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Pubbl. Ven, 18 Ott 2024

Nella valutazione delle prove il giudice non può dare prevalenza alle emergenze testimoniali che siano contrastanti con la confessione giudiziale

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Eleonora Giansanti
Avvocato CassazionistaNessuna



Si fornisce un commento a Cassazione civile, Sez. II, Ordinanza n. 28255 del 09.10.2023, secondo la quale, in tema di valutazione della prova, a fronte della confessione giudiziale resa, non può essere data prevalenza ai fatti contrari, e non meramente specificativi, come emergenti dalle deposizioni testimoniali ammesse su istanza della parte confitente e dalla prova documentale indiretta.


ENG Comment is made on Cassazione, civile, Sez. II, Order n. 28255 on 09.10.2023, according to which, in the metter of assessment of evidence, against the judicial confession rendered, contrary facts cannot be given precedence, and not merely specific, as emerging from the depositions admitted on application of the same party and from the indirect documentary evidence.

Sommario: 1. Il caso; 2. La confessione giudiziale; 3. Oggetto della confessione; 4. La confessione come prova legale; 5. L’animus confitendi

1. Il caso

In primo grado l’attore, in qualità di promissario acquirente di un immobile, citava la promittente venditrice esponendo di aver effettuato una proposta di acquisto con versamento della relativa caparra confirmatoria. Aggiungeva che la proprietaria aveva accettato detta proposta; che le parti avevano concordato che, all’atto della stipulazione del definitivo, sarebbe stata corrisposta la restante somma dovuta a titolo di prezzo; che la promittente venditrice, benché sollecitata più volte ai fini di addivenire alla stipula del definitivo, non era comparsa dinanzi al notaio incaricato.

L’attore chiedeva quindi dichiararsi la risoluzione del contratto preliminare di vendita immobiliare per inadempimento della convenuta.

Si costituiva in giudizio parte convenuta sostenendo che la risoluzione del contratto era da addebitarsi ad esclusivo fatto e colpa del promissario acquirente e chiedendo che le domande di parte attrice fossero rigettate. Adduceva, infatti, che l’attore avrebbe disatteso l'accordo sottoscritto, mancando di versare il secondo acconto previsto sul prezzo entro la data convenuta; che lo stesso promissario acquirente avrebbe mancato di effettuare ulteriori due versamenti necessari ad estinguere due ipoteche esistenti sull'immobile promesso in vendita; che tali adempimenti erano richiamati nel preliminare e indispensabili per la stipula del definitivo.

Nel corso del giudizio era assunta la prova per interpello di entrambe le parti e la prova testimoniale ammessa per l'attore.

Il Tribunale adito accoglieva, con sentenza, le domande di parte attrice.

Decidendo sul gravame interposto da parte soccombente, la Corte d'appello, con sentenza, respingeva l'appello e per l'effetto, confermava integralmente la pronuncia di primo grado impugnata.

Avverso la sentenza d'appello proponeva ricorso per Cassazione la promittente venditrice. Il promissario acquirente rimaneva intimato, nonostante la rituale notifica del ricorso.

La ricorrente denunciava, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, la violazione dell'art. 2733 c.c., comma 2, per avere la Corte distrettuale riconosciuto la prevalenza delle dichiarazioni testimoniali rese dal teste citato dal promissario acquirente, rispetto alle contrarie dichiarazioni confessorie assorbenti rese in sede di interrogatorio formale dal promissario acquirente medesimo. In particolare, ad avviso della ricorrente, la confessione resa in ordine al mancato versamento del secondo acconto sul prezzo della vendita, avrebbe dovuto indurre la Corte di merito a dichiarare inadempiente detto promissario acquirente e, conseguentemente, a ritenerlo l'unico responsabile della mancata stipula del definitivo; a nulla valevano infatti le dichiarazioni del titolare dell’agenzia immobiliare, peraltro non supportate da alcun riscontro certo, secondo cui l’assegno in parola, lasciato presso l’agenzia immobiliare, non sarebbe mai stato volontariamente ritirato dalla promittente venditrice.

