essere una condotta di stabile asservimento della funzione pubblica agli interessi privati di una famiglia, al fine di ottenerne un tornaconto personale, ad ogni modo il provvedimento di aggiudicazione che ne era scaturito non era stato adottato in violazione di norme di leggi o di regolamenti. In virtù di tale riqualificazione del fatto il Tribunale del riesame inquadrava la fattispecie nell’ambito della corruzione per esercizio della funzione ex art. 318c.p., sostituendo la misura coercitiva degli arresti domiciliari con quella dell’interdizione dai pubblici uffici, ritenendo quest’ultima maggiormente proporzionata alla fattispecie.
In seguito a tale riqualificazione il PM impugnava la modifica del provvedimento cautelare in Cassazione, ritenendo che il Tribunale avesse errato nel ravvisare nella condotta dell’imputato un "generico asservimento della funzione" in luogo di una messa a disposizione concretizzatasi in atti formalmente legittimi che tuttavia si erano conformati all'obiettivo di realizzare l'interesse del privato, nel contesto di una logica globalmente orientata alla realizzazione di interventi diversi da quelli istituzionali, condotta pacificamente ritenuta sussumibile nel reato di cui all’art. 319 c.p. da buona parte della giurisprudenza di legittimità. La Cassazione rigettava il ricorso ritenendolo infondato.
2. La pronuncia
La Suprema Corte di Cassazione, Sez. VI, con la Sentenza del 6 novembre 2019 (ud. 19 settembre 2019), n. 45184 ha stabilito il seguente principio: “lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, realizzato attraverso l’impegno permanente a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata, integra il reato di cui all’art. 318 cod. pen. e non il più grave reato di corruzione propria di cui all’art. 319 cod. pen., salvo che la messa a disposizione della funzione abbia prodotto il compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio”.
La suddetta massima giurisprudenziale si inserisce nel solco già tracciato da un orientamento giurisprudenziale formatosi, seppur di poco, per secondo rispetto a quello che si era generato agli albori della nuova normativa avutasi per effetto della L. 190/2012, la quale, nell'intento di ricostruire una risposta più incisiva e delineata nei confronti della criminalità dilagante all'interno della Pubblica Amministrazione, si era concentrata, in particolare, sulla rimodulazione degli incerti confini esistenti sia fra la concussione e la corruzione – mediante la scissione dalla prima nei reati di concussione e induzione indebita a dare o promettere utilità – sia fra le due forme di corruzione previste dal codice penale: quella "propria" (ovvero per atti contrari ai doveri di ufficio) e quella "impropria" (che nella versione precedente aveva ad oggetto il mercimonio di atti comunque riconducibili ai poteri esercitabili dal pubblico ufficiale).
Per comprendere bene la portata della questione, non ancora definitivamente sopita, occorre ripercorrere brevemente le tappe della evoluzione legislativa avutasi in tale ambito.
2. Il percorso evolutivo della normativa in tema di corruzione
Come si è detto, il codice penale in origine prevedeva due figure principali di corruzione. La prima era la corruzione per un atto di ufficio, detta anche corruzione impropria, regolamentata dall’art. 318 c.p., e che comprendeva la c.d. "corruzione impropria antecedente”, consistente nella ricezione, da parte del pubblico ufficiale, della promessa o della dazione di denaro o di altra utilità quale indebita retribuzione finalizzata al compimento di un atto del proprio ufficio, e la c.d. “corruzione impropria susseguente”, che ricollegava tale promessa o dazione ad un atto di ufficio già compiuto.
Allo stesso modo, l’art. 319 c.p. che disciplinava la corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio distingueva al suo interno la c.d. “corruzione propria antecedente” e la "corruzione propria susseguente”, e consisteva nella condotta del pubblico ufficiale che «per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità, o ne accetta la promessa».
