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Pubbl. Mer, 28 Dic 2022

Il diritto al silenzio dell´ingiustamente detenuto

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autori Ivano Ragnacci , Paola Antonia Casale



Con la sentenza n. 1403/2022 del 23 novembre 2022, la IV Sezione della Suprema Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso proposto nel 2019, sugella il principio di diritto secondo il quale il silenzio serbato dall´accusato in qualsiasi stato e grado del giudizio, non potrà mai essere il presupposto per negare l´indennizzo, sia pure se tale condotta sia precedente alla recente modifica normativa dell´art. 314 comma 1 c.p.p., che esclude, ad oggi, espressamente tale evenienza.


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The right to silence about the unjustly detenined

with the sentence n. 1403/2022 of 23 noveber 2022, the IV section of the Supreme Court of Cassation, upholding the appeal filed in 2019, establishes the principle of low according to which the silence of the accused in any state and degree of judgmwnt,it cannever be the prerequisite for denying compensatio, even if such conduct is prior to the recent legislative news about the art. 314, cooma 1 c.p.p., which, today, rules out this eventuality.

Sommario: 1. Analisi dell’istituto normativo; 2. Un caso pratico a cavallo tra diritto vivente e riforma legislativa; 2. Il nuovo orizzonte d’origine eurocomunitaria; 3. La decisione della Suprema Corte e la condivisibile lettura sostanzialistica dell’istituto

1. Analisi dell’istituto normativo

A sostegno della previsione costituzionale contemplata nell’art. 24, ultimo comma[1], secondo cui è riconosciuto alla legge il potere di determinare le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari, si fa richiamo agli artt. 314 e 315 c.p.p., che determinano una regolamentazione peculiare di quei casi in cui vi sia stata l’applicazione illegittima di una misura cautelare custodiale.

La stringente esigenza di una specifica disciplina per far fronte ad ipotetici, statisticamente tutt’altro che infrequenti, errori giudiziari in materia di custodia cautelare, si comprende in ragione del fondamentale diritto riconosciuto dall’art. 13 della Costituzione, ossia, l’inviolabilità della libertà personale.

Le misure cautelari custodiali, venendo applicate in un momento antecedente rispetto alla pronuncia di una sentenza definitiva, dovrebbero essere accompagnate, come noto, da un’alta probabilità circa l’affermazione di responsabilità accertata in capo all’imputato, quindi dall’esistenza di gravi indizi di colpevolezza in combinato con almeno una delle esigenze cautelari precipue meglio individuate nelle lettere a) b) e c) dell’art. 274 c.p.p..

A tal riguardo, non è inutile rammentare, che l’art. 273 c.p.p., rubricato come “condizioni generali di applicabilità delle misure”, specifica che a prescindere dal tenore della misura da applicare, nessuno vi può essere sottoposto in difetto del c.d. fumus commissi delicti.

Pertanto, come noto, la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza si considera condizione necessaria, ma non sufficiente, affinché possa limitarsi la libertà dell’individuo, poiché, per l’eccezionale compressione di un bene inviolabile come questo da ultimo citato, si aggiunge, a norma dell’art. 274 c.p.p., la valutazione in merito alla fondatezza di esigenze cautelari, individuate nella specificità di tre situazioni: a) pericolo di inquinamento delle prove; b) pericolo di fuga; c) pericolosità sociale.

Ora, per tentare di porre rimedio ad una detenzione ingiustamente sofferta, alla quale si collega inevitabilmente la responsabilità civile dei magistrati, con l’art. 314 c.p.p., l’Ordinamento giuridico offre rimedio meramente indennitario, classificando due tipologie di casi: al primo comma si fa riferimento all’eventualità di una patita custodia cautelare senza però che l’imputato vi abbia "dato causa con dolo o colpa grave"  e al successivo proscioglimento dello stesso con "sentenza irrevocabile" per una delle forme specifiche indicate, quali, il non aver commesso il fatto, ovvero perché il fatto non sussiste o non costituisce reato, o ancora perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. Quanto esposto trova medesima applicazione rispetto alla pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere, con le stesse formule precedentemente elencate, o per un provvedimento di archiviazione. Si tratta di circostanze in cui la sentenza stessa estrinseca l’ingiustizia della libertà personale repressa; al secondo comma, invece, si tratteggia la figura di un imputato detenuto in mancanza delle richieste condizioni di applicabilità, a norma degli artt. 273 e 280 c.p.p., come certificato da un pronunciamento del Tribunale per le Libertà, che definisce la c.d. ingiustizia formle dela detenzione, in contrapposizione alla ingiustizia sostanziale della detenzione meglio disciplinata dal comma 1 del medesimo articolo.

