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Pubbl. Gio, 16 Mag 2024
Sottoposto a PEER REVIEW

Il diritto dei conflitti armati: tra ordinamento canonico e ordinamento internazionale

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Luciano Labanca
Dottore di ricercaNessuna



Lo scritto rappresenta il tentativo di individuare elementi di diritto “bellico” in senso lato anche nell’ordinamento canonico. La Chiesa Cattolica rimane solo un “soggetto morale” capace di contribuire con la propria parola e Magistero alla pace nel mondo, oppure con la sua struttura peculiare, con un ordinamento giuridico originario e indipendente, qual è quello canonico, può essere considerata pienamente parte delle relazioni giuridiche internazionali, dando il suo contributo attivo e passivo al diritto dei conflitti armati? La risposta a tale questione emerge dall´analisi di alcuni ”residui” di diritto bellico presenti in canoni del CIC-17 e del CIC-83, oltre che dalla disanima sintetica dei meccanismi di interazione fra ordinamento internazionale e ordinamento canonico


ENG

The law of armed conflict: between canonical and international legal frameworks

The article describes some aspects of the law of armed conflicts, which traditionally fall in the legal framework of international law. There are strong and evident connections of these elements with canon law, both in its interaction with international law and through ”residues” of the law of war (ius belli) in some provisions of canon law. The Catholic Church has not only contributed to the development of the law of war in a moral and spiritual sense, but through the Holy See it has also always been an active and passive subject of specific international norms of humanitarian law, as well as of specific internal norms within the legal canonical system.

Sommario: 1. Premessa; 2. Residui di ius belli nel Codex Iuris Canonici del 1917; 3. Residui di ius belli nel CIC-83 e nel CCEO; 4. Principi di ius belli nel Diritto internazionale e rapporti con l’Ordinamento canonico; 5.  Osservazioni conclusive.

1. Premessa

Quando si parla di conflitti armati in un’ottica spiccatamente giuridica si è portati naturalmente a collocarsi nell'ambito del diritto internazionale, dal momento che questa branca del diritto è direttamente interessata ai rapporti tra gli Stati, cui i conflitti – se non sono interni – più spesso afferiscono.

Questo studio, tenendo conto del sostrato storico che ha portato alla strutturazione dell’attuale diritto dei conflitti armati, in cui un ruolo fondamentale nel corso dei secoli – specialmente dal Medioevo in avanti - è stato rivestito anche dalla scienza canonica, si pone l’obiettivo di esaminare l’attuale normativa del diritto canonico, soffermandosi su quella abrogata del 1917 e su quella vigente del 1983, con qualche accenno anche alla codificazione per le Chiese Orientali del 1990. Si tenta di far emergere quelli che si possono definire “residui” di ius belli, presenti in tali codificazioni, soprattutto per quanto concerne i diritti e doveri dei chierici.

La maggior parte del “materiale” giuridico riguardante il diritto di guerra, sia nella declinazione di ius ad bellum, ossia della regolamentazione dell’uso della forza militare nelle relazioni internazionali, sostanzialmente vietata dalla Carta delle Nazioni Unite, sia in quella di ius in bello, specialmente nella dimensione umanitaria, trovano il maggior numero di norme nelle fonti del diritto internazionale, quali i principi generali, le consuetudini internazionali, i trattati di codificazione e i trattati bilaterali.

Tuttavia, data la grande elasticità del fenomeno giuridico e la forte dinamicità della storia del diritto, nella quale anche lo ius canonicum ha rivestito e riveste un ruolo insostituibile, è ancora possibile rilevare alcuni elementi del diritto bellico, seppure in modo residuale, nell’attuale diritto canonico codificato. La mutazione della struttura sociale dell’Europa, dopo la fine della Christianitas e la collocazione della Chiesa come “lievito” dell’umanità, ha portato al superamento del “braccio secolare”, ma non ha messo fine del tutto al ruolo della comunità cristiana nel porre freno e limiti alla dirompenza della forza bellica, non solo con la forza dell’annuncio, ma anche con lo strumento del diritto.

In una prima parte dello studio, quindi, ci si sofferma su quegli elementi residuali di diritto bellico che si riscontrano nel CIC-17, nel CIC-83 e nel CCEO del 1990, che riguardano soprattutto la proibizione per i chierici di esercitare il cosiddetto “mestiere delle armi”, essendo questo in aperto contrasto con il ministero ecclesiastico. In una seconda parte, richiamando alcuni elementi di dottrina generale del diritto canonico e del diritto internazionale, si tenta di guardare all’interazione tra il diritto internazionale, compreso quello dei conflitti armati, e la legge canonica, secondo i meccanismi di adattamento e rinvio, previsti dall’ordinamento canonico (can. 3 e can. 22).

In sintesi, si tenta di dare una risposta a questa domanda: si può ancora parlare, date le precedenti premesse, di un diritto “bellico” in senso lato anche nell’ordinamento canonico? La Chiesa Cattolica rimane solo un “soggetto morale” capace di contribuire con la propria Parola e Magistero alla pace nel mondo, come è evidente dalla lezione della storia, oppure con la sua struttura peculiare, con un ordinamento giuridico originario e indipendente, qual è quello canonico, può essere considerata pienamente parte delle relazioni giuridiche internazionali, dando il suo contributo attivo e passivo al diritto dei conflitti armati?

2. Residui di ius belli nel Codex Iuris Canonici del 1917

Il Codex Iuris Canonici[1] del 1917 si compone di 5 libri (Normae generales, De personis, De rebus, De processibus, De delictis et poenis) ed diviso in parti, sezioni e titoli, per un totale di 2414 canoni. Benedetto XV nel promulgare il Codex dichiara le caratteristiche dello stesso, come autentico, ossia promulgato dall’autorità pontificia, universale, ossia applicabile a tutta la Chiesa latina, esclusivo, mediante il quale si abrogavano tutte le disposizioni contrarie, fatta eccezione per la disciplina orientale (can. 1), le norme liturgiche (can. 2), le convenzioni internazionali tra Sede Apostolica e Nazioni (can. 3), nonché il diritto precedente alla codificazione (can. 6).[2] È importante sottolineare quest’ultimo punto, richiamando quanto affermato da Nacci:

“A differenza degli altri modelli civili, porterà in sé forti “aperture” nei confronti del passato, di tutto ciò che rappresenta il periodo precedente al codice. Ed è proprio sulla base di questo dato di fatto che non può non affermarsi che il Codice rappresenta un valido esempio, “unico” nel suo genere, di cultura giuridica. In che modo? Riconoscendo nel can. 6, ad esempio, l’importanza della tradizione giuridica precedente, il cosiddetto ius vetus, dimostrando il legislatore canonico una maggiore sensibilità rispetto a quello statuale che invece ha rinnegato il patrimonio giuridico precodiciale”[3].

In tale ottica, rimane di grande importanza riferirsi anche alla pubblicazione della collezione di fonti, prevista nel corso del dibattito preliminare, che vide la luce fra il 1923 e il 1939, nelle cosiddette Codicis Iuris Canonici Fontes[4], ad opera del Card. Gasparri e del canonista ungherese György Serédi[5], con richiamo a gran parte dei documenti citati in nota nel Codice e di grande utilità per la sua interpretazione.

