Pubbl. Sab, 6 Feb 2021
Profili di incompatibilità costituzionale del sistema delle misure di sicurezza
Modifica paginaIl presente lavoro si propone di analizzare i profili problematici delle misure di sicurezza detentive. In un momento storico in cui si è consolidato un habitus di tipo emergenziale, occorre tener conto che la comprensione del sistema penale – strettamente correlato alla politica criminale (altro è l’uso politico del diritto) – passa, anzitutto, attraverso l’attenta analisi dei principi di fondo, sia in fase generale e astratta, sia in fase individuale e concreta. Il lavoro non ha la pretesa di proporre buone prassi assolute ma tenta di evidenziare una situazione patologica, dovuta tam a difetti d’origine quam ad una smodata stratificazione novellistica che – evitando una revisione del sistema sanzionatorio funditus – ne ha determinato l’attuale stato di disagio.
Sommario: 1. Compatibilità con il tessuto costituzionale; 2. La riforma Orlando in tema di misure di sicurezza; 3. Considerazioni finali.
1. Compatibilità con il tessuto costituzionale
Il diritto penale, nell’ impianto costituzionale che emerge dalla tradizione dello Stato di diritto e dello Stato sociale, si àncora – sovente – in situazioni dilemmatiche, dovute alla sua natura ancipite: da un lato, strumento di salvaguardia dell’interesse pubblico alla difesa sociale; dall’altro, “quadro” di tutela dei diritti fondamentali della persona, in primis del reo.
Le cospicue e rilevanti questioni circa l’an della punizione e il quantum della risposta sanzionatoria non possono prescindere dalla cornice dei principi costituzionali, da cui desumere le linee guida per una soluzione cogente, razionale e teleologicamente orientata. A fortiori, la comprensione tam del sistema ex funditu quam dei singoli istituti non può che passare attraverso l’analisi dei principi dello Stato sociale di diritto. Da ciò discende che, in un diritto penale del fatto e non dell’autore, democratico1 e legittimato da legalità (art. 25 Cost.), personalità della responsabilità penale (art. 27, 1° co., Cost.), rieducazione (art. 27, 3° co., Cost.), proporzione (art. 3 Cost.) e uguaglianza2 (art. 3 Cost.), non possano e debbano esistere pene “travestite” da altro.
Il diritto penale è costituito dalle norme dell’ordinamento giuridico che prevedono sanzioni – tripartite in pene, misure di sicurezza e misure di prevenzione3 – come conseguenza giuridica di determinati comportamenti umani4, così assolvendo alla funzione di prevenzione5 e repressione dei reati.
Le misure di sicurezza – introdotte dal codice Rocco del 19306 nel Titolo VIII del Libro I – hanno, fin dagli albori, raddoppiato le potenzialità repressive del sistema, fungendo da strumento di controllo e difesa sociale, specie quando si aggiungevano all’esecuzione della pena.
Il filo conduttore di tale categoria sanzionatoria è la pericolosità, delle persone e delle cose7. L’art. 202, 1° co., c.p. stabilisce che possano essere applicate soltanto alle persone pericolose, che abbiano commesso un fatto preveduto dalla legge come reato, ossia un fatto tipico. Tale assunto è smentito dal comma successivo, nel quale è il presupposto soggettivo della pericolosità ad essere costitutivo ed essenziale. Difatti, l’art. 202, 2° co., c.p. statuisce che la legge penale determina i casi nei quali a persone socialmente pericolose possano essere applicate misure di sicurezza per un fatto non preveduto dalla legge come reato, definibile quindi «quasi-reato»8.
Assunto che le misure di sicurezza possano essere certamente intese come un “sistema” (recte, sottosistema), sembra opportuno interrogarsi – dando per acquisiti i principi costituzionali – se il sottosistema de quo debba essere considerato fisiologico ovvero patologico rispetto al sistema generale da cui discende, tenendo conto della sua congruenza assiologico-sistematica rispetto ai valori di fondo. Ove ciò non fosse, si darebbe un’aporia, un tentativo di ergersi a sistema autonomo, antagonistico rispetto ai riferimenti e ai principi del sistema penale nel suo complesso.
Posto che la dommatica abbia l’importante funzione di realizzare il principio di eguaglianza sub specie di proporzione e che l’impianto della normativa codicistica sia informato da un’ideologia autoritaria9, la proporzionalità risulta lesa se sol si pensi che le misure di sicurezza siano uno strumento aggiuntivo o sostitutivo della pena tout court, laddove quest’ultima venga considerata ex se impari allo scopo.
Il codice Rocco non ha inserito un criterio che potesse guidare l’interprete nella scelta della misura più proporzionata alla gravità del fatto commesso, ma si è limitato a prevedere la sola proporzionalità della durata di ciascuna misura (cfr. 219, 222, 223 c.p.). Unico – seppur fatuo – richiamo in tal senso è rinvenibile nell’art. 219, 3° co., c.p., ai sensi del quale «il giudice può sostituire alla misura del ricovero quella della libertà vigilata», nulla aggiungendo circa i criteri di scelta della misura in parola né circa l’imprescindibile proporzionalità con il fatto commesso10.
Il principio di proporzione tra il fatto commesso e la quantità e la qualità della sanzione è inscindibilmente legato al principio fondamentale della dignità dell’uomo (previsto dall’art. 2 Cost. e dall’art. 3 CEDU), al principio di uguaglianza ex art. 3 Cost. e al diritto alla cura e alla tutela della salute anche nei confronti del reo, di cui all’art. 32 Cost. Queste le considerazioni che hanno spinto la Corte costituzionale, attraverso un percorso carsico iniziato qualche anno prima11, a pronunciarsi – con la decisione n. 253/2003 – nel senso che «le esigenze di tutela della collettività non potrebbero mai giustificare misure tali da recare danno, anziché vantaggio, alla salute del paziente».
De relato, la segregazione di una persona per un tempo sproporzionato rispetto alla gravità del fatto posto in essere non può che presentarsi come un’aporia.
A fortiori, sul versante applicativo, un internamento sì draconiano non sarebbe efficiente e compatibile con la reintegrazione sociale ex art. 27, 3° co. Cost.: il surplus di pena sarebbe avvertito dal soggetto come un’ingiustizia, precludendogli la disponibilità ad accettare alcun training risocializzante – in vista del reinserimento in società – e, anzi, potrebbe in lui acuire un senso di rivolta e ribellione, possibili premesse di un’eventuale recidiva.
A ciò aggiungasi che l’inflizione di una pena sproporzionata sarebbe contraria anche al principio di personalità della responsabilità penale ex art. 27, 1° co., Cost. (perché i criteri di commisurazione della pena trascenderebbero il reato del singolo) e al più generale principio di umanità e dignità dell’uomo, il quale ultimo assurgerebbe a mezzo per fini altrui, strumento di politica criminale.
E, in tal senso, il principio di proporzione non potrebbe che collegarsi all’idea di extrema ratio dell’intervento penalistico; nel senso che il legislatore e il giudice debbano coerentemente calibrare la eventuale risposta sanzionatoria all’importanza del bene meritevole di tutela e al grado di lesione dello stesso12.
Ciò postulerebbe un intervento scientemente ponderato; un intervento ispirato a precisione, tassatività, determinatezza13, proporzione; un intervento informato ai canoni della legalità e non irrogato ad libitum.
L’emblema delle problematicità del sistema penale è, invero, il rapporto tra il legislatore e la giurisprudenza, della legge e delle garanzie dalle quali non si può prescindere. Il sistema funziona necessariamente in una scansione temporale diacronica per la quale – idealtipicamente – il giudice non possa “creare” fattispecie penali che incidano sulla libertà personale del singolo – ampiamente intesa – ma debba attenersi ad una legge certa, precisa, tassativa, determinata, proporzionata.
Certo è che la tassatività, in relazione alle misure in discorso, si presenti più duttile, avendo quale referente non la concretezza del fatto posto in essere ma l’etereo presupposto della pericolosità sociale, una prognosi del legislatore che non può che consistere in presunzioni de facto e de jure. Ciononostante, il legislatore può e – anzi – deve prevedere con sufficiente precisione, determinatezza14 e tassatività i parametri alla stregua dei quali effettuare il giudizio di pericolosità – perché ogni possibile compressione dei diritti individuali e, nel caso di specie, della libertà personale (v. art. 13 Cost.), deve essere ancorata alla roccaforte del principio di legalità. A tale esigenza non può in alcun modo supplire l’indeterminatezza15 dei fallaci criteri dell’art. 133 c.p., se non si voglia derivare nell’assurda eliminazione di ampie categorie sociali sotto il vessillo di accuse indimostrabili16.
Le misure di sicurezza, infatti, legandosi al nebuloso criterio della pericolosità sociale – intesa quale prognosi su un futuro comportamento criminoso – svuotano di significato l’affermazione garantistica del principio di legalità che, all’art. 199 c.p., apre la disciplina.
La stessa psichiatria forense, oggi, ritiene che sia «indispensabile lavorare per il superamento dell’equivoco, riduttivo e non scientifico concetto di “socialmente pericoloso”»17.
La prima preoccupazione che si celerebbe dietro un impiego troppo “entusiastico” delle neuroscienze è il possibile ritorno ad un modello medico-nosografico della malattia mentale, verso forme di “neo-positivismo” penale, verso uno scientismo criminologico di stampo deterministico.
D’altro canto, un uso distorto delle evidenze psicocriminologiche, genetiche e scientifiche può veicolare il pericolo di un “conservatorismo giuridico” che si esprima in una più semplice predittività della pericolosità sociale e, de relato, in una maggiore applicazione delle misure di sicurezza, con effetti in malam partem, e con la prospettiva di innumerevoli proroghe sine die18.
