Pubbl. Mar, 4 Nov 2025
La Cassazione qualifica come reato autonomo la combustione di rifiuti pericolosi
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Stefano Morana

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 29222 del 2 luglio 2025, si pronuncia per la prima volta sulla dubbia natura di circostanza o fattispecie autonoma del delitto di combustione illecita di rifiuti pericolosi di cui all’art. 256 bis del T.U.A. Determinante, ai fini dell’inquadramento come reato a sé stante, la differenza “originaria” tra rifiuti pericolosi e non pericolosi, che preclude l’applicazione del criterio di specialità. Il seguente contributo propone una ricognizione dei principali orientamenti dottrinali e giurisprudenziali che hanno interessato la questione
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The Supreme Court, with judgement no. 29222 of 2 July 2025, ruled for the first time on the uncertain status of the offense of illicit combustion of hazardous waste under Article 256-bis, D.Lgs. 152/2006, examining whether it constitutes a mere circumstance or an independent criminal offense. Central to its classification as a standalone crime is the “original” distinction between “hazardous” and “non-hazardous” waste, which excludes the application of the speciality principle. This contribution offers a survey of the main doctrinal and judicial positions that have engaged with the issueSommario: 1. Premessa; 2. La distinzione tra fattispecie autonoma e circostanziata; 3. La dubbia natura del delitto di combustione illecita di rifiuti; 4. La sentenza n. 29222 del 2 luglio 2025. La ricostruzione degli orientamenti sull’art. 256 bis operata dalla Corte; 4.1. I confini tra elementi essenziali e accidentali del reato nella giurisprudenza di legittimità; 4.2. Il ragionamento seguito nella pronuncia. 5. Conclusioni.
1. Premessa
Con la sentenza in commento, la Suprema Corte si è pronunciata in via inedita sulla incerta natura – reato autonomo o circostanza aggravante – della fattispecie prevista dal secondo periodo dell’art. 256 bis, co. 1, D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152[1]. Sin dall’introduzione della disposizione in parola, il nodo interpretativo era stato oggetto di particolare attenzione da parte della dottrina, a causa di un’ambigua formulazione letterale. Le successive modifiche, intervenute in sede di conversione del decreto-legge istitutivo della fattispecie incriminatrice, hanno altresì indotto alcuni autori a ritenere che il legislatore avesse mutato il proprio orientamento a fronte di quanto emergeva dall’enunciato originario. D’altro canto, la quaestio non era stata ancora sottoposta al vaglio della giurisprudenza di legittimità, come di seguito si illustrerà.
Nella pronuncia, la Corte dapprima ha ricostruito il filone esegetico sui criteri di distinzione tra elementi costitutivi del reato e accidentalia delicti – delineato tanto dalla dottrina quanto dalla giurisprudenza – e, infine, ha applicato tali principi per inquadrare la fattispecie come figura autonoma. La decisione del Giudice di legittimità pare aver cristallizzato un indirizzo interpretativo già emerso in riferimento alle altre previsioni incriminatrici del Codice dell’Ambiente e richiamato dai primi commentatori della norma. Si osserva, altresì, che un recentissimo intervento legislativo (D.L. 8 agosto 2025, n. 116[2]) conferma la qualificazione attribuita nell’arresto giurisprudenziale.
2. La distinzione tra fattispecie autonoma e circostanziata
La questione anticipata nel titolo del paragrafo è risalente[3], tanto da aver alimentato negli anni un intenso dibattito in materia, tuttora in corso. La stessa identificazione delle circostanze del reato è definita come «l’aspetto più problematico» della disciplina dell’istituto, evidenziato nella letteratura giuridica già all’indomani dell’adozione del Codice penale[4]. Com’è noto, infatti, il legislatore non ha espressamente contemplato una nozione di “circostanza”. Stante la mancanza di una differenza intrinseca con gli elementi costitutivi del reato – in riferimento ai quali si caratterizzano unicamente per il loro profilo funzionale[5] –, sull’interprete grava da sempre l’onere di tracciarne i parametri di distinzione.
La dottrina e la giurisprudenza hanno progressivamente delineato molteplici criteri per arguire la natura della fattispecie incerta. Alcuni autori si sono adoperati per classificarli secondo un «ordine gerarchico» graduato sulla base della loro risolutività – sono stati individuati, quindi, «criteri forti», «criteri deboli» e «criteri inutili»[6]. I medesimi sono stati vagliati dalle succitate Sezioni Unite Fedi[7]: la pronuncia si è distinta per il ruolo propulsivo nell’alimentare il dibattito in materia, costituendone un punto di riferimento per la letteratura giuridica e gli arresti giurisprudenziali successivi.
Pur a fronte del notevole sforzo esegetico profuso fino ad ora, gli indici summenzionati sono giudicati inefficaci nel dirimere le incertezze che caratterizzano talune norme di dubbia natura[8]. Si osserva infatti che, in ultima analisi, la determinazione della questione è rimessa esclusivamente al giudice che decide caso per caso, sicché non è possibile addivenire ad «interpretazioni prevedibili» in modo univoco. Ne consegue una perdurante oscillazione interpretativa: gli stessi dati normativi sono ricondotti talora nell’alveo delle circostanze, talora elevati a elementi costitutivi di autonome figure di reato[9].
Sulla base di tali considerazioni, diversi autori sollecitano il legislatore ad una maggiore chiarezza nella formulazione normativa attraverso la puntuale indicazione della qualificazione da attribuire alla singola fattispecie e della disciplina conseguentemente applicabile[10]. Tanto più se si considera che da questa distinzione discendono effetti significativi, tanto sul piano sostanziale, quanto su quello processuale – in relazione, ad esempio, all’applicabilità dell’istituto di cui all’art. 69, c.p., o al computo del tempo necessario a prescrivere il reato o a determinare il giudice competente[11].
