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Pubbl. Gio, 21 Gen 2021

Neuroscienze ed imputabilità: il ruolo chiave del cervello

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Mariangela Miceli
AvvocatoUniversità degli Studi di Palermo



Il presente contributo trae spunto dalla sentenza del Tribunale di Trapani, Sez. GIP, n.56 del 17 giugno 2020, depositata 12 ottobre 2020. Si tratterà in particolar modo dell’accertamento dell’imputabilità del reo. Le più recenti indagini sul funzionamento del cervello umano, infatti, illustrano che laddove ci siano correlazioni tra disfunzioni orbitofrontali e condotte aggressive, queste sembrano offrire nuova linfa alle teorie sulla base biologica del comportamento criminale.


ENG This contribution is inspired by a sentence made by the GIP of the Court of Trapani. It will deal in particular with the ascertainment of the imputability of the offender. The most recent investigations on the functioning of the human brain, in fact, illustrate that where there are correlations between orbitofrontal dysfunctions and aggressive behaviors, these seem to offer new life to the theories on the biological basis of criminal behavior.

Sommario: 1. Responsabilità penale e libero arbitrio; 2. Lo scostamento delle verità scientifiche e quasi scientifiche delle neuroscienze e le convenzioni del sistema giuridico-giudiziario; 3. La perdurante validità delle indicazioni offerte dalla pronuncia Raso delle Sezioni unite; 4. La futura revisione del modello definitorio dell’infermità mentale; 5. Riflessi costituzionali; 6. Conclusioni

1. Responsabilità penale e libero arbitrio

L’art. 85 del codice penale individua i presupposti dell’imputabilità nella “capacità di intendere e di volere”, tale duplica capacità deve sussistere al momento della commissione del fatto che costituisce reato.

Tale ultima affermazione ha un’importanza di non poco conto, poiché, il concetto di capacità di intendere e volere è comprensivo di entrambe, per cui se manca anche solo una delle predette capacità, l’imputabilità difetta, ovvero, tale capacità manca, pur in assenza di una vera e propria malattia mentale, in tutte “le ipotesi – limite di sviluppo intellettivo ritardato o deficitario da precludere al soggetto il potere di orientarsi nel rapporto con il mondo esterno”[1].

I caratteri generali dell’accertamento della capacità d’intendere e volere vengono generalmente indicati nella c.d. divisibilità della imputabilità e nella sua contestualità rispetto al fatto commesso, per cui la prima domanda che il giudice deve porsi prima di giudicare un suo simile, è se costui al momento in cui realizzò la condotta per la quale viene giudicato era capace d'intendere e di volere.

Presupposto indispensabile, quindi, per sottoporre un soggetto ad una sanzione penale, qualora lo si ritenga autore di un determinato fatto-reato, è che si accerti che, nel decidere di porre in essere la condotta che ha integrato il fatto-reato, il soggetto si sia determinato in tal senso in maniera libera ed autonoma.

Invero, il problema del libero arbitrio costituisce uno dei parametri fondamentali alla luce del quale concepire e valutare il concetto d'imputabilità e più in generale di colpevolezza in diritto penale.

Proprio a partire dalla seconda metà del XIX secolo si sono manifestate nella disciplina penalistica diverse scuole di pensiero. La Scuola Classica presupponendo che il libero arbitrio del singolo giustifica la sanzione penale, argomenta che in tanto ha un senso infliggere una sanzione penale in quanto il soggetto che ha posto in essere quella determinata condotta era nelle condizioni di tenere un comportamento diverso (quello lecito).

 A questa concezione si oppose la Scuola Positiva che sulla base delle acquisizioni delle nuove scienze - biologia, psicanalisi, sociologia - tendeva ad escludere il libero arbitrio, ritenendo che in verità il comportamento del soggetto è un comportamento non libero, bensì determinato.

Da lì discende anche una diversa funzione della sanzione penale, funzione che a parere di detta Scuola non deve essere tanto quella retributiva come sostenuto dalla Scuola Classica, bensì quella preventiva, ovvero occorre concepire la pena come uno ‘strumento’ idoneo a modificare le motivazioni che hanno indotto il soggetto a delinquere in modo tale da evitare che in futuro lo stesso possa reiterare la condotta illecita[2].

Nel tentativo di mediare tra queste due concezioni estreme si affermò progressivamente prima la c.d. Terza Scuola, e successivamente la Scuola della Nuova difesa sociale. Tali Scuole pur riconoscendo il fondamento del libero arbitrio del singolo, al contempo ritengono tuttavia che in tale libertà di determinazione il singolo sia fortemente condizionato da fattori interni ed esterni, tanto che la funzione della pena deve essere al contempo retributiva e preventiva: il c.d. sistema del doppio binario.

Tornando alla questione tra libero arbitrio e determinismo, si argomenta che se l'uomo non fosse libero nelle sue scelte, se non fosse libero di scegliere tra il bene ed il male, non avrebbero alcun senso i concetti di merito e di colpa, strettamente connessi con il concetto di bene e di male, e quindi a ben vedere non avrebbe senso la stessa distinzione tra bene e male.

