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Pubbl. Lun, 11 Lug 2022

La Cassazione torna sul c.d. stalking occupazionale

Francesca Florio



Lo scritto si propone di analizzare brevemente la pronuncia della quinta Sezione della Corte di Cassazione n. 12827, del 5 aprile 2022, nella quale la Corte ha affermato la astratta configurabilità del delitto di atti persecutori in relazione alle condotte vessatorie reiterate, tipicamente riconducibili al c.d. mobbing, poste in essere dal datore di lavoro in danno dei propri dipendenti.


Sommario: 1. La vicenda processuale; 2. Il ricorso dell’imputato; 3. La decisione e l’iter argomentativo della Corte.

Sommario: 1. La vicenda processuale; 2. Il ricorso dell’imputato; 3. La decisione e l’iter argomentativo della Corte.

1. La vicenda processuale

L’imputato era stato tratto a giudizio per rispondere del delitto di atti persecutori aggravato ai sensi dell’art. 61, n. 11, c.p., e ciò in quanto, secondo la prospettazione accusatoria, egli, nella qualità di presidente di una società di servizi, e dunque titolare di una posizione di supremazia nei confronti delle persone offese alle dipendenze della medesima società, tramite più minacce, consistite anche nella prospettazione di licenziamenti ingiusti, ed attraverso il reiterato recapito di infondate contestazioni disciplinari, avrebbe ingenerato nei dipendenti un duraturo e perdurante stato di ansia e di turbamento, in conseguenza del quale le persone offese sarebbero state costrette ad alterare le proprie abitudini di vita.

Sia il giudice di prime cure, sia la Corte di appello avevano ritenuto la penale responsabilità dell’imputato per i fatti a questo ascritti, condannandolo, per l’effetto, alla pena ritenuta di giustizia.

Avverso la pronuncia della Corte di appello, l’imputato aveva allora proposto ricorso per Cassazione, affidandolo a tre motivi.

2. Il ricorso dell’imputato

Per quel che in questa sede interessa, il ricorrente si era lamentato della violazione di legge in relazione all’art. 612-bis c.p., e della mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, la quale sarebbe stata, secondo la sua opinione, frutto di un’indebita selezione delle prove acquisite in dibattimento.

Nello specifico, le doglianze dell’interessato erano imperniate sull’assunto che il concetto di mobbing non sarebbe del tutto sovrapponibile al delitto di atti persecutori, per la cui sussistenza sarebbero necessarie condotte profondamente invasive della sfera privata. Allo stesso modo, sempre secondo il ricorrente, i due diversi fenomeni perseguirebbero finalità sostanzialmente antitetiche, e ciò in quanto mentre nello stalking lo scopo perseguito dal soggetto agente è quello di allacciare un rapporto con la persona offesa, il mobbing è orientato all’allontanamento ed all’espulsione della vittima dal contesto lavorativo.

L’imputato aveva, inoltre, sottolineato che sebbene la giurisprudenza di legittimità avesse affermato che: «l’ambiente lavorativo non è una zona franca dello stalking e che la determinazione del contesto in cui si è consumata la condotta è irrilevante allorché i reiterati comportamenti ostili abbiano procurato un danno psicologico nei termini indicati dall’art. 612-bis c.p.», nondimeno avrebbe potuto negarsi la rilevanza specifica che il contesto assume in casi analoghi a quello oggetto del giudizio; ed infatti, la difesa dell’interessato aveva rimarcato che, nel caso di specie, i giudici avevano ritenuto provato che le condotte contestate fossero riconducibili ad un disegno persecutorio finalizzato alla prevaricazione delle parti civili pur in assenza di concrete dimostrazioni, mentre, al contrario, la condotta dell’interessato avrebbe dovuto essere più correttamente ricondotta ad una legittima reazione alla sistematica violazione degli ordini di servizio e delle direttive impartiti dalla governance della società ed al clima di tensione che si era creato con i dipendenti.

3. La decisione e l’iter argomentativo della Corte

La Cassazione ha dichiarato infondati tutti e tre i motivi presentati e, per l’effetto, rigettato il ricorso.

Per addivenire a tale decisione, la Corte ha preso le mosse dal precedente giurisprudenziale citato proprio dal ricorrente nel suo atto introduttivo, pronuncia nella quale, oltre a negare la rilevanza del contesto lavorativo ai fini della configurabilità dello stalking, la Cassazione ha chiaramente affermato che: «integra il delitto di atti persecutori la condotta di mobbing del datore di lavoro che ponga in essere una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità verso il lavoratore dipendente e preordinati alla sua mortificazione ed isolamento nell’ambiente di lavoro – che ben possono essere rappresentati dall’abuso del potere disciplinare culminante in licenziamenti ritorsivi – tali da determinare un vulnus alla libera autodeterminazione della vittima, così realizzando uno degli eventi alternativi previsti dall’art. 612-bis c.p.».

Successivamente, riallacciandosi all’argomento proposto dal ricorrente in relazione alle finalità che astrattamente dovrebbe perseguire il soggetto agente del delitto di atti persecutori, la Corte ha sottolineato che, in ogni caso, anche nell’ipotesi di stalking “occupazionale”, per la sussistenza del delitto ex art. 612-bis c.p., è comunque sufficiente il dolo generico, sicché è richiesta la mera volontà di attuare reiterate condotte di minaccia e molestia in danno dei lavoratori, nella consapevolezza della loro idoneità a cagionare uno degli eventi alternativamente previsti dalla fattispecie incriminatrice, non occorrendo che tali condotte siano dirette ad un fine determinato.

Venendo all’analisi del caso di specie, la Cassazione ha poi precisato che, in base alle risultanze probatorie valutate dai giudici di merito, l’imputato aveva più volte minacciato le persone offese di: «cementarle in un pilastro», le aveva poi sfidate ad uno scontro fisico in diverse occasioni ed infine sottoposte a pubbliche e pretestuose ammonizioni oltremodo mortificanti e ad una serie di sanzioni disciplinari culminate anche in un licenziamento; e ciò allo scopo di creare un clima di terrore tra i dipendenti iscritti ad un’associazione sindacale.

Tali comportamenti, voluti e reiteratamente attuati dall’imputato, ed in conseguenza dei quali le persone offese hanno subito apprezzabili ripercussioni, secondo la Cassazione sono stati correttamente ricondotti dai giudici del merito nella latitudine operativa della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 612-bis c.p.


Note e riferimenti bibliografici

Sul rapporto tra il mobbing ed il delitto di atti persecutori si veda A. GALANTI, Prime considerazioni in ordine al reato di stalking: se diventasse (anche) mobbing?, in Giust. pen., 2010, 63 ss.; A. MAUGERI, Lo stalking tra necessità politico-criminale e promozione mediatica, Itinerari di diritto penale (dir. da) FIANDACA-MUSCO-PADOVANI-PALAZZO, Torino, 2010; A. DELLA BELLA, La repressione penale del mobbing nelle aziende di grandi dimensioni, in Corr. mer., 2013, 198 ss.; R. DIAMANTI, L'abuso nel rapporto di lavoro, in Riv. It. Dir. Lav., 1 dicembre 2017, 589.

Cass., Sez. V, 14 settembre 2020, n. 31273, in Dejure.