Sul punto, rilevanti novità sono state introdotte dall’art. 1, 1° co., della l. n. 81/2014, in sede di conversione del d.l. n. 52/2014 (recante «Disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari»), che ha inciso sull’accertamento della pericolosità del soggetto infermo di mente stabilendo che questo debba essere «effettuato sulla base delle qualità soggettive della persona senza tenere conto delle condizioni di cui all’art. 133, secondo comma, numero 4, del codice penale», e cioè delle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo, sicché situazioni di disagio sociale, di abbandono familiare19 ovvero di indigenza non potessero più – come avveniva, invece, more solito, nella prassi – legittimare le continue proroghe delle misure di sicurezza nei confronti di quei soggetti che, precedentemente “ospiti” degli o.p.g., non avessero un solido contesto familiare-sociale pronto ad accoglierli. Né possono essere sufficienti a fondare valutazioni di pericolosità sociale di tali soggetti le condizioni di assistenza terapeutica e, sul punto, lo stesso art. 1 successivamente aggiunge che «non costituisce elemento idoneo a supportare il giudizio di pericolosità sociale la sola mancanza di programmi terapeutici individuali», posto che sia prassi invalsa della magistratura di sorveglianza20 confermare una «pericolosità latente»21 dell’internato in ragione della mancanza od obiettiva impossibilità di percorsi terapeutici extramurari, sicché le misure di sicurezza svolgerebbero funzioni che dovrebbero idealmente essere devolute ai servizi psichiatrici territoriali.
Trattasi di una «scelta di civiltà»22, un intervento normativo che si sostanzia in una «soluzione doverosa»23 per cercare di ricondurre la disciplina dell’accertamento della pericolosità sociale ad essenziali e indefettibili principi di legittimità costituzionale. Difatti, gli indici “esogeni” di cui all’art.133 c.p. palesemente violavano il principio di personalità della responsabilità penale24 ex art. 27, 1° co., Cost. e, in nome di un paradossale e quanto mai illusorio riferimento al diritto alla salute ex art. 32 Cost., la sanzione finiva con l’essere prolungata, in termini discriminatori, di proroga in proroga, ben oltre la proporzionalità rispetto al fatto commesso (artt. 2 e 3 Cost.).
Ciononostante, forti resistenze sono venute soprattutto dalla giurisprudenza, presa in contropiede dalle novità della riforma, fino poi a sfociare nella richiesta di illegittimità costituzionale da parte del Tribunale di sorveglianza di Messina25 (competente per l’appello avverso l’impugnata ordinanza emessa dal Magistrato di sorveglianza), che a sostegno della sua tesi ha scomodato quasi tutti i principi costituzionali operanti in materia (artt. 1, 2, 3, 4, 25, 29, 30, 31, 32, 34, 77 e 117, 1° co., Cost.). I giudici rimettenti, invero, sottolineano il paradosso di valutare «una pericolosità sociale senza la società», che – sull’onta di un «volontarismo giudiziario arbitrario» – porterebbe al ritorno di un modello prognostico unifattoriale, sì violando, tra gli altri motivi addotti, l’art. 2 Cost. (ove non venga valutata la condizione del soggetto come singolo e nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità), gli artt. 1 e 4 Cost. (ove venga trascurata l’importanza del lavoro tam quale condizione di vita fondamentale quam come strumento rieducativo), l’art. 3 Cost. sub specie di ragionevolezza rispetto all’impari trattamento dei soggetti imputabili.
Come se ci si trovasse di fronte ad una (nuova) Scuola di Atene, di fianco a coloro26 che indicano con palmo aperto le lacune della normativa (improntata ad uno spirito emergenziale, così come dimostra il ricorso alla decretazione d’urgenza), vi sono coloro27 che puntano l’indice al cielo per apprezzare il merito delle importanti innovazioni che hanno “negato l’istituzione” degli ospedali psichiatrici giudiziari, che hanno posto fine alle proroghe seriali (che hanno portato ai c.d. ergastoli bianchi), che hanno evitato aprioristiche discriminazioni derivanti dalle condizioni di marginalità e indigenza familiare e personale28.
Invero, sul punto è stato, condivisibilmente, evidenziato29 che l’esclusione dei fattori esogeni non comporterebbe un «riduzioponismo monofattoriale e antiscientifico nella valutazione dei comportamenti complessi»30: il mero riferimento alle «condizioni di vita individuale, familiare e sociale» non implica necessariamente la valutazione delle interazioni dei fattori ambientali con il soggetto (che, nella maggior parte dei casi, passivamente li subisce e ne è, indi, prima vittima). Viceversa, l’art. 133, 2° co., n. 2, c.p. dispone che la capacità a delinquere del reo – de relato, ex art. 203, 2° co., c.p., anche la pericolosità sociale – vada desunta anche «in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato»: indici che evocano l’interesse nei confronti dell’uomo nella totalità della sua persona. Tale “generica” valutazione, assumendo carattere anamnestico – volto alla analisi delle modalità con le quali l’uomo ha vissuto ed interiorizzato i condizionamenti ambientali – esclude le palesi violazioni del principio della personalità della responsabilità penale (di cui risulta foriero, invece, il criterio di cui all’art. 133, 2° co., n. 4, c.p.).
Si è, in tal modo, “messa tra parentesi la malattia” e si è concentrata l’attenzione sul malato, sul di lui percorso di integrazione sociale, sulla piena attuazione dei principi costituzionali del diritto alla salute e della dignità dell’individuo, già recepiti dalla l. n. 180/197831; fermo restando che vi è chi sostiene che la legge possa veicolare il pericolo di una mera parcellizzazione dell’internamento all’interno di queste nuove strutture sanitarie ove la società, ancora una volta, crea “malati” per soddisfare esigenze di controllo, esclusione, autolegittimazione32.
Senza addentrarci in territori angusti, basti evidenziare che la tesi abbracciata dai giudici costituzionali che, con sentenza n. 186/201533, hanno dichiarato infondata la questione, è che le novità de quibus concernino non la categoria della pericolosità sociale nella sua interezza bensì solamente la valutazione della pericolosità da operare ai fini del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e di custodia. Non una riforma della categoria dogmatica della pericolosità ma una modifica che concerne soltanto il quomodo, il momento applicativo della misura di sicurezza privativa della libertà nei confronti dell’autore di reato infermo e seminfermo di mente.
Ci sarebbe, a tal punto, da chiedersi se la demandata irrazionalità della modifica ad opera della l. n. 81/2014 sia da intendersi in senso di apertura e non di chiusura e, quindi, nell’ottica di un’ambiziosa pretesa di intendere tali novità operanti non solo per il soggetto infermo o seminfermo di mente ma nei confronti di chiunque abbia commesso un reato34.
tenendo conto che proprio la valutazione del contesto sociale – nella maggior parte dei casi degradato – ha sovente portato ad accertamenti al confine con il diritto penale d’autore (sic!).
Nella medesima prospettiva, il giurista dovrebbe chiedersi se sia sostenibile e tollerabile vituperare i diritti dell’uomo riducendolo a strumento di falsificazione, cavia sulla quale sperimentare indici statistici, nuove acquisizioni scientifiche, mappature psicofisiche per testare, quantificare e computare quale e quanto sia la percentuale di millantata “propensione criminosa” che egli nasconda.
L’essere le misure di sicurezza basate sul presupposto della pericolosità sociale le rende insidiose per un sistema penale democratico a causa della molteplicità dei significati che il concetto – basato su giudizi predittivi e criminogenetici inattendibili e poco affidabili scientificamente – suggerisce e della sua attitudine a canalizzare l’odio e la repressione nei confronti di gruppi di persone stigmatizzate dalla propria esclusione sociale, dalla povertà, dalla desertificazione culturale ed economica del luogo natio, dalla deprivazione materiale e affettiva che già soffrono35.
Tale concetto, che ha giustificato l’esclusione e l’emarginazione dei più quale nemesi ineluttabile, avrebbe ragion d’essere ove fosse soggetto ad una rivoluzione copernicana: una “pericolosità sociale” che venga sì indagata ma in ottica progressista, che non sia veicolo di ulteriori esclusioni ma che divenga fattore di inclusione, in chiave emancipante, cercando di rilevare ove il sistema abbia fallito nei confronti del singolo e, conseguentemente, di ovviarvi.
In un diritto penale del fatto, in uno Stato sociale di diritto, l’uomo – sulla scia dell’intramontabile monito kantiano – non può essere strumento per i fini altrui, non può essere vivisezionato nell’ottica della difesa sociale, del sedicente diritto alla sicurezza e alla tranquillità dei più, della pacifica convivenza tra consociati. Ciascuno, in quanto uomo, ha diritto di essere considerato responsabile delle azioni che ha compiuto, e di quelle soltanto.
2. La riforma Orlando in tema di misure di sicurezza
Certo è che il sistema delle misure di sicurezza – personali e patrimoniali – sia stato, nel corso degli anni, sottoposto a varie modifiche, sia sul piano processuale che sostanziale, in seguito a numerosi interventi tam della Corte costituzionale (e.g. la non tassatività del limite minimo di durata delle misure di sicurezza36) quam del legislatore (si pensi, ad esempio, all’abrogazione delle ipotesi di pericolosità presunta37) sì da rimodulare in parte l’originaria conformazione delle misure in parola, contenuta all’interno del codice Rocco che espressamente dedicava il Titolo VII del Libro II alle «misure amministrative di sicurezza», ora pacificamente attratte nel polo della giurisdizione.