Entrando concretamente nell’analisi delle disposizioni normative, volendo cogliere degli elementi “residui” di ius belli nel CIC-17, sembra anzitutto doveroso riprendere il dettato del can. 6 del codice abrogato, dove si afferma:

“Codex vigentem huc usque disciplinam plerumque retinet, licet opportunas immutationes afferat. Itaque:

1º Leges quaelibet, sive universales sive particulares, praescriptis huius Codicis oppositae, abrogantur nisi de particularibus legibus aliud expresse caveatur;

 2º Canones qui ius vetus ex integro referunt, ex veteris iuris auctoritate, atque ideo ex receptis apud probatos auctores interpretationibus, sunt aestimandi;

 3º Canones qui ex parte tantum cum veteri iure congruunt, qua congruunt, ex iure antiquo aestimandi sunt; qua discrepant, sunt ex sua ipsorum sententia diiudicandi;

 4º In dubio num aliquod canonum praescriptum cum veteri iure discrepet, a veteri iure non est recedendum;

 5º Quod ad poenas attinet, quarum in Codice nulla fit mentio, spirituales sint vel temporales, medicinales vel, ut vocant, vindicativae, latae vel ferendae sententiae, eae tanquam abrogatae habeantur;

 6º Si qua ex ceteris disciplinaribus legibus, quae usque adhuc viguerunt, nec explicite nec implicite in Codice contineatur, ea vim omnem amisisse dicenda est, nisi in probatis liturgicis libris reperiatur, aut lex sit iuris divini sive positivi sive naturalis”.

L’intenzione del legislatore canonico non è quella di rompere totalmente col passato, ma al contrario delle codificazioni civili “chiuse” all’apporto del diritto storico, si mantiene un’apertura verso lo ius vetus, sia nei contenuti non direttamente ed esplicitamente abrogati, sia nell’interpretazione e nell’applicazione, dando preferenza alla lettura tradizionale in caso di dubbio. Lo storico del diritto Fantappiè, a tal riguardo, afferma:

“Di quest’apertura del Codice al passato, alla vita della norma – che non interpone una cesura netta ma, anzi, postula una fusione di orizzonti tra la traditio canonica e la norma codificata – si ha chiara conferma non solo nella legislazione ma anche nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme. Nella fissazione delle regole interpretative della legge il codice canonico non stima sufficiente né il metodo logico della Scuola civilistica francese, che faceva capo alla “intenzione” o “volontà” del legislatore, né il metodo storico-evolutivo sorto in reazione ad essa, secondo cui era necessario sciogliere l’esistenza e la vitalità della norma dal suo autore e dalla sua volontà. Innanzi tutto nel can. 6 è stabilito che ogni disposizione ripresa in tutto o in parte dall’antico diritto debba essere interpretata conformemente al diritto anteriore (nn. 2 e 3)”[6].

Non sembra un azzardo, dunque, affermare che quegli elementi di diritto bellico che si possono ampiamente rilevare all’interno del Corpus Iuris Canonici[7], alla luce del disposto del can. 6, al tempo della vigenza del CIC-17 possano mantenere ancora la loro validità, se non circa i contenuti delle singole disposizioni, almeno nell’interpretazione dei canoni che si vanno ora ad analizzare.

Le norme che sono oggetto dell'attenzione di questo studio sono tutte contenute nel libro II del CIC-17, De personis. La prima che si vuole analizzare, è il can. 121, che fa parte della Pars prima: De clericis, Sectio I: De clericis in genere, Titulus II: De iuribus et privilegiis clericorum. Il canone cita testualmente: “Clerici omnes a servitio militari, a muneribus et publicis civilibus officiis a statu clericali alienis immunes sunt”. Tutti i chierici, ossia, secondo l’accezione del can. 108 §1 del CIC-17 “coloro che sono stati deputati ai divini misteri almeno per mezzo della prima tonsura” (qui divinis misteriis per primam saltem tonsuram mancipati sunt, clerici dicuntur), a dire del legislatore canonico, sono immuni dal servizio militare, dai doveri e i pubblici uffici, alieni dallo stato clericale. Cosa deve intendersi per immunitas? Il commentario più autorevole del CIC-17, il Wernz-Vidal, nell’introdurre la parte relativa ai diritti e doveri dei chierici afferma che per immunità personale (sia reale che locale) deve intendersi un privilegio, mediante il quale le persone ecclesiastiche vengono esentate da un onere comune, ad esempio ciò che viene imposto ai propri sudditi dallo Stato mediante legge civile[8]. Commentando il canone specifico, poi, si dice che in forza di quell’esenzione i chierici non possono essere costretti a prestare il servizio militare, né a sottostare a quei doveri e uffici pubblici civili, che a giudizio della Chiesa sono inadeguati allo stato clericale. Dopo alcune note storiche, all’interno delle quali si fa anche riferimento alle fonti dello ius antiquus[9], l’autore sostiene che tale immunità non solo debba essere estesa ai chierici, nell’accezione richiamata in precedenza, ma anche a coloro che si preparano a ricevere gli ordini sacri nei seminari, sotto l’autorità della Chiesa[10]. Il canone citato, inoltre, viene considerato dallo storico del diritto Nacci tra quelli nei quali è possibile scorgere riferimenti ai principi cardine dello ius publicum ecclesiasticum[11].

L’altra disposizione legale del CIC-17 collegata al medesimo tema, è rappresentata dal can. 141, anch’esso collocato nella Pars prima: De clericis, Sectio I: De clericis in genere, Titulus III: De obligationibus clericorum. Il canone cita: “§1. Saecularem militiam ne capessant voluntarii, nisi cum sui Ordinarii licentia, ut citius liberi evadant, id fecerint; neve intestinis bellis et ordinis publici perturbationibus opem quoquo moda ferant. §2. Clericus minor qui contra praescriptum §1 sponte sua militiae nomen dederit, ipso iure e statu clericali decidit”.

Il primo paragrafo del canone vieta anzitutto ai chierici – nella medesima accezione analizzata nel canone precedente – di prendere parte come volontari a qualunque contingente militare, se non con la licenza del proprio Ordinario. Dal momento che in alcuni Stati non viene riconosciuta l’immunità di cui al can. 121, il legislatore canonico, mediante lo strumento della licenza dell’Ordinario[12], offre ai chierici che si trovano in quelle specifiche circostanze, la possibilità di scegliere spontaneamente il servizio militare, con la precisa ratio di assolverne più celermente (citius) le obbligazioni[13]. Tale statuizione che riguarda i chierici, si estende anche ai religiosi, come è stabilito dal can. 614, compresi i novizi.

Accanto a questa disposizione, si fa assoluto divieto di prendere parte a guerre civili (intestinis bellis) o altre perturbazioni dell’ordine pubblico. Tra le fonti canonistiche richiamate in nota, il primo posto è occupato dalla Quaestio VIII (An episcopis vel quibuslibet clericis sua liceat auctoritate, vel Apostolici, vel imperatoris precepto arma moveret) della Causa XXIII della Concordia grazianea, accanto ad altri testi del liber Extra di Gregorio IX[14]

Il secondo paragrafo, invece, presenta una specifica fattispecie che riguarda i soli chierici minori, ossia coloro che, entrati nello stato clericale con la tonsura, non sono ancora costituiti negli ordini sacri[15]. Per questi, nel momento in cui aderissero spontaneamente ad un contingente militare, contravvenendo al disposto del paragrafo precedente, il legislatore dispone la perdita dello stato clericale ipso iure. Nel caso di chierici maggiori che contravvenissero alla disposizione, invece, secondo il commento del Wernz-Vidal, si potrebbe applicare la sanzione penale prevista dal can. 2380, riguardante i chierici che passano ad un genere di vita alieno dallo stato clericale[16]. Da tale commento del Wernz-Vidal, tuttavia, sembra opportuno discostarsi, perché in virtù del can. 19, il CIC-17 stabilisce: “Leges quae poenam statuunt, aut liberum iurium exercitium coarctant, aut exceptionem a lege continent, strictae subsunt interpretationi”. La posizione dell’insigne commentatore, infatti, prevede un’estensione della fattispecie prevista dal can. 2380 ad altre non strettamente definite in esso, portando a rinnegare la classica interpretazione stretta delle norme penali, secondo il celebre brocardo: favorabilia amplianda, odiosa restringenda.