Ed infatti, secondo l’argomentazione della ricorrente, dell'emissione di detto assegno non vi sarebbe stata traccia alcuna, non essendo stata mai depositata una sua copia ed essendo stata, invece, esibita una semplice lettera, neppure raccomandata, prontamente contestata, perché mai ricevuta e quindi priva di valore probatorio.

La Suprema Corte, ritenendo la censura fondata e accogliendo il ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassava la sentenza impugnata e rinviava la causa alla Corte distrettuale, in diversa composizione, anche per la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.

2. La confessione giudiziale

La Corte di Cassazione, ribadendo il principio della piena efficacia probante della confessione giudiziale, statuisce la prevalenza di tale prova sulle ulteriori prove precostituite, laddove essa si ponga in radicale e irrimediabile contrasto con il tenore delle stesse.

L’efficacia probatoria riconnessa all’istituto della confessione, deriva dalla massima di attendibilità secondo cui nessuno riconosce la verità di fatti che gli nuocciono, se questi fatti non sono veri[1].

Oggetto della pronuncia, quindi, è la confessione giudiziale di cui all’art. 228 c.p.c.

Tale confessione, spontanea o, come nel caso in esame, provocata mediante interrogatorio formale, risulta meglio disciplinata dall’art. 2733 c.c., comma 2, che le ricollega piena efficacia probatoria contro colui che l'ha resa, ove verta su diritti disponibili.

La presenza dell’istituto de quo in entrambi i codici, scelta legislativa giudicata residuo storico da parte di una certa dottrina[2], è omaggio all’impostazione codicistica napoleonica e alla sua duplice trattazione delle prove, sia in chiave statica che dinamica.

L’art. 2730 del codice civile, definisce la confessione come la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte. Sul punto la giurisprudenza ha chiarito che, per fatto sfavorevole al dichiarante e favorevole all’altra parte deve intendersi quello che, avuto riguardo all’oggetto della controversia ed ai termini della contestazione, è in concreto idoneo a produrre conseguenze giuridiche svantaggiose per colui che volontariamente e consapevolmente ne riconosce la verità[3]. Ed ancora, sempre secondo il dettato giurisprudenziale, il fatto che forma oggetto di confessione deve trovarsi, rispetto ai contrastanti interessi delle parti, in rapporto tale che, dalla sua ammissione derivi concreto pregiudizio all'interesse del dichiarante, con corrispondente vantaggio a quello del destinatario[4].

Essa, assieme al giuramento e alla testimonianza, rientra nel novero delle prove costituende e, cioè, di quelle prove che si formano nel processo. Si distingue però, sia dal giuramento che dalla testimonianza. Dal primo perché il confitente dichiara la verità di determinati fatti che non possono mai giovargli; dalla seconda poiché la dichiarazione è resa da soggetto che riveste il ruolo di parte processuale e non da un terzo estraneo al processo.

Si è disquisito sull’operatività processuale dell’istituto della confessione giudiziale. Secondo quanto già rilevato in dottrina, gli effetti della confessione giudiziale si dispiegherebbero allorché, come nel caso di cui trattasi, si sia istaurato e sia sussistente un rapporto processuale tra il confitente ed il relativo avversario[5]; un secondo filone giurisprudenziale prevede invece che, nel caso di confessione giudiziale resa nel processo penale dall’avversario del confitente già costituito parte civile, essa sarebbe pienamente probante e ultrattiva anche nel successivo giudizio civile, ove costituirebbe addirittura ostacolo all'ammissione di interrogatorio formale sul medesimo fatto che ne abbia formato oggetto[6].

3. Oggetto della confessione

Come nel caso in questione, oggetto della confessione ai sensi dell’art. 2730 c.c., sono i fatti di causa costitutivi, estintivi, modificativi o impeditivi, nella loro materialità. Da ciò consegue che la confessione, qualora la dichiarazione abbia ad oggetto dei diritti, possa importare solo quella che è stata definita come “astrazione dal rapporto fondamentale”, con inversione dell’onere probatorio[7].