Dopo tre anni dalla legge 28 aprile 2014, n. 67 («Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili»), la riforma del sistema sanzionatorio penale torna ad essere oggetto di delega legislativa con la riforma Orlando del 23 giugno 2017, n. 107 recante «Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario» (formula più neutra rispetto alla precedente «Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la ragionevole durata dei processi, nonché all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena»).
Invero – se con la mentovata legge del 2014 si mirava al riassetto del “binario principale” (i.e. le pene), attraverso l’ambizioso proposito di intaccare il sistema carcerocentrico mediante l’introduzione di pene detentive non carcerarie – con la riforma Orlando si incide sul “binario secondario” (i.e. le misure di sicurezza detentive) delegando il Governo – nel termine di un anno (sic!) – ad attuare le disposizioni contenute all’interno della suddetta delega.
L’azione riformatrice, snodata in un solo articolo diviso in ben 95 commi, si prefigge il pretenzioso scopo di una riforma capace di toccare vari segmenti dell’intervento penalistico: quello sanzionatorio, quello decisorio, quello esecutivo.
Il provvedimento è un disorganico collettore di diversi impulsi – nei confronti dei quali non è possibile operare una reductio ad unum. È un provvedimento che viaggia a “due velocità”, poiché se da un lato introduce de plano nuovi articoli nel codice penale e nel codice di procedura penale, dall’altro contiene diverse deleghe al Governo, tra cui quella delle misure in parola38.
All’art. 1, 16° e 17° co., sono disciplinate le deleghe al Governo per la riforma del regime di procedibilità di taluni reati, per il riordino di taluni settori del codice penale e per la revisione della disciplina del casellario giudiziario da attuarsi secondo tempi e modalità “rafforzate” indicate nell’art. 1, 18°, 19° e 20° co.
In particolare, l’art. 1, 16° co., lett. c), detta, limitatamente alla «revisione della disciplina delle misure di sicurezza personali», i principi e i criteri direttivi cui dovrà (recte, potrà) attenersi il legislatore delegato per l’attuazione.
È utile rilevare preliminarmente – dal profilo strettamente linguistico39– la riprensibile approssimazione della formulazione (e.g. in alcuni casi nella proposizione enunciata il soggetto cui si fa riferimento non è riportato ma meramente supposto). Parimenti, si riscontra l’uso improprio della terminologia che – eccessivamente generica ed indeterminata – lascia ampi margini di discrezionalità all’azione del Governo40. Invero, la smodata vaghezza dei “principi e criteri direttivi” ha aperto dispute circa il mancato rispetto dei canoni di cui all’art. 76 Cost.41, specie per quanto concerne la prescrizione di “oggetti definiti”, per la quale il Parlamento debba indicare con precisione e chiarezza la materia sulla quale il Governo è chiamato ad intervenire42.
Nel caso di specie, l’art. 1, 16° co., lett. c) della citata legge delimita, per quanto interessa in tal sede, il suo oggetto nella «revisione delle misure di sicurezza personali», ma se si osserva il contenuto si evince che la «revisione del modello definitorio dell’infermità» (della quale, peraltro, non si specifica se fisica e/o psichica, riferendosi l’art. 147 c.p. ad ambo le ipotesi e gli artt. 148, 212, 219, 222 e 232 c.p. solo alla seconda43) coinvolge la disciplina della capacità di intendere e di volere ex art. 85 c.p., in vista della adozione delle c.d. misure terapeutiche e di controllo, scalfendo in nuce l’istituto della imputabilità44.
A tale situazione di incertezza si aggiunga che «le strutture destinate ad accogliere le persone cui sono applicate le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell’assegnazione di casa di cura e di custodia» di cui all’art. 3-ter, 2° co., d.l. n. 211/2011 finirebbero per essere destinate ad una serie di soggetti (sic!) affetti da problemi psichiatrici e psichici (variamente intesi) che sarebbe impossibile gestire senza trasformare le r.e.m.s. in istituzioni totali, in una logica squisitamente neomanicomiale45.
A tali condivisibili censure si affiancano altri problemi di metodo. Invero, resterebbe irrisolto il nodo per il quale, ai sensi della lett. c) dell’art. 1, 16° co., l. n. 103/2017, il doppio binario continuerebbe a sopravvivere nelle ipotesi delittuose di cui all’art. 407, 2° co., lett. a), c.p.p., nel quale elenco sono equiparati fatti che prevedono una pena nel minimo pari a venticinque anni (cfr. art. 630 c.p.) e fatti che ne prevedono una pari a cinque anni (cfr. art. 629 c.p.); per giunta, all’interno di tale elencazione non sono ricompresi delitti pur gravi quali, ad esempio, quelli contro la sicurezza nei luoghi di lavoro, i reati economici e finanziari, i reati contro la salute, contro l’ambiente46.
Anche a voler conservare il doppio binario sanzionatorio – che andrebbe, invece, eliminato funditus – il legislatore avrebbe dovuto elaborare una soluzione conforme agli imprescindibili principi di proporzione con il fatto commesso, di ragionevolezza e di sussidiarietà del diritto penale, di guisa che il giudice avrebbe dovuto valutare l’opportunità dell’inflizione della misura di sicurezza utilizzando come criteri generali: il fatto commesso, l’interesse meritevole di tutela da parte dell’ordinamento, il grado di offesa allo stesso, la pena concretamente irrogata.
Certo è che il sistema in parola sia sopravvissuto anche sull’onta di innegabili avalli della Corte costituzionale (intenta alla purificazione dei sistemi di presunzione della pericolosità sociale, degli automatismi applicativi e delle univocità in termini di scelta della misura da infliggere) e della dottrina (dedita alla ottimizzazione dei presupposti legislativi di irrogazione delle misure di internamento dei sofferenti psichici piuttosto che alla riforma delle istituzioni in cui si eseguono misure di sicurezza detentive) che hanno cercato di razionalizzare il sistema in vigore47.
Orbene, occorre sottolineare che queste ultime soluzioni accreditate dalla dottrina non posso essere riduttivamente intese quali mere limitazioni del danno poiché si è pervenuti a risultati concretamente umanizzanti, atteso che le modalità di esecuzione della sanzione in generale debbano sempre tener conto delle qualità e delle condizioni di vita del soggetto (sic!) destinatario: ciò ha la forza e il significato di una «massima che sarebbe bene il legislatore rispettasse in omaggio alla consequenzialità logica e sistematica dello spirito umanitario della Costituzione»48.
È, ormai, invece, innegabile – da entrambi i fronti – che il sistema abbisogni di un radicale superamento (o, almeno, di una modifica senza sconti sui tre cardini della comminazione, della commisurazione, dell’esecuzione) e a reclamarlo non è solo l’emergenza umanitaria che ha investito le strutture ospedaliere psichiatriche giudiziarie ma anche (e preliminarmente) la dogmatica di un diritto penale teleologicamente (rectius, costituzionalmente) orientato alla reintegrazione sociale del reo, ex art. 27, 3° co., Cost.49.
Anche il lavoro dei giudici costituzionali è stato imprescindibile. Infatti, si ricorda che, originariamente, l’impianto dell’art. 204 c.p. disponeva che, talvolta, le misure di sicurezza venissero applicate a coloro che concretamente venissero ritenuti socialmente pericolosi e, tali altre, a coloro che commettessero un secondo crimine entro cinque o dieci anni dalla consumazione di un reato o c.d. «quasi-reato». A ciò aggiungasi che l’art. 207 c.p. fissava una durata minima delle misure di sicurezza detentive e, de relato, l’impossibilità di disporne la cessazione prima che fosse scaduto il termine di espiazione. La decurtazione di queste patenti violazioni del dettato costituzionale viene condotta dapprima dalla Corte con le sentenze 8 luglio 1982, n. 13950 e 15 luglio 1983, n. 24951 e successivamente con l’abrogazione dell’art. 204 c.p. ad opera della l. 10 ottobre 1986, n. 663.
Tuttavia, non sono mancate inversioni di rotta, così come quella segnata dalla sentenza 27 luglio 1982, n.140, con cui la Consulta ribadiva la legittimità delle presunzioni legali di pericolosità, proprio nel campo delle misure di sicurezza detentive, contravvenendo – peraltro – ad uno degli esiti più avanzati della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (cfr. già sentenza 23 ottobre 1979, Winterwerp c. Paesi Bassi).
Paradossalmente, gli illuminanti interventi con cui erano stati espunti irrazionali meccanismi di comminazione ed esecuzione dell’internamento in manicomio criminale, avevano distolto l’attenzione dall’illogicità di fondo del sistema delle misure di sicurezza – cui non supplivano le (sia pur decisive) pronunce della Corte costituzionale nn. 253/200352 e 367/200453 con le quali si profilava l’applicazione teorica del principio dell’extrema ratio nel ricorso alla limitazione della libertà personale del soggetto, riconoscendo al giudice la possibilità di ricorrere a misure di sicurezza non detentive.
Occorre ritornare sulle indicazioni offerte dall’art. 25 Cost. – che si è avuto modo di analizzare in altra sede – la cui statuizione al negativo autorizzerebbe un ricorso del tutto eccezionale alle misure di sicurezze (tutte, a maggior ragione quelle detentive), dimostrando, del resto, una certa diffidenza per gli istituti in parola – come emerge dal dibattito circa il divieto di retroattività54. Peraltro, dell’assoluta prevalenza e pervasività della funzione di controllo (e sicurezza) rispetto alla funzione di cura e reintegrazione delle misure in parola dà conto la stessa giurisprudenza costituzionale, che, quanto alla terminologia, ricorre agli aggettivi “totale” e “segregante” nel riferimento alla misura dell’internamento ex art. 222 c.p. e dei luoghi di esecuzione della stessa, nei quale si assisterebbe ad una esponenziale “entwertung” (depersonalizzazione) del soggetto, posto in uno «statuto d’eccezione rispetto […] ai principi dell’ordinamento democratico»55.
