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Maltrattamenti in famiglia: la Cassazione sulla rilevanza penale della violenza economica
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Pubbl. Ven, 27 Giu 2025

Maltrattamenti in famiglia: la Cassazione sulla rilevanza penale della violenza economica

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autori Francesco Gasbarra , Giulia Sanginiti



La sentenza n. 1268/2025 della Suprema Corte riconosce la ”violenza economica” come forma autonoma di abuso nei maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.), superando il precedente orientamento che la subordinava a violenza fisica o psicologica. Influenzata dalla direttiva UE 2024/2385, la pronuncia evidenzia come il controllo finanziario possa limitare la libertà della vittima, segnando un passo avanti nella tutela delle dinamiche familiari.


ENG Supreme Court ruling no. 1268/2025 recognizes ”economic violence” as an autonomous form of abuse within domestic mistreatment (Article 572 of the Criminal Code), moving beyond the previous stance that subordinated it to physical or psychological violence. Influenced by EU Directive 2024/2385, the ruling highlights how financial control can restrict the victim´s freedom, marking a step forward in protecting family dynamics.

Sommario: 1.Premessa; 2. La sentenza Cass. Pen. VI sez. n. 43960/2015; 3. La “violenza economica; 4. La sentenza Cass. Pen., Sez. VI, n. 1268/2025; 5. Conclusioni

1. Premessa

Nel presente contributo si procederà all’analisi e al commento della sentenza n. 1268 del 2025, con cui la Suprema Corte è intervenuta a chiarire il concetto di “violenza economica” nell’ambito della fattispecie di reato prevista e punita dall’art. 572 c.p., rubricato “maltrattamenti contro familiari e conviventi”.

Per comprendere appieno la portata innovativa di tale pronuncia, appare opportuno ripercorrere sinteticamente l’evoluzione giurisprudenziale in materia.

2. La sentenza Cass. Pen., Sez. VI, n. 43960/2015

Fino alla recente pronuncia oggetto del presente commento, l’unico precedente rilevante sul tema era rappresentato dalla massima della sentenza n. 43960 del 2015[1]. In tale occasione, la Corte aveva affermato il principio secondo cui: «l’aver impedito alla persona offesa di essere economicamente indipendente non può ritenersi circostanza idonea a integrare una ‘violenza economica’ riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 572 c.p. La norma, infatti, presuppone condotte vessatorie in grado di provocare un autentico stato di prostrazione psico-fisica nella vittima, mentre le scelte economiche e organizzative all’interno del contesto familiare, sebbene non condivise da entrambi i coniugi, non integrano di per sé gli estremi del reato, salvo che non risultino essere l’esito di comprovati atti di violenza fisica o prevaricazione psicologica».

A parere di chi scrive, tale impostazione comportava una significativa restrizione dell’ambito applicativo della nozione di “violenza economica”, relegandola a mero corollario di un più ampio contesto di abusi e soprusi. È evidente, infatti, come atti di violenza fisica o psicologica, anche se aventi riflessi sul piano economico, siano già di per sé idonei a integrare la fattispecie di cui all’art. 572 c.p.; ciò rendeva il profilo economico un aspetto marginale, sebbene in realtà non lo fosse affatto.

In estrema sintesi, dalla lettura della sentenza del 2015 si desume che, secondo la Suprema Corte, la “violenza economica” può essere effetto di uno stato di vessazione psico-fisica, ma non la sua causa.

La direttiva UE 2024/2385 esprime, tuttavia, una visione diversa. Nei suoi considerando viene chiarito come la “violenza economica”, al pari di ogni altra forma di abuso, sia idonea a ledere in modo autonomo la libertà individuale della vittima. È evidente come, anche in assenza di atti espliciti di coercizione fisica o psicologica, l’esercizio di un controllo finanziario possa tradursi in un vantaggio indebito da parte dell’autore del reato, senza necessità di ricorrere ad ulteriori forme di sopraffazione[2].

3. La “violenza economica”

La complessità della tematica non consente un’esauriente trattazione in questa sede. Tuttavia, appare opportuno soffermarsi brevemente sulla nozione di violenza economica, così come delineata dalla recente normativa europea[3].

La Direttiva (UE) 2024/1385, adottata il 14 maggio 2024, ha introdotto un quadro normativo armonizzato volto a prevenire e contrastare la violenza contro le donne e la violenza domestica in tutta l’Unione Europea. Tra le varie forme di abuso riconosciute, la direttiva attribuisce specifica rilevanza alla violenza economica, definendola come qualsiasi atto o omissione che provochi o possa provocare danni o sofferenze economiche alla vittima, anche in assenza di coercizione fisica o psicologica esplicita.