Strettamente legato alla disposizione del can. 141 risulta essere quanto statuito al can. 188, dove si elencano alcuni casi di rinuncia dell’ufficio, accettata ipso iure, in seguito a fatti giuridici ben stabiliti. Tra le varie fattispecie, al n. 6 si fa riferimento proprio alla contravvenzione di quanto stabilito dal can. 141 §1. Ecco il testo della disposizione del can. 188: “Ob tacitam renuntiationem ab ipso iure admissam quaelibet officia vacant ipso facto et sine ulla declaratione, si clericus: […] 6º Contra praescriptum can.141, §1 militiae saeculari nomen sponte dederit”. Si tratta di una rinuncia tacita a qualunque ufficio, ammessa dallo stesso diritto, con l’immediato effetto di renderlo vacante per il fatto stesso e senza alcuna dichiarazione. Tra le diverse fattispecie, si prevede quella del chierico che aderisce spontaneamente al contingente militare, senza licenza dell’Ordinario. In questo caso, l’ufficio da lui ricoperto, di qualunque natura sia, risulterebbe immediatamente vacante, come per tacita rinuncia accettata ipso iure[17].

3. Residui di ius belli nel Codice di diritto canonico del 1983 e orientale del 1990

Il Codice di diritto canonico vigente, promulgato il 25 gennaio 1983[18], consta di sette libri (De normis generalibus, De populo Dei, De Ecclesiae munere docendi, De Ecclesiae munere sanctificandi, De bonis Ecclesiae temporalibus, De sanctionibus, De processibus) per un totale di 1752 canoni, con una struttura completamente rinnovata rispetto a quella del precedente Codex. Essa, infatti, non è più basata sulla tripartizione romanistica classica (personae, res, actiones), ma è conforme invece all’immagine della Chiesa come popolo di Dio, offerta dal Concilio Vaticano II, con l’articolazione della vita ecclesiale in funzione delle dimensioni sacerdotale, profetica e regale di Cristo.

In sintonia con il processo di codificazione del diritto latino, Giovanni Paolo II, il 18 ottobre 1990, promulgò il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali (Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium), composto da 30 titoli, seguendo la struttura delle antiche collezioni bizantine, con un totale di 1546 canoni, entrato in vigore il 1° ottobre 1991.

Questi due codici, pur confermando la scelta storica della codificazione del diritto canonico, dispongono anche di presupposti giuridici e di una fisionomia concreta tali da prendere le distanze dalla concezione che stava alla base del codice del 1917. Essa, infatti, nella mens di Pio X rappresentava la sola fonte di legislazione universale al momento della sua promulgazione, ad imitazione dei codici degli Stati. Il codice del 1983, per Giovanni Paolo II, non è che il “documento legislativo primario della Chiesa”, essendo esclusa ogni pretesa di completezza già in partenza[19]. In sintesi, l’idea fu quella di creare un nuovo Corpus Iuris Canonici per la Chiesa universale, con un codice non esclusivo, ma aperto all’integrazione di altri fonti normative. Il Codice latino del 1983, la Costituzione Apostolica Pastor Bonus del 28 giugno 1988, insieme al Codice dei Canoni delle Chiese orientali, formano un sistema aperto, che dà ragione della dinamicità propria della legislazione canonica, aperta ad accogliere le sfide della pastorale, della missione e della prospettiva ecumenica[20].

Riprendendo il tema specifico del diritto bellico, sembra utile sottolineare alcuni elementi del medesimo presenti all’interno della codificazione canonica vigente. Rispetto al CIC-17 che prevedeva tre canoni, su cui ci si è soffermati precedentemente, il CIC-83 offre un riferimento, soltanto nel can. 289 §1. Esso è collocato nel libro II, De populo Dei, Pars I: De christifidelibus, Titulus III: De ministris sacris seu de clericis, Caput III: De clericorum obligationibus et iuribus. Il canone afferma: “§ 1. Cum servitium militare statui clericali minus congruat, clerici itemque candidati ad sacros ordines militiam ne capessant voluntarii, nisi de sui Ordinarii licentia”.

Il testo legislativo – perfettamente in linea con i cann. 121 e 141 del CIC-17 - afferma con chiarezza che i chierici[21], né coloro che sono candidati agli ordini sacri, devono aderire volontariamente ad alcun contingente militare, dal momento che il servizio militare non si addice allo stato clericale. L’unica eccezione al divieto potrebbe darsi con licenza dell’Ordinario[22].

Tra le diverse fonti del canone, secondo la Pontificia Commissio Codicis Iuris Canonici Authentice Interpretando[23], ci sarebbero oltre ai canoni summenzionati del CIC-17, anche il decreto della Sacra Congregazione Concistoriale, Redeuntibus e militari del 25 ottobre 1918[24], la dichiarazione della medesima Congregazione contenente dei chiarimenti ulteriori[25] e la risposta ad un dubbio[26], oltre al più recente decreto Militare servitium della Sacra Congregazione dei Religiosi del 30 luglio 1957[27].

Il can. 289 presenta in sostanza la stessa proibizione della legislazione precedente, tuttavia offre anche una novità importante. Mentre il diritto canonico antico, già dall’epoca degli imperatori cristiani fino al CIC-17, collocava l’esenzione dal servizio militare tra i privilegi dei chierici, il CIC-83, dove è scomparsa la categoria dei privilegia clericorum, come è possibile rilevare anche consultando i lavori preparatori[28], sottolinea l’inadeguatezza (minus congruat) del servizio militare con lo status clericale[29]. Soffermandosi sul testo del canone, Incitti sostiene:

“Il mondo delle armi è sempre stato visto nell’ordinamento canonico come una condizione disdicevole allo stato clericale ed in questa tradizione si colloca il divieto sancito nel can. 289 §1. Si tratta di situazioni in cui bisogna essere pronti alla guerra, allo spargimento del sangue e, pertanto, sono situazioni contrarie alla natura e missione del sacerdozio. Importante sottolineare che il divieto riguarda la prestazione volontaria del servizio militare, nel rispetto, pertanto delle legislazioni che lo prevedono obbligatorio per tutti i cittadini. La dimensione volontaria non si deve confondere con eventuali azioni di volontariato poste collateralmente al mondo delle armi”[30].

L’inadeguatezza del servizio militare rispetto alla natura e missione del sacerdozio, tuttavia, non tocca la questione della moralità del servizio militare in sé, ma è una specificità dei chierici, come seminatori di pace e concordia, a imitazione di Cristo, con cui si identificano sacramentalmente. All’interno della statuizione canonica oggetto di questo studio, inoltre, sembra riscontrarsi un conflitto tra l’ordinamento canonico e quello statale, che viene risolto in favore del secondo. Il canone sembra tener presenti quegli ordinamenti giuridici nei quali il servizio militare è obbligatorio per tutti i cittadini. Nonostante, dunque, l’ordinamento canonico ritenga disdicevole il servizio militare per lo stato clericale, la Chiesa si adegua alla disciplina dello Stato, accettando l’incorporazione obbligatoria dei chierici alle forze armate, esimendoli in questa eventualità dall’incorrere in un illecito penale. La proibizione del diritto canonico riguarda esclusivamente la scelta volontaria da parte del chierico, rifacendosi eventualmente alle esenzioni previste dagli ordinamenti statali (cfr. can. 289 §2). Inoltre, per situazioni straordinarie, sarebbe prevista anche la possibilità di aderire volontariamente al servizio militare, previa licenza dell’Ordinario. Per quanto riguarda, poi, eventuali esenzioni, esse potrebbero essere stabilite in primis mediante il diritto concordatario[31], oppure, in via più generica si potrebbe applicare il principio dell’obiezione di coscienza, se essa è prevista dall’ordinamento giuridico statale[32].

In base al can. 672, inoltre, quanto stabilito dal can. 289 per i chierici, si estende anche ai religiosi, sia chierici, sia laici[33].