3. La dubbia natura del delitto di combustione illecita di rifiuti pericolosi
L’art. 256 bis, D.Lgs. 152/2006 è stato introdotto dall’art. 3 del D.L. 10 dicembre 2013, n. 136, convertito in legge dalla L. 8 febbraio 2014, n. 6[12], con il quale il Governo ha inteso fronteggiare la situazione emergenziale che opprime quella porzione del territorio della Regione Campania tristemente denominata «Terra dei Fuochi». Per contrastare i pericoli per la salute pubblica legati ai roghi di rifiuti sversati illegalmente, il legislatore è intervenuto sul sistema sanzionatorio del Testo Unico Ambientale[13] introducendo un delitto che colpisce in modo specifico i responsabili dei suddetti incendi.
La disposizione di cui sopra punisce distinte condotte ai commi 1[14] e 2[15], e prevede altresì due aggravanti speciali ai commi 3[16] e 4[17]. La fattispecie venuta in rilievo nella pronuncia ad oggetto del presente contributo è contenuta nel secondo periodo del primo comma – «nel caso in cui sia appiccato il fuoco a rifiuti pericolosi, si applica la pena della reclusione da tre a sei anni».
Fin dall’entrata in vigore del decreto, la dottrina ha avanzato osservazioni critiche sia in ordine all’impianto complessivo dell’intervento normativo, sia con riferimento alla specifica formulazione del reato[18]. Se in relazione alle ipotesi previste dai commi 3 e 4 non vi sono incertezze sulla loro natura circostanziale[19], si sollevano dubbi circa la qualificazione della norma in esame[20].
Alcuni autori prediligono la tesi del reato autonomo[21], sulla scorta della «particolare struttura del comma» e dell’articolo nel suo complesso, nonché in ragione del confronto con le simili disposizioni contenute nel T.U.A[22]. Altri indizi sono individuati nell’assenza di un «rapporto di specialità» con la fattispecie di cui al primo periodo – definita «condicio sine qua non» per l’inquadramento come circostanza[23] –, la mancata previsione di espressioni quali «la pena è aumentata»[24], nonché la ridefinizione della cornice edittale in modo autonomo rispetto all’altra ipotesi.
Benché la dottrina si sia espressa con letture pressoché unanimi, alcune voci hanno auspicato un intervento del legislatore, in sede di conversione, volto a ricollocare le due fattispecie in commi distinti. Ciò, al fine di scongiurare «l’insorgere di eventuali contrasti ermeneutici» che già si prevedevano[25].
Senonché le modifiche introdotte dalla L. 6/2014 si sono orientate in senso diametralmente opposto. Per un verso, difatti, l’ubicazione della norma all’interno della disposizione è rimasta invariata; per altro verso, i riferimenti ai «delitti di cui al comma 1» (nei commi 3 e 5) e i «fatti di cui al comma 1» (nel comma 4) sono stati sostituiti in «delitto di cui al comma 1» (comma 3), «fatto di cui al comma 1» (comma 4) e «reato di cui al comma 1» (comma 5). In letteratura si osserva, in antitesi rispetto alle antecedenti considerazioni sulla voluntas legis, che tale modifica lascia intendere la scelta del legislatore di ricostruire il periodo in analisi come circostanza[26].
Diversi commentatori pongono altresì l’accento sulle ulteriori ripercussioni che comporta la qualificazione della norma – in un senso o nell’altro – sull’accertamento dell’elemento soggettivo relativamente al carattere “pericoloso” del rifiuto. In un caso, è necessario verificare la consapevolezza da parte dell’imputato della peculiare natura dell’oggetto, secondo i consueti criteri di imputazione di cui agli artt. 42 e 43, c.p., per i delitti; nell’altro caso, è sufficiente appurare che egli non ne abbia conoscenza per colpa o per errore determinato da colpa, ai sensi dell’art. 59, co. 2, c.p.[27].
In definitiva, la disposizione ha generato un’incertezza applicativa rimasta priva di una chiara presa di posizione da parte della giurisprudenza di legittimità fino alla pronuncia qui annotata, analogamente a quanto accaduto con altre fattispecie prima dei relativi interventi chiarificatori della Suprema Corte.
In ultimo, si segnala che l’articolo oggetto della sentenza in commento è stato recentemente riformato, all’indomani – in senso proprio – del deposito delle motivazioni, per effetto dell’art. 1, lett. e) del D.L. 8 agosto 2025, n. 116[28], convertito con modificazioni dalla L. 3 ottobre 2025, n. 147 (in G.U. 07/10/2025, n. 233). Segnatamente, tra le plurime modifiche, è stato abrogato il comma 3 e inserito il comma 3 bis, il quale prevede ora due circostanze speciali: per entrambe sono contemplate due autonome cornici edittali, rispettivamente, una per la fattispecie di «combustione di rifiuti non pericolosi» e una per quella di «combustione di rifiuti pericolosi»[29]. La recente novella sembra inscriversi nel solco di quell’orientamento esegetico che già ravvisava nella formulazione originaria l’intenzione del legislatore di configurare la norma come fattispecie autonoma di reato, rendendo ancor più persuasiva l’opzione ricostruttiva adottata dal Giudice di legittimità[30].
4. La sentenza n. 29222 del 2 luglio 2025. La ricostruzione degli orientamenti sull’art. 256 bis operata dalla Corte
Nella sentenza in commento la Suprema Corte si è pronunciata sul ricorso presentato dall’imputato avverso la decisione della Corte d’appello di Palermo, di conferma della condanna inflitta dal Tribunale di Termini Imerese. Il predetto era stato giudicato responsabile del delitto di cui all’art. 256 bis, D.Lgs. 152/2006, aggravato ai sensi dell’art. 99, c.p., e gli era stata comminata la pena di tre anni e quattro mesi di reclusione.
Con l’impugnazione a fondamento del giudizio si lamentava, in primo luogo, il travisamento di taluni dati istruttori ai sensi dell’art. 606, lett. e), c.p.p. – rectius il vizio di motivazione – e, in secondo luogo, la violazione della disposizione che prevede la fattispecie ascritta. Segnatamente, il ricorrente ne contestava l’erronea qualificazione in autonoma ipotesi di reato, e il conseguente mancato bilanciamento con altre circostanze ex art. 69, c.p. Il Collegio ha rigettato il ricorso, dichiarando l’inammissibilità del primo motivo e l’infondatezza del secondo. È quest’ultima decisione, su cui è stato sviluppato un articolato percorso motivazionale, a costituire oggetto dell’analisi che segue.
