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Fine vita e Costituzione: tra cinture di protezione e scelte legislative irrisolte
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Pubbl. Ven, 4 Lug 2025

Fine vita e Costituzione: tra cinture di protezione e scelte legislative irrisolte

Gabriele Ferro
Praticante AvvocatoUniversità degli Studi di Siena



Il presente contributo si propone di esaminare la recente pronuncia n. 66/2025 della Corte costituzionale. Oggetto del giudizio in via incidentale, instaurato a seguito di ordinanza resa dal G.i.p del Tribunale ordinario di Milano, è la presunta incostituzionalità dell´art. 580 c.p., nella parte in cui circoscrive la causa di non punibilità, introdotta con la storica sentenza n. 242/2019, alla sola ipotesi in cui il soggetto sia mantenuto in vita mediante trattamenti di sostegno vitale. La Consulta, ponendosi nel solco già tracciato con la sentenza n. 135/2024, ha rigettato le censure sollevate, riaffermando l´irrinunciabile esigenza di un adeguato bilanciamento tra il diritto all´autodeterminazione e la salvaguardia del bene vita.


Sommario: 1. Introduzione; 2. Le censure sollevate dall'Autorità rimettente; 3. Un prevedibile responso negativo; 4. Conclusioni. 

Sommario: 1. Introduzione; 2. Le censure sollevate dall'Autorità rimettente; 3. Un prevedibile responso negativo; 4. Conclusioni. 

 
1. Introduzione

Nel quadro delle tensioni assiologiche che attraversano il diritto costituzionale contemporaneo, la tematica del fine vita si pone alla stregua di banco di prova privilegiato per misurare la reale capacità dell’ordinamento di offrire risposte giuridicamente coerenti e, al contempo, costituzionalmente adeguate a interrogativi esistenziali di estrema delicatezza.

In tale scenario, ancora in fieri, s’innesta la recentissima pronuncia n. 66 del 2025 della Corte Costituzionale.

Chiamati nuovamente a pronunciarsi in ordine alla latitudine applicativa della causa di non punibilità di cui all’art. 580 c.p. – introdotta, com’è noto, a seguito del chirurgico intervento di manipolazione ermeneutica operato dalla celebre pronuncia n. 242 del 2019[1] – i Giudici delle leggi riportano al centro del dibattito il delicato bilanciamento tra due valori costituzionalmente irrinunciabili: da un lato, l’interesse della collettività alla protezione del bene vita, quale indefettibile postulato del comune vivere civile; dall’altro, il diritto del singolo a determinare liberamente il proprio percorso esistenziale, anche nelle sue fasi terminali, allorquando la prosecuzione della vita stessa si intreccia, in modo drammatico, con condizioni patologiche irreversibili e sofferenze non più tollerabili.

2. Le censure sollevate dall’Autorità rimettente

Ai fini di una più agevole intelligibilità della tematica oggetto della pronuncia annotata, si impone, quale imprescindibile punto di partenza, l’esame del quesito di costituzionalità sollevato dal G.i.p. del Tribunale ordinario di Milano, con Ordinanza del 21 giugno 2024.

L’autorità rimettente dubita, in particolare, della legittimità costituzionale dell’attuale tessitura normativa dell’art. 580 c.p., nella parte in cui «prevede la punibilità della condotta di chi agevola l’altrui suicidio nella forma di aiuto al suicidio medicalmente assistito di persona non tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, affetta da una patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, che abbia manifestato la propria decisione, formatasi in modo libero e consapevole, di porre fine alla propria vita»[2].

Più in dettaglio, la prospettata illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., così come emendato dalla giurisprudenza additiva della Corte nel 2019, viene articolata su tre distinti versanti.  

In primo luogo, viene denunciata una possibile lesione del principio di eguaglianza sostanziale (art. 3 Cost.), ravvisabile, secondo la scansione argomentativa adottata dal rimettente, nella mancata inclusione, nell’alveo della scriminante procedurale enucleata dalla stessa Consulta con la pronuncia n. 242/2019, di una situazione integralmente sovrapponibile sul piano sostanziale: ovvero quella del soggetto che, pur versando in condizioni cliniche analogamente gravi e irreversibili, non sia mantenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale (d'ora in poi TSV).

Una simile opzione, obietta il G.i.p milanese, determinerebbe «una irragionevole disparità di trattamento»[3], atteso che l’estromissione di tali soggetti dal perimetro di tutela giuridicamente accordato, si giustificherebbe soltanto in base alla circostanza dell’avere quest'ultimi consapevolmente scelto di non sottoporsi a trattamenti salvavita, giacché ritenuti inutili, sproporzionati o, comunque, lesivi della propria dignità personale.

Sotto un diverso angolo visuale, la disposizione incriminata contrasterebbe, altresì, con la libertà di autodeterminazione terapeutica del singolo, congiuntamente tutelata dagli artt. 2, 13 e 32 co. 2 della Carta fondamentale.

