L´attrazione fatale per il delitto di abuso d´ufficio
Modifica paginaIl contributo si sofferma sul reato di abuso d´ufficio, già oggetto di diverse modifiche operate dal Parlamento, analizzando le prospettive di un´ulteriore riforma.
The fatal attraction for the crime of abuse of office
The paper focuses on the crime of abuse of office, already the subject of various changes made by Parliament, analyzing the prospects for further reform.Le notizie trapelate dalla stampa quotidiana delle ultime ore fanno riferimento ad una bozza di testo di riforma del delitto di abuso d’ufficio (Art. 323 c.p.) da presentare al prossimo Consiglio dei Ministri. Questa reca la firma del Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e del Vice-Ministro Francesco Paolo Sisto.
Sembra che il desiderio di rimaneggiare questa fattispecie penale sia irrefrenabile per qualsiasi Governo che si sia alternato alla guida della nostra Repubblica. A partire dal 1990 il testo originario del 1930 ha subito modifiche nel 1997, nel 2020 e, forse, nel 2022-2023.
Ad una prima veste di “abuso innominato” in atti d’ufficio (Art. 323 c.p.) cui si affiancava una fattispecie ben più grave di “interesse privato in atti d’ufficio (art. 324 c.p. abrogato) succedette una norma che inglobava entrambe in una disposizione complessa denominata “abuso d’ufficio”, nel tentativo di dare maggiore tipicità e concretezza ad una disposizione tutto sommato elastica e facilmente plasmabile da parte del giudice inquirente.
Il discorso giuridico e quello politico si intrecciano in modo inestricabile. Si tratta di una norma ‘scomoda’, a tratti irritante perché consente al Giudice una profonda intromissione nell’intimo dell’attività amministrativa: la discrezionalità, stravolgendo il principio illuminista della separazione dei poteri.
La riforma del 1997 ha rivoluzionato la formulazione precedente (a grandi linee riecheggiante la formulazione precedente e quella del codice del 1889), introducendo “violazioni di legge o di regolamento” e trasformando la condotta di interesse privato in una “omessa astensione nei casi prescritti”.
La Giurisprudenza non ha mai “digerito” il tentativo del Legislatore di sottrarre al sindacato del Giudice penale l’attività della pubblica Amministrazione, relegandolo al mero vaglio di legalità della formale violazione di legge e di regolamento: l’attività conoscitiva deve investire il merito (attività peraltro negata financo al Giudice amministrativo se non nei casi di giurisdizione esclusiva).
Anzi, nemmeno la “disapplicazione”, risalente alla legge 2248 del 1865 allegato E, rappresenta più uno “schermo” contro l’indagine del merito da parte del Giudice. L’atto amministrativo illegittimo diviene presupposto del fatto, più spesso annoverato fra gli elastici “elementi normativi della fattispecie penale” i quali, al pari degli elementi naturalistici, è oggetto del più penetrante potere conoscitivo.
Insomma, il diritto vivente è in pieno attrito con il diritto vigente: la giurisprudenza non sopporta i colpi di scure inferti dal legislatore al delitto di abuso d’ufficio, il quale ha, neanche tanto larvatamente, lasciato intendere di volerlo abrogare. Una proposta in tal senso è stata presentata di recente presentata alla Camera dei Deputati il 19 ottobre 2022 (Proposta di legge Rossello ed altri C. 399) così come il 29 novembre 2022 (Proposta di legge Pittalis ed altri C. 645).
I tempi, però, sembrano non essere ancora maturi. Nonostante la riforma del 2020 abbia espunto i regolamenti dal novero degli atti normativi oggetto di possibile violazione, i risultati sono stati alquanto modesti: il piano regolatore, esecutivo di una legge generale, non è un regolamento e, come tale, in quanto norma interposta, è oggetto di violazione.
Ma non è tutto. L’espunzione di fonti secondarie, se può essere spiegato con l’intento, certo commendevole, di voler alleggerire la pressione che grava sugli operatori delle pubbliche amministrazioni, con le conseguenze a tutti note (burocrazia difensiva, fuga dalla firma, etc.) non è tuttavia in sintonia con la struttura materiale delle fonti del diritto, e non solo nel nostro ordinamento.