Oltre l’unanime dottrina, anche la giurisprudenza ha sottolineato in più pronunce come la confessione debba avere ad oggetto fatti obiettivi e non opinioni o giudizi[8] e come non abbia valore di confessione l'ammissione che un determinato evento dannoso sia ascrivibile a propria colpa, trattandosi di un giudizio alla cui formazione concorrono valutazioni di ordine giuridico, mentre la confessione, come detto, ha ad oggetto fatti obiettivi[9].

La giurisprudenza ha altresì specificato che la confessione, pur dovendo cadere esclusivamente su fatti, può estendersi, sub specie facti, anche a situazioni giuridiche rilevanti, come quelle comportanti la costituzione di un rapporto contrattuale, fermo restando che la qualificazione giuridica dei fatti è riservata al giudice, secondo il principio “iura novit curia” [10].

4. La confessione come prova legale

Secondo la Suprema Corte, nel caso in commento, la perentoria dichiarazione resa in sede di interrogatorio formale si sarebbe posta in radicale e irrimediabile contrasto con il tenore delle altre prove utilizzate. Da qui la censura operata sulla pronuncia territoriale che, nell'attribuire prevalenza all'esito delle ulteriori prove precostituite, come prodotte e richieste dal confitente, avrebbe violato il principio della piena efficacia probante della confessione giudiziale, degradandone il suo valore di prova legale.

Il riferimento normativo è all’art. 116 c.p.c. in tema di valutazione delle prove e la pronuncia della Suprema Corte sembra aderire a quell’interpretazione secondo cui, tale disposizione normativa, avrebbe istituito tra il sistema delle prove liberamente valutabili e quello delle prove legali, un rapporto di regola-eccezione[11]. Conseguentemente la dichiarazione confessoria, avendo valore di prova legale, sarebbe sottratta all’apprezzamento del giudice, il quale non potrebbe svolgere ulteriore attività istruttoria, né valutare altre prove che possano ostacolarne l’efficacia[12], con l’ulteriore conseguenza che la stessa confessione, in ragione del suo statuto di piena prova, impedirebbe alla controparte di provare il contrario[13].

A tal proposito, l’ordinanza de qua, muovendo dalla considerazione che, ai sensi dell'art. 2733 c.c., comma 2, la confessione resa in giudizio forma piena prova contro colui che l'ha resa ove verta su diritti disponibili, ribadisce che l'autore di una confessione non possa essere ammesso a provare per testi fatti contrari a quanto ha confessato, all’uopo richiamando la sequela di sentenze a ciò conformi[14] e concludendo che, a fortiori, ove tali prove, di fatto, siano state ammesse ed assunte, non possano prevalere sul contenuto della discordante confessione resa.

Uguale subalternità probatoria toccherebbe in sorte, secondo la pronuncia in commento, alla prova documentale consistente nella missiva inviata dal mediatore con l'invito rivolto alla promittente alienante a recarsi presso la sede dell'agenzia per ritirare l'assegno circolare, poiché anche tale elemento (indiziario), non costituente prova legale diretta del fatto (ossia del versamento della somma indicata entro la data pattuita), deve ritenersi superato dall'esito pienamente confessorio della prova per interpello (contrastante con detto indizio).

La dominanza probatoria, secondo un’opinione, potrebbe derivare alla confessione giudiziale dalla sua natura di relevatio ab onere probandi. Essa, cioè, provocherebbe una dispensa dall’onere probatorio, per volontà della parte che ne ha disposto, dei fatti su cui è stata resa la dichiarazione[15].

Secondo un orientamento dottrinale meno recente, invece, il condizionamento del giudice nella sua decisione deriverebbe dalla disposizione del diritto controverso, operata attraverso la confessione quale negozio giuridico. Ciò che troverebbe conferma, sempre secondo tale opinione, nell’art. 2732 c.c. a mente del quale la confessione può essere revocata solo se derivante da errore di fatto o da violenza[16].