Il diritto riconosciuto al prosciolto indebitamente detenuto è quello ad un’equa riparazione, secondo quanto disciplinato dall’art. 315 c.p.p., che detta i presupposti per poter avanzare la relativa domanda.

Sul tema, la stessa Suprema Corte di Cassazione, Sez. IV Pen., con sentenza del 16 luglio 2009, n. 42510, ha sostenuto quell’indirizzo secondo il quale, per procedere alla liquidazione dell’indennizzo, si necessita dell’impiego di un criterio aritmetico che metta in relazione la somma massima posta a disposizione dal legislatore (indicata al secondo comma dell’art. 315 c.p.p. nel totale di € 516.456,90), il termine di durata massima della custodia cautelare (di cui all'art. 303, co 4, c.p.p., espresso in giorni) e la durata dell'ingiusta detenzione patita nel caso concreto. A tale parametro di calcolo, atto ad esaminare una situazione standard, nella quale vi sarebbe un sofferto medio e ordinario, deve inoltre annettersi la possibile variazione in positivo o negativo del computo, in base agli attributi propri del caso. La valutazione, rispetto alla quale è chiamato il giudice, evidentemente, non può assumere caratteri arbitrari. Quanto deciso dovrà essere sorretto dalla considerazione del legame eziologico tra l’ingiusta detenzione e diversi fattori comprovati, relativi alla personalità, al ruolo professionale e sociale dell’imputato, nonché alle conseguenze traumatiche ex post dell’illegittima misura applicata.

2. Un caso pratico a cavallo tra diritto vivente e riforma legislativa.

Caso emblematico che merita richiamo, in considerazione del delicato tema trattato, è quello di una giovane ragazza originaria dell’Est europeo, indagata in un primo momento per tentato omicidio ai danni del patrigno, quindi per le ipotesi delittuose previste negli artt. 56, 575 e 585 c.p..

La nostra, subiva un’ingiusta detenzione di sessantanove giorni, a seguito di un’ordinanza di applicazione di custodia cautelare intramuraria degli arresti domiciliari, poi revocata in modo definitivo con ordinanza del medesimo Ufficio del Giudice innanzi al quale la giovane veniva condotta dopo l’arresto per sottoporsi ad interrogatorio di garanzia, in difetto delle condizioni previste dalla Legge.

Comprensibilmente, è stata avanzata domanda di indennizzo a ristoro della misura patita, ex artt. 314 e 315 c.p.p.

I capi d’accusa originariamente gravanti sulla giovane sono derivati dall’erronea ipotesi di aver ella posto in essere atti idonei diretti in modo non equivoco a cagionare la morte di un uomo, sferrando un fendente diretto al torace di quest’ultimo, per mezzo di un coltello da cucina.

Mentre, da una più attenta analisi delle modalità in cui si furono chiaramente svolti i fatti, si è poi escluso che l’allora indagata avesse dolosamente compiuto atti volti ad un tentato omicidio; al contrario, si è constatato un agire dettato da una precisa causa di giustificazione, la legittima difesa della propria madre. L’uomo, in base alle dichiarazioni testimoniali rese sin da subito dalla madre della ragazza, nonché principale vittima dei soprusi di questo, in un primo momento ritenuto parte offesa in virtù della ferita da arma da taglio ricevuta, avrebbe agito in maniera estremamente violenta, minatoria e persecutoria nei confronti delle due donne nella circostanza, con umiliazioni verbali e non, e minacciando ambedue con un grosso coltello da cucina, in uno stato di plausibile alterazione dovuta all’assunzione di bevande alcoliche.