Breve. Le “regole di condotta” alla cui osservanza sono tenuti i funzionari e gli operatori pubblici in generale, sono non solo disciplinate ma spesso addirittura annunciate da normative secondarie e/o subprimarie che hanno un labile aggancio con la legge formale o con una fonte equiparata. È sufficiente pensare al ruolo giocato dalle linee guida (ad esempio, in relazione alle attività sanitarie) per intercettare un dato di sistema oramai del tutto evidente.
Le reali intenzioni del legislatore erano tuttavia tese a sottrarre alla valutazione del giudice l’esercizio del potere discrezionale: «e dalle quali non residuino margini di discrezionalità». Ora, nel diritto pubblico (amministrativo, costituzionale, penale etc.) lo studio del potere discrezionale è da sempre non solo il “punto logico di partenza” ma anche il punto logico di arrivo e definizione di molte costruzioni e teorie, sia di carattere generale che rilevanti sul terreno pratico-applicativo.
Anche la contrapposizione: potere discrezionale-potere vincolato, che si vorrebbe acuire con riferimento al sindacato del giudice penale è, in realtà, più evanescente di quanto si pensi. Non vi è mai un potere così interamente vincolato da annullare ogni pur minimo e residuo margine di possibile apprezzamento discrezionale in capo agli operatori dell’amministrazione, nel senso che la coppia dicotomica potere discrezionale/potere vincolato riveste, almeno nel nostro ordinamento, un valore principalmente processuale (e non sostanziale) in quanto criterio su cui si basa (al di fuori dei casi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo) il riparto di giurisdizione fra il giudice ordinario e il giudice amministrativo.
Gli effetti della scarsa consapevolezza dell’unicità di sistema da parte del legislatore sono stati straripanti. Dopo la riforma del 2020 la giurisprudenza ha, da un lato, riconosciuto rilevanti tutte le ipotesi in cui l’esercizio del potere discrezionale non trasmodi in una vera e propria distorsione funzionale dai fini pubblici – violazione dei limiti esterni della discrezionalità – laddove risultino perseguiti, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, interessi oggettivamente difformi e collidenti con quelli per i quali soltanto il potere discrezionale è attribuito. Da altro lato, si segnalano quelle sentenze che hanno riconosciuto configurabile l’abuso non solo nel caso in cui la violazione di una specifica regola di condotta sia connessa all’esercizio di un potere già in origine previsto dalla legge come del tutto vincolato, ma anche nei casi in cui l’inosservanza della regola di condotta sia collegata allo svolgimento di un potere che, astrattamente previsto come discrezionale, sia divenuto in concreto vincolato per le scelte fatte dal pubblico agente prima dell’adozione dell’atto (o del comportamento) in cui si sostanzia l’abuso di ufficio.
Insomma, della discrezionalità, che dir si voglia, non riusciamo a liberarci.
E perché poi? Perché un atto amministrativo discrezionale oggetto di compravendita o l’asservimento dell’ufficio al compimento anche di atti discrezionali non pone problemi di sorta ad una eventuale condanna per corruzione, mentre l’esercizio di un potere discrezionale per la persecuzione di scopi illeciti invece dovrebbe andare impunita?
Non ci si rende conto dalla grossa incoerenza sistematica che si creerebbe con l’abrogazione dell’abuso d’ufficio che, a differenza della corruzione, presuppone il soddisfacimento di un interesse personale, procurandosi un vantaggio ovvero cagionare a terzi un danno. Sono entrambe forme di eccesso di potere per sviamento che, spesso, si sostanziano in condotte di prevaricazione soprattutto negli ambienti pubblici gerarchizzati, ove l’esercizio del pubblico potere può essere esercitato in modo distorto. Siamo disposti a rinunciare all’intervento penale in queste ipotesi?
Gli è che, l’esigenza di tipizzazione della fattispecie non passa certo attraverso l’esclusione della rilevanza penale dei margini residui di discrezionalità. Si tratta, fra l’altro, di una fattispecie che presenta profili di osmosi con l’illecito disciplinare di mala gestio della cosa pubblica. Il discrimine fra l’illecito disciplinare e l’illecito penale, in questo caso, dovrebbe individuarsi nella realizzazione di un danno nei confronti di un terzo o nei confronti della pubblica Amministrazione per il perseguimento di interessi privati.