Entrambe le figure, orientate a tutelare il bene giuridico della imparzialità e del buon andamento della azione amministrativa di cui all’art.97 Cost.,[1] delineavano la corruzione come un reato a concorso necessario proprio, incentrato sul pactum sceleris fra pubblico ufficiale e privato. Ancora oggi è possibile affermare che, differentemente dai fenomeni concussivi, i protagonisti del negozio intavolano una trattativa in posizione di parità e la condotta del pubblico ufficiale – diversamente dall’odierno reato di induzione indebita ex art. 319quater c.p.[2] – non deve transitare per il presupposto, lì indispensabile, dell’abuso delle qualità e dei poteri nei confronti del privato posto in essere dall’organo della P.A. Tuttavia, nella loro precedente formulazione, le due fattispecie di corruzione erano ancorate al necessario compimento di uno specifico “atto” conforme o contrario ai doveri di ufficio, la cui esistenza (o anche la sua omissione) doveva necessariamente essere provata dalla pubblica accusa.
Grazie alla riforma, avutasi mediante la L. 190/2012, l’art. 318 prevede oggi che << il pubblico ufficiale che, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve per sé o per un terzo denaro o altra utilità o ne accetta la promessa viene punito con la reclusione da uno a sei anni >>.[3]
Viene eliminato dal concetto di corruzione impropria sia il riferimento al compimento di uno specifico atto, sia il concetto di retribuzione che in passato lasciava scorgere un implicito riferimento alla proporzionalità e alla esistenza di un rapporto sinallagmatico fra le parti[4]. Viene superata anche la distinzione in termini di disvalore giuridico fra corruzione antecedente e susseguente, punite con lo stesso trattamento sanzionatorio. Secondo alcuni autori – ma la questione, come vedremo, deve ancora ritenersi aperta – doveva ritenersi superata la stessa distinzione fra corruzione propria ed impropria in quanto la corruzione per atto contrario di cui all’art. 319 c.p., rimasta immutata, appare in rapporto di genere a specie con la fattispecie di cui all’art. 318 c.p., o addirittura di progressione criminosa, in quanto nel primo caso si verifica un asservimento della pubblica funzione ad interessi privati, efficacemente sintetizzati nella suggestiva espressione “messa a libro paga”, mentre nel secondo caso tale asservimento si concretizza nel compimento di un atto contrario ai propri doveri o nella omissione di un atto che andava compiuto. Secondo altri autori, invece, il compimento dello specifico atto continua ad avere una sua autonomia funzionale rispetto al reato di cui all’art. 318 c.p., non potendosi inquadrare la corruzione propria dell’art. 319 c.p. solo come una specificazione del più ampio asservimento della funzione pubblica.[5] La “messa a libro paga” effettivamente può rimanere tale o, come nel caso oggetto della pronuncia in commento, può sfociare in un atto poi conforme ai doveri di ufficio. In quest’ultimo caso, l’incriminazione scatta solo per la condotta tenuta e non per l’evento a valle, di per sé lecito.
La fattispecie di cui all’art. 318 c.p. così come oggi rimodulata, può essere classificabile, a parere dello scrivente, come reato solo eventualmente abituale, in quanto l’asservimento della funzione pubblica può essere stabile, ma anche occasionale. Secondo i più recenti e condivisibili arresti giurisprudenziali, trattasi di un reato di pericolo presunto, in quanto il giudice non è chiamato ad accertare l’esistenza di un effettivo pericolo per il buon andamento della pubblica amministrazione, né l’esistenza della produzione di un evento pericoloso. Il legislatore, infatti, anticipando la soglia della punibilità, pare abbia ritenuto irrilevante che a valle di tale asservimento vi sia o meno la produzione di uno o più atti del proprio ufficio. Tale inquadramento assume un rilievo fondamentale sia, come nel caso di specie, ai fini della sussunzione dei casi concreti in una piuttosto che nell’altra fattispecie, sia in tema di successione di leggi nel tempo e di concorso di reati.
Con riferimento al conflitto intertemporale, infatti, secondo alcuni esponenti della dottrina la nuova formulazione dell’art. 318 c.p. punirebbe delle condotte di generico asservimento prima non sanzionabili e quindi non riconducibili a nessuna delle due fattispecie[6], mentre, secondo un’altra opinione, il legislatore del 2012 avrebbe inteso sottrarre tale condotta dall’art. 319 c.p., lasciando a quest’ultimo un ambito di operatività più ristretto[7].