3. Considerazioni finali
Se questo è il sistema dualistico delineato dal codice Rocco, non ci si può esimere dalla trattazione e continua propensione a ciò che il sistema penale dovrebbe essere in uno Stato sociale di diritto – in una continua dialettica «tra essere e valore»56. Difatti, si è affermato in dottrina57 che le misure di sicurezza siano «la più tagliente delle armi» per quanto concerne il vulnus alle garanzie costituzionali, in quanto – nella loro essenza di strumenti di repressione – si pongono agli antipodi della cultura liberale-solidaristica sintetizzata in Costituzione.
Nel diritto penale vi è – secondo la magistrale lezione del Beccaria – l’esigenza di certezza, di nozioni apodittiche, adamantine, palpabili, provabili. Si è disquisito precedentemente di come il diritto penale vigente sia permeato dal concetto di pericolosità in dicotomia con l’idea di colpevolezza e che esse, rispettivamente, assurgano a presupposti del binomio misura di sicurezza-pena.
Si è dimostrato58 come l’esigenza di certezza di cui sopra falsifichi però questi assunti di base, demistificando e delegittimando l’intero sistema dualistico de quibus. Per quanto concerne la colpevolezza, essa è ancorata al dogma del libero arbitrio, che è un concetto empiricamente inaccessibile ovvero accessibile solo «per atto di fede», in quanto non è stata data alcuna dimostrazione accettabile per il diritto penale per la quale l’uomo sia libero. Parimenti, la pericolosità sociale si atteggia a concetto diafano e trascendentale, che poggia su parametri evanescenti sia dal punto di vista delle scienze sociali che delle scienze mediche. Inoltre, i riferimenti normativi della stessa, attraverso il combinato disposto degli articoli 133 c. p. e 203 c.p., rimandano agli stessi parametri cui poggia il giudizio di colpevolezza, sebbene le due si trovino agli antipodi.
Si è visto che, se anche la colpevolezza si fondi su un presupposto accessibile solo per atto di fede (qual è il libero arbitrio, la libertà del volere), in un contesto scevro da implicazioni eticizzanti, dovrebbe essere sostituita dal concetto di responsabilità – peraltro, affermato in Costituzione, all’art. 27, 1° co., Cost. ove si legge che «la responsabilità penale è personale», nel senso di responsabilità per un fatto “proprio”, a sé attribuibile dal punto di vista fisico e psicologico.
Infatti, se si “purificasse” il concetto di colpevolezza, residuerebbe la funzione di assicurare la proporzione con il fatto commesso, poiché il giudice nell’infliggere la sanzione ha come limite la misura della colpevolezza; ma che il giudice non possa andar oltre la proporzione con il fatto è desumibile in primis dall’art. 3 della Cost., ai sensi del quale – secondo il principio di ragionevolezza – deve essere propinato eguale trattamento per l’eguale, diseguale trattamento per il diseguale. Sarebbe, a tal punto, opportuno sostituire tale concetto con la nozione di responsabilità, i cui criteri di valutazione risultano essere la gravità del fatto dal punto di vista dell’offesa al bene giuridico e l’imputazione soggettiva. Sarebbe in tal modo dissacrata la centralità della categoria dell’imputabilità, che diverrebbe uno degli elementi del giudizio di responsabilità, a latere del dolo, della colpa, della dannosità sociale, del tipo di offesa, delle circostanze concomitanti.
Ne deriva59 quindi – avendo coscienza del fatto che elidere l’“invenzione” del doppio binario incida irrimediabilmente anche su settori di parte generale, seppur non oggetto di trattazione – che non abbia ragion d’essere la differenziazione di trattamento tra soggetto imputabile e non imputabile.
In un diritto penale del “fatto” e non dell’”autore” non possono legittimarsi misure di sicurezza provvisorie – in misura diversa da quanto previsto per la custodia cautelare60 – o che superino i limiti della proporzione con il fatto commesso, restando in auge fin quando perduri la pericolosità sociale dell’individuo.
In un diritto penale del fatto, ancorato alla proporzione, l’imputabilità altro non è che una caratteristica della persona. Una persona che può aver commesso un reato, che può essere affetta da una patologia. E la sua patologia psichica, non diversamente da quanto debba accadere per una patologia fisica, non può comportare l’internamento sino all’avvenuta guarigione, ma solo entro i limiti della proporzione del fatto commesso; ovviamente, con le cure del caso.
Lo stesso istituto delle misure di sicurezza andrebbe sradicato dal nostro impianto normativo in favore dell’adozione di una sanzione unificata, che si ancori alla nozione di responsabilità personale per il fatto entro i limiti della proporzione, così come desumibile dall’art. 54 Cost. In tal senso, sovviene l’insegnamento di Claus Roxin per il quale: «la giustizia penale è un male necessario, se essa supera i limiti della necessità resta soltanto il male»61.
In dottrina62 si è evidenziato che in una prospettiva costituzionalmente orientata e quindi in un diritto penale dello “scopo”, andrebbero “finalizzate” tutte le sanzioni – nel rispetto della funzione di prevenzione speciale positiva di cui all’art. 27, 3° co., Cost. – in modo che ciascuna possa inglobare ab origine tempi e modalità per far fronte alla pericolosità sociale63.
Non da ultimo, il concetto di rieducazione di cui all’art. 27, 3° co., Cost. deve essere divelto dal tradizionale significato di emenda morale64 per abbracciarne invece un'interpretazione sistematica65 nel senso di un programma di emancipazione sociale, scientemente accettato dal reo – e non un tentativo coattivo di incidere sulla personalità e sull’identità del singolo, cercando di redimerlo – nell’ovvio rispetto della dignità e dell’autodeterminazione del soggetto.
Da ciò discende che nel caso di rifiuto dell’individuo di sottoposizione al programma di riabilitazione (o, nel caso di soggetti che non ne abbisognino, di un training ad hoc), l’unica risposta sanzionatoria plausibile sarà non quella repressivo-afflittiva ma di non ulteriore desocializzazione – in linea con esigenze di prevenzione generale positiva – in modi e forme differenti ma all’interno della società, in ossequio al principio di solidarietà sociale66.
Una risocializzazione sì intesa richiede processi complessi, enormi competenze e ingenti contributi economici, ma ciò non può gettare un cono d’ombra67 sull’unica soluzione compatibile con i principi di uno Stato sociale di diritto, nel quale la privazione della libertà detentiva dovrebbe realmente rappresentare l’ultima ratio e, quando non sia possibile evitare la pena, ciò dovrebbe presupporre un’adeguata qualificazione professionale degli operatori e una situazione ambientale idonea, sì realizzando solidarietà sul piano assiologico ed effettività sul piano strutturale, attraverso soluzioni differenziate68.
Si richiede, per questo, la creazione di un “inter-luogo”, una cabina di regia, che garantisca costanti contatti tra lo Stato, gli enti locali e il territorio, coinvolgendo anche il Garante nazionale dei diritti delle persone. È proprio sulla riattivazione del contatto con il territorio che occorre spingere per evitare che – così come spiegava Franco Bricola quarant’anni fa – il flettere del custodialismo in Italia sia legato alle prosaiche esigenze di far fronte al sovraffollamento e ai costi di gestione dei detenuti piuttosto che alle più nobili motivazioni – peraltro enunciate in Costituzione – del rispetto della dignità umana69. D’altronde, già nel 1982, il grande penalista fotografava una situazione in cui le «poche comunità di volontari, fragili strutture di servizio, equipe ristrette e prive di mezzi sono le scarne isole che si frappongono tra la famiglia e l’istituzione, per chi voglia distribuire il proprio costo alla collettività». Oggi come allora, ci si richiama ad un effettivo inverarsi dei principi solidaristici e di partecipazione alla vita pubblica – sulla scorta degli artt. 2 e 3 Cost. – sì supplendo alla carenza di aggregazione culturale e di reti di convivenza civile.
L’efficacia della risposta dipende anche da quanto e come sapranno collaborare i responsabili dei servizi psichiatrici e la magistratura, nello sforzo comune di ricercare un’idonea e congrua alternativa alla misura più segregante – superando l’immobilismo che condurrebbe al ricorso alle r.e.m.s. anche quando di esse non vi sia effettivo bisogno, correndo il rischio di un ritorno, sotto mentite spoglie, di quel rapporto sinallagmatico che lega il fabbisogno di posti di internamento presumibilmente necessari e la facilità nel riconoscere e accertare la pericolosità sociale che ne giustificherebbe il ricorso70. Senza contare che, nell’immaginario degli operatori, l’obbligo della «presa in carico» è pervasivo e potrebbe, per questo, giustificare atteggiamenti di ostacolo alla stessa declaratoria di cessazione di pericolosità che – se interpretata in modo costituzionalmente orientato – non potrebbe essere giustificata dalla mancanza di concrete alternative dovute alle lacune del Welfare piuttosto che alla valutazione prognostica dei rischi dell’ordine pubblico, ma soltanto dalle condizioni psichiatriche dell’infermo e, sulla base di queste, coniare ad hoc un trattamento risocializzante71.