Il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in video collegamento il 23 novembre scorso a Bergamo per la 39esima assemblea di Anci alla quale il presidente Antonio Decaro, sindaco di Bari, poche settimane prima aveva invitato il ministro della Giustizia Carlo Nordio, dopo la sua apertura ad una modifica del reato più temuto dagli amministratori locali, ha infatti detto che: «È assolutamente necessario definire meglio, a partire dall’abuso di ufficio, le norme che riguardano i pubblici amministratori, il cui perimetro è oggi così elastico da prestarsi a interpretazioni che sono troppo discrezionali. Troppe norme, troppi vincoli e così di fronte alle scelte spesso si sceglie di rimanere immobili. La cosiddetta paura della firma, appunto».
Il Governo, quindi, non vuole abrogare l’abuso d’ufficio ma vorrebbe meglio definirlo. Come?
A tal riguardo, la Proposta di legge C. 716, presentata il 14 dicembre 2022, a firma degli On. Pella, Pittalis e Cattaneo, introduce delle modifiche le quali perseguirebbero – secondo la relazione di accompagnamento – il duplice obiettivo di ridurre la rilevanza penale, che cancellerebbe l’abuso c.d. “di vantaggio”, cioè elaborare un atto amministrativo che giova a qualcuno oppure lo svantaggia, che caratterizza la norma nel testo attualmente vigente e che per lo stesso motivo appare oltre che desueto, anche dannoso sotto il profilo della pendenza del giudizio.
In sostanza, e riprendendo le fila del discorso che da anni si agita in dottrina e nel mondo politico sull’ostacolo rappresentato da detto articolo alla snellezza delle decisioni, l’ennesima modifica al delitto di abuso d’ufficio si impone per ridare slancio all’attività amministrativa e placare i timori che derivano dalla “firma” dell’atto (illegittimo?).
Non sembra essere tuttavia chiaro che “illegittimità” e “illiceità” sono concetti distinti, osmotici in alcuni tratti, ma espressivi di un disvalore e di una rilevanza giuridica diversi. L’osmosi si ha quando un atto illegittimo può anche essere illecito (ad es. permesso di costruire rilasciato per favorire un imprenditore in violazione del piano regolatore o in violazione di specifiche norme in materia di inedificabilità per l’esistenza di vincoli paesaggistici, idrogeologici, antisismici etc.) oppure quando si desume l’intensità del dolo dalla minore o maggiore macroscopicità dell’illegittimità dell’atto amministrativo.
Vi sono tuttavia molti casi in cui l’attività amministrativa viene legittimamente esercitata per sfavorire o danneggiare una parte (ad es. rimozione di un assessore per inimicizie createsi con il Sindaco o prevaricazione di un candidato in un concorso pubblico mascherando l’abuso con la discrezionalità tecnica ovvero condotte ricattatorie da parte di un superiore gerarchico per ottenere provvedimenti che altrimenti non sarebbero stati rilasciati dal responsabile dell’ufficio etc.).
Sono tutte queste ipotesi che nuocciono al buon andamento della pubblica Amministrazione e che relegano la c.d. “paura della firma” ad ipotesi residuali (se non addirittura marginali). È tuttavia vero che la firma su un atto amministrativo illegittimo può offrire la stura per l’apertura di un procedimento penale, sia perché l’abuso d’ufficio ha da sempre rappresentato un “reato spia”, attraverso la cui contestazione si mira a scoprire l’esistenza di ben più gravi reati (peculato, concussione, corruzione), sia perché, come detto, illegittimità e illiceità tendono – indebitamente – a sovrapporsi. Risolvere una questione “culturale” che va dalla sensibilità del pubblico Ministero a sceverare ipotesi di mera rilevanza disciplinare o riservate alla giurisdizione amministrativa da quelle condotte arbitrarie e prevaricatorie meritevoli di intervento da parte della magistratura, alla maggior consapevolezza dei pubblici amministratori di ciò che si può o non si può fare, deve risolversi nell’abrogazione di una norma che ha un ruolo fondamentale nel sistema?
La risposta, al momento, appare negativa.
La nuova formulazione proposta dell’art. 323 c.p. si espone, tuttavia, ad alcuni rilievi critici.
Secondo la proposta Pelle et alii il nuovo delitto di abuso di ufficio è punito con la reclusione da uno a quattro anni quando «salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità , ovvero consapevolmente omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, arreca direttamente ad altri un danno ingiusto...».