In ordine al possibile concorso di reati, occorre premettere che entrambe le figure si presentano come due reati a duplice schema di perfezionamento "promessa – dazione", con la conseguenza che la “messa a libro paga” seguita da un atto contrario ai doveri d’ufficio posto in essere in esecuzione di quel pactum sceleris effettivamente dovrebbe indurre l’interprete ad intravedere nell’adempimento dell’accordo un post factum non punibile perché già assorbito dal disvalore della precedente condotta. Tuttavia, ad una lettura più attenta, le due ipotesi dovrebbero comunque concorrere in quanto, diversamente ragionando, si finirebbe per premiare il funzionario esecutore solo perché messo a stipendio dal corruttore.[8]
3. La questione
I problemi più critici, che ci riconducono alla questione sottesa alla pronuncia qui in commento, riguardano la rilevanza degli atti compiuti dal pubblico ufficiale che abbia stabilmente piegato la pubblica funzione agli interessi dei singoli.
La distinzione oggi rimodulata fra l’art. 318 c.p. e l’art. 319 c.p., infatti, presenta una non ignorabile aporia sanzionatoria data dal fatto che il compimento di un unico atto isolato contrario ai doveri di ufficio determina per ciò solo una pena notevolmente più severa rispetto a colui che vende stabilmente la messa a disposizione dei pubblici poteri. Questa contraddizione riappare ogni qual volta il pubblico ufficiale mette a disposizione i propri poteri discrezionali agli interessi egoistici dei singoli, pur compiendo atti formalmente non contrari a nessuna disposizione di legge.
Sul punto, un primo orientamento inaugurato dalla Sentenza n. 9883/2014 qualifica le ipotesi di intero asservimento della funzione pubblica tramite la “messa a libro paga” del privato corruttore come ipotesi di corruzione propria ex art. 319 c.p., recuperando un orientamento già formatosi precedentemente alla riforma del 2012. Gli Ermellini, infatti, all’epoca scrivevano: “Pur sottacendo le discrasie logiche e concettuali che paiono opporsi alla configurabilità di un asservimento delle funzioni pubbliche volto al compimento di atti conformi alle funzioni e ai doveri del pubblico ufficiale […], atteso che il criterio distintivo tra corruzione propria e corruzione impropria non è dato dalla mera legittimità o meno dell’atto o delle attività compiute, ma dalle modalità e dagli scopi sottostanti o strumentali con cui l’uno e le altre sono in concreto realizzati, non sembra incongruo un semplice rilievo che offre la misura della problematica suscitata dalla novellata normativa. Invero, appare ben singolare che una disciplina normativa (quella introdotta dalla L. 190/2012) tesa ad armonizzare le disposizioni sanzionatorie di sempre più diffusi fenomeni di corruzione e a renderne più agevole l’accertamento e la perseguibilità, offra il fianco a possibili rilievi in termini di graduazione dell’offensività, di ragionevolezza (art. 3Cost.) e di proporzionalità della pena (art. 27 Cost.). Rilievi, questi, non privi di spessore allorché si consideri che la condotta di un pubblico ufficiale che compia per denaro o altra utilità un solo suo atto contrario ai doveri di ufficio (ad es. rilasci un permesso di accesso in ztl non consentito) sia punito con una cospicua pena oscillante fra i quattro e gli otto anni di reclusione (come da novellato incremento delle pene dell’art. 319 c.p.). Laddove un pubblico funzionario, stabilmente infedele, che ponga l’intera sua funzione e i suoi poteri al servizio di interessi privati per un tempo prolungato, con contegni di infedeltà sistematici e in relazione ad atti contrari alla funzione non predefiniti o non specificamente individuabili ex post, si vedrebbe oggi, secondo la tesi del ricorrente, irrazionalmente punito con una pena assai più mite” […].[9]
In altre parole, secondo questo primo orientamento della Suprema Corte non è costituzionalmente ragionevole che colui che metta a disposizione del privato, in modo continuativo e prolungato, i pubblici poteri di cui è munito in cambio di una controprestazione possa essere punito più severamente di colui che, parimenti retribuito, ponga in essere un solo atto contrario ai doveri del suo ufficio. Di conseguenza, quando il potere speso a valle di uno stabile asservimento si concretizza in un provvedimento amministrativo solo formalmente legittimo, appare doverosa, perché più razionale, l’applicazione dell’art. 319c.p.