La ragazza, al tempo poco più che ventenne, di minuta corporatura, ha assistito in un angolo della casa alle vessazioni furiose subite della madre da parte dell’uomo, compagno di quest’ultima. Inevitabilmente, l’agire della giovane è stato dettato dall’esigenza di una legittima difesa per sé e la madre. Il solo obiettivo era dunque quello di sfuggire alla veemenza di un uomo nettamente più grande e robusto di lei. Orbene, se ci fosse stata una corretta analisi dei dati investigativi, sin da subito, si sarebbe dovuto riconoscere l’estraneità della ragazza ai fatti di reato originariamente ipotizzati, non solo ex post con la richiesta d’archiviazione a cui faceva seguito pedissequo decreto del GIP. Inoltre, l’istante, durante l’arco temporale intercorso dall’arresto alla scarcerazione, non ha contribuito a dar causa per dolo o colpa grave alla misura, ma al contrario, ha reso un’immagine di sé diametralmente opposta rispetto a quanto sostenuto per l’applicazione della custodia, ossia, a torto, per la "spiccata pericolosità sociale e l’inaffidabilità di una spontanea osservanza da parte dell’indagata a forme di autocontrollo".

In conclusione, l’infondatezza della notizia di reato, per sussistenza della scriminante della legittima difesa ex art. 52 c.p.[2], quale dispositivo di archiviazione, sarebbe stato già di per sé sufficiente ad integrare il diritto ad equa riparazione, tuttavia la Corte d’Appello adita, non ha accolto l’istanza indennitaria, proposta ai sensi degli artt. 314 e 315 c.p.p. e sorretta anche da quanto disposto a livello internazionale dalla Convenzione Europea dei diritto dell’uomo e delle libertà fondamentali, nell’art. 5 paragrafo 5, secondo cui "ogni persona vittima di arresto o detenzione […] ha diritto ad una riparazione", in quanto, il silenzio serbato dalla giovane durante la fase dell’interrogatorio, è stato ritenuto come un comportamento in “dolo o colpa grave”, pertanto ostativo all’indennizzo.

2. Il nuovo orizzonte d’origine eurocomunitaria

L’orientamento giurisprudenziale per lungo tempo dominante è stato incline a dare un’accezione negativa all’esercizio della facoltà di non rispondere, in occasione dell’interrogatorio, da parte dell’indagato. Il motivo di fondo di tale tendenza è spiegabile, nel concreto, per il fatto che un comportamento collaborativo da parte di colui che è soggetto ad un provvedimento cautelare sarebbe condizione tacitamente necessaria per ottenere un indennizzo, in considerazione di un dovere di prontezza coadiuvante, «poiché è onere dell’interessato apportare immediati contributi o riferire circostanze che avrebbero indotto l’Autorità giudiziaria ad attribuire un diverso significato agli elementi posti a fondamento del provvedimento cautelare»; si tratterebbe, ebbene, di una sorta di “do ut des”. Ciò, tuttavia, si pone(va) in evidente contrasto con quanto espressamente indicato nell’art. 64, comma 3, lettera b)[3], c.p.p., secondo cui, al soggetto diverso da chi assume l’ufficio di testimone o di persona in grado di riferire sui fatti, è riconosciuto il diritto al silenzio e, nello specifico dunque, la facoltà di non rispondere ad alcuna domanda al di fuori di quelle indispensabili alla propria identificazione. In merito alla valutazione sulla fondatezza del “dolo o colpa grave” ostativa al conferimento di un indennizzo, sulla scia di tale previgente orientamento, si comprende il motivo del peso attribuito dal giudice alla condotta silenziosa o addirittura mendace posta in essere dal soggetto, dato che il riconoscimento del diritto ad equa riparazione presume un comportamento atto a contrastare l’accusa, a vincere le ragioni della cautela, per mezzo dell’esposizione di fatti a quest’ultimo manifesti. Si configura quindi, di particolare gravità, la circostanza in cui la decisione di avvalersi dell’affermato diritto di non rispondere, in sede di interrogatorio, possa considerarsi causa ostativa al riconoscimento di suddetto indennizzo[4]. Nel caso in specie, l’allora indagata, è stata sollecitata dal suo stesso difensore ad avvalersi della facoltà in esame, al semplice scopo di perseguire una strategia defensionale considerata più calzante alla vicenda giudiziaria ed in considerazione anche di un altro punto assolutamente non trascurabile, il lato umano della vicenda, ossia, l’aspetto psicologico ed emozionale dell’interessata, una ragazza giovanissima, catapultata bruscamente in una aberrante tragedia familiare.