Anzitutto, la Corte evidenzia che nella giurisprudenza di legittimità il tema era stato affrontato ancora solo in via incidentale. In particolare, nella pronuncia Sancilles[31] si è affermato che l’art. 256 bis del T.U.A. «ha previsto due delitti nei primi due commi, ai quali vengono affiancati tre circostanze aggravanti ai commi 1, al 3 e al 4», riconoscendo l’ipotesi su cui verte la decisione de quo come circostanza aggravante, sebbene in modo implicito. L’enunciato è stato poi ripreso, nei medesimi termini, dalla successiva sentenza Baldi[32] citata.
Ai fini della diversa configurazione come reato autonomo, di converso, la S.C. non attribuisce rilevanza alcuna a quanto espresso in altra pronuncia[33] relativa all’art. 256, comma 4, T.U.A.[34] – «è certamente ipotesi autonoma di reato» –, sulla scorta della marcata divergenza tra le condotte previste dalle due disposizioni.
La Corte si avvale, viceversa, di alcuni passaggi argomentativi tratti da una risalente decisione[35] inerente all’art. 51 bis, D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22[36], poi sostituito dall’art. 257, D.Lgs. 152/2006 («Bonifica dei siti»)[37]. Nella richiamata occasione decisoria si ritiene «soluzione preferibile» quella di inquadrare come figura autonoma di reato l’ipotesi di inquinamento provocato da rifiuti pericolosi – prevista dal secondo periodo della disposizione summenzionata – sulla scorta di due differenti motivazioni. In primo luogo, il Collegio evidenzia che una diversa opzione esegetica sarebbe «difficilmente giustificabile» in ragione dell’unanime indirizzo ermeneutico che, similmente, interpreta l’art. 51, D.Lgs. 22/1997, come fattispecie autonoma di reato – in relazione all’aggravio di pena prescritto per lo smaltimento illecito di rifiuti pericolosi[38]. In aggiunta, la pronuncia ritiene verosimile che il legislatore intendesse sottrarre al bilanciamento tra circostanze la condotta penale ivi analizzata (definita «di forte allarme sociale»), rimessa al giudice ex art. 69 c.p. Ciò – a detta della Corte – al fine di scongiurare la compromissione dell’effetto deterrente della forbice edittale prevista dalla norma.
Nel successivo passaggio, la decisione in esame sottolinea quanto emerso nella relazione dell’Ufficio del massimario e del ruolo – di commento alla legge di conversione del decreto legge che ha introdotto l’art. 256 bis, T.U.A.[39] –, nella quale si avanzano alcune delle annotazioni critiche già illustrate dai primi commentatori della disposizione[40]. In particolare, lo studio evidenzia l’autonoma forbice edittale della norma de quo come elemento sintomatico della sussistenza di un reato a sé stante. Di contro, si mette in rilievo la «cura» con cui il legislatore ha sostituito l’originaria indicazione ai «delitti di cui al comma 1» – nelle aggravanti dell’articolo – con un’espressione che si riferisce ora al medesimo comma come fattispecie unitaria. Ulteriore “indizio” dell’inquadramento quale circostanza si coglie, parimenti, nell’osservazione che l’unico carattere distintivo rispetto al primo periodo riguarda l’oggetto materiale della condotta – i «rifiuti pericolosi».
Nel prosieguo della disamina, la Corte menziona altresì alcune delle considerazioni sviluppate dalla dottrina succitata[41]. Secondo la ricostruzione del Collegio, anzitutto, se alcuni interpreti attribuiscono rilievo determinante alle modifiche attuate alla norma in sede di conversione – prediligendo la tesi della natura circostanziale – altri confermano comunque la sussistenza di un’autonoma fattispecie. Tra le opinioni più significative, in quest’ultimo senso, si segnala l’argomentazione secondo cui il primo comma della disposizione si configura quale reato «a fattispecie alternative», le cui condotte si differenziano per elementi «bilateralmente specializzanti». Su un versante, infatti, i rifiuti “pericolosi” hanno natura speciale rispetto a quelli “non pericolosi”. Per altro verso, la norma non opera un mero rinvio all’ipotesi di cui al primo periodo, bensì una ridefinizione del comportamento incriminato in cui difetta l’elemento del «deposito illegittimo del rifiuto»[42]. Infine, la Corte prende in considerazione il rilievo dottrinale per cui il plurale, sito nel rinvio operato dal comma 2 alle «stesse pene» del primo comma, rivela l’intentio legis di differenziare le due ipotesi contemplate nella prima parte dell’articolo.
In chiusura della ricognizione delle posizioni interpretative fin qui richiamate, il Collegio rammenta l’indirizzo ermeneutico sinora adottato dalla giurisprudenza di legittimità in relazione alle fattispecie di cui agli artt. 256 e 257, D.Lgs. 152/2006[43]: nei casi in cui sono state esaminate le ipotesi che modulano la pena in modo differente ove sussista l’elemento “rifiuti pericolosi”, queste sono sempre state qualificate come fattispecie autonome.
4.1 I confini tra elementi essenziali e accidentali del reato nella giurisprudenza di legittimità
A seguire, la Corte si sofferma sulla differenziazione tra circostanze e fattispecie autonome operata nei più recenti arresti giurisprudenziali. In primis, si osserva come diverse pronunce a Sezioni Unite siano intervenute al fine di tracciarne dei confini, poiché, come detto in precedenza[44], non sussiste differenza «ontologica» alcuna tra gli elementi ascrivibili ad una o all’altra categoria. Dunque, la S.C. richiama alcuni dei principi espressi nelle summenzionate Sezioni Unite Fedi[45] – e ribaditi nella decisione Casani[46] –, con riferimento all’efficacia dirimente dei criteri individuati da dottrina e giurisprudenza.