Gli operatori c.d. «naturali» (gente ordinaria, sportivi, operai, maestri) sono chiamati ad operare all’interno dei “luoghi di cura” che non sono più luoghi specifici e dedicati ma «i luoghi della normalità, i contesti di vita, le istituzioni sanitarie, sociali, giudiziarie che a tutti i cittadini, per un motivo o per l’altro, può accadere di attraversare nel corso della loro vita. Il carcere è uno di questi luoghi. […] I percorsi di cura, di ripresa, di guarigione oggi devono essere tutti disegnati all’interno di pluralità di strumenti che convergono soprattutto a garantire il diritto, le pari opportunità, il contratto sociale, l’inclusione»72.
Il paradigma cui si dovrebbe propendere, quindi, è quello di una effettiva rete territoriale di servizi di salute mentale che collabori attivamente con le amministrazioni regionali e locali; centri di salute mentali aperti ventiquattro ore; microaree di tutela della salute mentale. Al riguardo, un modello cui poter guardare è quello offerto dall’art. 286 c.p.p. in ossequio al quale, se la persona da sottoporre a custodia cautelare si trovi in stato di infermità di mente che ne escluda o ne diminuisca grandemente la capacità di intendere e di volere, il giudice ne può disporre il ricovero provvisorio in idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero, adottando i necessari provvedimenti per prevenire il pericolo di fuga. O, ancora, secondo le indicazioni della sent. 253/2003, la libertà vigilata terapeutica, conforme al principio di sussidiarietà dell’internamento e adeguata ad incidere positivamente, in chiave emancipante, sulle cause reali della pericolosità sociale del paziente. Ancora più verosimilmente, si potrebbe intervenire – nei confronti di non abbia commesso gravi delitti contro la persona – con il regime della semi-libertà di cui all’art. 48 l. n. 354/1975, sicché – eliminate le limitazioni temporali per esso previste dall’art. 50 della stessa legge – possano gli internati passare la maggior parte del tempo all’esterno delle istituzioni: possano non più essere “internati”, ma “liberi”.
Più in generale – poiché, come affermato, la cura non deve (non può) avvenire in istituzioni ma in luoghi di vita e di relazione – ove nel corso della custodia cautelare, durante l’esecuzione della pena in carcere ovvero agli arresti domiciliari, si manifestasse il bisogno di cure urgenti, queste devono essere apprestate dal Dipartimento di salute mentale del territorio.
L’arma tagliente, il nocciolo duro delle misure di sicurezza – essendo le stesse uno strumento repressivo rivolto, in senso opposto alla cultura liberale e solidaristica, al potenziamento della difesa sociale – è un problema di eguaglianza: di tal guisa, il principio più strettamente penalistico della responsabilità penale ex art. 27, 1° co., Cost., di concerto con la precisa opzione politico-criminale della funzione rieducativa della pena ex art. 27, 3° co., Cost., impongono di prendere in considerazione condotte che ledano interessi considerati meritevoli di tutela da leggi espressive delle Kulturnormen della maggioranza dei consociati. Ed è in funzione della reintegrazione sociale che il giurista – non più interprete mera bouche de la loi – si pone nel rifiuto del sistema dualistico, propendendo all’”utopia” di un sistema certo, proporzionato, ragionevole, costituzionalmente orientato; in una parola: un sistema di diritto.
1. Le norme costituzionali sono il “fondamento” di tutto l’ordinamento giuridico e permeano ogni settore del diritto. Si veda S. MOCCIA, Sistema penale e principi costituzionali: un binomio inscindibile per lo Stato sociale di diritto. Relazione di sintesi, in Riv. it. di dir. e proc. pen., 2018, III, 1720 ss.; Id., Sui principi normativi di riferimento per un sistema penale teleologicamente orientato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1989, III, 1010 ss.; F. MODUGNO, Principi generali dell’ordinamento, in Enc. giur., vol. XXIV, Roma, 1991, 2 ss.; G. PINO, Costituzione come limite, Costituzione come fondamento, Costituzione come assiologia, in Dir. soc., 2017, I, 91 ss.; G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite. Legge diritti giustizia, Torino, 1992, 148 ss.
2. Si fa riferimento ad un concetto di eguaglianza i cui attributi “formale” e “sostanziale” perdono la loro tradizionale connotazione oppositiva, per convivere all’interno di un più generale principio all’interno del quale convivono, reciprocamente influenzandosi, istanze pluraliste e personaliste, dignità sociale e pieno sviluppo della personalità, non discriminazione e rimozione degli ostacoli. Sul punto, v. A. GIORGIS, La costituzionalizzazione dei diritti all’eguaglianza sostanziale, Napoli, 1999, 36 ss.; B. CARAVITA, Oltre l’eguaglianza formale, Padova, 1984, 71 ss.; G. FERRARA, La pari dignità sociale (appunti per una ricostruzione), cit., 1089 ss.; C. ROSSANO, L’eguaglianza giuridica nell’ordinamento costituzionale, Napoli, 1964, 300 ss.; A. D’ALOIA, Storie costituzionali dei diritti sociali, in Aa. Vv., Scritti in onore di Michele Scudiero, Napoli, 2008, 713 ss.
3. La pena identifica il reato, secondo un criterio squisitamente nominalistico, in aderenza al c.d. principio di legalità dei reati e delle pene; le misure di sicurezza vengono applicate a qualsiasi soggetto socialmente pericoloso (art. 203 c.p.) che abbia commesso un reato o un c.d. «quasi-reato» (artt. 49 e 115 c.p.); le misure di prevenzione presuppongono univocamente la pericolosità criminale del soggetto, prescindendo dall’effettiva commissione di un reato – sono per questo chiamate anche misure ante delictum ovvero praeter delictum.
4. Tali comportamenti costituiscono reato solo quando la legge vi associa una pena.
5. Occorre distinguere tra prevenzione rivolta a impedire che il soggetto pericoloso commetta reati (misure di prevenzione ante delictum o praeter delictum ovvero misure di prevenzione) e prevenzione volta ad impedire che il soggetto pericoloso ricommetta reati (misure di prevenzione post delictum ovvero misure di sicurezza). Sul punto, v. F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, 10ª edizione, Padova, 2017, 827.
6. Da Alfredo Rocco, suo principale estensore, guardasigilli del Governo Mussolini. Ancora vigente, sebbene sottoposto a molteplici integrazioni e abrogazioni, è entrato in vigore il 1° Luglio del 1931.
7. G. MARINUCCI, E. DOLCINI, Manuale di diritto penale. Parte generale, 2ª ed., Milano, 2006, 571.
8. La dottrina considera «quasi-reato» il reato impossibile (v. art. 49, 2° co., c.p.) che ricorre quando per l’inidoneità dell’azione (ad es. Caio vuole uccidere Tizio sparandogli con una pistola giocattolo) o per l’inesistenza dell’oggetto materiale del reato (ad es. Caio vuole uccidere Tizio ma spara ad un fantoccio, scambiandolo per la vittima) è impossibile che il soggetto possa causare l’evento dannoso. Parimenti, l’accordo per commettere un reato senza che poi questo venga perpetrato e l’istigazione cui non segua la commissione del reato (v. art. 115 c.p.). Il reato è impossibile quando l’azione del soggetto non offende, lede o mette in pericolo il bene giuridico tutelato e, per tale motivo, non giustifica tutela penale né un’anticipazione della stessa. Sul punto, vi sono visioni dottrinarie discordi. In ossequio ad una concezione realistica del reato (avallata, secondo i suoi sostenitori, dall’art. 49, 2° co., c.p.), autorevole dottrina – su tutti, vedi, I. M. GALLO, Appunti di diritto penale, Torino, 2007, 24 ss.; F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, cit., 208 – considera il reato quale sommatoria tra la corrispondenza al tipo descrittivo (rectius, tipicità) e l’offesa all’interesse protetto dalla norma, indi, considera il reato impossibile un fatto tipico sebbene inoffensivo. Altra parte della dottrina – su tutti, vedi, P. NUVOLONE, Il sistema del diritto penale, Padova, 1982, 419 ss.; G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 487; A. Pagliaro, Principi di diritto penale. Parte generale, Milano, 2003, 229 e 442; M. ROMANO, G. GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, Milano, 2012, 510 ss. – in ossequio ad una concezione formalistica del reato, disquisisce di offensività in termini di elemento del fatto tipico andando a considerare il reato impossibile come fatto atipico. Tale parte di dottrina ritiene che l’art. 49, 2° co., c.p. disciplini un’ipotesi di atipicità, tenuto conto della divergenza tra conformità al modello leale e offesa all’interesse tutelato (evento giuridico) e che da tale difformità discenderebbe la non punibilità dell’agente.
9. Che questi fossero gli intenti della riforma della legislazione penale, «propria del nuovo Regime politico», ispirata ad una filosofia «essenzialmente sociale o collettiva o statuale», è espresso apertis verbis dal Guardasigilli. Nella Relazione, infatti, posto di prim’ordine viene dato alla potestà di punire, all’imperium, alla difesa statuale, che si erge non solo contro attività nemiche ma anche nei rapporti interni con i cittadini. Invero, lo Stato – che «non più si presenta come la somma aritmetica degli individui che lo compongono, bensì come la risultante […] delle classi sociali che lo costituiscono» e in nome di queste classi (chiaramente, le più influenti) agisce – avoca a sé il «diritto di conservazione e di difesa» di sé stesso contro il delitto. In questa concezione statocentrica, in cui l’uomo – parte di un tutto – è sacrificato per gli scopi della collettività, si introducono (recte, si inventano) delle “misure di sicurezza” finalizzate alla difesa della persona dello Stato contro il delitto dei più, poiché la misura della pena sarebbe da sé «insufficiente» e «inidonea». Cfr. Relazione del Guardasigilli al re, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, Roma, 1930, VII, 198, passim.