In conseguenza al silenzio serbato, la IV Sezione Penale della Corte d’Appello adita, come accennato nel paragrafo precedente, ha posto il fondamento del suo rifiuto all’istanza.

L’illogicità del ragionamento sostenuto dalla Corte d’Appello adita si può di seguito così sintetizzate: in primo luogo, l’allora indagata, non aveva neppure una conoscenza basilare della lingua italiana per poter sostenere l’atto garantito ed inoltre, non può non considerarsi l’evidente stato di turbamento della stessa, che avrebbe inficiato la resa di qualsivoglia informazione, indipendentemente dunque, dalla disponibilità di un traduttore. In secondo luogo, anteponendo a ragioni di carattere giudico già solo un presupposto puramente logico, può dirsi che il contestato mancato apporto della ragazza, avrebbe avuto un’incidenza nulla o minima, in considerazione del già considerevole contributo reso agli Investigatori dalla madre di questa, preminente vittima degli efferati maltrattamenti attuati dal suo compagno. La stessa Giurisprudenza della Suprema Corte riconosce che "… la condotta dell'indagato che, in sede di interrogatorio, si avvalga della facoltà di non rispondere pur costituendo esercizio del diritto di difesa, può assumere rilievo ai fini dell'accertamento della sussistenza della condizione ostativa del dolo o della colpa grave solo qualora l'interessato non abbia riferito circostanze, ignote agli inquirenti, utili ad attribuire un diverso significato agli elementi posti a fondamento del provvedimento cautelare …".

L’allora indagata, quindi, non ha celato alcunché all’Autorità Giudiziaria e Requirente che non fosse già noto dall’apertura delle indagini. Orbene, se a fronte di un quadro situazionale da subito perfettamente delineato, dal quale è emerso in maniera inequivocabile un comportamento "estremamente riprovevole, aggressivo e prevaricatore dell’uomo nei confronti delle sue donne[5]  ed inoltre, in mancanza di riserva alcuna su elementi indispensabili ed ulteriori per una più approfondita ricostruzione della fattispecie in esame, il silenzio serbato dalla giovane ragazza è valevole secondo i giudici della Corte d’Appello come ragione giustificatrice ostativa al riconoscimento di un equo indennizzo, ciò comporterebbe il  profilarsi dell’esistenza di un sistema non garantista e una condizione di profonda ingiustizia per il soggetto in vinculis: in un’ottica lungimirante dunque, per scongiurare il rischio di una illegittima negazione al ripristino dei valori della vita violati, non potrebbe così, non evidenziarsi una velata pressione impositiva a rispondere sempre e comunque all’interrogatorio, anche se criteri di sensatezza e logicità imporrebbero il contrario.

L’ipotesi anzidetta sarebbe già prima l’intervento riformatore, andata a contraddire manifestamente il complesso di garanzie che lo stesso ordinamento prevede, nello specifico, secondo quanto dettato dagli art. 24 e 111 della Costituzione, e da ultimo, dalla nuova previsione normativa, risultante nel comma 4 dell’art. 314 c.p.p., modificato dal D. lgs. N. 188 del 2021.

Se non bastasse, inoltre, nelle more del giudizio incidentale in narrativa, è stato il legislatore nazionale, come anticipato, a rendere dogma quanto poco prima oggetto di ondivaghe letture nomofilattiche, con la ricezione della Direttiva UE 2016/343 del Parlamento Europeo e del Consiglio, datata 9 marzo 2016 recepita nel dettato normativo di riferimento, che ha modificato l’art. 314 c.p.p.[6], codificando di fatto quanto il principio della presunzione d’innocenza da coniugarsi con il diritto di difesa lasciavano limpidamente scorgere ben prima l’entrata in vigore di siffatto impianto normativo.

