Pubbl. Gio, 2 Mar 2023
La litis contestatio nel processo canonico
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Giancarlo Ruggiero
Il presente contributo intende analizzare un istituto fondamentale del diritto processuale canonico quello della litis contestatio. Dopo una preliminare descrizione circa la sua origine e la sua funzione, si provvederà a descrivere la normativa contenuta nei canoni 1513 -1516 con una particolare attenzione ai processi di nullità matrimoniale.
The litis contestatio in the canonical process
This contribution intends analyze a fundamental institution of canonical procedural law, that of litis contestatio. After a preliminary description about its origins and function, we will proceed to describe the legislation contained in canons 1513-1516 with particular attention to marriage nullty processes.Sommario: 1. Definizione dell'istituto e suo inquadramento giuridico; 2. Gli effetti processuali: il can.1514; 3. Gli effetti sostanziali: il can.1515; 4. Alcune disposizioni speciali: la litis contestatio nei processi matrimoniali; 5. Ulteriori sviluppi normativi: il can.1516.
1. Definizione e inquadramento dell’istituto
Con il termine litis contestatio si intende «[…] il decreto con cui si formulano i termini della controversia»[1] ovvero, attraverso questo termine si fa riferimento a quella fase – ancora inziale del processo – in cui viene definito in forma solenne e mediante decreto giudiziale, ciò che costituirà l’oggetto della lite in ordine alla sua definizione e alla sua conclusione.
Dal punto di vista storico, l’origine di questo istituto è da rinvenirsi all’interno del diritto romano e più precisamente nel processo per formulas laddove, a seguito dell’accordo sulla formula, il procedimento poteva passare alla successiva fase apud iudicem[2]. E’ proprio in questa fase che le parti, sebbene il punto non sia del tutto condiviso, si accordavano sull’iudicium secondo l’antico adagio dictare et accipire iudicium a seguito, tuttavia, di decreto esplicito da parte del pretore[3].
Nonostante il poco interesse manifestato dai giuristi romano, la litis contestatio produceva effetti notevoli per ciò che attiene al processo e ai suoi protagonisti.
Oltre al già citato accordo sul giudizio, la seconda principale conseguenza è rappresentata dall’effetto preclusivo sancito dal celebre principio bis de esadem re ne sit actio secondo il quale la stessa azione non può riproporsi qualsiasi sia stato l’esito del processo e se si sia arrivati o meno alla sentenza[4].
Così definita – seppur in breve – la litis contestatio rimase in vigore per tutta l’epoca classica fino alla sua trasposizione all’interno della cognitio extra ordinem entro la quale assunse una diversa funzione.
In effetti, venuta meno la distinzione tra le due fasi del processo per formule, l’istituto in esame si caratterizza come l’accordo che le parti stipulano sul petitum dell’attore producendo oltre al predetto effetto sostanziale anche effetti preclusivi come per esempio l’aggravarsi della responsabilità per lo stesso convenuto[5].
Le precedenti note storiche permettono di evidenziare come sia il diritto romano l’alveo principale entro cui partire per un’analisi canonica della contestazione della lite la quale, come si vedrà, riprende alcune delle conseguenze processuali già notate pur se in un’ottica differente.
In effetti, la litis contestatio, così come oggi appare normata dal vigente Codice, riprende, come accennato, alcune caratteristiche già analizzate pur distinguendosi non solo dal diritto romano ma anche dal Codice del 1917 che pure disciplinava il presente istituto nei canoni 1726-1731
Più specificamente la dottrina del tempo soleva distinguere tra litis contestatio e concordantia dubiorum così che mentre la prima era considerata come una situazione di fatto in cui l’elemento principale constava nella risposta del convenuto, la seconda alludeva alla determinazione del dubbio nei casi in cui tale accertamento risultava piuttosto complesso[6].
Ciò risultava coerente rispetto alle scelte del legislatore del 1917 dal momento che se la pretesa attorea e la risposta del convenuto fossero chiare, non vi era alcuna necessità di ricorrere ad una determinazione da parte del giudice la quale, come suggerito, si rendeva necessaria solo nei casi difficili con la partecipazione delle parti come affermava il can.1728[7].
Tale impostazione risulta oggi essere superata attraverso una maggiore chiarezza e articolazione della litis contestatio nell’attuale legislazione nel quale i due istituti – quello della contestazione della lite e quello della concordanza del dubbio – risultano essere equivalenti.