Tale forma di violenza si concretizza attraverso comportamenti sistematici e pervasivi, finalizzati a instaurare e mantenere un controllo sull’autonomia finanziaria della vittima. In particolare, possono rientrare tra questi:

  • L’ostacolo all’accesso al lavoro, mediante il controllo degli spostamenti, l’isolamento sociale o l’imposizione di ruoli domestici esclusivi;
  • Il controllo delle risorse economiche, come l’appropriazione dei guadagni della vittima, la coazione alla cessione dello stipendio o la limitazione nella gestione autonoma del proprio denaro;
  • Lo sfruttamento di condizioni di disagio economico, attraverso la promessa o la dazione di denaro in cambio di comportamenti specifici, approfittando della vulnerabilità finanziaria della vittima.

È importante sottolineare che la violenza economica può verificarsi non solo in situazioni di indigenza assoluta, ma anche in contesti apparentemente agiati. Si pensi, ad esempio, a una coppia con regime di separazione dei beni in cui solo uno dei coniugi percepisca un reddito: la gestione unilaterale delle risorse finanziarie può riflettere uno squilibrio di potere e configurare una forma di controllo economico. In questi casi, la documentazione finanziaria (come estratti conto, buste paga o contratti di lavoro) può costituire una prova rilevante per dimostrare la sussistenza di condotte abusive e supportare la vittima nel percorso di tutela legale.

Su questo sfondo, la giurisprudenza – per quanto non ancora consolidata – aveva già espresso, in taluni arresti, un primo riconoscimento della rilevanza giuridica della violenza economica. In particolare, si è affermato che «il discrimine tra rilevanza penale e irrilevanza non è rappresentato dal mero consenso, bensì dalla presenza di una “utilizzazione”, ossia di una condotta che, a seguito di un accertamento complessivo, riveli forme di coercizione o condizionamento della volontà. A tale nozione si aggiungono la dazione o promessa di denaro in cambio dell’attività di ripresa o registrazione di immagini e l’approfittamento delle condizioni economiche del minore»[4].

Poiché l’ordinamento civilistico riconosce come vizi del consenso unicamente l’errore, la violenza e il dolo[5], e considerato che nel caso di specie la Corte non richiama né un fraintendimento sulle circostanze di fatto o di diritto (escludendo così l’errore), né comportamenti ingannevoli o artificiosi (inidonei quindi a configurare il dolo), appare plausibile ritenere che l’attenzione del giudice si sia concentrata sull’ipotesi della violenza. In particolare, lo sfruttamento di una condizione di grave vulnerabilità economica è stato interpretato non come una mera disparità tra le parti, bensì come una vera e propria forma di sopraffazione, capace di comprimere la libertà negoziale dell’individuo. Si tratta, in altre parole, di una forma atipica di violenza, priva di manifestazioni fisiche o esplicitamente coercitive, ma comunque idonea – per intensità e reiterazione – a incidere in modo significativo sulla volontà del soggetto, compromettendone l’autonomia decisionale. Anche in assenza di una esplicita qualificazione sanzionatoria autonoma, tale lettura consente di cogliere nel ragionamento della Corte un riconoscimento implicito della violenza economica come vizio del consenso rilevante sul piano giuridico.

Tuttavia, va osservato che fino a tempi recenti, e anche con la pronuncia n. 1268/2025, la Cassazione non ha ancora operato un vero mutamento di paradigma. Nonostante tale decisione rappresenti un passo importante nel riconoscimento della violenza economica nel contesto dei maltrattamenti familiari, non si è giunti all’elaborazione di una fattispecie autonoma e stabile. Le sentenze precedenti, infatti, tendevano a ricondurre simili condotte a forme di coercizione morale o minaccia esplicita, ai sensi dell’art. 1435 c.c. [6], limitandone la rilevanza a ipotesi di intimidazione manifesta e puntuale. Anche con la recente pronuncia, la qualificazione giuridica resta ancorata all’ambito della violenza familiare ex art. 572 c.p., rispecchiando un’interpretazione conforme alla Convenzione di Istanbul e alle Direttive europee, più che la volontà di introdurre una nuova categoria penale autonoma.