È doveroso, tuttavia, sul piano ermeneutico, dare conto di quel diverso orientamento giurisprudenziale secondo cui il valore di prova legale della confessione, non implicherebbe anche una sua esclusività al fine di determinare il convincimento del giudice, che, invece, potrebbe formarsi in base a tutti gli elementi probatori raccolti nel corso del giudizio[17]. In particolare, secondo questo filone, la confessione giudiziale è vincolante per il giudice solo quando, quale riconoscimento della verità di fatti sfavorevoli alla parte dichiarante, assuma carattere di univocità e di incontrovertibilità. Quando, invece, vengano dichiarati altri fatti e circostanze idonei ad infirmare, modificare od estinguere l’efficacia dell’evento confessato, la confessione resa in giudizio può essere apprezzata liberamente dal giudice[18].

5. L’animus confitendi

L’ordinanza in commento specifica che la dichiarazione oggetto di confessione consta dell’elemento soggettivo, consistente nella consapevolezza e volontà di ammettere e riconoscere la verità di un fatto a sé sfavorevole e favorevole all'altra parte.

In realtà, nessuna delle più importanti codificazioni moderne contiene riferimenti all’animus confitendi, né il Code Napoléon, né il codice civile italiano del 1865, né la ZPO tedesca del 1877, né quella austriaca del 1895 e nessun riferimento compare nell’attuale codice civile all’art. 2730[19].

Pur tuttavia, sia dottrina che giurisprudenza, negli anni, hanno sempre mantenuto vivo il dibattito in merito all’animus [20]. In particolare, la dottrina lo ha definito come consapevolezza ammissiva senza volontà “direzionalmente” orientata a produrre gli effetti favorevoli nei confronti del beneficiario ed indipendente dalla previsione delle conseguenze che da tale dichiarazione possano derivare rispetto al punto della controversia cui attiene la prova[21].

Ciò in quanto gli effetti processuali conseguenti alla dichiarazione confessoria, quale dichiarazione di scienza, sono determinati dalla legge senza alcun riferimento alla volontà del confitente[22], appalesandosi irrilevante l’indagine sul fine da lui perseguito nel renderla[23].


Note e riferimenti bibliografici

[1] Carratta A., Mandrioli G., (2018), Corso di diritto processuale civile, vol.II, Giappichelli, Napoli.

[2] Cendon P., (2012), Commentario al codice di procedura civile, vol.II, Giuffrè, Milano

[3] Cassazione civile, Sez. III, sentenza n. 11635 del 21.11.1997

[4] Cassazione civile, sez. II, sentenza n. 23687 del 09.11.2009

[5] Andrioli V., (1957), Commento al codice di procedura civile, Jovene, Napoli

[6] Cassazione Civile, Sez. III, sentenza n. 8096 del  06.04.2006

[7] Luiso F. P., (2017), Diritto processuale civile, vol. II, Giuffrè, Milano

[8] Cassazione civile, Sez. III, sentenza n2903 del 27.02.2001

[9] Cassazione civile, Sez. III, sentenza n11266 del 30.07.2002

[10] Cassazione civile, Sez. II, sentenza n. 11498 del 21.10.1992

[11] Andrioli V., cit.

[12] Luiso F. P., cit.

[13] Ricci G.F., (2012), Diritto processuale civile, vol.II, Giappichelli, Napoli

[14] Ex plurimis Cassazione Civile, Sez. III, sentenza n. 607 del 17.01.2003

[15] Monteleone G., (2018),  Manuale di diritto processuale civile, vol. I, Cedam, Padova

[16] Giorgianni M., (1958),  voce Negozio di accertamento, in Enciclopedia del Diritto, vol.I, Giuffrè, Milano

[17] Cassazione civile, Sezione III, sentenza  n. 8403 del 10.04.2014

[19] Furno C., (1961), Confessione: diritto processuale civile, Giuffrè, Milano

[20] cfr., ex plurimis Cassazione civile, Sez. Unite, sentenza n. 7381 del 25.03.2013

[21] Comoglio L.P., (1998), Le prove civili, UTET, Torino

[22] Liebman E. T., (1984), Manuale di diritto processuale civile, vol. II, Giuffrè, Milano

[23] Cassazione Civile, Sez. Lav., sentenza n.  19554 del 30.09.2016