Tra le argomentazioni ivi illustrate, si trattano i rilievi concernenti l’inadeguatezza del c.d. criterio del nomen iuris[47] e del «criterio topografico»[48]. Quanto al primo, si osserva come la rubrica del reato non costituisca indizio certo e univoco della volontà del legislatore[49]; in ordine al secondo, si evidenzia la sussistenza di circostanze aggravanti collocate in articoli separati dalla fattispecie base.
Ulteriore notazione richiamata concerne i c.d. «criteri strutturali»[50], che la predetta giurisprudenza ritiene «di maggior peso». In particolare, il principio secondo cui una fattispecie descritta mediante rinvio ad altro reato già formulato in diversa disposizione – «descrizione per relationem»[51] – è sintomatico della presenza di una circostanza aggravante. La pronuncia analizza anche il criterio della tecnica di determinazione della pena[52]: sebbene la previsione di sanzioni quantificate in rapporto proporzionale a quelle di altre fattispecie possa suggerire la configurabilità di una circostanza, la Corte sottolinea come numerose norme incriminatrici, pur contemplando simili criteri di computo della pena, siano indiscutibilmente considerate figure autonome[53]. Similmente, si rammenta che in altri casi il legislatore ha altresì previsto circostanze aggravanti con sanzioni di specie diversa o con forbice edittale indipendente rispetto al reato-base (definite «circostanza c.d. “autonoma” o “indipendente”»)[54].
Il Collegio prende in esame anche il c.d. «criterio teleologico» (definito il «più seguito dalla giurisprudenza»)[55] e il criterio fondato sul principio del favor rei. Secondo il primo, la fattispecie è configurabile come autonoma quando tutela un bene giuridico differente da quello protetto dalla norma penale di riferimento. Quanto al secondo, le SS.UU. Fedi ne escludono l’applicabilità, evidenziando che si tratta di un principio circoscritto al solo ambito del diritto processuale – rectius probatorio – in relazione all’accertamento della responsabilità[56].
Il Collegio analizza poi quanto affermato in altre decisioni adottate nella medesima composizione. In particolare, nella sentenza Mills[57] si afferma che il corretto approccio per determinare la natura della disposizione dubbia consiste nell’indagare, in primo luogo, sul significato letterale della norma, asserendo dunque l’inutilizzabilità di altri criteri se questo è dirimente. Secondo questa prospettiva, sottolinea la Terza Sezione, il c.d. criterio strutturale assumere valore di mero indizio, analogamente agli altri parametri. Nelle successive Sezioni unite Casani[58], si ribadisce che le circostanze si definiscono «in rapporto di species a genus»: in questo modo – a detta della Corte – è stato riaffermato il peso del principio di specialità. Dell’ultima pronuncia richiamata, SS.UU. Mizanur[59], il Collegio evidenzia l’argomentazione concernente la portata di tale principio: nella decisione si sostiene infatti che esso costituisce, in senso negativo, una condizione «necessaria ma non sufficiente affinché possa trattarsi di elemento circostanziale».
La Corte rievoca, infine, la classificazione dei predetti criteri elaborata dalla dottrina – quasi all’unanimità. Secondo tale suddivisione, vi sono criteri «forti» di individuazione delle circostanze: il rapporto di specialità con il reato “base”, la presenza di formule come «la pena è aumentata»[60] e il rinvio esplicito alla disciplina del bilanciamento tra circostanze (nel senso di escluderne l’applicabilità alla fattispecie dubbia)[61]. Elementi definiti «deboli» sono invece quelli che riguardano la «tecnica normativa»: la descrizione fornita per relationem ad altra disposizione, l’attribuzione della denominazione di “circostanza” nella rubrica, il criterio della collocazione topografica, la determinazione della pena in modo proporzionale a quella di altro reato. Sono inseriti nell’alveo dei criteri deboli di riconoscimento della fattispecie autonoma, al contrario: la riformulazione della fattispecie senza rinvio ad altra norma, la previsione di un autonomo nomen iuris, l’inserimento della fattispecie incriminatrice in un articolo diverso da quello con cui è confrontato.
Segue, dunque, l’esposizione del percorso ermeneutico che ha condotto la Corte ad attribuire natura di reato autonomo alla disposizione in parola.
4.2 Il ragionamento seguito nella pronuncia
Nella disposizione oggetto di scrutinio, il Collegio rileva la presenza di plurimi indici che sembrano orientare verso la configurazione in un senso o nell’altro, sebbene tutti considerati «deboli» secondo la classificazione sopra delineata. In particolare, sotto il profilo della «tecnica legislativa», mirano ad una qualificazione come reato autonomo: l’ubicazione delle altre circostanze nel comma 3, e il rinvio operato dal secondo comma «alle pene di cui al comma 1». Elemento di senso contrario, anch’esso di analoga consistenza, è rappresentato dal summenzionato intervento legislativo sui commi 3, 4 e 5, in sede di conversione del decreto che ha tipizzato la fattispecie.
Nel passaggio successivo, la S.C. rileva invece la mancanza di indizi testuali dirimenti, quali il riferimento alla disciplina del bilanciamento di cui all’art. 69, c.p. (elemento che la dottrina definisce “forte”), o l’espressa denominazione come circostanza. Applicando il criterio strutturale – a sostegno della tesi sull’autonomia della fattispecie – la Corte valorizza poi la cornice edittale indipendente da quella prevista nel primo periodo.
Per la risoluzione della questione, tuttavia, la pronuncia adotta un criterio di tipo «sistematico», prendendo le mosse dall’intero impianto normativo delineato nella Parte IV del D.Lgs. 152/2006. In via preliminare, si richiama la definizione di «rifiuto» contenuta nell’art. 183, lett. a)[62], nonché la classificazione operata dall’art. 184, co. 1[63], che distingue tra rifiuti «urbani» e «speciali» (secondo «l’origine»), e tra rifiuti «pericolosi» e «non pericolosi» (in base alla «pericolosità»). Il Collegio esclude che la seconda bipartizione possa fondarsi su di una asserita «specialità» dei primi rispetto ai secondi: al contrario, i rifiuti pericolosi si differenziano ab origine dagli altri, in ragione della presenza di specifiche sostanze o per il superamento di queste rispetto a determinati valori-soglia[64].