10. F. M. DE MARTINO, O.p.g.: per una nuova via, in Crit. dir., 2014, 134 ss.
11. Cfr. Corte cost., 14 giugno-22 giugno 1990, n. 307, in Giur. cost., 1990, 1874; Corte cost., 20 giugno-23 giugno, n.258, in Foro it., 1995, I, 1451; Corte cost., 15 aprile-18 aprile 1996, n. 118, in Riv. it. med. leg. e dir. sanit., 1998, II, 342.
12. Per tutti, v. F. BRICOLA, Teoria generale del reato, in Noviss. dig. it., vol. XIV, Torino, 1973, 17.
13. Sebbene i principi siano noti, sembra utile il richiamo ad alcune premesse definitorie. Il principio di determinatezza si riferisce alla struttura della fattispecie e implica che il legislatore – nella redazione della stessa – operi una accurata selezione terminologica, improntata ai canoni di limpidità strutturale e chiarezza strutturale, sicché la norma sia capace di orientare culturalmente i consociati e ridurre gli spazi di “casualità” (recte, discrezionalità) nell’applicazione della norma da parte del giudice, suo interprete per antonomasia. Diversamente, il principio di tassatività – essendo destinato, in particolare al giudice e alla dottrina (cfr. F. BRICOLA, Legalità e crisi: l’art. 25, commi 2° e 3° della Costituzione rivisitato alla fine degli anni 70, in Questione criminale, 1980, 209; S. MOCCIA, La promessa non mantenuta. Ruolo e prospettive del principio di determinatezza/tassatività nel sistema penale italiano, Napoli, 2001, 13) – afferisce al momento dinamico-esegetico di enucleazione della norma, in ossequio al quale si vieta categoricamente al giudice di applicare il procedimento per analogia – inserendosi, creativamente, nel momento genetico di creazione della norma e contravvenendo alle esigenze di certezza del diritto. Seppur tali principi siano indipendenti l’uno dall’altro, sono profondamente collegati. Supplice, sul punto, un esempio di F. BRICOLA, La discrezionalità nel diritto penale, Milano, 1965, 278: nell’ambito delle misure cautelari adottate dagli organi di polizia i confini della fattispecie sono così labili sicché gli organi stessi sarebbero «naturalmente incoraggiati dall’uso dell’arbitrio».
14. Sul punto, cfr. S. MOCCIA, La promessa non mantenuta, cit., passim., che si fonda sulla constatazione che «il principio di determinatezza/tassatività rappresenta l’esempio più evidente» tra «le promesse non mantenute» da parte delle legislazioni penali della modernità e ciò non soltanto a causa di pensieri dottrinali agli antipodi delle concezioni illuministe (quali la Scuola storica, la Freirechtsbewegung, le dottrine sociologiche di Ehrlich e di Gény) ma anche a causa di difetti applicativi da parte di legislazioni che lo proclamavano. L’Autore distingue concettualmente la determinatezza, che indica la precisazione nella formulazione della fattispecie penale, e la tassatività, che limita l’applicazione della legge solo a determinati casi: i due concetti sono, però, strettamente collegati. L’Autore continua la trattazione sottolineando che il principio in analisi dovrebbe trovare puntuale attuazione sia in rapporto alla fattispecie penale e al tipo e alla misura della pena che a livello processuale penale. V. anche M. A. CATTANEO, Certezza del diritto soltanto sulla carta e pericolo totalitario, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, IV, 1354.
15. Circa la sensibile differenza tra discrezionalità e indeterminatezza, v. A. STILE, Il convegno di Napoli sui problemi attuali della discrezionalità del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1975, 1250, per il quale – riprendendo il pensiero di I. M. Gallo – la discrezionalità si innesta su una fattispecie determinata sul piano positivo in tutti gli elementi essenziali ma suscettibile di essere liberamente valutata case by case, sì valorizzando l’uguaglianza sostanziale e la personalità individuale, costituzionalmente mentovate ex artt. 3 e 27 Cost.; diversamente, l’indeterminatezza è indice di disuguaglianza sostanziale poiché la fattispecie, fumosa ed incerta, è passibile di numerosi giudizi e significati in contrasto tra di loro. Circa la nozione di discrezionalità, v. anche F. BRICOLA, La discrezionalità, cit., passim; A. R. LATAGLIATA, Circostanze discrezionali e prescrizione del reato, Napoli, 1967, passim; T. DELOGU, Potere discrezionale del giudice penale e certezza del diritto, in Riv. it. dir. proc. pen., 1976, 369; C. MORTATI, voce Discrezionalità, in Noviss. dig. it., Torino, 1960, vol. V, 1099.
16. Il principio di determinatezza – secondo una chiave di lettura risalente a A. v. FEUERBACH, Revision der Grundsätze und Grundbegriffe des positiven peinlichen Rechts, parte I, Erfurt, 179, 13 ss. – avrebbe la ratio di tutelare la libertà del cittadino da possibili ingerenze da parte del potere giudiziario. Ciò farebbe riferimento alla necessità di incriminare fatti che siano empiricamente verificabili e transitabili nel mondo fenomenologico, altrimenti il soggetto non avrebbe la possibilità di adeguatamente difendersi ove la sua responsabilità fosse fondata su elementi interni, emozionali, intuitivi e casuali.
17. U. FORNARI, Trattato di psichiatria forense (1989), 5ª ed., Torino, 2013, 223.
18. Cfr. M. T. COLLICA, Gli sviluppi delle neuroscienze sul giudizio di imputabilità, in www.archiviodpc.dirittopenaleuomo.org, 20 febbraio 2018, 28 ss.; I. MERZAGORA BETSOS, Il colpevole è il cervello: imputabilità, neuroscienze, libero arbitrio: dalla teorizzazione alla realtà, in Riv. it. med. leg. e dir. sanit., 2011, I, 175 ss.; Id., Colpevoli si nasce? Criminologia, determinismo, neuroscienze, Milano, 2012, 110 ss.; M. RONCO, Sviluppi delle neuroscienze e libertà di volere: un commiato o una risposta, in Diritto penale e neuroetica, a cura di Di Giovine, Padova, 2013, 80 ss.; Id., Proposta di riforma sulle misure di sicurezza personali e sull’imputabilità, in Arch. pen., 2018, I, 83 ss. Per una recente critica agli sviluppi neuroscientifici – considerati problematici e da non prendere per “oro colato – v. C. UMILTÀ, Limits of cognitive Neuroscience (Why it would take a much more neuroscience in order to have a sensible neuro-law), in Riv. fil. dir., 2014, fasc. spec., 14 ss.; L. LOMBARDI VALLAURI, Conclusioni, in Riv. fil. dir., 2014, 151; F. M. IACOVIELLO, Le neuroscienze forensi: un progresso pericoloso, in Giornale italiano di psicologia, 2016, 752; O. DI GIOVINE, Prove di dialogo tra neuroscienze e diritto penale, ivi, 722.
19. Sulla distinzione tra fattori esogeni ed endogeni, v. G. GUARNERI, voce Capacità a delinquere, in Noviss. dig. it., vol. II, Torino, 1958, 867.
20. Cfr., ex multis, Ufficio di sorveglianza di Messina, proc. n. 2909/10 Reg. es. mis. sic., ord. 10 novembre 2011; Ufficio di sorveglianza Santa Maria Capua Vetere, proc. n. 97/2009 R.G.M.S.D., ordinanza 18 gennaio 2012; Ufficio di sorveglianza Santa Maria Capua Vetere, proc. n. 1/2010 R.G.M.S.D., ordinanza 1 marzo 2012.
21. Cfr. F. SCHIAFFO, Psicopatologia della legislazione per il superamento degli OPG: un raccapricciante acting out nella c.d. “Riforma Orlando”, in www.archiviodpc.dirittopenaleuomo.org, 21 giugno 2017, 7: La «pericolosità latente», data la sua natura non verificabile e irrimediabilmente ed esclusivamente ipotetica, si risolve in una sostanziale ma palese elusione dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali stabilito all’art. 111co. 6 Cost., del tutto analoga a quella che, nella originaria disciplina codicistica delle misure di sicurezza, era assolutamente lecita in ragione delle presunzioni di durata e di sussistenza della pericolosità sociale previste, rispettivamente, agli artt. 204 co. 2 e 207 co. 2 e 3, nonché, in riferimento specifico all’infermo totale di mente autore di un fatto di reato, all’art. 222 c.p.
22. A. PUGIOTTO, La giurisprudenza difensiva in materia di Ospedali psichiatrici giudiziari a giudizio della Corte costituzionale, in Giur. cost., 2015, IV, 1432.
23. F. SCHIAFFO, La pericolosità sociale, cit., p. 16. Sul punto, v. anche Id., Le strategie per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari: il d.l. n. 52/2014 e lo sguardo corto dell’interprete, in Crit.dir., 2014, I, 16-25.
24. F. SCHIAFFO, La pericolosità sociale, cit., 27, evidenzia che gli indici esogeni possano assumere rilevanza «esclusivamente per il modo in cui sono stati vissuti dall’autore del fatto di reato». V., invece, P. NUVOLONE, Il sistema del diritto penale, Padova, 1982, 347, per il quale: «Tutti questi elementi hanno una caratteristica funzionale comune: essi tendono a fornire la base per un giudizio sulla personalità del delinquente nel suo complesso, anche al di fuori del singolo episodio criminoso concretamente addebitato. Per quanto attiene alla pericolosità, si tratterà, in particolare, di vedere se, dall’analisi di tali elementi, si evidenzi una serie di qualità nel senso sopra indicato». Cfr. F. TAGLIARINI, voce Pericolosità, in Enc. dir., vol. XXXIII, Milano, 1983, 18, n. 107; G. DODARO, Nuova pericolosità sociale e promozione dei diritti fondamentali della persona malata di mente, in Dir. pen. proc., 2015, V, 611-619.