In conclusione, volendo dare uno sguardo alla legislazione per le Chiese orientali, prendiamo sinteticamente in esame quanto stabilito dal can. 383 del CCEO:

Clerici, etsi non secus ac ceteri cives iura civilia et politica aequo iure habeant oportet, tamen: 1° officia publica, quae participationem in exercitio potestatis civilis secumferunt, assumere vetantur; 2° cum servitium militare statui clericali minus congruat, illud ne capessant voluntarii nisi de sui Hierarchae licentia; 3° utantur exceptionibus, quas ab exercendis muneribus et officiis publicis a statu clericali alienis necnon servitio militari in eorum favorem concedunt leges civiles aut conventiones vel consuetudines”.

La formulazione del canone, collocato nel CCEO al Titulus X: De Clericis, Caput III: De iuribus et obligationibus clericorum, si presenta leggermente differente da quella del canone corrispondente nel CIC. Viene sottolineato, anzitutto, che i chierici devono avere in comune con gli altri gli stessi diritti civili e politici. Tuttavia, in ragione dell’identità e missione, è loro vietato assumere uffici pubblici che comportano l’esercizio del potere civile (1°) e, a causa dell’inadeguatezza del servizio militare con lo stato clericale, essi non devono arruolarsi all’esercito come volontari, se non con la licenza del Gerarca proprio (2°). Essi, inoltre, sono esortati a servirsi delle esenzioni dai doveri e dagli uffici pubblici alieni allo stato clericale, come anche dal servizio militare, concessi in loro favore dalle leggi civili, dalle convenzioni o dalle consuetudini (3°).

Dagli studi preparatori, emerge come i consultori proposero una formulazione del canone che facesse chiaro riferimento alla tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, come aspetto perseguito anche dai chierici. Si propose di approfondire maggiormente lo studio e nella formulazione definitiva, si trova un cenno a questo aspetto nella parte introduttiva[34], dove i chierici vengono considerati come cittadini inseriti a pieno titolo nell’ordinamento giuridico statale dove sono chiamati ad operare[35]. Interessante sottolineare, infine, che accanto alle leggi civili e alle convenzioni internazionali, il CCEO, diversamente dal can. 289 del CIC-83, faccia anche riferimento alle consuetudini, come possibili fonti del diritto per le esenzioni dei chierici.

4. Principi di ius belli nel Diritto internazionale e rapporti con l’Ordinamento canonico

Il cuore del diritto dei conflitti armati per sua stessa natura si trova nell’ambito dell’ordinamento internazionale secondo le due tradizionali declinazioni del cosiddetto ius ad bellum, ossia le norme che regolano l’uso della forza militare nelle relazioni internazionali, sostanzialmente vietata a partire dalla Carta delle Nazioni Unite, con le eccezioni in essa contemplate[36], e quella dello ius in bello, specialmente nella dimensione umanitaria, circa la regolamentazione e la mitigazione delle situazioni conflittuali. Questi aspetti hanno trovato nell’epoca contemporanea un grande sviluppo, che resta in costante divenire[37].

Seguendo l'internazionalista Vincenzo Buonomo, possiamo sostenere che le disposizioni normative dell'ordinamento internazionale relative a questi ambiti, si fondano su “un nucleo di principi base che sono senza dubbio il risultato di un processo di maturazione a cui hanno concorso elementi di ordine etico, religioso e giuridico ed oggi si presentano come norme generalmente riconosciute dell’ordinamento internazionale”[38].

La base di queste norme internazionali sarebbe sintetizzabile attorno a diversi principi[39]:

  1. Principio di umanità, ossia il rispetto della dignità della persona umana, che non prende parte al conflitto, in qualsiasi situazione si trovi;
  2. Principio di necessità militare, ossia la verifica costante da parte dei combattenti sulla necessità, liceità e proporzionalità dell’uso della forza militare, per mantenere in equilibrio la necessità militare e le esigenze umanitarie;
  3. Principio di lealtà, ossia l’utilizzo di mezzi e comportamenti che non abusino della fiducia dell’altro belligerante, arrecandogli danni;
  4. Principio di proporzionalità, ossia un uso della forza che eviti effetti sproporzionati e danni specialmente verso la popolazione civile;
  5. Principio di distinzione, ossia la chiara demarcazione fra la popolazione civile e i combattenti e tra obiettivi civili e militari;
  6. Principio di precauzione, ossia la costante valutazione da parte dei belligeranti degli effetti delle azioni militari sulla popolazione e sui beni, specialmente di carattere artistico e religioso.

La Santa Sede, come soggetto di diritto internazionale, è anch'essa destinataria di queste norme internazionali. Quando si parla di Santa Sede si intende in senso stretto il Romano Pontefice, Capo della Chiesa cattolica, che agisce come titolare di soggettività internazionale, possedendo ed esercitando una funzione primaziale come Vescovo di Roma, che "in forza del suo ufficio, ha potestà ordinaria, suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che può esercitare liberamente" (can. 331). In tal senso, egli esercita la sua soggettività internazionale in senso stretto. Secondo la dottrina canonistica, inoltre, per Santa Sede si intende anche in senso piu ampio gli organi centrali di governo della Chiesa Cattolica, finalizzati a coadiuvare il Romano Pontefice nell’esercizio del suo ministero, cioè la Curia Romana, mediante la quale egli "è solito trattare le questioni della Chiesa universale, e che in suo nome e con la sua autorità adempie alla propria funzione per il bene e a servizio delle Chiese" (can. 360). Tale esercizio di sovranità internazionale da parte della Santa Sede, non ha solo ragioni di carattere storico, ma di ordine giuridico-canonico e internazionale, come è evidente dal ruolo ricoperto dalla Santa Sede anche nel periodo in cui, dopo la debellatio degli Stati pontifici del 1870, essa non esercitava alcun tipo di sovranità territoriale fino a quando con il Trattato Lateranense del 1929 tra l'Italia e la Santa Sede non si è dato vita allo Stato della Città del Vaticano. Anche in quegli anni (1870-1929), il Romano Pontefice ha continuato ad inviare e ricevere i suoi rappresentanti diplomatici (ius legationis attivo e passivo), come anche ad intervenire come mediatore in conflitti internazionali tra Stati, nonchè a stipulare accordi internazionali (ius contrahendi o tractandi). Dal 1929, poi, con la stipulazione del Trattato Lateranense con l’Italia, la Santa Sede esercita una sovranità territoriale piena ed esclusiva sullo Stato della Città del Vaticano, una porzione di territorio di 0,44 km2, creato a garanzia dell’indipendenza della Santa Sede, di cui il Romano Pontefice è sovrano, dotato dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, che può esercitare direttamente, o ordinariamente mediante gli organismi stabiliti dalla legge e delegati a speciali organi. Alla Pontificia Commissione per lo SCV, in collaborazione con la Segreteria di Stato della Santa Sede, spetta il potere legislativo. Essa è presieduta dal Cardinale Presidente, che ricopre anche l’ufficio di Presidente del Governatorato per lo SCV, in capo al quale si ha la delega del potere esecutivo. Il potere giudiziario è esercitato dal Romano Pontefice mediante un Giudice unico, competente per le cause civili di minore entità e per le contravvenzioni in materia penale, un Tribunale collegiale di I istanza, anch’esso con competenze in materia civile e penale, la Corte d’Appello e la Corte di Cassazione.

Tornando al ruolo della Santa Sede nell'ordinamento internazionale, e in particolare al suo esercizio dello ius contrahendi, è evidente che nel corso dei decenni essa abbia ratificato anche alcune delle Convenzioni internazionali di diritto umanitario (le 4 Convenzioni di Ginevra del 1949, tutte ratificate nel 1951, oltre al I e II Protocollo addizionale[40]), come anche alcune circa il disarmo[41], sposandone appieno i contenuti in ragione della sua identità e missione nel mondo a servizio della pace. Dal momento che, come per ogni altro ordinamento giuridico, esistono dei meccanismi per mezzo dei quali i principi e le norme del diritto internazionale si interfacciano con il diritto canonico[42], è evidente che anche elementi di diritto internazionale dei conflitti armati, soprattutto le norme di diritto umanitario, si integrino a pieno regime nell’ordinamento canonico.