Segnatamente, la circostanza per cui l’aiuto al suicidio penalmente lecito risulti inestricabilmente condizionato al requisito della dipendenza da TSV, inteso in senso attuale e non meramente potenziale, si tradurrebbe in una pretesa implicitamente coercitiva, risultando, di fatto, la volontà del Legislatore ingiustificatamente indirizzata a vincolare l'individuo a «un'unica modalità di congedo alla vita»[4].

Un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., infine, andrebbe rinvenuto nella sua presunta incompatibilità con l’art. 117, co. 1, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 della C.E.D.U[5].

Invero, una volta riconosciuta dall’ordinamento, seppur entro limiti rigorosi, la possibilità di ricorrere lecitamente all’aiuto al suicidio, non vi sarebbe spazio, secondo il rimettente, per tollerare un'ulteriore interferenza da parte delle Autorità nazionali rispetto alla concreta attuazione di tale diritto[6].

3. Un prevedibile responso negativo 

Pur essendo stata chiamata a dirimere una quaestio legitimitatis intrinsecamente connotata, com’è facilmente intuibile, da nodi assiologici e sistemici di prim’ordine, la Corte costituzionale è riuscita, ancora una volta, pur senza esplicitamente smarcarsi dall’approdo ermeneutico solcato con la storica pronuncia n. 242 del 2019[7], a fornire adeguata risposta alle censure sollevate dal Giudice a quo.

Segnatamente, con riguardo alla dedotta violazione dell’art. 3 Cost., il Giudice costituzionale, pur riconoscendo la delicatezza del tema prospettato dal rimettente, esclude la sussistenza di un’irragionevole disparità di trattamento, valorizzando, a tal fine, la sostanziale omogeneità tra la posizione del paziente già sottoposto a TSV – e, come tale, legittimamente ammesso al suicidio medicalmente assistito – e quella di chi, pur destinatario di analoga indicazione terapeutica, ne abbia consapevolmente rifiutato l’attivazione.

Anche in quest’ultima ipotesi, continua la Corte, «il paziente ben può rifiutare il trattamento indicato quale clinicamente necessario per l’espletamento delle sue funzioni vitali, trovandosi così anch’egli nella condizione di avere accesso al suicidio assistito»[8].

Viceversa, laddove il soggetto non abbia la possibilità di rifiutare la sottoposizione a trattamenti salvavita, in quanto non ancora clinicamente necessari, non sarebbe ragionevolmente ipotizzabile alcuna disparità di trattamento, non trovandosi il paziente «nella condizione di poter optare per la propria morte»[9].

Parimenti infondate risulterebbero, altresì, le doglianze investenti gli artt. 2, 13 e 32 Cost., incentrate, come detto, sull’ipotizzata compressione della libertà terapeutica attraverso l’obbligo implicito di attivare un trattamento per poi poterne richiedere l’interruzione.

Non v’è ragione, infatti, secondo la Corte, di ritenere sussistente l’operatività di un preliminare obbligo di sottoposizione a TSV, includendo, infatti, il diritto all’autodeterminazione, ab initio, la possibilità per il paziente di rifiutare qualsivoglia intervento terapeutico, quand’anche lo stesso risulti necessario a sopravvivere.

Ne consegue, quale necessario corollario logico-giuridico, che l’accesso alla pratica del suicidio medicalmente assistito deve ritenersi esteso anche a quei pazienti «capaci di assumere decisioni libere e responsabili, affetti da patologie irreversibili che cagionino loro sofferenze intollerabili, ma le cui funzioni vitali non dipendano da trattamenti di sostegno vitale»[10].

A una sorte non dissimile si espongono, da ultimo, le censure articolate in base all’art. 117, co.1, Cost., e sul relativo rinvio agli obblighi internazionali derivanti dagli artt. 8 e 14 della C.E.D.U.

Nell’escludere che il requisito della dipendenza da TSV integri un’ingerenza sproporzionata nel diritto al rispetto della vita, la Corte valorizza il consolidato principio, recentemente ribadito dalla Corte EDU[11], secondo cui, in assenza di un consenso uniforme tra gli Stati membri del Consiglio d’Europa, deve riconoscersi in capo ai medesimi un ampio margine di apprezzamento nel ponderare l'imperativo di tutela della vita umana, da un lato, e la salvaguardia della sfera privata individuale garantita dall'art. 8 della C.E.D.U., dall'altro.

4. Conclusioni

Al di là della secca – e forse fin troppo agevole – reiezione delle censure sollevate dal Giudice a quo, ciò che maggiormente risalta nel tessuto argomentativo della pronuncia in disamina è la reiterata, quasi ostinata, riluttanza della Corte costituzionale ad accedere ad una visione più ampia e comprensiva del diritto all’autodeterminazione del singolo.