La pronuncia rileva altresì come il profilo sanzionatorio del decreto, similmente, tracci una netta linea di demarcazione fra attività illecite che riguardano rifiuti di una o l’altra categoria: così, negli artt. 255, comma 1, secondo periodo («abbandono di rifiuti»)[65], 256, comma 1, lett. b) («attività di gestione di rifiuti non autorizzata»)[66] e 257, comma 2 («bonifica dei siti», nel quale tuttavia si parla di «sostanze pericolose» e non rifiuti)[67]. Al termine dell’ampio ragionamento, la Corte asserisce, dunque, che la differenziazione «originaria» tra le due tipologie di rifiuti esclude la sussistenza di una distinzione fondata sul principio di specialità. Pertanto, l’applicazione del relativo criterio conduce ad affermare con incidenza decisiva l’autonomia della fattispecie incriminatrice esaminata.
A paragrafo 6 della sentenza in commento il Collegio conclude infine con la seguente massima: «ove l’ipotesi delittuosa di cui all’articolo 256-bis D.Lgs. 152/2006 abbia ad oggetto rifiuti pericolosi, essa costituisce figura autonoma di reato e non circostanza aggravante, in ragione della differenza “originaria” tra rifiuti pericolosi e non pericolosi in relazione alla presenza o meno di sostanze tout court (rifiuti pericolosi “assoluti”) ovvero di sostanze pericolose in determinate concentrazioni (rifiuti “speculari” pericolosi), con conseguente esclusione della fattispecie di combustione illecita di rifiuti pericolosi dal giudizio di bilanciamento ex art. 69 cod. pen.».
5. Conclusioni
La pronuncia della Corte segna un passaggio significativo nella tormentata vicenda ermeneutica dell’art. 256 bis, T.U.A. L’opzione esegetica adottata appare coerente con l’assetto sistematico della disciplina e con gli orientamenti già consolidati in materia di diritto penale ambientale.
La recente novella legislativa del 2025, sembra confermare la linea interpretativa delineata dalla Corte, rafforzandone la tenuta anche sul piano normativo. In particolare, come già rilevato, muovono nella medesima direzione sia l’attribuzione della denominazione di «combustione di rifiuti pericolosi», sia l’introduzione di un’ulteriore cornice edittale autonoma per la fattispecie in parola.
Resta ora da verificare, sul piano applicativo, se tale approdo sarà in grado di garantire stabilità ermeneutica della norma, o se nuove incertezze continueranno a emergere nella prassi giurisprudenziale. L’auspicio è che questo arresto possa rappresentare un utile stimolo per alimentare il dibattito sulla distinzione tra elementi costitutivi ed accidentali del reato, nella prospettiva di addivenire a criteri più chiari, e prevedibili, idonei a scongiurare in futuro le oscillazioni interpretative sin qui registrate che hanno a lungo segnato la sorte di molteplici disposizioni.
[1]«[...] nel caso in cui sia appiccato il fuoco a rifiuti pericolosi, si applica la pena della reclusione da tre a sei anni».
[2] «Disposizioni urgenti per il contrasto alle attività illecite in materia di rifiuti, per la bonifica dell’area denominata Terra dei fuochi, nonché in materia di assistenza alla popolazione colpita da eventi calamitosi», pubblicata nella G.U. 8 agosto 2025, n. 183.
[3] F. BASILE, Reato autonomo o circostanza? Punti fermi e questioni ancora aperte a dieci anni dall’intervento delle Sezioni Unite sui “criteri di distinzione”, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 4/2011, 1564-1593. L’Autore, considera l’annosa questione «una vera costante del pensiero giuridico penale». Nel contributo sono approfonditi gli orientamenti sul tema successivi alle Sezioni Unite Fedi, richiamate dalla sentenza commentata nel presente articolo.
[4] A. MELCHIONDA, Il “modello italiano” di disciplina delle circostanze del reato. Profili critici e prospettive di riforma, in Revista Eletrônica de Direito Penal e Política Criminal, 10/2022, 85. L’Autore sviluppa un’analisi articolata della disciplina delle circostanze, proponendo delle basi per una riforma del codice penale alla luce di quello che viene definito come un «...problema “antico”. Già nei primi scritti immediatamente successivi all’avvento del codice penale del 1930 la dottrina colse subito la necessità di una precisa determinazione dei criteri di identificazione delle circostanze. L’esito di tutte le soluzioni fino ad oggi prospettate è, tuttavia, decisamente negativo...».
[5] Dottrina concorde sul punto: v., tra gli altri, A. MELCHIONDA, Le circostanze del reato. Origine, sviluppo e prospettive di una controversa categoria penalistica, CEDAM, Padova, 2000, 563; v. anche, più recente, N. GRANOCCHIA, Qualche spunto di riflessione sulla distinzione tra circostanza e titolo autonomo di reato dopo le sezioni unite in materia di immigrazione clandestina, in Arch. Pen., 3/2019, 2, il quale evidenzia il concetto muovendo da una lettura del disposto degli artt. 61, 62 e 64, c.p: «...gli artt. 61 e 62, c.p., nel delineare i cataloghi delle circostanze aggravanti ed attenuanti prevedono che queste aggravino e, rispettivamente, attenuino il reato quando non ne siano elementi costitutivi. Inoltre, l’art. 84, c.p., prevede la possibilità che uno stesso materiale di fatto possa essere valutato dalla legge, ora come elemento costitutivo, ora come circostanza, nello schema del reato complesso;
[6] V. F. BASILE, op. cit., 1574; l’Autore precisa che l’idea di una «gerarchizzazione» dei suddetti criteri «...è implicita nella stessa sentenza Fedi, la quale parla di “criteri di maggior peso”, di “criteri decisivi” [...] contrapponendoli ad altri che tali, evidentemente, non sono considerati...». Cfr. anche F. BELLAGAMBA, La corruzione in atti giudiziari nella teoria generale del reato, Giappichelli, Torino, 2017, 21-39.