Uno di questi meccanismi di integrazione di norme esterne all’interno del diritto canonico, per esempio, è dato dalla cosiddetta “canonizzazione” delle leggi civili, prevista dal can. 22 del Codice di diritto canonico, dove si stabilisce un principio generale, secondo il quale le leggi civili hanno valore giuridico nell’ordinamento della Chiesa in quanto sono recepite in esso e i fedeli sono tenuti ad osservarle con obbligo canonico[43]. Lo stesso legislatore dispone alcuni limiti alla ricezione delle leggi nell’ordinamento canonico, ossia l’eventuale contrarietà delle stesse al diritto divino e alle disposizioni del diritto canonico[44]. Queste limitazioni sono valide evidentemente anche per il diritto internazionale e sono in linea con le regole generali in materia di diritto internazionale privato, mediante le quali una norma straniera assunta da un ordinamento produce effetti secondo contenuti ed interpretazione corrente tipici dell’ordinamento d’origine. Sarebbe questo ambito “intoccabile” all’interno del diritto canonico, a configurarsi come il cosiddetto “dominio riservato” (domestic jurisdiction), tipico di ogni ordinamento giuridico, come zona preclusa ad ogni intervento esterno.[45]

Sempre in riferimento ai meccanismi di adattamento del diritto internazionale nell’ordinamento canonico, è opportuno richiamare in breve le diverse fonti del diritto internazionale, secondo la lista presentata dall’art. 38 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia[46], dove si parla di Principi generali e consuetudine internazionale, ossia quei principi giuridici generalmente riconosciuti che costituiscono le strutture portanti del diritto internazionale, consolidati nella prassi recente come quell’insieme di norme non scritte condivise dalla Comunità internazionale nel suo complesso (as a whole) e che regolamentano principalmente l’ordine pubblico internazionale. L’esistenza di tali principi ius cogens e la loro applicabilità emerge soprattutto nei “trattati di codificazione”, come quelli relativi al diritto internazionale umanitario, che nascono proprio dalla cristallizzazione di tali principi e vengono anche richiamati nella giurisprudenza internazionale, specialmente in ragione della persecuzione dei crimini internazionali[47]. Un concreto esempio di ricezione di principio generale dell’ordinamento internazionale all’interno del canonico, è certamente dato dal celebre pacta sunt servanda, espressamente richiamato dal can. 3 del Codice di diritto canonico, nonché dei principi del diritto diplomatico citati nei cann. 362 e 365, in riferimento alla nomina e al richiamo dei legati pontifici[48].

Circa la consuetudine internazionale, la Santa Sede, come soggetto di diritto internazionale è direttamente destinataria delle medesime, in base al principio consuetudo est servanda, influendo anche sul diritto interno. Sarebbero da escludere, invece, quelle consuetudini relative ad attività non confacenti ai fini e alla natura della Santa Sede[49].

L’altra fonte del diritto internazionale, a cui si è già fatto riferimento in precedenza, è quella pattizia di fonte bilaterale e multilateraleQuando la Santa Sede, come soggetto di diritto internazionale, ratifica dei trattati o aderisce a convenzioni, queste normative si interfacciano con il diritto canonico assumendo il rango di leges speciales, con conseguente prevalenza degli stessi sulle norme interne[50]. La Santa Sede ha assunto alcuni obblighi anche rispetto ad alcuni trattati multilaterali, compresi quelli che la rendono membro di Organizzazioni intergovernative. Tale condizione, evidentemente, la rende destinataria anche delle normative emesse da tali soggetti, sebbene si tratti di norme internazionali di secondo livello (soft-law) e in misura differente rispetto alla tipologia della sua appartenenza[51]. Infine, la Santa Sede, è parte di alcune convenzioni che riguardano i diritti umani. Accanto all’enunciazione di principi, tali normative prevedono spesso anche alcuni meccanismi di controllo, mediante specifici organi paragiudiziali (Treaty Bodies), finalizzati a rilevare il livello di attuazione di quanto previsto dai singoli trattati, dopo aver esame rapporti periodici che i membri sono tenuti a trasmettere su base regolare sulle questioni in oggetto[52].

5. Osservazioni conclusive

Alla luce di quanto emerso, volendo dare una risposta alla domanda iniziale se sia possibile parlare di un “diritto canonico dei conflitti armati”, la risposta sembra essere affermativa almeno per due motivazioni.

In primo luogo perché, dall’analisi delle codificazioni canoniche, emerge una presenza evidente di norme residuali di diritto bellico, già presenti nell’abrogato Codex del 1917. Attraverso di esso, trattandosi di un Codice “aperto” allo ius vetus, tutto ciò che si trova nelle fonti precedenti del Corpus Iuris Canonici, rimane valido per l’ordinamento canonico almeno fino al 1983, se non nel contenuto delle singole determinazioni dettate da contesti storici e sociali ben diversi dal secolo XX, almeno per quanto riguarda l’interpretazione dei canoni in esso contenuti. Tre norme del CIC-17, in modo particolare i cann. 121, 141 e 188, stabiliscono precisi criteri per i chierici nell’esercizio del “mestiere delle armi”, riprendendo la tradizione della Concordia discordantium canonum di Graziano (C. XII, q. 2, c. 69; C. XXIII, q. 8), come anche diverse norme dello ius decretalium (X 3.49; X 3.50.9; X 5.37.5; X 5.39.25; VI 3.20.4; Clem. 3.13.3).

Tale impressione è confermata anche dall’analisi del CIC-83 e del CCEO, che con le loro peculiarità, rispettivamente nei cann. 289 e 383, pur presentando notevoli differenze di approccio al problema, come si è tentato di rilevare in precedenza, riallacciandosi alla normativa del CIC-17, presentano le stesse limitazioni per i chierici, offrendo un rimando chiaro alle norme concordatarie e alle consuetudini.

Accanto a questi residui di diritto bellico presenti nelle norme sostanziali dei codici canonici, nella seconda parte dello studio si è tentato un approccio al rapporto tra l’ordinamento internazionale vigente e quello canonico, secondo le rispettive previsioni dei cann. 3 e 22 del CIC-83. In sintesi, si può affermare che in base ad essi, i principi generali del diritto internazionale, come anche le convenzioni internazionali ratificate dalla Santa Sede, entrano a tutti gli effetti nell’ordinamento canonico, fermi restando i limiti dati dal diritto divino e dal diritto canonico. Tra tali consuetudini e convenzioni non sembra ragionevole escludere quelle relative al diritto dei conflitti armati. La Santa Sede, in particolare, avendo proceduto alla ratifica di molte delle convenzioni di diritto umanitario, come anche quelle relative al disarmo, non solo recepisce quelle normative nel suo ordinamento, ma ha contribuito e contribuisce con la sua plurisecolare tradizione e forza morale alla definizione di molte opiniones iuris sul tema[53].

Oltre alla forza della parola e dell’insegnamento evangelico in ogni angolo della Terra, la presenza della Santa Sede come vero soggetto di diritto internazionale, dotato di una sua domestic jurisdiction in ambito canonico, contribuisce in maniera non trascurabile allo sviluppo della pace, della cooperazione, del disarmo, della limitazione della forza dirompente della guerra, sia giuridicamente, sia con lo strumento della diplomazia pontificia.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Codex Iuris Canonici, Pii X Pontificis Maximi, iussu digestus BENEDICTI Pp. XV, auctoritate promulgatus, in AAS, IX (1917 - II), pp. 11-456.