La posizione sopra espressa è stata contraddetta da un secondo orientamento nomofilattico inaugurato dalla Sentenza della Cassazione 49226/2014 – filone giurisprudenziale in cui si ascrive anche la pronuncia in commento – secondo il quale il criterio distintivo fra i due reati andrebbe rinvenuto nella presenza o meno dell’esercizio delle proprie funzioni, senza che debba venire necessariamente in rilievo la prova del nesso eziologico fra questa condotta e il compimento di uno specifico atto. La fattispecie di cui all’art. 318 c.p., pertanto, si configurerebbe come un reato di pericolo, rivolto a tutelare il buon andamento della P.A. anticipando la soglia della punibilità. Pertanto, secondo questa tesi, “i comportamenti che in precedenza andavano sussunti nel reato di corruzione propria ex art. 319 c.p. ricadono ora nell’area dell’art. 318 c.p., sempre che i pagamenti avvenuti non siano ricollegabili al compimento di uno o più atti contrari ai doveri di ufficio”.[10] Seguendosi questo secondo orientamento dei Giudici di Piazza Cavour, pertanto, è normale che una fattispecie di pericolo sia più lievemente punita rispetto ad una di danno. Cosicché solo la comparsa di un atto espressamente contrario ai doveri di ufficio funzionalmente collegato a tale asservimento lascia transitare l’intera condotta posta in essere dai protagonisti dell'accordo corruttivo nell’area presidiata dal più severo art. 319 c.p. In mancanza, si applicherà sempre e solo l’art. 318 c.p.
Alla base di questa idea, maggioritaria già da prima che intervenisse la riforma del 2012, vi è la convinzione che, sotto il profilo del disvalore giuridico, un comportamento oggetto di mercimonio concretizzatosi in un atto non esorbitante dai propri poteri e formalmente ricollegabile ai doveri del proprio ufficio perché rientrante nel novero delle determinazioni concretamente opzionabili dal pubblico ufficiale non sia maggiormente rimproverabile rispetto al compimento di un singolo atto illegittimo, posto in essere in violazione di leggi o di regolamenti.
In realtà questo assunto potrebbe essere mitigato se si prendesse maggiormente in considerazione il maggior disvalore giuridico insito nel frequente uso distorto della discrezionalità amministrativa. In particolare, occorrerebbe chiedersi: quando il pubblico ufficiale pone in essere una vera e propria vendita della discrezionalità amministrativa, di carattere permanente ma priva di un atto a valle ritenuto illegittimo, egli commette il reato di corruzione impropria ex art. 318c.p. o il reato di corruzione propria ex art. 319 c.p.?
4. La ricostruzione del concetto di atto contrario ai doveri di ufficio e la giusta collocazione del provvedimento discrezionale
Occorre premettere che in diritto amministrativo un atto è vincolato quando, in presenza dei requisiti previsti dalla legge, il pubblico ufficiale, accertato che nel caso concreto ricorrano questi ultimi, non può fare altro che adottare il provvedimento, secondo lo schema norma – fatto – effetto. Un atto, invece, è discrezionale quando l’applicazione della legge al caso concreto sia filtrata da una scelta discrezionale del pubblico ufficiale in virtù di un potere conferitogli dalla legge, secondo lo schema norma – potere – effetto.