[7] Cass., pen., Sez. un., ud. 26.06.2002 – dep. 10.07.2002, n. 26351, Fedi, in www.dejure.it.
[8] V. F. BASILE, op. cit., 1593: «...benché lo strumentario logico-interpretativo che abbiamo ripercorso [...] dovrebbe ridurre al minimo le “fattispecie ostinatamente dubbie”, esse ci paiono, tuttavia, al momento ineliminabili: siamo di fronte, in effetti, ad un ennesimo “spazio lasciato ‘in bianco’ da un legislatore inadempiente”...». Cfr. anche A. MELCHIONDA, Il “modello italiano” di disciplina delle circostanze del reato, cit., 86, secondo il quale «...risulta, allora, evidente l’assenza di un univoco criterio distintivo [...] questo esito interpretativo è uno dei dati più sconcertanti del dibattito penalistico su questo istituto...».
[9] Tra le ipotesi maggiormente discusse: l’art. 640 bis, c.p. (rispetto al reato di truffa); l’art. 319 ter, c.p. (in relazione agli artt. 318 e 319); l’art. 378 co. 3, c.p. (in riferimento al reato previsto al comma 1); l’art. 609 octies, c.p. (rispetto al delitto di violenza sessuale ex art. 609 bis). V. in tal senso, F. BASILE, ibid., 1574; F. PELLEGRINI, Circostanze del reato: trasformazioni in atto e prospettive di riforma, Firenze, 2014, 71.
[10] V., sul punto, A. GRANOCCHIA, op. cit., 9; R. GUERRINI, Elementi costitutivi e circostanze del reato, Giuffrè, Milano, 1988, 24; v. anche F. BASILE, ibid., 1572, n. 23, il quale precisa che «...tale auspicio è stato, ad esempio, accolto negli ultimi due progetti di riforma del codice penale: v. progetto Nordio [...]; nonché progetto Pisapia».
[11] V., nella manualistica, G. MARINUCCI, E. DOLCINI, G. L. GATTA, Manuale di Diritto Penale. Parte generale, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2023, 662. Altre differenze attengono: al regime di imputazione della responsabilità; all’individuazione del tempus e del locus commissi delicti; alla disciplina del concorso di persone nel reato; all’applicabilità delle misure cautelari e dell’arresto in flagranza di reato e del fermo di indiziato di delitto.
[12] «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 10 dicembre 2013, n. 136, recante disposizioni urgenti dirette a fronteggiare emergenze ambientali e industriali ed a favorire lo sviluppo delle aree interessate», pubblicata sulla G.U. 08.02.2014, n. 32.
[13] «Norme in materia ambientale»
[14] «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque appicca il fuoco a rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata è punito con la reclusione da due a cinque anni. Nel caso in cui sia appiccato il fuoco a rifiuti pericolosi, si applica la pena della reclusione da tre a sei anni [...]».
[15] «Le stesse pene si applicano a colui che tiene le condotte di cui all’articolo 255, comma 1, e le condotte di reato di cui agli articoli 256 e 259 in funzione della successiva combustione illecita di rifiuti». Il riferimento è alle condotte di chi «...abbandona o deposita rifiuti ovvero li immette nelle acque superficiali o sotterranee...» (art. 255, comma 1), ovvero «...effettua una attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione...» (art. 256) o «...effettua una spedizione di rifiuti costituente traffico illecito ai sensi dell’articolo 26 del regolamento (CEE) 1° febbraio 1993, n. 259, o effettua una spedizione di rifiuti elencati nell’Allegato II del citato regolamento in violazione dell’articolo 1, comma 3, lettere a), b), c) e d), del regolamento stesso...» (art. 259). Si segnala, tuttavia, che il suddetto comma è stato modificato parzialmente per effetto dell’intervento di cui al D.L. 116/2025, già citato.
[16] «La pena è aumentata di un terzo se il delitto di cui al comma 1 è commesso nell’ambito dell’attività di un’impresa o comunque di un’attività organizzata [...]». Il comma è stato abrogato e sostituito dal predetto intervento legislativo.
[17] «La pena è aumentata di un terzo se il fatto di cui al comma 1 è commesso in territori che, al momento della condotta e comunque nei cinque anni precedenti, siano o siano stati interessati da dichiarazioni di stato di emergenza nel settore dei rifiuti ai sensi della legge 24 febbraio 1992, n. 255». Anche tale comma è stato oggetto di parziale riforma.
[18] V., tra i primi commentatori, G. AMENDOLA, Viva viva la terra dei fuochi, in www.lexambiente.it, 27 dicembre 2013; A. PIEROBON, Rifiuti. Il d.l. sulla terra dei fuochi e sull’Ilva, in www.lexambiente.it, 12 dicembre 2013; A. SCARCELLA, Campania sì, Campania no, la terra dei fuochi...: dal decreto alla legge di conversione, in www.lexambiente.it, 4/2014, 257-265; A. L. VERGINE, Tanto tuonò...che piovve! A proposito dell’art. 3, D.L. n. 136/2013, in Lexambiente, 1/2014, 7-12.
[19] In tal senso, v. A. ALBERICO, Il nuovo reato di “combustione illecita di rifiuti”, in www.penalecontemporaneo.it, 17 febbraio 2014, 11.