[2] Per una disanima del processo di codificazione del Codice di Diritto Canonico del 1917, cfr. L. LABANCA, ”Note di storia delle fonti del diritto canonico: dai bullaria ai codici recenti (1983 e 1990)” in Riv. Cammino Diritto, ISSN 2421-7123 Fasc. 04/2020, pp. 4-6.

[3] M. NACCI, “San Pio X e il diritto canonico: la “culura giuridica” della codificazione del diritto nella Chiesa”, in Ephemerides Iuris Canonici, LIV (2014) 1, p. 99.

[4] Cfr. P. GASPARRI – G. J. SERÉDI, Codicis iuris canonicis fontes, voll. I-IX, Typis Polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano, 1923-1939.

[5] György Jusztinián Serédi, ungherese, nacque a Deáki nel 1884. Monaco benedettino, fu docente di diritto canonico a Roma e in quella veste fu anche consultore della Pontificia commissione per la codificazione del diritto canonico. Insieme al Card. Gasparri curò con grande dottrina l'edizione delle Fonti del Codex iuris canonici, i cui ultimi tre volumi sono completamente opera sua. Fu nominato Arcivescovo di Esztergom e cardinale col titolo dei SS. Andrea e Gregorio al Monte Celio nel 1927. Nel corso della II guerra mondiale, condannò fermamente le leggi razziali. Morì ad Esztergom nel 1945.

[6] C. FANTAPPIÉ, Chiesa romana e modernità giuridica, Vol. I, Il Codex Iuris Canonici (1917), Giuffrè, Milano, 2008, pp. 1034-1035.

[7] Per un’analisi specifica di questi contenuti, cfr. L. LABANCA, Lo ius belli: dal Decretum di Graziano al diritto internazionale vigente. Ricognizione e analisi delle fonti canoniche e internazionali, Educat, Milano, 2019, pp. 18-120.

[8] X. WERNZ – P. VIDAL, Ius canonicum, vol. II, De personis, Pontificia Università Gregoriana, Romae, 1928, p. 78: “Sane immunitas personalis (de reali et locali alibi est sermo) est privilegium, quo personae ecclesiasticae a communi onere eximuntur, i. e. quod lege civili a Statu subditis suis promiscue imponitur, et ad hanc immunitatem reduci possunt privilegium canonis et fori et exemptio a servitio militari et a certis muneribus et officiis publicis”.

[9] Le fonti canoniche di riferimento del can. 121 riportate in nota nel CIC-17 stesso e in X. WERNZ – P. VIDAL, Ius canonicum, vol. II, De personis, 92, sono il DG, C. XII q. 2 c. 69; X 3.49; VI 3.20.4; Clem. 3.13.3.

[10] X. WERNZ – P. VIDAL, Ius canonicum, vol. II, De personis, pp. 91-93: “Exemptio seu immunitas personalis clericorum est illa exemptio, vi cuius clerici non possunt cogi ad servitium militare nec ad obeunda ea munera et officia publica civilia, quae iudicio Ecclesiae dedecent statum clericalem. […] Quae immunitas personalis clericorum inter popilos quoque christianos medii aevi fuit admissa et iure canonico constituta. […] Ecclesia vindicat etiam nunc suis clericis aliisque personis aequiparatis immuitatem a servitio militari. Quae immmunitas sese non solum extendit ad clericos in sacris ordinibus constitutos, qui statui clericali servitiosque ecclesiastico iam in perpetuum et irrevocabiliter adscripti sunt, sed etiam ad illos, qui in seminariis ad ordine sacros cum approbatione et sub directione Ecclesiae vre et non ficte sese disponunt aque praeparant”.

[11] Cfr. M. NACCI, Chiesa e Stato dalla potestà contesa alla sana cooperatio. Un profilo storico-giuridico, Lateran University Press, Città del Vaticano, 2015, pp. 131-132.

[12] Per ordinari nel CIC-17 si intendono tutti coloro che vengono elencati nel can. 198: “Can 198 §1. In iure nomine Ordinarii intelliguntur, nisi quis expresse excipiatur, praeter Romanum Pontificem, pro suo quisque territorio Episcopus residentialis, Abbas vel Praelatus nullius eorumque Vicarius Generalis, Administrator, Vicarius et Praefectus Apostolicus, itemque ii qui praedictis deficientibus interim ex iuris praescripto aut ex probatis constitutionibus succedunt in regimine, pro suis vero subditis Superiores maiores in religionibus clericalibus exemptis. §2. Nomine autem Ordinarii loci seu locorum veniunt omnes recensiti, exceptis Superioribus religiosis”.

[13] Cfr. X. WERNZ – P. VIDAL, Ius canonicum, vol. II, De personis, p. 153: “In iis vero locis, in quibus civiles leges hanc ecclesiasticam immunitatem non admittunt, possunt de licentia sui Ordinarii sponte militiam assumere, si, ut non raro accidit, hoc est medium admissum ut citius liberi evadant (can. 141, § 1)”.

[14] Le fonti canoniche del can. 141 §1 sono il DG, C. XXIII, q. 8, cc. 5-6; X 3.50.9; X 5.37.5; X 5.39.25.

[15] Per comprendere la distinzione fra chierici costituiti negli ordini maggiori o sacri e quelli costituiti negli ordini minori, si veda il can. 949 del CIC-17 che afferma: “In canonibus qui sequuntur, nomine ordinum maiorum vel sacrorum intelliguntur presbyteratus, diaconatus, subdiaconatus; minorum vero acolythatus, exorcistatus, lectoratus, ostiariatus”.

[16] Cfr. X. WERNZ – P. VIDAL, Ius canonicum, vol. II, De personis, 153: “In clericos maiores facile potest applicari sanctio poenalis can. 2380 de clericis transeuntis ad vitae genus a statu clericali alienum”.

[17] Cfr. X. WERNZ – P. VIDAL, Ius canonicum, vol. II, De personis, p. 334.

[18] Per una disanima sintetica e opportuni riferimenti bibliografici sul processo di codificazione successivo al Concilio Vaticano II, cfr. L. LABANCA, ”Note di storia delle fonti del diritto canonico: dai bullaria ai codici recenti (1983 e 1990)” in Riv. Cammino Diritto, ISSN 2421-7123 Fasc. 04/2020, pp. 6-9.

[19] Cfr. C. FANTAPPIÈ, Storia del diritto canonico e delle istituzioni della Chiesa, Il Mulino, Bologna, 2011, p. 307.

[20] Basti far cenno, a questo proposito, solo a mo’ di esemplificazione, alle importanti integrazioni realizzate nel corso dei decenni successivi alla promulgazione dei Codici, sia sotto il pontificato di Giovanni Paolo II (Litterae Apostolicae motu proprio datae: Sacramentorum Sanctitatis Tutela del 2001, in AAS XCIII (2001), pp. 738-739), come anche di Benedetto XVI (Normae de delictis Congregationi pro Doctrina Fidei reservatis seu Normae de delictis contra fidem necnon de gravioribus delictis, in AAS CII (2010), pp. 419-434) e di Papa Francesco, con le varie riforme sul processo matrimoniale (Litterae Apostolicae motu proprio datae: Mitis et Misericos Iesus, in AAS CVII (2015), pp. 946-957; Litterae apostolicae motu proprio datae: Mitis Iudex Dominus Iesus, in AAS CVII (2015), pp. 958-970), gli ultimi interventi legislativi in materia di tutela dei minori e delle persone vulnerabili, ad esempio Litterea motu proprio datae: Vos estis lux mundi (2019) e la riforma della Curia Romana, con la promulgazione della Costituzione Apostolica Praedicate Evangelium del 19 marzo 2022, entrata in vigore il 5 giugno 2022.

[21] Per chierici nel CIC-83 si intendono i ministri sacri, ossia quei battezzati costituiti tali dal Sacramento dell’Ordine, nei tre gradi dell’episcopato, presbiterato e diaconato (cfr. can. 207 §1; cann. 1008-1009).