In un quadro ancora, purtroppo, segnato dall’assenza di un compiuto intervento legislativo, la Consulta, infatti, si erge a custode di una precaria architettura di garanzie, evocando con enfasi il ruolo della cosiddetta “cintura di protezione”: espressione questa che designa l’insieme coordinato di cautele procedimentali, delineate dalla L. n. 219 del 2017, funzionali rispetto all’accesso alla pratica del suicidio assistito (ricorso alle cure palliative, coinvolgimento attivo del Servizio sanitario nazionale, parere di un comitato etico).

Più dettagliatamente, in base al ragionamento scandito nella pronuncia annotata, affinché la tutela del diritto all’autodeterminazione possa dirsi «genuina e responsabile […] non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima»[12].

Sia consentita, sul punto, de iure condendo, qualche notazione critica.

Se è incontestabile che tali presupposti procedurali traggono origine da un intervento normativo primario, è altrettanto vero che la loro trasposizione, e conseguente valorizzazione, nel contesto specifico della non punibilità dell'aiuto al suicidio è, in larga misura, frutto di una elaborazione eminentemente pretoria, operata dalla Corte Costituzionale a partire dalla sentenza n. 242 del 2019.

In tale contesto, si ritiene che l’eccessiva enfatizzazione della procedura medicalizzata, pur testimoniando la vitalità di un ordinamento costituzionale che, nel nome della tutela della dignità e dell’autonomia individuale, si autorigenera e supplisce all'inerzia legislativa, rischi, paradossalmente, di tradursi in una irragionevole compressione del diritto all’autodeterminazione del singolo.

In altri termini, una tale forma di resilienza giurisprudenziale, ove non accompagnata da una chiara e tempestiva assunzione di responsabilità da parte del Legislatore – peraltro, ancora una volta, vigorosamente auspicata dal Giudice costituzionale[13] – potrebbe inesorabilmente condurre verso la sostanziale espunzione dall’ordinamento del diritto a lasciarsi morire, rendendolo, di fatto, largamente nominalistico o, financo, radicalmente ineffettivo.

A fronte dell’oramai perdurante silenzio legislativo, risulterà cruciale, dunque, nel prossimo futuro, pervenire a un' adeguata composizione dinamica tra la necessità di predisporre adeguate garanzie procedurali e quella, altrettanto cogente, di non reprimere, sotto il peso di un eccessivo formalismo garantista, la libera e sofferta scelta dell'individuo di fronte al mistero del proprio fine vita.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Con la quale, com’è noto, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 580 c.p., nella parte in cui «non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della L. 22 dicembre 2017 n. 219 ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità idonee, comunque sia, a offrire garanzie sostanzialmente equivalenti, agevola l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente».

[2] Cfr. Corte cost., sent. n. 66 del 20 maggio 2025, § 1 del Ritenuto in fatto. 

[3] Cfr. Ordinanza G.i.p. Tribunale ordinario di Milano, 21 giugno 2024, p. 18.

[4] Cfr. ordinanza, p. 21, cit.

[5] Il riferimento ai parametri normativi sovranazionali in discorso, viene argomentato dal rimettente sulla scorta del richiamo a talune pronunce della Corte EDU (sentenza 29 aprile 2002, Pretty c. Regno Unito, Hass. c. Svizzera, 20 gennaio 2011 e Koch c. Germania, 18 luglio 2013), nelle quali il diritto a morire con dignità è stato pacificamente ricondotto entro l’alveo applicativo dell’art. 8 C.E.D.U.  

[6] Cfr. ordinanza, p. 23, cit. 

[7] Sostanzialmente ribadito anche da Corte cost., sent. n. 135 dell’1 luglio 2024, più volte richiamata nella trama motivazionale della pronuncia in commento.

[8] Cfr. Corte cost., sent. n. 66 del 20 maggio 2025, § 6.1 del Considerato in diritto, cit.

[9] Cfr. Corte cost., sent. n. 66 del 20 maggio 2025, § 6.1 del Considerato in diritto, cit.

[10] Cfr. Corte cost., sent. n. 66 del 20 maggio 2025, § 6.2 del Considerato in diritto, cit.

[11] Cfr. sul punto, Corte EDU, Sez. I, del 13 giugno 2024, Daniel Karsai c. Ungheria.

[12] Cfr. Corte cost., sent. n. 66 del 20 maggio 2025, § 7 del Considerato in diritto, cit.

[13] Cfr. Corte cost., sent. n. 66 del 20 maggio 2025, § 7.3 del Considerato in diritto, ove si reputa ormai indifferibile l’intervento del Legislatore, «affinché dia corso a un adeguato sviluppo delle reti di cure palliative e di una effettiva presa in carico da parte del sistema sanitario e sociosanitario, al fine di evitare un ricorso improprio al suicidio assistito».