25. Trib. Messina, ord. 247/2014, dep. 16 luglio 2014, in www.archiviodpc.dirittopenaleuomo.org, con nota di R. Bianchetti, Sollevata questione di legittimità costituzionale in merito ai nuovi criteri di accertamento della pericolosità sociale del seminfermo di mente, 14 novembre 2014.
26. Per posizioni di analisi critica del testo normativo, v. P. DI NICOLA, Prime riflessioni su chiusura Opg, in www.questionegiustizia.it, 9 giugno 2014, 1 ss.; Id., Chiusura degli OPG: un’occasione mancata, cit., 11 ss.; G. L. GATTA, Aprite le porte agli internati!, cit., 4 ss.; F. FIORENTIN, Al vaglio di costituzionalità, cit., 5 ss.; A. MASSARO, Pericolosità sociale, cit., 11 ss.; I. MERZAGORA BETSOS, Pericolosi per come si è: la (auspicata) chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e la (discutibile) pericolosità sociale come intesa dal decreto legge n. 53 del 31 marzo 2014, in Riv. it. med. leg., 2015, I, 362 ss.; C. MAZZUCATO, G. VARRASO, Chiudere… o aprire? Il “superamento” degli OPG tra istanze di riforma e perenni tentazioni di “cambiare tutto per non cambiare niente”, in Riv. it. med. leg. e dir. sanit., 2013, III cit., 922 ss.
27. A. PUGIOTTO, Dalla chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari alla (possibile) eclissi della pena manicomiale, in www.costituzionalismo.it, 2015, II, 8 ss.; Id., L’ergastolo nascosto, cit., 352 ss.; D. PICCIONE, Libertà dall’Ospedale, cit., 6 ss.; F. SCHIAFFO, Pericolosità sociale, cit., 14 ss.
28. Cfr. E. PORCEDDU, Accertamento della pericolosità sociale dell’infermo e del seminfermo di mente, ai fini dell’applicazione della misura di sicurezza personale detentiva all’esame della Corte costituzionale, in Cass. pen., 2015, XI, 4028 ss.
29. F. SCHIAFFO, La pericolosità sociale, cit., 26 ss.
30. Così, M. PELISSERO, Ospedali psichiatrici giudiziari in proroga e prove maldestre di riforma della disciplina delle misure di sicurezza, in Dir. pen. proc., 2014, VIII, 925, in riferimento ad una citazione di U. FORNARI, Le neuroscienze forensi: una nuova forma di neopositivismo, in Cass. pen., 2012, VII-VIII, 2727.
31. Cfr. Aa. Vv., L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico (1968), a cura di Basaglia, Milano, 2014, p. 4, dove Basaglia scrive: «Non è che noi prescindiamo dalla malattia, ma riteniamo che per avere un rapporto con un individuo, sia necessario impostarlo indipendentemente da quello che può essere l’etichetta che lo definisce… Per questo è necessario avvicinarsi a lui mettendo tra parentesi la malattia perché la definizione della sindrome ha assunto ormai il peso di un giudizio di valore, di un etichettamento che va oltre il significato reale della malattia stessa. La diagnosi ha il valore di un giudizio discriminante, senza che con ciò si neghi che il malato sia in qualche modo malato. Questo è il senso della nostra messa tra parentesi della malattia, che è messa tra parentesi della definizione e dell’etichettamento. Ciò che importa è prendere coscienza di ciò che è questo individuo per me, quale è la realtà sociale in cui vive, qual è il suo rapporto con la realtà. Sul punto, v. anche F. BASAGLIA ONGARO, Rovesciamento istituzionale e finalità comune, in L’istituzione negata, cit., 327; A. PIRELLA, La negazione dell’Ospedale Psichiatrico tradizionale, in L’istituzione negata, cit., 206: «Il malato di mente è stato per molti anni, ed è tuttora, colui che si può opprimere brutalmente, il cittadino privato dei suoi diritti. È colui che può essere privato della sua libertà personale, delle sue cose, dei suoi rapporti a tempo indeterminato, e che domanda con pena: ‘che cosa ho fatto di male?’. È colui che ha infranto una norma. È un ‘deviante’. La psichiatria si è sbizzarrita per anni a costruirgli intorno un castello di criteri ed etichette, e si è, a sua volta, costituita come norma
32. V. A. PIRELLA, Salute mentale e poteri del mercato. Il dominio della psicofarmacologia e le sue contraddizioni, in www.nopazzia.it; Id., La negazione dell’Ospedale Psichiatrico tradizionale, cit., 213;
33. Corte cost., 24 giugno-23 luglio 2015, n. 186, in www.cortecostituzionale.it.
34. In tal senso, F. SCHIAFFO, La pericolosità sociale, cit., 24.
35. Cfr. G. BALBI, Infermità di mente e pericolosità sociale, cit., 7-9.
36. Cfr. Corte. Cost., 5 aprile-23 aprile 1974, n. 110, in www.giurcost.org, che ha stabilito che il limite minimo di durata delle misure di sicurezza non fosse di carattere tassativo e che fosse, pertanto, possibile un riesame anticipato della pericolosità del soggetto e, eventualmente, in caso di esito positivo, una revoca immediata della misura di sicurezza.
37. Ad opera dell’art. 31 della legge 10 ottobre 1986, n. 663. Sul punto, v. S. Manacorda, Applicazione ed esecuzione, cit., 36 ss.
38. F. M. DE MARTINO, La (mancata) riforma Orlando in tema di misure di sicurezza: non tutti i mali vengono per nuocere, in Arch. pen., 2019, I, 1 ss.; G. SPANGHER, La riforma Orlando della giustizia penale: prime riflessioni, in Dir. pen. cont., Riv. trim., 2016, I, 88 ss.
39. Cfr. l’analisi critica di F. PALAZZO, La riforma penale alza il tiro? Considerazioni sul disegno di legge A. S. 2067 e connessi, in www.archiviodpc.dirittopenaleuomo.org, 30 maggio 2016, cit., 5.
40. Sul punto, v. O. MAZZA, La rivisitazione delle misure di sicurezza, in Aa. Vv., Commento alla legge 23 giugno 2017, n. 103, a cura di Scalfati, Torino, 2017, 268.
41. Sulla questione circa la determinazione dei principi e dei criteri direttivi e, de relato, la sufficiente valutazione di essi, con particolare riferimento alla vincolatività degli stessi criteri, profili che possono costituire oggetto del sindacato di legittimità costituzionale sulla legge di delega, cfr. L. PALADIN, Sub art. 76, in Commentario della Costituzione. La formazione delle leggi, tomo II, a cura di Branca e Pizzorusso, Bologna, ed. Foro it., Roma, 1979, 16 ss.; A. CERVATI, voce Legge di delegazione e legge delegata, in Enc. dir., vol. XXIII, Milano, 1973, 949 ss.
42. Cfr. F. MAZZA, La rivisitazione delle misure di sicurezza, in Aa. Vv., La riforma della giustizia penale. Commento alla legge 23 giugno 2017, n. 103, a cura di Scalfati, Torino, 2017, 267 ss. Sul punto, v. N. MACCABIANI, La legge delegata: vincoli costituzionali e discrezionalità del Governo, Milano, 2006, 135 ss.
43. Va parimenti rilevato che gli artt. 88 e 89 c.p. si riferiscono genericamente al concetto di “infermità” e non di “infermità mentale”. Sono, in particolare, oggetto di discussione quelle situazioni di anormalità psichica discendenti da malattie fisiche transitorie. Sul punto, v. M. G. GALLISAI PILO, Sub art. 88, in Commentario al codice penale, tomo I, a cura di Marini, La Monica e Mazza, Torino, 2002, 712-713; per gli orientamenti giurisprudenziali L. FIORAVANTI, Le infermità psichiche nella giurisprudenza penale, Padova, 1988, 88 ss.
44. Ciò premesso, si rileva che una ridefinizione della nozione di “infermità” (da intendersi in relazione all’infermità psichica) impone di prevedere delle clausole ampie che diano conto delle pronunce giurisprudenziali (cfr. sentenza Raso), in conformità agli approdi scientifici, dell’inclusione dei “disturbi della personalità” all’interno dell’infermità stessa. Risulta, in tal modo, superato il riferimento al presupposto organistico – avallato da una vetusta psichiatria nosografica, intenta a sostenere che l’infermità di mente consistesse in una lesione organica del sistema nervoso centrale – a favore di un concetto di “malattia mentale” acquisita in base ad un modello integrato e multifattoriale, su sfondo psico-bio-sociologico, di causalità circolare. Come noto, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno ritenuto che il concetto di “infermità di mente” dovesse essere inteso in modo lato sì da ricomprendere anche i disturbi, pur se atipici, della personalità. Ciò non ha chiarito ma anzi ha reso ancor più nebuloso il concetto di cui discute, se sol si tenga conto che il disturbo della personalità costituisca un paradigma scientifico eccessivamente incerto, sicché nel DSM-5 (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) viene definito come «un modello di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente dalle aspettative relative alla cultura dell’individuo». Tale formula ha reso, peraltro, ancor più problematica l’individuazione dei disturbi mentali (dalla mentovata Cassazione ricondotti a «disarmonie dell’apparato psichico in cui le fantasie inconsce raggiungono un tale potere che la realtà psicologica diventa, per il soggetto, più significante della realtà esterna, e, quando questa realtà esterna inconscia prevale sul mondo reale, si manifesta la malattia mentale») tali da poter acquisire rilevanza penale ai fini dell’inquadramento nel concetto di infermità di mente, ovverosia tali da aver inciso in maniera “altamente significativa” (espressione parimenti ambigua) sui meccanismi volitivi ed intellettivi del soggetto al momento della commissione del fatto e, quindi, della capacità di intendere e di volere. In un quadro così irresoluto il timore è che criteri sì equivoci, in uno con l’estemporaneità della pericolosità, possano avallare nella prassi l’applicazione di misure di sicurezza e lunghe restrizioni della libertà personale del soggetto. Cfr. G. BALBI, Infermità di mente e imputabilità, in Riv. it. dir. proc. pen., 1991, III, 844 ss.