In definitiva, sebbene la violenza economica sia più facilmente riscontrabile in contesti di estrema indigenza, essa può manifestarsi anche all’interno di relazioni caratterizzate da una disparità strutturale di potere economico, pur in assenza di “comprovati atti di violenza fisica o prevaricazione psicologica”. Il riconoscimento di tali dinamiche rappresenta un terreno ancora in evoluzione, sul quale si misurano le esigenze di tutela sostanziale e l’adattamento delle categorie giuridiche tradizionali ai mutamenti sociali in atto.

4. La sentenza Cass. Pen., Sez. VI, n. 1268/2025

La pronuncia in oggetto rappresenta un passo avanti nel riconoscimento dell’autonomia delle condotte riconducibili alla “violenza economica”, pur cercando un raccordo con il precedente orientamento giurisprudenziale e dottrinale. La Corte tenta infatti un delicato equilibrio tra la necessità di rispettare i principi consolidati in tema di maltrattamenti familiari e l’esigenza, oggi più avvertita anche a livello normativo europeo, di riconoscere forme di abuso meno manifeste, ma altrettanto lesive[7].

In tale ottica, la Corte richiama espressamente la sentenza n. 43960/2015, ribadendo che: «le scelte economiche e organizzative in ambito familiare, ancorché non condivise, non sono di per sé sufficienti a integrare il reato di maltrattamenti, salvo che si dimostri che esse siano frutto di atti di violenza fisica o psicologica». Questo richiamo evidenzia come la giurisprudenza tradizionale abbia sempre privilegiato una visione “classica” della violenza domestica, ancorata a manifestazioni tangibili di sopraffazione, come l’aggressione fisica o la coercizione psicologica manifesta. In tal senso, le decisioni economiche assunte unilateralmente da un membro della coppia venivano interpretate come espressione di conflitti relazionali privi di rilevanza penale, salvo che fossero accompagnate da elementi chiaramente riconducibili a un abuso di potere[8].

Tuttavia, la Corte sembra ora superare, almeno parzialmente, tale impostazione, anche alla luce della direttiva UE 2024/2385, la quale al considerando n. 32 afferma che: «La violenza domestica può tradursi in un controllo economico da parte dell'autore del reato, e le vittime potrebbero non avere un accesso effettivo alle proprie risorse finanziarie»[9]. Tale affermazione segna un’importante inversione di prospettiva: non è più necessario che il controllo economico sia accompagnato da ulteriori forme di coercizione visibile per essere qualificato come abuso; esso può, in quanto tale, costituire una forma autonoma e sufficiente di sopraffazione, capace di limitare gravemente l’autonomia individuale della persona offesa. Il controllo finanziario diventa, così, uno strumento di dominio relazionale e non semplicemente un effetto collaterale di dinamiche familiari disfunzionali[10].

Muovendo da tali premesse, la Corte afferma che: «emerge l’imposizione di un sistema di potere asimmetrico all’interno del nucleo familiare, in cui la componente economico-patrimoniale assume particolare rilievo, poiché rappresenta l’esito di una decisione unilaterale dell’imputato, attuata anche mediante strategie manipolatorie e pressioni psicologiche, tali da incidere sull’autonomia della persona offesa». In questa formulazione si coglie un cambiamento significativo: l’accento viene posto non solo sul risultato (cioè sull’impoverimento materiale della vittima), ma soprattutto sulle modalità attraverso cui il controllo si esercita. L’imputato non agisce necessariamente con violenza manifesta, ma attraverso dinamiche sottili di manipolazione, isolamento e condizionamento, idonee a erodere progressivamente la libertà decisionale della vittima. L’evidente valorizzazione della dimensione psicologica e relazionale dello squilibrio economico riflette un approccio più maturo e complesso al fenomeno della violenza domestica[11].

La Corte aggiunge, significativamente, che: «la confusione tra maltrattamenti e liti familiari si verifica quando non si analizzano adeguatamente le situazioni sintomatiche dell’asimmetria di genere, che talvolta caratterizza le dinamiche familiari. In questo contesto, il comportamento violento costituisce solo la manifestazione più evidente, ma non l’unica». È un passaggio di grande rilievo teorico, che invita a spostare l’attenzione dal singolo episodio al contesto relazionale complessivo, cogliendo le dinamiche di potere che attraversano la vita familiare. L’asimmetria di genere diviene, in questo senso, una chiave di lettura imprescindibile per distinguere il conflitto fisiologico dal maltrattamento strutturale[12]. La violenza, dunque, non è più solo un atto, ma un sistema.