Come si è detto, il nodo più difficile da sciogliere si presenta quando il pubblico ufficiale, pur ricevendo denaro o altre utilità affinché egli si pronunci in un certo modo, compia a valle un atto comunque conforme ai suoi doveri di ufficio, ovvero rientranti nel novero di quelle determinazioni che egli poteva comunque porre in essere perché previste dalla legge. In realtà, diversamente da quanto afferma la Cassazione con la pronuncia in commento, potrebbe ritenersi che l’atto così compiuto sia contrario ai doveri di ufficio, con conseguente applicazione della più severa sanzione del 319 c.p., perché inquinato dalla condotta tenuta a monte.
In questi termini si è espressa, ad esempio, Cass. Pen., Sez. VI, Sent. del 12 febbraio 2016 n.7731, recuperando alcuni orientamenti della Suprema Corte emersi anteriormente alla riforma del 2012.[11]
Quando la scelta discrezionale non è suggerita dagli scopi istituzionali che il pubblico ufficiale dovrebbe prefiggersi, infatti, il potere discrezionale esercitato va a vantaggio degli interessi egoistici del privato corruttore e a discapito della collettività. Questa seconda visione potrebbe suggerirci una soluzione, almeno in parte, diversa a quella raggiunta in precedenza, o forse semplicemente specificare meglio la conclusione confermata anche dalla Sentenza 45184 del 2019 che qui si commenta. Secondo questo diverso orientamento, infatti, “il potere discrezionale non è libero da canoni e limiti, ma, al contrario, è destinato ad essere esercitato in un quadro di regole che ne assicurano il corretto esercizio e ne indicano i naturali confini: l’imparzialità dell’azione e l’effettiva e concreta finalizzazione del potere alla realizzazione dello specifico interesse pubblico che l’ufficio ha il compito di curare. Ne consegue che, nel contesto delle norme incriminatrici della corruzione, l’esercizio del potere discrezionale costituirà atto contrario ai doveri di ufficio nei casi in cui il pubblico ufficiale agisca violando consapevolmente le fondamentali regole di esercizio di tale potere. E vi sarà corruzione propria ex art. 319 c.p. quando per tale violazione il pubblico ufficiale accetti consapevolmente una retribuzione”.
Particolarmente apprezzabile risulta questa pronuncia nella parte in cui si specifica che “non assume rilievo scriminante la circostanza che gli atti amministrativi concretamente posti in essere abbiano superato il vaglio di legittimità del giudice amministrativo, giacché il risultato di tale vaglio è un risultato contingente e particolare, connesso alle concrete modalità di impostazione e di svolgimento del giudizio amministrativo […]. Neppure si può attribuire valore scriminante all’asserita effettiva rispondenza dell’atto all’interesse pubblico in quanto tale affermazione è un mero postulato, non verificabile dal giudice penale a causa dell’inidoneità, istituzionale e di fatto, del giudizio penale a funzionare come sede di un controllo di effettiva rispondenza dell’atto all’interesse pubblico […],” anche se in parziale contraddizione con le conclusioni finali, ove la Sesta Sezione asserisce che “Qualora, invece, l’atto discrezionale risulti assolutamente identico per contenuto e modalità a quello che sarebbe stato comunque adottato a tutela del pubblico interesse, il pagamento corruttivo può considerarsi ininfluente sulla conformità ai doveri di ufficio e dunque riconducibile alla fattispecie della c.d. corruzione impropria” (per esercizio della funzione).
Volendo riassumere, è possibile affermare che il giudice, specialmente dinanzi ad una attività di carattere discrezionale, dovrà necessariamente valutare in primo luogo la presenza di una condotta di stabile asservimento della funzione pubblica; in seconda battuta, egli dovrà verificare l’eventuale presenza di un atto conforme o contrario ai doveri di ufficio. Mentre nel secondo caso (quello dell’atto palesemente difforme alla legge) si avrà la massima gravità del comportamento tenuto dal pubblico ufficiale, per cui è giusto che la fattispecie ricada nel più severo ambito dell’art. 319 c.p., nel primo caso (quello dell'atto conforme) occorrerà distinguere: se l’atto appare sostanzialmente conforme ai doveri di ufficio, che esso sia la conseguenza di quella attività di stabile asservimento della funzione oggetto dell’accordo corruttivo poco importa, la fattispecie rimarrà governata dall'art. 318 c.p.; se invece il provvedimento (anche tacito) formalmente rientrante nel novero delle possibili scelte opzionabili dal pubblico ufficiale è inquinato a monte e la spendita della discrezionalità non appare libera dagli influssi dell’accordo corruttivo, allora la fattispecie sarà sempre sussumibile nella corruzione propria ex art. 319 c.p.