45. Invero, tali strutture si troverebbero ad ospitare – oltre ai soggetti sottoposti a misura di sicurezza provvisoria o definitiva – gli imputati e i condannati la cui infermità psichica sia sopravvenuta al compimento del reato ex art. 148 c.p. e tutti coloro che si trovano nelle sezioni speciali c.d. “articolazioni” previste dagli artt. 111, 5° e 7° co., e 112 del “Regolamento sull’ordinamento penitenziario e le misure privative e limitative della libertà” di cui al d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, quindi sottoposti al regime dell’art. 65 ord. penit. Orbene, il sistematico ricovero nelle r.e.m.s. dei detenuti affetti da disturbi psichici ne determinerebbe il sovraffollamento – così tradendo l’istanza riformistica della l. n. 81/2014, che prevedeva un modello di intervento integrato e graduale secondo il principio dell’extrema ratio, per il quale le misure di sicurezza detentive sarebbero state inflitte soltanto nei casi più gravi, privilegiando l’applicazione di misure di sicurezza non detentive ovvero della presa in carico dell’internato da parte del Dsm; senza contare che la scarsa capienza dei posti disponibili all’interno di ciascuna struttura collide con l’ampio bacino dei soggetti destinatari descritto dalla disposizione legislativa summentovata, sì demistificando la portata di una possibile soluzione conforme alla necessità di tutela della salute mentale «in modo da eliminare ogni forma di discriminazione e di segregazione», conformemente a quanto previsto dall’art. 2, 2° co., lett. g), della l. n. 833/1978.
46. F. M. DE MARTINO, La (mancata) riforma Orlando, cit., 3 ss.
47. Cfr. l’analisi di D. PICCIONE, Politica delle libertà costituzionali, cit., 1 ss.
48. C. ESPOSITO, Le pene fisse e i principi di eguaglianza, personalità e rieducatività delle pene, in Giur. cost., 1963, 661 ss. Per un approccio sistemico che non trascuri ciascun apporto, ma che non incorra in eccessive specializzazioni né si limiti a una mera aggregazione delle varie componenti, cfr. le considerazioni di D. A. DE’ ROSSI, L’universo della detenzione, Milano, 2011, 17.
49. Cfr. S. MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, Napoli, 1992, passim; F. BRICOLA, Rapporti tra dommatica e politica criminale, in Id., Politica criminale e scienza del diritto penale, Bologna, 1997, 243, n. 54.
50. Corte cost., 8 luglio-27 luglio 1982, n. 139, in Cass. pen., 1982, XI, 1699.
51. Corte cost., 15 luglio-28 luglio 1983, n. 249, in Riv. it. dir. proc. pen., 1984, I, 460.
52. Corte cost., 2 luglio-18 luglio 2003, n. 253, in www.cortecostituzionale.it. Sul punto, v. A. FAMIGLIETTI, Verso il superamento della pena manicomiale, in Giur. cost., 2003, IV, 2109 ss.
53. Corte cost., 17 novembre-29 novembre 2004, n. 367, punto 4 cons. dir., in www.cortecostituzionale.it. Sul punto, v. F. DELLA CASA, La Corte costituzionale corregge l’automatismo del ricovero provvisorio nella struttura manicomiale promuovendo la libertà vigilata al rango di alternativa, in Giur. cost., 2004, VI, 3993 ss.
54. D. PICCIONE, Politica delle libertà costituzionali, cit., 12 ss. Sul tema, v. C. ESPOSITO, Irretroattività, cit., 101: «dalla proclamazione della Costituzione e dalla volontà di portarla alle logiche ed ultime conseguenze, il legislatore dovrebbe trarre incentivo ad innovare molte disposizioni del nostro diritto, escludendo che gli imputabili, in seguito all’accertamento dei loro delitti, possano essere sottoposti a misure di sicurezza oltre che a pene». Sul tema della irretroattività delle misure di sicurezza, cfr. N. D’ASCOLA, Un codice non soltanto antimafia. Prove generali di trasformazione del sistema penale, in Le misure di prevenzione, a cura di Furfaro, Milanofiori Assago, 2013, 53 ss.
55. M. G. GIANICHEDDA, Introduzione, in F. BASAGLIA, L’utopia della realtà, cit., IX.
56. S. MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore, cit., passim.
57. F. M. DE MARTINO, La (mancata) riforma Orlando, cit., 10.
58. S. MOCCIA Da Kant al binario unico, in Riv. it. di dir. e proc. pen., 2019, I, 533.
59. Ibid.
60. Sul punto, v. F. M. DE MARTINO, Contributo al dibattito sulle misure di sicurezza detentive. I problemi legati all’applicazione provvisoria, in Politica criminale e cultura giuspenalistica. Scritti in onore di Sergio Moccia, a cura di Cavaliere, Longobardo, Masarone, Schiaffo, Sessa, Napoli, 2017, 575 ss.
61. C. ROXIN, Fragwürdige Tendenzen in der Strafrechtsreform, in Radius, 1966, III, 37.
62. F. M. DE MARTINO, La (mancata) riforma, cit., 14.
63. Si ricorda, sul punto, S. MOCCIA, Riflessioni intorno al sistema sanzionatorio e propositi di riforma, in www.legislazionepenale.eu, 9 settembre 2016, 1: «Mezzi e scopi vanno dedotti, innanzitutto, dalla Legge fondamentale, dove sono precisati i valori che, divenuti principi giuridici, danno vita ai parametri in base ai quali ogni altro diritto dev’essere misurato».
64. Sul punto, v. C. FIORE, S. FIORE, Diritto penale. Parte generale, cit., 9-10: «Il diritto penale […] mira non già ad ottenere l’adeguamento della condotta individuale ad un astratto imperativo morale, bensì a disciplinare e indirizzare l’agire umano nella sfera sociale. […] Compito precipuo dell’ordinamento penale non è quello di formare, o rafforzare, la coscienza morale del singolo, ma quello di contribuire a una regolamentazione della vita sociale».
65. S. Moccia, Sistema penale e principi costituzionali, cit., 1720.
66. F. M. DE MARTINO, La (mancata) riforma, cit., 14.
67. A ciò ha sovente contribuito l’atteggiamento del Giudice delle Leggi che nel timore dell’horror vacui si è astenuto dall’abrogare integrali settori del diritto penale circa la problematica in analisi (si pensi alle categorie della pericolosità sociale generica e specifica e all’istituto della recidiva), di alcuni esponenti della dottrina penale italiana che hanno propugnato una reviviscenza della funzione retributiva in chiave di difesa sociale (si veda M. RONCO, Il problema della pena. Alcuni profili relativi allo sviluppo sulla riflessione della pena, Torino, 1996, 174 ss.; F. VIGANÒ, La neutralizzazione del delinquente pericoloso, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, IV, 1334 ss.), della prassi della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ha ribadito l’obbligo dello Stato di prevenire aggressioni a beni giuridici intangibili – come il diritto alla vita – da parte di soggetti considerati socialmente pericolosi (si rinvia a A. COLELLA, La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010: il diritto alla vita (art. 2 CEDU), in Dir. pen. cont., 2011, 210, ove si cita la pronuncia della Corte EDU, sent. 15 dicembre 2009, Maiorano e altri c. Italia, in cui si sanziona lo Stato italiano per non aver tutelato in modo sufficiente due vittime che sono state uccise da un famoso ergastolano cui – secondo la Corte – era stato erroneamente concesso un regime di semilibertà da parte del Tribunale di sorveglianza, nonostante vi fossero gli estremi di pericolosità sociale). Sul punto, v. anche A. DI MAIO, La tentata valorizzazione costituzionale delle misure di sicurezza personali, tra ambigue svolte legislative e lo spettro della pericolosità sociale, cit., 423-424.
68. Sul punto, v. S. MOCCIA, Riflessioni intorno al sistema sanzionatorio e propositi di riforma, cit., 5 ss.
69. F. BRICOLA, Crisi del Welfare e sistema carcerario, in Pol. dir., 1982, I, 181.
70. Infatti, mentre l’offerta carceraria è rigida e non influisce sulla domanda di accoglienza carceraria, le misure di sicurezza – in quanto fondate sulla pericolosità – entrano in un rapporto biunivoco rispetto alle strutture di esecuzione delle stesse. In tal senso, una limitata capienza delle stesse e stretti limiti di durata, retroagirebbero in maniera incisiva sulla magistratura giudicante e di sorveglianza. Cfr. T. PADOVANI, Introduzione al V Ginnasio di penalisti. Libertà dal carcere, libertà nel carcere. Affermazione e tradimento della legalità nella restrizione della libertà personale (Pisa, 9-10 Novembre 2012), Torino, 2013, 2.
71. Cfr. D. PICCIONE, Politica delle libertà costituzionali, cit., 5174.
72. P. DELL'ACQUA, Abbandonare quei luoghi, abitare le soglie, in Riv. it. med. leg. e dir. sanit., 2013, III, 1363 ss.