Come noto, la novella legislativa poc’anzi accennata, sul tema, è dovuta al parere espresso dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati che, alla lettera dell’art. 7, par. 5 della Direttiva, ha subordinato il “visto” al decreto de quo, a condizione della specifica  aggiunta, dopo il primo comma dell’art. 314 c.p.p., del divieto espresso al Giudice adito in sede d’indennizzo di valutare, ai fini della domanda di risarcimento per ingiusta detenzione, l’eventuale esercizio del diritto al silenzio da parte dell’indagato.

Con tale iniziativa legislativa, pertanto, in attuazione dell’indirizzo eurocomunitario reso sin dal lontano 2006, è stata  iniettata una modifica sistematica volta a superare quell’orientamento giurisprudenziale, a dire poco contraddittorio, in base al quale, l’essersi avvalsi della facoltà di non rispondere, pur costituendo esercizio del diritto di difesa, assumesse rilievo ai fini dell’accertamento della sussistenza della condizione ostativa del dolo o della colpa grave, «poiché è onere dell’interessato apportare immediati contributi o riferire circostanze che avrebbero indotto l’Autorità Giudiziaria ad attribuire un diverso significato agli elementi posti a fondamento del provvedimento cautelare»[7]..

3. La decisione della Suprema Corte e la condivisibile lettura sostanzialistica dell’istituto

La Suprema Corte, come in premessa anticipato, con la Sentenza n. 1403/2022, pubblicata lo scorso 28 ottobre 2022, nell’accogliere il ricorso della ricorrente, non soltanto ha ritenuto ormai del tutto superato quell’indirizzo secondo cui il comportamento mendace o silenzioso dell’indagato possa rilevare ai fini dell’accertamento dell’eventuale dolo o colpa grave ostativa al riconoscimento del diritto di riparazione per ingiusta detenzione subita, in virtù dell’intervento del legislatore per mezzo del noto decreto legislativo numero 188 dell’8/11/2021, entrato ufficialmente in vigore dal 14 dicembre 2021, ma ha, altresì, anticipato con indiscutibile tempismo, problematiche afferenti la retroattività della nuova normativa introdotta, risolvendole, come vedremo oltre, positivamente.

Conviene sin d’ora rammentare, che tra le diverse modifiche apportate al codice di procedura penale, di particolare rilevanza è stata proprio l’introduzione al comma 1, dell’art. 314 c.p.p., del periodo: «l’esercizio da parte dell’imputato della facoltà di cui all’articolo 64, comma 3, lettera b), non incide sul diritto alla riparazione di cui al primo periodo». Il legislatore ha voluto, o meglio, dovuto, allineare la normativa nazionale con quanto espresso dalla Direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, al fine di rendere effettivo lo schema della presunzione di innocenza.

Nell’analizzare, quindi, l’interessante pronuncia in commento, si coglie, innanzitutto, un primo monito degli Ermellini in tema d’ingiusta detenzione, che potrà non essere tale solo ove “ … il dolo o la colpa grave idonei ad escludere l’indennizzo per ingiusta detenzione devono sostanziarsi in comportamenti specifici che abbiano dato causa all’instaurazione dello stato privativo della libertà o abbiano concorso a darvi causa, sicchè è ineludibile l’accertamento del rapporto causale, eziologico, tra tali condotte ed il provvedimento restrittivo della libertà personale …”, pertanto, in via generale, solo quando la condotta abbia in effetti ed in concreto sviato l’autorità giudiziaria.

Ancora sul punto, entrando in medias res, viene ancor più nitidamente argomentato il concetto, quando è puntualizzato dal Supremo Consesso che nel caso di specie, a fronte della ricostruzione dei fatti già coerentemente ed esaustivamente resa dalla madre della ricorrente “…il percorso argomentativo seguito dal giudice della riparazione non appare coerente con i principi giuridici precedentemente richiamati, essendo stata data valorizzazione ad un elemento, quello del silenzio, che tende ad avere valore neutrale, inidoneo di per sé solo a giustificare l’esclusione della riparazione …”.