Anzitutto per una ragione di evidenza processuale dal momento che la litis contestatio assolve una funzione ben precisa, si è ritenuto opportuno ricorrere ad una certa “solennità” con la quale viene emanato – ex officio- il decreto con cui vengono definiti i termini della controversia.
In secondo luogo si è voluto marcare più profondamente il ruolo del giudice in questa fase – ancora iniziale – del processo. Se è vero che i protagonisti di quest’ultimo sono le parti, spetta comunque al giudice statuire sulla controversia e la previsione di un suo intervento anche in questa fase risulta ben consono rispetto alla sua potestas regiminis. In terzo luogo si è sottolineato maggiormente il principio della cooperazione tra attore, convenuto e giudice stesso come emerge dalla lettura dell’intero can. 1513.
Proprio l’aspetto della cooperazione costituisce una delle novità più importanti poiché quest’ultima non si limita a fornire al giudice la propria posizione sulla controversia ma anche di poter presentare -ex ore o ex scriptura- osservazioni e richieste nonché di poter impugnare – entro dieci giorni – il predetto decreto secondo quanto previsto dal can.1513 §3[8].
In sintesi, la novella del 1983 ha voluto ridare “vitalità” ad un istituto dalle origini remote secondo due assi direttivi piuttosto articolati.
Il primo rappresentato dal ruolo del giudice il quale è chiamato ad un’azione di coerenza nonché di chiarezza scegliendo egli stesso la formula ritenuta più idonea e consona rispetto al caso previsto.
Il secondo riguarda il già citato principio della collaborazione tra le parti – vere e proprie “protagoniste” della litis contestatio. Spetta infatti ad esse – come accennato – il compito di presentare tutto ciò che si ritiene utile per la fissazione del dubbio ovvero eventuali richieste e risposte anche a voce coram iudicem. Ciò postula, come si intuisce, l’opportuno intervento del patrono affinché tali dichiarazioni siano adeguate e non pretestuose ed evitino ingiustificati ritardi che potrebbero paralizzare l’intera macchina processuale.
2. Gli effetti processuali: il can.1514
La più importante conseguenza processuale rispetto alla determinazione della contestazione della lite è rappresentata da quanto disposto dal can.1514 in cui il legislatore stabilisce che i termini della controversia non possono essere mutati validamente se non tramite un nuovo decreto a condizione, tuttavia, che sussista una grave causa e che le parti vengano informate.
La norma, a motivo della sua complessità non solo apparente, richiede qualche approfondimento.
Anzitutto emerge il carattere perentorio della disposizione: una volta che il dubbio è stato stabilito, complice altresì un intervento congiunto o cooperativo tra le parti, non si vede per quale ragione quest’ultimo debba essere mutato rafforzando – in questo senso – quanto espresso dal can.1512 secondo cui lite pendente, nihil innoventur. Si tratta, in altre parole, di un principio piuttosto evidente che sancisce da un lato la chiarezza intorno allo ius controversum e dall’altro impedisce che le parti possano mutare, a loro piacimento, i termini del processo con facili ed immediate conseguenze.
Ciò nonostante, mutuando quanto previsto già dal Codice pio-benedettino – è concessa la possibilità di una mutatio terminorum alle condizioni poc’anzi accennate.
La questione risulta, invero, complessa tra coloro che sostengono la possibilità di un tale cambiamento[9] e chi, invece, ne sostiene un’applicazione piuttosto restrittiva[10].
Alla luce del tenore normativo sembra più condivisibile la tesi di coloro che depongono a favore di una lettura più stretta del canone in esame dal momento che la disposizione è vòlta a tutelare più che il processo in sé, i valori e i diritti delle parti ad esso afferenti[11] ovvero la preclusione del cambiamento della formula del dubbio è posta non a favore di un certo formalismo pure richiesto, quanto piuttosto a garanzia dello stesso processo e, come accennato, dei diritti dei protagonisti dello stesso[12].
Più dettagliatamente il rimando alla causa grave richiede un certo sforzo interpretativo e va commisurato all’entità del caso previsto ovvero postula una valutazione attenta dei singoli diritti posti in essere durante il processo stesso.