Tale impostazione consente di considerare come condotte vessatorie anche quei comportamenti che, pur potendo apparire alla stregua di normali conflitti familiari, si collocano in una cornice di squilibrio strutturale e reiterato. L’intervento giurisprudenziale si allinea così alle più recenti acquisizioni della dottrina penalistica e delle fonti sovranazionali, che riconoscono nella “violenza economica” un fenomeno complesso, pervasivo e ancora sottostimato, la cui emersione richiede strumenti interpretativi e culturali nuovi[13].

5. Conclusioni

La sentenza in esame attribuisce rilevanza a tutte quelle condotte che, sebbene non manifestate mediante violenza fisica o prevaricazione psicologica esplicita, si concretizzano in forme di controllo economico finalizzate a limitare l’autonomia decisionale della vittima. Tale pronuncia rappresenta un’evoluzione significativa nella giurisprudenza in materia, riconoscendo la “violenza economica” come una forma autonoma di abuso, idonea a ledere profondamente la libertà personale..

Pur mantenendo un ancoraggio ai precedenti giurisprudenziali, la sentenza n. 1268/2025 segna un cambiamento nell’interpretazione delle dinamiche di potere all’interno delle relazioni familiari, sottolineando come il dominio economico possa costituire un vero e proprio strumento di coercizione. L’influenza della direttiva UE 2024/2385 è evidente e ha certamente favorito una lettura più attuale e inclusiva della norma, capace di cogliere le sfumature di una violenza meno apparente ma non meno lesiva.

Si tratta, dunque, di una decisione che, pur non rivoluzionando completamente l’orientamento precedente, introduce elementi di novità che potrebbero aprire la strada a un’applicazione più ampia ed efficace dell’art. 572 c.p. nei casi di violenza economica. Resta da verificare come tale orientamento verrà accolto e sviluppato nelle pronunce future, con l’auspicio che possa contribuire a una maggiore tutela delle vittime e al raggiungimento di un’effettiva parità di genere nei rapporti familiari.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Vi sono in vero altre sentenze, ma nessuna è stata massimata. Si veda in tal senso: Sez. VI, 30 ottobre 2015 (ud. 29 settembre 2015), n. 43960 (non massimata) In cui si afferma che impedire alla persona offesa di raggiungere l’indipendenza e l’autonomia economica costituisce una condotta idonea a integrare una forma di violenza economica, riconducibile alla fattispecie delittuosa dei maltrattamenti contro familiari o conviventi. In senso conforme, v. Sez. VI, 17 febbraio 2023 (ud. 20 ottobre 2022), n. 6937 (non massimata) In cui viene riconosciuta rilevanza anche a quelle condotte consistenti nell’imposizione di forme di risparmio economico, qualificate come modalità pervasive di coartazione e controllo esercitate dall’agente nei confronti della persona offesa, tali da determinare un regime di controllo vessatorio e mortificanti;

[2] Direttiva (UE) 2024/2385, considerando n. 32 e 33;

[3] Per approfondire la nozione di “violenza economica”, v. Giordano-De Masellis, Violenza in famiglia, Percorsi giurisprudenziali, Giuffrè, 2011, p. 7;

[4] Cass. penale sentenza n. 6558/2023;

[5] Si veda in tal senso: Torrente Schlesinger, Manuale di diritto privato, Giuffré, ult. ed., capitolo XXVII;

[6] Si veda in tal senso Cass. pen., sez. VI, 29/09/2015, n. 43960

[7] F. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale, Cedam, ult. ed., p. 422 ss;

[8] Cass. Pen., Sez. VI, sent. n. 43960/2015, in DeJure; cfr. anche M. Ronco, “Maltrattamenti e conflitti familiari”, in Cass. pen. 2016, 2, p. 487 ss;

[9] Direttiva (UE) 2024/2385 del Parlamento europeo e del Consiglio, considerando n. 32;

[10] G. Fiandaca - E. Musco, Diritto penale. Parte speciale II, Zanichelli, 2023, p. 289;

[11] A. Gullo, La violenza nelle relazioni familiari, Giappichelli, 2021, p. 115 ss;

[12] C. Saraceno, Mutamenti della famiglia e asimmetrie di genere, Il Mulino, 2019, cap. 3;

[13] UN Women, Handbook for Legislation on Violence against Women, 2012; Convenzione di Istanbul, art. 3 lett. b e relativo rapporto esplicativo