Ragionando diversamente, l’art. 319c.p. troverebbe applicazione solo nei casi in cui il pubblico ufficiale adotta un atto che non può emanare, perché manifestamente contrario alla legge o perché totalmente avulso dalle sue competenze (rimanendo fuori l’eccesso di potere, che, non a caso, è proprio il tipico vizio dei provvedimenti di carattere discrezionale).
6. Conclusioni
Alla luce di quanto sopra esposto, pertanto, dovrebbe giungersi ad una conclusione più articolata rispetto a quella fornita dalla Sentenza 45184 dello scorso novembre.
Quando la “messa a libro paga” si sia arrestata lì (alla soglia del mero pericolo), o abbia prodotto un atto o un comportamento rientrante fra i doveri del pubblico ufficiale e sostanzialmente rispettoso di questi, allora la fattispecie ricadrà, oggi come allora, nel più benevolo trattamento sanzionatorio della corruzione per esercizio della funzione ex art. 318 c.p. Quando invece dalla messa a disposizione sia scaturito un atto del pubblico ufficiale contrario ai propri doveri – non solo perché l’atto appare formalmente illegittimo ma anche nei casi in cui esso sia il frutto di uno sviamento del potere eziologicamente riconducibile al patto corruttivo – allora il fatto concreto, anche se collegato ad una attività di stabile asservimento della funzione pubblica, ricadrà inevitabilmente nel regime giuridico della corruzione propria ex art. 319 c.p. In questo secondo caso, però, la pubblica accusa sarà tenuta a dimostrare il nesso eziologico fra accordo corruttivo e l'evento, specie quando tale asservimento sia sfociato in un provvedimento discrezionale inquinato a monte. D’altro canto, non vi sarà alcuna pregiudizialità fra il processo penale e l'eventuale giudizio amministrativo instaurato da terzi per ottenere la caducazione del provvedimento dinanzi al G.A. ed un eventuale sentenza favorevole che dovesse disconoscere l’esistenza del vizio di eccesso di potere non escluderà a priori la rilevanza penale della condotta posta in essere.
La questione non appare affatto sopita in giurisprudenza, tant’è che la stessa Corte ravvisa un contrasto giurisprudenziale che, tuttavia, non intende dirimere rimettendo la questione alle Sezioni Unite, limitandosi ad una adesione secca alla seconda scuola di pensiero. Essa infatti scrive: “l'orientamento sostenuto dal ricorrente che "configura il reato di corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio - e non il più lieve reato di corruzione per l'esercizio della funzione, di cui all'art. 318 c.p. - lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, che si traduca in atti, che, pur formalmente legittimi, in quanto discrezionali e non rigorosamente predeterminati, si conformano all'obiettivo di realizzare l'interesse del privato nel contesto di una logica globalmente orientata alla realizzazione di interessi diversi da quelli istituzionali" (Sez. 6, sent. n. 46492 del 15/09/2017, Argenziano, Rv. 271383; conf. Sez. 6, sent. n. 3606 del 20/10/2016, dep. 24/01/2017, Bonanno, PC e altri, Rv. 269347; Sez. 6, sent. n. 29267 del 05/04/20lB1-Baccari e al., Rv. 273448), contrasta, tuttavia, consapevolmente con il principio affermato dall'arresto costituto da Sez. 6, sent. n. 4486 del 11/12/2018, dep. 29/01/2019, Palozzi, Rv. 274984, secondo cui "in tema di corruzione, lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi realizzato attraverso l'impegno permanente a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata, integra il reato di cui all'art. 318 c.p. e non il più grave reato di corruzione propria di cui all'art. 319 c.p., salvo che la messa a disposizione della funzione abbia prodotto il compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio (Sez. 6, sent. n. 4486 del 11/12/2018, dep. 29/01/2019, Palozzi, Rv. 274984).”