In altre parole, al di là della complessità e della difficoltà – pure condivisibile – di decifrare l’esatto significato di causa grave all’interno del can.1514 – si ritiene che essa operi in forma piuttosto complessiva dovendo il giudice – con la partecipazione delle parti – operare una “stima” complessiva degli elementi fino a quel momento presenti nel processo tenendo conto altresì della stessa salus animarum vero e proprio motore dell’intera macchina processuale.
Tale aspetto determina, inoltre, come visto, il coinvolgimento attivo delle parti dal momento che il legislatore dispone che il mutamento della formula non avviene ex officio ma ad istantiam partis purché l’altra venga ascoltata e a condizione ulteriore che si valutino le ragioni dell’una e dell’altra.
In sintesi, nonostante una certa chiarezza del can. 1514, rimangono aperte alcune questioni oggetto di una vasta querelle dottrinale.
Le principali questioni ruotano intorno al “peso” da attribuire alla causa grave e all’effettivo potere decisionale in capo al giudice dinnanzi a tale situazione. Più concretamente, come già esposto, la norma deve essere intesa come eccezionale o comunque adottabile solo in presenza di circostanze gravi che possono provocare conseguenze non indifferenti anche in seno alla collettività ecclesiale.
Si richiede, allora, una certa capacità da parte del giudice, di soppesare attentamente le ragioni addotte, servendosi anche dell’ausilio di personale specialistico: ciò, ovviamente, richiede un certo tempo il quale, pur se in assenza di una effettiva descrizione da parte del Codice, non potrà certamente essere troppo lungo ma nemmeno sommario o privo di effettiva valutazione.
La “brevità” richiesta non deve essere confusa con la “sommarietà” o con un esame blando che non sia approfondito: si può pensare ad un esame di quattro – cinque giorni – una settimana al massimo – al termine della quale il giudice potrà decidere se mutare la formula del dubbio o confermarla.
3. Gli effetti sostanziali: il can.1515
A differenza di quanto previsto dal canone precedente, il can.1515 non pone grossi problemi interpretativi. La norma infatti si limita ad indicare che, in pendenza della lite, cessa la buona fede del possessore di cosa altrui.
La disposizione appare certamente legata alla stessa funzione del processo dal momento che – trattandosi di diritto controverso – il possessore non può certamente ritenersi in buona fede indipendentemente dal fatto se egli sia o meno il legittimo possessore.
Ciò spiega anche quanto espresso dalla seconda parte del disposto normativo: infatti – nel caso di condanna – il possesso viene meno così che egli dovrà restituire i frutti dal giorno della contestazione della lite e risarcire i danni.
In altre parole, la disposizione qui esaminata, permette di osservare come la contestazione della lite non si limiti solo a conseguenze processuali ma produca effetti anche a livello sostanziale.
Da notare, in breve, come il venir meno della buona fede, è tale solo dopo l’emanazione del decreto di contestazione della lite e non prima: di conseguenza il possessore non è tenuto a restituire i frutti precedentemente acquistati ovvero prima della notificazione del decreto stesso.
4. Alcune disposizioni speciali: la litis contestatio nei processi matrimoniali
Dopo aver analizzato la normativa generale vigente per tutti i processi canonici, la nostra attenzione si pone sulla determinazione della contestazione della lite nei processi matrimoniali.
Dal punto di vista normativo, la novella legislativa del 2015 ha operato significative riforme al fine di garantire una maggiore celerità processuale come previsto dall’attuale can. 1676.
Infatti, dopo la presentazione del libello e aver concesso alle parti quindi giorni, per poter presentare le proprie osservazioni, il Vicario giudiziale determina con suo decreto – e dunque ex officio – il decreto di concordanza del dubbio con cui oltre a stabilire per quale o per quali capi la causa debba essere trattata, dispone anche se essa dovrà essere celebrata con il processo ordinario o con quello più breve[13].
La norma appare piuttosto innovativa dal momento che determina un munus piuttosto articolato in capo al Vicario giudiziale il quale, secondo i desiderata della riforma di Papa Francesco, risulta essere uno dei principali protagonisti del novellato processo matrimoniale.
La concentrazione in un solo decreto di diversi contenuti quali la determinazione del dubbio, il tipo di procedura e l’assegnazione della causa al giudice unico o al collegio, appare del tutto coerente per garantire una maggiore rapidità nel processo stesso soprattutto quando la questione risulti essere piuttosto chiara e non richieda un esame piuttosto approfondito.