[20] Tra i diversi autori che hanno affrontato la questione, v. A. ALBERICO, ibid.; A. DI TULLIO D’ELISIIS, Il delitto di combustione illecita di rifiuti, in www.lexambiente.it, 10 gennaio 2014; A. L. VERGINE, Il delitto di combustione illecita di rifiuti ex art. 256-bis T.U.A., introdotto dal D.L. n. 136/2013: commento a prima lettura a valle della Legge di conversione (L. 6 febbraio 2014, n. 6, pubbl. G.U. n. 32 dell’8.02.2014, in www.giuristiambientali.it, 6 febbraio 2014, 1; L. ALFANI, Terra dei fuochi: il nuovo delitto di combustione illecita di rifiuti, in www.giurisprudenzapenale.com, 5 aprile 2014, 5; A. SCARCELLA, op. cit., 262; A. M. PIOTTO, Il nuovo delitto di «combustione illecita dei rifiuti» tra emergenze e criticità, in L.P., 1-2/2014, 7; C. RUGA RIVA, Rifiuti. Il decreto “Terra dei fuochi”: un commento a caldo..., in www.lexambiente.it, 11 dicembre 2013; A. CORBO, Rifiuti. Decreto “Terra dei fuochi”, in www.lexambiente.it, 19 dicembre 2013.
[21] V., in tal senso, A. ALBERICO, ibid., 12; A. SCARCELLA, ibid.; A.M. PIOTTO, ibid., A. DI TULLIO D’ELISIIS, ibid.; C. RUGA RIVA, ibid.; cfr. anche A. CORBO, ibid., il quale fa notare, tuttavia, come non possa ritenersi implausibile «un inquadramento dell’ipotesi in termini di circostanza aggravante perché l’elemento differenziale [...] è costituito esclusivamente dall’oggetto materiale, tanto più che questo si connota in termini di specialità e non di assoluta alterità».
[22] Sul punto, v. A. M. PIOTTO, ibid., secondo il quale «nella materia del diritto penale ambientale, vi è un consolidato orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte con riferimento agli articoli 256 e 257 del T.U.A. che ritiene sempre autonome le fattispecie che diversificano la pena in ragione della pericolosità dei rifiuti».
[23] V., fra i tanti, F. BASILE, op. cit., 1575, che richiama, in giurisprudenza, Cass. pen., Sez. II, ud. 20.10.2000 – dep. 27.10.2000, n. 11077, Biffo: «”fondamentale” la relazione di specialità, correttamente inquadrata come “precondizione del sorgere del problema” della qualificazione in termini di circostanza o di reato autonomo».
[24] Criterio “forte” per la qualificazione in termini di circostanza; v. F. BASILE, ibid., 1576, secondo cui «in tali casi, infatti, il giudice, per quantificare la pena, non ha altra scelta che fare ricorso ai criteri generali stabiliti negli artt. 64 e 65, in tal modo attribuendo natura circostanziale alla fattispecie dubbia».
[25] A. DI TULLIO D’ELISIIS, op. cit.
[26] In tal senso, v. A.L. VERGINE, Il delitto di combustione illecita di rifiuti ex art. 256-bis T.U.A., cit., 1.
[27] In questi termini, v. A. ALBERICO, op. cit., 12; A. SCARCELLA, op. cit., 262; A. M. PIOTTO, op. cit., 8.
[28] Già citato, v. supra, §1, n. 2
[29] «La combustione di rifiuti non pericolosi è punita con la reclusione da tre a sei anni, quando: a) dal fatto deriva pericolo per la vita o per la incolumità delle persone ovvero pericolo di compromissione o deterioramento: 1) delle acque o dell’aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo; 2) di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna; b) il fatto è commesso in siti contaminati o potenzialmente contaminati ai sensi dell’articolo 240 o comunque sulle strade di accesso ai predetti siti e relative pertinenze. La combustione di rifiuti pericolosi, quando ricorre taluno dei casi di cui al periodo che precede, è punita con la reclusione da tre anni e sei mesi a sette anni».
[30] Tale impostazione muove dall’applicazione del c.d criterio del «nomen iuris». V., sul punto, F. BASILE, op. cit., 1580, che lo colloca tra i «criteri ‘deboli’ [...] l’attribuzione, infatti, alla fattispecie dubbia di un apposito nomen iuris nella rubrica o, ancor meglio, nel corpo della norma depone, almeno a livello indiziario, a favore della sua qualificazione come autonomo reato: un distinto nomen iuris compare, ad esempio, nel testo e nella rubrica dell’art. 583 bis (pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili)»; v. anche G. MARINUCCI, E. DOLCINI, G. L. GATTA, op. cit., 664-665.
[31] Cass. pen., Sez. III, ud. 04.10.2017 – dep. 17.11.2017, n. 52610, in www.dejure.it.
[32] Cass. pen., Sez. III, ud. 11.01.2021 – dep. 29.04.2021, n. 16346, in www.dejure.it.
[33] Cass. pen., Sez. III, ud. 28.09.2011 – dep. 17.11.2011, n. 42394, in www.dejure.it.
[34] «Attività di gestione di rifiuti non autorizzata», al cui comma 4 si prevede che «le pene di cui ai commi 1, 2 e 3 sono ridotte della metà nelle ipotesi di inosservanza delle prescrizioni contenute o richiamate nelle autorizzazioni, nonché nelle ipotesi di carenza dei requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizioni o comunicazioni».
[35] Cass. pen., Sez. III, ud. 14.03.2007 – dep. 09.07.2007, n. 26479, Magni, in www.dejure.it.
[36] «Bonifica di siti», il cui testo prevedeva che «chiunque cagiona l’inquinamento o un pericolo concreto e attuale di inquinamento previsti dall’articolo 17, comma 2, è punito con la pena dell’arresto da sei mesi a un anno e con l’ammenda da lire cinque milioni a lire cinquanta milioni se non provvede alla bonifica secondo il procedimento di cui all’articolo 17. Si applica la pena dell’arresto da un anno a due anni e la pena dell’ammenda da lire diecimilioni a lire centomilioni se l’inquinamento è provocato da rifiuti pericolosi [...]».
[37] «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque cagiona l’inquinamento del suolo, del sottosuolo, delle acque superficiali o delle acque sotterranee con il superamento delle concentrazioni soglia di rischio è punito con la pena dell’arresto da sei mesi a un anno o con l’ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro [...] Si applica la pena dell’arresto da un anno a due anni e la pena dell’ammenda da cinquemiladuecento euro a cinquantaduemila euro se l’inquinamento è provocato da sostanze pericolose [...]».