Ci si auspica, per il futuro, un intervento chiarificatore che, collocandosi quantomeno nella posizione mediana sopra indicata, possa chiarire definitivamente questi dubbi interpretativi.
Note e riferimenti bibliografici
[1] G. Fiandaca – E. Musco, Diritto Penale – parte speciale, vol. I, IV ed., Milano, 2008, 220. Secondo una diversa opinione, ormai superata ma non meno autorevole, si tutelerebbe il prestigio e la legittimità dell’azione amministrativa.
[2] Secondo l’insegnamento delle SS.UU. 12228/2014 (Maldera) nella induzione indebita, a fronte di un abuso dei poteri tale da provocare un condizionamento, una persuasione, un malizioso convincimento, il privato, lungi dal piegarsi alla volontà altrui esternata in forma di minaccia, consegue invece un vantaggio ingiusto grazie all’operato del pubblico ufficiale, fenomeno da valutarsi ai fini della sussunzione del caso nella induzione indebita piuttosto che nella concussione tenendo in considerazione tutte le circostanze del caso concreto e non solo la condotta posta in essere dai due soggetti. Il reato in questione, frutto di un mero spacchettamento del legislatore effettuato in termini chiarificatori, non comporta una successione di leggi nel tempo ma una continuità normativa, con conseguente abrogatio sine abolitione delle precedenti condotte induttive.
[3] Il massimo edittale di pena è stato elevato da cinque a sei anni con l’ultimo intervento avutosi con la legge anticorruzione 69/2015.
[4] Tuttavia non è seriamente revocabile in dubbio che i piccoli donativi, purché “di modico valore e mantenuti nei normali rapporti di cortesia”, ex art. 1, co. 44, L. 190/2012, dovrebbero uscir fuori dall’ambito del penalmente rilevante. In questo senso, F. Caringella – M. De Palma – S. Farini – A. Trinci, Manuale di diritto penale - parte speciale, III ed., DIKE, 2013, 185; D. Pulitanò, Legge anticorruzione, (L. 6 novembre 2012.190), Giuffrè, Milano, 2012, 8;
[5] Per un quadro complessivo Cfr. T. Padovani, La messa “a libro paga” del pubblico ufficiale ricade nel nuovo reato di corruzione impropria, in Guida dir., 2012, 9.
[6] C.F. Grosso, Nodi controversi in tema di riforma dei delitti di corruzione e concussione, in CP, 1999, 3277.
[7] S. Spadaro – A. Pastore, Legge anticorruzione (L. 190/2012), in Il Penalista, 12, 46.
[8] F. Caringella – M De Palma – S. Farini – A. Trinci, op.cit., III ed., DIKE, 2013,190.
[9] Cass. Pen., Sez. VI, 28 febbraio 2014, n. 9883; negli stessi termini, fra le più significative cfr. Cass. Pen., Sez. VI, 25 settembre 2014 n. 47271, Cass. Pen. Sez. VI, 11 febbraio 2016 n.8211 e Cass. Pen., Sez. VI, 23 febbraio 2016, n. 15959.
[10] Cass. Pen. Sez. VI, 11 febbraio 2014, n. 49226 in www.italgiure.giustizia.it;
[11] Negli stessi termini e ancor più di recente Cass., sez. VI, Sent. 27 luglio 2017, n. 35940 pubblicata sul sito www.dirittopenalecontemporaneo.it, comm. da M. Minervini, “il controverso rapporto tra i delitti di corruzione e la discrezionalità amministrativa”, 12, 2017. Quanto agli orientamenti precedenti alla riforma del 2012, ci si riferisce in particolare a Cass. Pen. Sez. VI, 19 giugno 2006, n.21117 e Cass. Pen. 26 settembre 2006 n. 38698.
BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA
C.F. Grosso, Nodi controversi in tema di riforma dei delitti di corruzione e concussione, in CP, 1999
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