Va da sé che il dubbio di cui parla il can. 1676, non può essere generico o sommario: si richiede – correttamente – una determinazione piuttosto articolata al fine di individuare a quale o quali parti il dubbio si riferisce e di stabilire formule esplicite per la determinazione dei capi di nullità stessa[14].
Le stesse disposizioni – in assenza di esplicita determinazione contraria – si applicano anche al processo più breve coram Episcopo.
Si può ritenere, tuttavia, che a motivo della specificità e della specialità di questa tipologia di processo, spetti alle parti co- attrici di indicare con chiarezza i fatti su cui fondare la nullità secondo quanto previsto dall’attuale can. 1683, di modo tale che la determinazione della formula del dubbio sia compiuta con maggiore rapidità sì ma con un margine di fondatezza piuttosto ampio e sicuro.
In altre parole, l’assoluta rilevanza che la litis contestatio assume in ogni processo – ivi compreso quello più breve – richiede una maggiore attenzione rispetto ai suoi presupposti e dunque postula una attenzione ancor più specifica su quegli elementi sui quali poi si determinerà la suddetta formula e quindi la successiva sentenza.
5. Ulteriori sviluppi normativi: il can.1516
Le disposizioni afferenti alla contestazione della lite terminano con il can. 1516. Il canone funge sia da norma conclusiva del titolo II sia da aggancio rispetto al titolo III dedicato all’istanza della lite e alla fase istruttoria.
Dispone il can.1516 che, nel decreto della litis contestatio sia lo stesso giudice a fissare un tempo per la presentazione o il completamento delle prove.
Ciò permette, come detto, di leggere l’istituto in esame in diretta corrispondenza con la fase istruttoria vero e proprio habitus preferenziale in cui vengono raccolte ed esaminate le prove stesse.
In assenza di un’esplicita determinazione del can.1516, si ritiene che il tempo di cui si parla è lasciato alla discrezionalità del giudice il quale, valutati tutti gli elementi in gioco, provvederà a stabilire un tempo adeguato.
6. Conclusioni
Giunti al termine di questo studio valgano alcune considerazioni conclusive.
In primo luogo occorre focalizzare come l’istituto della litis contestatio abbia radici lontane testimoniando – ancora una volta – l’importanza e la pregnanza che il diritto romano possiede all’interno del diritto canonico.
In secondo luogo risulta nevralgica la sua collocazione nel processo: la contestazione della lite, infatti, opera nella fase in cui, concluse le prime fasi, occorre passare all’istruttoria e da qui alla definizione della controversia: ciò comporta chiarezza e soprattutto precisione intorno al diritto oggetto della discussione.
In terzo luogo ampio risalto deve essere attribuito alla cooperazione tra i diversi protagonisti del processo dal momento che, pur essendo un atto giudiziale, la determinazione del dubbio richiede un pronto intervento delle parti chiamate a presentare davanti all’autorità giudiziale quegli elementi da esse ritenuti pertinenti sui quali si fonderà la stessa pronuncia.
Tutto ciò concorre a sottolineare l’assoluta rilevanza e capillarità che tale istituto riveste nel diritto canonico postulando dunque l’esigenza e l’urgenza da parte degli operatori del tribunale circa un più attento esame delle richieste delle parti in ordine alla definizione e alla successiva concordanza del dubbio.
[1]Così M.J. ARROBA CONDE, Diritto processuale canonico, Roma, 2012, 375.
[2] Per una adeguata ricostruzione della contestazione della lite nel processo romano M. TALAMANCA, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, 330-340. N. BELLOCCI, La genesi della “litis contestatio” nel processo formulare, Napoli, 1965.
[3] Cfr. M. TALAMANCA, Istituzioni di diritto romano, 331.
[4] Cfr. O. CARRELLI, La litis contestatio nel processo formulare, in Riv.dir. proc., 1951, 37 ss.
[5] Cfr. M. TALAMANCA, Istituzioni di diritto romano, 332.
[6] Sul punto si veda F.X. WERNZ- P. VIDAL, Ius canonicum, Romae, 1938, 358. Cfr. F. FINOCCHIARO, Saggi (1973-1978), a cura di A. ALBISETTI, Milano, 2008, 138 e ss.
[7]Sul punto cfr. F. FINOCCHIARIO, Saggi, 142.
[8] Ciò non toglie il fatto che l’ultima parola spetti comunque al giudice e non alle parti.
[9] A favore, Serrano Ruiz e Colantonio.