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Pubbl. Mar, 13 Ott 2015

Il diritto di abitazione della casa familiare in caso di separazione

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Pasqualina Mandia


Art. 337 sexies c.c.: fondamento, natura giuridica del diritto e criteri di assegnazione.


Tra le conseguenze principali derivanti dalla crisi coniugale e, in particolare, dalla separazione dei coniugi rientra certamente la questione dell’assegnazione della casa familiare.

La fine della convivenza comporta necessariamente che uno dei due coniugi si allontani dal luogo che ha rappresentato il fulcro della comunione di vita familiare, con tutte le conseguenze patrimoniali e psicologiche che ne derivano.

La questione relativa alla scelta del coniuge a cui deve essere attribuito il diritto di abitazione è stata oggetto di numerosi interventi normativi, sino a confluire nell’attuale art. 337 sexies c.c., modificato in ultimo dal decreto legislativo 154/2013. La norma in questione prevede che il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli. Dell’assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà.

È evidente come l’obiettivo primario perseguito dal legislatore e intorno al quale si snoda l’assegnazione sia rappresentato dall’interesse della prole, la quale deve continuare a vivere nel nucleo abitativo precedente la separazione, mantenendo il medesimo stile di vita. La norma stessa precisa che il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso in cui l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio.

La presenza di figli minorenni oppure maggiorenni non autosufficienti conviventi con i genitori è l’unico elemento che giustifica una limitazione del diritto di proprietà, come ha precisato la giurisprudenza della Corte di Cassazione[1], a detta della quale in caso di assenza degli stessi il giudice non può adottare un provvedimento di assegnazione della casa familiare; in questo caso prevalgono le norme in tema di comunione.

È possibile affermare, dunque, che l’assegnazione viene disposta a favore del coniuge con il quale convivono i figli, degradando dunque ad elemento secondario la situazione di debolezza economica di uno dei due.

Quando si discorre di “casa familiare” si fa riferimento all’immobile che ha costituito la dimora stabile e duratura dei coniugi e dei figli, per cui non vi rientrano eventuali ulteriori immobili utilizzati anche solo temporaneamente ( ad esempio la casa per le vacanze). Tale esclusione deriva dalla ratio stessa della norma, finalizzata a tutelare il luogo che ha rappresentato il centro di aggregazione della famiglia. Si fa riferimento ad un immobile, sebbene la nozione comprenda un concetto più ampio, riguardante tutti quei beni, anche mobili, finalizzati a soddisfare le esigenze del nucleo familiare: ebbene, il diritto di godimento si esercita anche nei confronti degli stessi, ovvero delle pertinenze, dei mobili e degli arredi.

Di regola, l’assegnazione concerne l’intera abitazione, sebbene la giurisprudenza abbia avuto modo di precisare come sia possibile un’assegnazione parziale, sempre che la condizione giuridica dell’immobile  consenta il godimento suddiviso e congiunto tra i coniugi. A tal fine, è necessario che l’immobile sia facilmente divisibile, soprattutto qualora tra i coniugi vi sia una certa conflittualità[2].

È necessario in questa sede soffermarsi, altresì, sulla questione inerente la natura giuridica del diritto attribuito.

Il legislatore spesso utilizza il termine abitazione, sebbene non vi sia concordia di opinioni in ordine alla possibilità di definire il diritto in questione come un vero e proprio diritto di abitazione, tecnicamente inteso[3].

Il diritto di abitazione è disciplinato dall’art. 1022 c.c., il quale lo configura come “il diritto reale su cosa altrui che conferisce al titolare la facoltà di abitare una casa nei limiti dei bisogni suoi e della sua famiglia”.

Una parte della dottrina ritiene che sia possibile configurare il diritto del coniuge assegnatario alla stregua di un diritto di abitazione, tuttavia la dottrina prevalente configura lo stesso come un diritto personale di godimento, assimilabile alla locazione o al comodato.

Quest’opinione è stata confermata più volte nel corso degli anni dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha precisato che il diritto de quo ha natura di diritto personale di godimento e non di diritto reale, essendo i modi di costituzione degli stessi tassativamente previsti dalla legge secondo il principio del numerus clausus, non rientrando tra questi il provvedimento di cui si tratta.[4]

Da ciò deriva che la facoltà di godimento concessa costituisce un diritto personale di godimento atipico, che il titolare può esercitare in maniera esclusiva ai fini abitativi, senza la possibilità di disporne attraverso la costituzione di diritti a favore di terzi[5].

La giurisprudenza ha osservato, altresì, che, così configurato, il diritto in questione potrebbe corrispondere al diritto di abitazione in senso tecnico, ma ciò deve escludersi per la considerazione che nella famiglia del titolare del diritto reale di abitazione devono comprendersi anche i figli nati successivamente al sorgere del diritto stesso, nonché i figli adottivi riconosciuti e affiliati. Inoltre, un’inquadratura di questo tipo finirebbe per attribuire al coniuge affidatario un diritto di contenuto più ampio rispetto a quanto emerge dalla ratio della norma, che ruota intorno alla tutela della prole[6].

La giurisprudenza è univoca nell’escludere la realità del diritto in questione, la cui assegnazione non comporta un esproprio, bensì la costituzione di un godimento che non priva il proprietario del proprio diritto dominicale e che può coincidere con la vita del destinatario[7].

Il presupposto per l’emanazione del provvedimento di assegnazione della casa familiare è la disponibilità, di fatto o giuridica, della casa in capo al coniuge non assegnatario. La giurisprudenza di legittimità ha precisato che tale disponibilità sussiste anche nel caso in cui il coniuge onerato sia comproprietario dell’alloggio e ne abbia il godimento esclusivo in virtù di un accordo con gli altri comunisti, e permane fino a quando non intervenga la modifica degli accordi sull’uso dell’immobile[8].

L’assegnatario subentra, inoltre, in tutti i diritti e doveri ricollegati all’uso dell’immobile, tra cui ad esempio il pagamento degli oneri condominiali. Qualora il giudice attribuisca il diritto al coniuge non titolare della proprietà, la gratuità di tale assegnazione si riferisce solo al godimento e all’abitazione, non alle spese necessarie all’uso. Al contrario, le spese straordinarie non ricadono automaticamente sul coniuge assegnatario, bensì sono a carico di ciascun coniuge, in caso di comproprietà del bene, oppure in capo al coniuge unico proprietario.



[1] Cass. 28 gennaio 2009, n.2184

[2] Cass. 11 novembre 2011 n.23631

[3] M. LUPOI, Trattato della separazione e del divorzio, Milano, 2015, 189

[4] Cass. 5082/1985

[5] Cass. 3 dicembre 2012, n. 21593

[6] Cass. 5 luglio 1988, n.4420

[7] P. CENDON, Separazione e divorzio in Trattario di diritto civile, Milano, 2015, 650

[8] Cass. 3 dicembre 2012, n.21593