In accordo con la relazione di accompagnamento le modifiche attengono, anzitutto, alla abrogazione del c.d. abuso “di vantaggio”, cioè del tornaconto personale o di terzi che deriva da una condotta di abuso appunto L’effetto, come già accennato, è quello di espungere dagli effetti della la condotta di interesse privato, quella, importantissima, di perseguire un’utilità personale di tipo patrimoniale che possa ridondare anche a favore di terzi, restando in piedi solo l’ipotesi di un danno ingiusto. Gli effetti caducatori sono lapalissiani: non saranno ritenuti più rilevanti i vantaggi patrimoniali rappresentati da un’illegittima dichiarazione di edificabilità di un terreno, l’illegittima attribuzione a un dipendente di una qualifica superiore, nel rilascio di una concessione edilizia illegittima; e via dicendo.
Nessun cenno è fatto sulle ricadute che questa espunzione avranno sull’imparzialità della pubblica Amministrazione (bene di rilevanza costituzione e penalisticamente più pregnante rispetto al generico interesse del “buon andamento”) e ciò per l’ovvio motivo che il legislatore ha puntato l’accento sul quest’ultimo dimenticando che è l’imparzialità del pubblico funzionario ad essere il punto focale dell’intervento penalistico in materia.
L’uso disinvolto di clausole di illiceità speciale come, nel caso di specie, vorrebbe essere l’avverbio “consapevolmente”, molto poco (o nulla) giova all’arricchimento del contenuto del dolo della condotta omissiva, essendo già patrimonio acquisito dalla dottrina penalistica il fatto che l’omissione comporta la coscienza dell’obbligo soprattutto quando questo deriva da norme che il pubblico agente dovrebbe conoscere perché attengono allo svolgimento del suo ufficio o servizio.
Ma la novità più evidente e che, qualora dovesse essere approvata, avrà gli effetti più dirompenti sull’applicazione della nuova norma riguarda la scomparsa dell’avverbio “intenzionalmente” che dal 1997 aveva rappresentato il vero spartiacque fra la punibilità e l’assoluzione del soggetto per carenza di dolo. Nonostante con la riforma si fosse provveduto ad una maggiore oggettivazione del reato, il legislatore aveva ne aveva ulteriormente “ingessato” l’operatività attraverso l’introduzione di un dolo intenzionale per cui il vantaggio o il danno dovevano essere il precipuo obiettivo della volontà dell’agente, escludendosi altresì rilevanza al c.d. dolo diretto (di secondo grado).
Con la scomparsa dell’avverbio “intenzionalmente” tornano a riespandersi tutte le forme di dolo, quindi anche quella del dolo eventuale, trattandosi di reato ad evento naturalistico. L’effetto è paradossale. Da una parte sono stati espunti i vantaggi patrimoniali, dall’altra si sono allargate a dismisura le maglie dell’elemento psicologico del reato con tutti i vantaggi che ne derivano in termini di semplificazione dell’accertamento da parte dell’organo giudiziario. A nulla giova l’inserimento dell’inciso “direttamente” riguardo alla causazione del danno, perché questo, qualora dovesse rilevare, lo sarebbe solo rispetto al nesso eziologico e non al dolo. Nel diritto penale, tuttavia, il collegamento causale con l’evento non può che essere diretto e il pregiudizio essere sia di natura patrimoniale che non patrimoniale, pur conservando l’autonomia, rispetto alla condotta, del requisito dell’ingiustizia.
Non è poi detto che l’abrogazione del vantaggio patrimoniale (ingiusto) non consenta di ‘caricare’ di maggior disvalore l’evento dannoso, ancora sicuramente comprendente le condotte vessatorie, prevaricatorie ed arbitrarie, così come quelle ipotesi in cui al vantaggio patrimoniale faccia da contraltare un danno a terzi. Si pensi, ad esempio, al permesso di costruire rilasciato illegittimamente (ad es. per una cubatura superiore a quella assentibile) per un lotto edificabile – non più punibile a seguito della riforma – che abbia sottratto cubatura ad un lotto adiacente cagionando un danno (anche non patrimoniale) all’impresa che sul detto lotto avrebbe dovuto edificare.
Concludendo questa breve rassegna sulla proposta di legge presentata alla Camera dei Deputati il 14 dicembre 2022, non sembra che la nuova formulazione dell’art. 323 c.p. porrà un argine al proliferare delle incriminazioni o scaccerà via la paura della firma (spronando viepiù il ricorso alla c.d. burocrazia difensiva), sia perché l’abuso in danno rimane, sia perché l’evento dannoso potrà essere addebitato all’agente anche a titolo di dolo eventuale, rendendo adesso punibili ipotesi che prima erano dalla giurisprudenza radicalmente escluse.