[22] Per Ordinari nel CIC-83 si intendono coloro che sono elencati nel can. 134.

[23] Cfr. PONTIFICIA COMMISSIO CODICIS IURIS CANONICI AUTHENTICE INTERPRETANDO, Codex iuris canonici auctoritate Ioannis Pauli PP. II promulgatus, fontium annotatione et indice analytico-alphabetico auctus, p. 82.

[24] Cfr. SACRA CONGREGATIO CONSISTORIALIS, Decretum: Redeuntibus e militari, die 25 octobrs 1918, in AAS X (1918), pp. 481-486.

[25] Cfr. SACRA CONGREGATIO CONSISTORIALIS, Declaratio circa decretum Redeuntibus, die 1 decembris 1918, in AAS XI (1919), pp. 6-7.

[26] Cfr. SACRA CONGREGATIO CONSISTORIALIS, Dubium super decreto Redeuntibus, die 28 martii 1919, in AAS XI (1919), pp. 177-178.

[27] Cfr. SACRA CONGREGATIO DE RELIGIOSIS, Decretum de religiosis servitio militari adstrictis: Militare servitium, die 30 iulii 1957, in AAS XLIX (1957), pp. 871-874.

[28] Cfr. Communicationes, XVI (1984) 2, pp. 182-183.

[29] Cfr. A. GAUTHIER, Norme canoniche generali sui fedeli, laici e chierici. Commentario del Codice di diritto canonico, cann. 204-329, Roma, 1994, pp. 99-100.

[30] G. INCITTI, Il popolo di Dio. La struttura giuridica fondamentale tra uguaglianza e diversità, Urbaniana University Press, Roma, 2007, p. 192.

[31] Come esempio di norma concordataria che prevede l’esenzione dal servizio militare, si faccia riferimento al caso dell’Accordo di revisione del Concordato stipulato fra la Santa Sede e l’Italia il 18.2.1984, dove all’art. 4 si afferma: “1. I sacerdoti, i diaconi ed i religiosi che hanno emesso i voti hanno facoltà di ottenere, a loro richiesta, di essere esonerati dal servizio militare oppure assegnati al servizio civile sostitutivo. 2. In caso di mobilitazione generale gli ecclesiastici non assegnati alla cura d'anime sono chiamati ad esercitare il ministero religioso fra le truppe, oppure, subordinatamente, assegnati ai servizi sanitari. 3. Gli studenti di teologia, quelli degli ultimi due anni di propedeutica alla teologia ed i novizi degli istituti di vita consacrata e delle società di vita apostolica possono usufruire degli stessi rinvii dal servizio militare accordati agli studenti delle università italiane”, Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica Italiana che apporta modificazioni al concordato lateranense, Roma, 18 febbraio 1984, art. 4, in AAS LXXVII (1985), pp. 523-524.

[32] Cfr. T. BERTONE, Obblighi e diritti dei chierici. Missione e spiritualità del presbitero nel nuovo Codice, in AA.VV., Lo stato giuridico dei ministri sacri nel Codice di diritto canonico, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1984, pp. 58-69; P. VALDRINI, “Les ministres sacrés ou les clercs. Commentaires des canons 232-293 du code de droit canonique”, in L’Année canonique, XXX (1987), pp. 321-337; M. DELLANOCE, “Le ‘esenzioni’ dei chierici (c. 289, par. 2)”, in Quaderni di diritto ecclesiale, VI (1993), pp. 100-107; J. OTADUY, “can. 289”, in INSTITUTO MARTIN DE AZPILCUETA FACULTAD DE DERECHO CANONICO UNIVERSIDAD DE NAVARRA, Comentario exegetico al Codigo de Derecho canonico, EUNSA, Pamplona, 1997, II/1, pp. 381-383; L. CHIAPPETTA, Il Codice di diritto canonico, Commento giuridico-pastorale, vol. I, EDB, Bologna, 2013, p. 379; J. OTADUY, “Servicio militar de clérigos y religiosos”, in INSTITUTO MARTÍN DE AZPILCUETA, FACULTAD DE DERECHO CANONICO, UNIVERSIDAD DE NAVARRA, Diccionario general de derecho canónico, vol. VII, pp. 296-298; P. VALDRINI, Comunità, persone, governo. Lezioni sui libri I e II del CIC 1983, Lateran University Press, Città del Vaticano, 2013, p. 207; E. KOUVEGLO, Diritti e doveri dei fedeli, in M. J. ARROBA CONDE (CUR.), Manuale di diritto canonico, cit., pp. 96-97.

[33] Cfr. D. ANDRÉS, Le forme di vita consacrata. Commentario teologico-giuridico al Codice di diritto canonico, Ediurcla, Roma, 20086, pp. 539-544.

[34] Cfr. Nuntia, XX (1985), pp. 113-115.

[35] Cfr. P. V. PINTO (CUR.), Commento al Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2001, p. 335.

[36] Si pensi all’art. 51 che prevede il diritto all’autotutela, definito “naturale” (inherent), ossia connaturale all’esistenza stessa degli Stati, che sono autorizzati sia in maniera individuale, sia in maniera collettiva (previa richiesta o consenso dello Stato aggredito), ad intervenire quando abbia luogo un attacco armato contro uno Stato membro delle Nazioni Unite, fintanto che il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie. La norma, inoltre, prevede un obbligo procedurale, in base al quale le misure intraprese dagli Stati debbano essere tempestivamente portate a conoscenza del CS, senza pregiudicare i poteri e i compiti spettanti ad esso di intraprendere eventuali azioni ritenute necessarie. Accanto a questa eccezione, in base alla prassi dell’organizzazione si parla del consenso dell’avente diritto, in base al quale se uno Stato entra in territorio altrui con l’autorizzazione del sovrano territoriale, non si ha alcun illecito in base al principio volenti non fit iniuria. Tale consenso può essere orale, oppure condensato in un accordo internazionale scritto ed è fondamentale che sia espresso da un ente, la cui manifestazione di volontà sia riconducibile allo Stato in cui si realizza l’intervento. Si prevede, inoltre, che il consenso sia valido, ossia non inficiato da alcun vizio di volontà, come errore, dolo o violenza, e che sia espresso secondo le disposizioni del diritto interno dello Stato territoriale. L’intervento, poi, non deve violare le norme che obbligano verso lo Stato territoriale, né verso altri Stati o membri della comunità internazionale, né violare alcuna norma imperativa del diritto internazionale (ius cogens), né superare i limiti entro cui è stato dato (modalità e tempi stabiliti); altra eccezione al divieto dell’uso della forza, sarebbe l’intervento in favore di propri cittadini all’estero, quando si verifichino determinati presupposti, quali l’esistenza di un serio pericolo di vita per i cittadini dello Stato interveniente e la mancanza di volontà (ad es. complicità con i terroristi) o incapacità (ad es. perché il territorio si trova in uno stato di anarchia) da parte dello Stato territoriale di salvarli. Tale intervento, evidentemente, presuppone il consenso dello Stato territoriale in cui si interviene e deve essere finalizzato a salvare i cittadini e riportarli in patria, con una durata strettamente necessaria e senza stravolgere l’equilibrio interno del Paese. Non è da sottovalutare, poi, il “dovere di ingerenza umanitaria”, ossia l’uso della forza per proteggere i cittadini dello Stato territoriale da trattamenti inumani e degradanti, come violazioni contro i diritti umani, che tuttavia ha suscitato non poche obiezioni nella dottrina internazionalistica. Si ritiene, comunque, che perché tale tipo di intervento possa avere luogo, debbano verificarsi le classiche clausole escludenti il fatto illecito, oppure un’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza. Tale istituto – a dire della dottrina – rimane altamente controverso e divisivo. L’Institut de Droit International ha dovuto abbandonare l’idea di redigere una risoluzione in materia, viste le opposte opinioni manifestate tra i propri membri (sessione di Tallin, 2015). Infine, altre cause di esclusione del fatto illecito in riferimento al divieto dell’uso della forza armata, possono essere lo stato di necessità, la forza maggiore, l’estremo pericolo (distress) e secondo altri, con maggiore rilevanza, il caso di violazioni di obblighi erga omnes, come quello del genocidio, in ragione delle quali gli Stati potrebbero intervenire per prevenirle o evitare che esse si prolunghino. Cfr. N. RONZITTI, Diritto internazionale dei conflitti armati, Giappichelli, Torino, 20176, pp. 44-57; I. SANTUS, Il contributo della Santa Sede al diritto internazionale: dal diritto d’ingerenza alla responsabilità di proteggere la dignità umana, CEDAM, Padova, 2012, pp. 87-211.