Tuttavia, di ancora maggiore interesse, il principio di diritto da ultimo chiarito colla pronuncia in commento, secondo il quale, se per un verso il silenzio serbato dall’indagato su elementi di indagini significativi, nell’esercizio della facoltà difensiva prevista dall’art. 64 cod. proc. pen., comma 3, lett. b), non può più rilevare quale comportamento ostativo alla insorgenza del diritto alla riparazione né di per sé assumere rilevanza etiologica rispetto alla condizione negativa di che trattasi[8], neppure si potrà limitare l’applicazione di tale disposizione, secondo la nota disciplina del tempus regis actum, ai soli casi successivi all’entrata in vigore della riforma, poiché, a prescindere dalla collocazione topografica della Novella, all’interno del codice di rito, “…non vi è dubbio che tale disposizione sia suscettibile di applicazione retroattiva, costituendo “lex mitior”, atteso che si tratta di norma che incide su discipline penali di natura sostanziale (C. Cost., sent. N. 393/2006; nonché le sentenze n. 455, n. 85e n. 72 del 1988; ordinanza n. 317 del 2000, n. 288 e n. 51 del 1999, n. 219 del 1997, n. 294 e n. 137 del 1996), in quanto diretta applicazione dell’art. 7, comma 5, Dir. 2016/343/UE sul rafforzamento della presunzione di innocenza, che dispone che “l’esercizio da parte degli indagati e imputati del diritto al silenzio o del diritto di non autoincriminarsi non può essere utilizzato contro di loro e non è considerato quale prova che essi abbiano commesso il reato ascritto loro …”, soggiungendo, poi, in conclusione, ad ulteriore scanso di qualsivoglia equivoco che “ … trattandosi di innovazione normativa di portata sostanziale, introdotta nella disciplina primaria, la corte territoriale dovrà tenerne conto nel nuovo giudizio, ai fini della rivalutazione dell’istanza di riparazione proposta …”[9]

In conclusione, l’apparentemente scontato esito dell’impugnazione in seguito alla novella riformatrice della disciplina sull’ingiusta detenzione non ha sottratto l’occasione all’Autorità giudiziaria nomofilattica, per scongiurare ipotesi aberranti in cui si sarebbe potuto incorrere nel caso in cui l’equivoco apparente sulla natura sostanzialistica dell’istituto non fosse stato chiarito preminentemente, nella carenza di norme transitorie al testo di legge, che avrebbero potuto dirimere senza equivoci ab origine il tema, oggi appunto superato grazie al diritto vivente che la pronuncia in commento rappresenta.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Art. 24, ultimo comma, della Cost. in base al quale “la legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari”.

[2] Rubricato con “Esigenze cautelari”.

[3] Rubricato come “Procedimento per la riparazione”.

[4] La legittima difesa rientra tra le “cause di giustificazione”. A ciò, si ricollega il principio del “bilanciamento degli interessi”, secondo cui, si dà precedenza nella tutela all’interesse di chi viene aggredito ingiustamente, rispetto all’interesse di chi aggredisce.

[5] Rubricato come “Regole generali per l’interrogatorio”.

[6] Nuove fisionomie del diritto al silenzio. Un´occasione per riflettere sui vuoti domestici … e non solo. Annalisa Mangiaracina, Professore associato di Diritto processuale penale - Dipartimento di Giurisprudenza. Università degli Studi di Palermo.

[7] Cfr. Corte di Cassazione, IV Sezione Penale, n. 08616 del 2022, depositata il 15 marzo 2022, nella parte in cui annulla con rinvio alla Corte d’Appello dell’Aquila l’ordinanza impugnata “ … in relazione alla necessaria verifica di elementi, rimasti eventualmente accertati all’esito del verdetto assolutorio, dai quali possa ricavarsi un comportamento dell’interessato, diverso dal silenzio serbato su circostanze ritenute rilevanti per neutralizzare la portata accusatoria degli elementi raccolti nel corso delle indagini, idoneo a comportare la condizione ostativa di cui all’art. 314 comma 1, come modificato dal D.lgs n. 188 del 2021 …”.

[8] Cfr., da ultimo, Cass. pen., Sez. III, 10 giugno 2020, n. 19063, in Dejure; Cass. pen., Sez. IV, 27 aprile 2018, n. 24439, in Dejure.