[38] «Attività di gestione di rifiuti non autorizzata». Comma 3: «chiunque realizza o gestisce una discarica non autorizzata è punito con la pena dell’arresto da sei mesi a due anni e con l’ammenda da lire cinque milioni a lire cinquanta milioni. Si applica la pena dell’arresto da uno a tre anni e dell’ammenda da lire dieci milioni a lire cento milioni se la discarica è destinata, anche in parte, allo smaltimento di rifiuti pericolosi».
[39] Rel. n. III/02/2014, Roma, 17.02.2014.
[40] Cfr. supra, §3.
[41] Cfr. supra, §3.
[42] Cfr., sul punto, F. BASILE, op. cit., 1580, che inserisce tale criterio di distinzione fra quelli «deboli». Infatti, «taluni Autori rilevano che l’integrale (ri)descrizione del fatto, senza alcun rinvio al reato-base, depone a favore di una qualificazione in termini di reato autonomo».
[43] Il riferimento è alle pronunce già citate nelle nn. 33 e 35.
[44] V. supra, §2. Per la Corte il dato «emerge dallo stesso disposto letterale degli artt. 61 [...], 62 [...], e 84»
[45] V. supra §2, n. 7
[46] Cass. pen., Sez. un., ud. 27.10.2011 – dep. 07.02.2012, n. 4694, in www.dejure.it.
[47] V. supra, §3, n. 30.
[48] «il quale valorizza la collocazione della norma; i sostenitori della decisività di tale criterio sostengono che se la norma fosse formulata in un articolo separato costituirebbe una fattispecie autonoma di reato, mentre se fosse formulata nello stesso articolo che prevede il reato semplice, denoterebbe una fattispecie circostanziale». V., negli stessi termini, F. BASILE, op. cit., 1581, che lo individua come «criterio ‘debole’, anzi, debolissimo».
[49] In termini diversi, cfr. supra, §3 n. 31
[50] Così definiti «perché attengono – per l’appunto – alla struttura del precetto o della sanzione [...] quali il modo in cui il legislatore descrive gli elementi costitutivi della fattispecie».
[51] V., sul punto, F. BASILE, op. cit., 1578, che lo definisce «il più ‘forte’ tra i criteri ‘deboli’».
[52] V. anche F. BASILE, ibid., cit., 1581, che lo inserisce tra i criteri deboli: «può costituire un indizio – ma nulla più – della sua natura circostanziale, “dato il legame che così viene espresso tra le due fattispecie”».
[53] Tra i reati messi in evidenza nella pronuncia, «la subornazione (art. 377), la cui pena è stabilita in relazione a quelle previste per la falsa testimonianza e la falsa perizia o interpretazione»
[54] È il caso, ad esempio, dell’art. 625, c.p.
[55] Tuttavia, le stesse SS.UU. Fedi ne contestano «l’inversione logica su cui esso si fonda. Per individuare l’interesse tutelato dalla fattispecie penale, invero, è necessario prima esaminare la struttura della stessa fattispecie, distinguendo i suoi elementi essenziali da quelli accidentali; sicché si potrà registrare un mutamento del bene tutelato solo quando e perché è stato accertato un mutamento degli essentialia delicti».
[56] V. anche F. BASILE, op. cit., 1584, che lo ritiene «criterio ‘inutile’». Secondo tale principio, «in caso di dubbio, l’elemento andrebbe qualificato come circostanza, perché questa soluzione favorirebbe l’imputato, che in tal modo potrebbe godere dei benefici effetti del giudizio di bilanciamento di circostanze». Nella sentenza Fedi si obietta, oltre al rilievo già esposto, che la qualificazione come circostanza non comporta sempre un effetto più vantaggioso per l’imputato, potendo in quel caso essergli contestata anche a titolo di colpa.
[57] Cass. pen., Sez. un., ud. 25.02.2010 – dep. 21.04.2010, n. 15208, in www.dejure.it.
[58] Cass. pen., Sez. un., ud. 27.10.2011 – dep. 07.02.2012, n. 4694, in www.dejure.it. La sentenza richiama l’autorevole dottrina che ha descritto le circostanze come «una specificazione, un particolare modo d’essere una variante di intensità di corrispondenti elementi generali».
[59] Cass. pen., Sez. un., ud. 21.06.2018 – dep. 24.09.2018, n. 40982, in www.dejure.it.
[60] V. F. BASILE, op. cit., 1576: «in tali casi, infatti, il giudice, per quantificare la pena, non ha altra scelta che fare ricorso ai criteri generali stabiliti negli artt. 64 e 65, in tal modo attribuendo natura circostanziale alla fattispecie dubbia».
[61] Ivi, 1577: «il richiamo all’art. 69 implica che si tratta necessariamente di una circostanza, e non di un elemento costitutivo che, in quanto tale, non potrebbe ovviamente soggiacere ad alcun tipo di bilanciamento».
[62] «Qualsiasi sostanza od oggetto [...] di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi».
[63] «Ai fini dell’attuazione della parte quarta del presente decreto i rifiuti sono classificati, secondo l’origine, in rifiuti urbani e rifiuti speciali e, secondo le caratteristiche di pericolosità, in rifiuti pericolosi e rifiuti non pericolosi [...] Sono rifiuti pericolosi quelli che recano le caratteristiche di cui all’allegato I della parte quarta del presente decreto».
[64] V. Allegato I, D.Lgs. 152/2006, «Caratteristiche di pericolo per i rifiuti».
[65] «[...] Se l’abbandono riguarda rifiuti pericolosi, la pena è aumentata fino al doppio». La norma è stata tuttavia recentemente modificata per effetto del D.L. 116/2025; v. supra, §3.
[66] «con la pena dell’arresto da sei mesi a due anni e con l’ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro se si tratta di rifiuti pericolosi», ora abrogato.
[67] V. supra, §4 n. 38.
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