[37] Cfr. C. FOCARELLI, Introduzione storica al diritto internazionale, Giuffrè, Milano, 2012, pp. 414-415.

[38] V. BUONOMO, Il diritto della Comunità internazionale, Principi e regole per la governance globale, Lateran University Press, Città del Vaticano, 2010, p. 146.

[39] Cfr. V. BUONOMO, Il diritto della Comunità internazionale, Principi e regole per la governance globale, pp. 146-148; N. RONZITTI, Diritto internazionale dei conflitti armati, cit., pp. 209-213.

[40] Per una rassegna sintetica sulle Convenzioni di Ginevra e i Protocolli aggiuntivi, la loro genesi, storia e contenuti, cfr. L. LABANCA, Lo ius belli: dal Decretum di Graziano al diritto internazionale vigente, pp. 330-334.

[41] Per un elenco delle Convenzioni internazionali a cui la Santa Sede ha aderito, cfr. L. CAVEADA, Questioni aperte sulla presenza della Santa Sede nel diritto internazionale, Cedam, Milano, 2018, pp. 74-79.

[42] Cfr. L. LABANCA, ”Relazioni tra il diritto internazionale e il diritto canonico” in Riv. Cammino Diritto, ISSN 2532-9871, Fasc. 09/2019, pp. 5-18.

[43] In differenti parti del Codice di diritto canonico si ritrovano rimandi a precisi ambiti del diritto civile che sono oggetto di canonizzazione, in modo particolare riguardo alle prescrizioni, sia estintive, che prescrittive (cann. 197; 1268; 1492, §1), all’istituto della tutela (can. 98), all’adozione (can. 110), ai rapporti di lavoro e alla previdenza sociale (cann. 231 e 1286), ai testamenti e alla rinuncia ai propri beni da parte dei religiosi (can. 668, §§1 e 4), agli effetti civili del matrimonio (cann. 1059 e 1672), al mandato procuratorio per contrarre matrimonio canonico (can. 1105), ai contratti (can. 1290), alle azioni possessorie (can. 1500) e agli altri modi per evitare i processi, come transazione, compromesso e arbitrato (cann. 1713-1714).

[44] Cfr. J. GARCIA MARTÍN, Le norme generali del Codex iuris canonici, Ediurcla, Roma, 2006, pp. 130-131; J. OTADUY, "Can. 22", in INSTITUTO MARTIN DE AZPILCUETA FACULTAD DE DERECHO CANONICO UNIVERSIDAD DE NAVARRA, Comentario exegetico al Codigo de Derecho canonico, Pamplona, 1997, vol. I, pp. 411-416; L. CAVEADA, Questioni aperte sulla presenza della Santa Sede nel diritto internazionale, pp. 67-70.

[45] V. BUONOMO, Relazioni tra diritto canonico e diritto internazionale, in M. J. ARROBA CONDE (CUR.), Manuale di diritto canonico, p. 323.

[46] Per una enumerazione delle fonti del diritto internazionale, ci si riferisce all’art. 38 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia: “1. The Court, whose function is to decide in accordance with international law such disputes as are submitted to it, shall apply: international conventions, whether general or particular, establishing rules expressly recognized by the contesting states; international custom, as evidence of a general practice accepted as law; the general principles of law recognized by civilized nations; subject to the provisions of Article 59, judicial decisions and the teachings of the most highly qualified publicists of the various nations, as subsidiary means for the determination of rules of law. 2. This provision shall not prejudice the power of the Court to decide a case ex aequo et bono, if the parties agree thereto”. Cfr. Statute of the International Court of Justice, art. 38, san Francisco 26 giugno 1945, entrato in vigore il 24 ottobre 1945, reperibile alla URL: < https://www.icj-cij.org/en/statute > (consultato il 15.11.2023).

[47] In riferimento all’ordinamento canonico, il richiamo ai principi generali dell’ordinamento giuridico, si trova espresso chiaramente nel can. 19, applicabile in caso di lacuna legis: “Si certa de re desit expressum legis sive universalis sive particularis praescriptum aut consuetudo, causa, nisi sit poenalis, dirimenda est attentis legibus latis in similibus, generalibus iuris principiis cum aequitate canonica servatis, iurisprudentia et praxi Curiae Romanae, communi constantique doctorum sententia” (can. 19). È chiaro come il Legislatore canonico escluda espressamente la materia penale, richiamando inoltre il rispetto dell’aequitas canonica, da intendersi come ambiti specifici della domestic jurisdiction del diritto canonico, in ordine ai fini spirituali perseguiti da tale ordinamento.

[48] Cfr. V. BUONOMO, Relazioni tra diritto canonico e diritto internazionale, in M. J. ARROBA CONDE (CUR.), Manuale di diritto canonico, p. 325.

[49] Cfr. B. ESPOSITO, “Il rapporto del Codice di Diritto Canonico latino con il Diritto internazionale. Commento sistematico-esegetico al can. 3 del CIC/83”, in Angelicum, 83 (2006), p. 419; V. BUONOMO, Relazioni tra diritto canonico e diritto internazionale, in M. J. ARROBA CONDE (CUR.), Manuale di diritto canonico, cit., p. 326; L. CAVEADA, Questioni aperte sulla presenza della Santa Sede nel diritto internazionale, pp. 69-73.

[50] Alcuni espliciti rimandi alla prevalenza del diritto internazionale sul diritto interno nel CIC si ritrovano nei cann. 362 e 365 circa la nomina, il richiamo, il trasferimento dei Rappresentanti pontifici e la regolamentazione delle loro funzioni secondo il diritto diplomatico.

[51] La Santa Sede, nello specifico in nome e per conto dello Stato della Città del Vaticano, è membro di alcune organizzazioni intergovernative (UPU, ITU, WIPO) e ne recepisce immediatamente la produzione normativa; di altre organizzazioni, invece, non è membro, ma osservatore, quindi la ricezione delle normative di tali organizzazioni avviene tramite rinvio ricettizio, oppure rinvio formale, come nel caso delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU relative alla prevenzione di atti e reati connessi al terrorismo ed al finanziamento di attività terroristiche. Non sono mancate, poi, nella prassi forme di applicabilità volontaria, come nel caso delle misure contro il riciclaggio di capitali e la lotta al finanziamento del terrorismo emanate da Moneyval o alcuni impegni relativi alle Convenzioni internazionali in materia di ambiente. Cfr. V. BUONOMO, Relazioni tra diritto canonico e diritto internazionale, in M. J. ARROBA CONDE (CUR.), Manuale di diritto canonico, cit., pp. 341-342; L. CAVEADA, Questioni aperte sulla presenza della Santa Sede nel diritto internazionale, cit., pp. 51-54.

[52] Attualmente la Santa Sede deve rispondere con rapporti periodici al Comitato sull’eliminazione della discriminazione razziale (CERD), il Comitato dei diritti del fanciullo (CRC) e il Comitato contro la tortura (CAT).

[53] Cfr. J. JOBLIN, Dalla guerra giusta alla pace giusta, in Civiltà Cattolica, 150 (1999) II, p. 567.