Ma se così è, in cosa allora la concezione deterministica si pone in netto contrasto ed antitesi con il libero arbitrio? Invero, il nostro agire altro non è se non il frutto di una scelta derivante a sua volta da una serie di condizionamenti alcuni innati (quali i fattori biologici, i geni, e psicologici) e altri via via acquisiti durante la storia individuale di ciascuno di noi (quali i fattori ambientali, sociali, e più in generale tutte le esperienze vissute che concorrono a formare il carattere e la personalità di ciascuno). Conseguentemente affermare che ciascuna nostra scelta è determinata da questi fattori, alcuni innati ed altri acquisiti nel corso della vita, finisce col significare che ogni singola scelta ci appartiene interamente.

 Tali considerazioni hanno delle ripercussioni anche per quanto concerne alcune tematiche di carattere prettamente giuridico, quali il modo di concepire la determinazione e l’entità della pena da infliggere al reo, nonché, l'essenza della capacità d'intendere e di volere così come prevista dall'art. 85 c.p.

Orbene, richiamando il sopracitato art. 85 c.p., è bene precisare che il carattere della divisibilità tra capacità di intendere e quella di volere deve essere valutato in concreto dal giudice con l’imprescindibile contributo tecnico del perito.

Infatti, non solo possono esistere situazioni così gravi da compromettere e condizionare negativamente l’intera sfera psico – affettiva e conoscitiva del soggetto, ma nulla esclude che infermità più limitate possano incidere sulla capacità del soggetto.

Lo stesso articolo 85 c.p. esclude la punibilità qualora “al momento in cui lo ha commesso” il soggetto non era imputabile, dall’altro lato però il codice prevede numerosi casi di responsabilità nonostante la mancanza di imputabilità, cioè nelle ipotesi di actio libera in causa.

Le due disposizioni non sono in contraddizione, poiché, l’imputabilità non è richiesta dall’ordinamento in sé per sé ma in relazione alla consapevolezza.

Così, se un soggetto si ubriaca proprio al fine di poter meglio porre in essere il proprio istinto, rileva un momento anteriore di pre-consapevolezza a quello materiale della condotta, manifestando una capacità di motivarsi diversamente rispetto al fatto commesso.

Se così è, ciò che rileva ai fini delle specifiche problematiche giuridiche sopra richiamate, è per l'appunto essenzialmente la dimensione dell'individualità. Ed infatti per quanto concerne la capacità d'intendere e di volere, le cause che rilevano a tal fine sono costituite, come è noto, dalla minore età e dalle situazioni patologiche espressamente previste dal codice.

Analogamente per quanto concerne le situazioni patologiche, esse rilevano, devono rilevare, solamente nella misura in cui si reputa che la patologia che affligge il soggetto agente è tale da intaccare l'essenza stessa della dimensione dell'individualità.

La controprova della riferibilità della singola condotta all'individualità del singolo agente, la si ricava a contrario, dalla considerazione che diversa sarebbe stata - o comunque avrebbe potuto essere - la condotta di un altro soggetto nelle medesime circostanze[3].

In merito alla concezione di imputabilità e il rapporto con il principio di colpevolezza, secondo l’interpretazione attualmente prevalente, l’imputabilità dovrebbe essere definita come capacità di colpevolezza, poiché se quest’ultima viene intesa in senso normativo ossia come rimproverabilità, la colpevolezza presupporrebbe la capacità di intendere e di volere. Invero, il concetto di colpevolezza in senso normativo si comprende in chiave di rimproverabilità se il soggetto è in grado di intendere e di volere, poiché solo in quel caso la sua volontà si può determinare in maniera consapevole in relazione alle norme giuridiche. Al contrario, aderendo alla concezione psicologica della colpevolezza, si può ritenere come logica conseguenza che imputabilità e colpevolezza siano tra loro indipendenti e che quindi si possa configurare in capo al soggetto incapace di intendere e di volere l’elemento psicologico del dolo o della colpa. Infatti, secondo questa concezione la colpevolezza sarebbe concepibile senza imputabilità.

Altro profilo interessante è il rapporto tra imputabilità e reato, ovvero, se il venir meno dell’imputabilità determini o meno la caducazione del reato. Per chi considera l’imputabilità un requisito essenziale per la sussistenza del reato, una volta venuta meno l’imputabilità, non esisterebbe neanche il reato.

Per altra interpretazione, l’imputabilità sarebbe un mero presupposto per l’assoggettamento a pena, di conseguenza il venir meno dell’imputabilità comporterebbe unicamente una causa di esenzione da pena.

2. Lo scostamento delle verità scientifiche e quasi scientifiche delle neuroscienze e le convenzioni del sistema giuridico-giudiziario

La sentenza in commento rileva per un aspetto particolarmente interessante. Si legge, infatti, che  “presenza di un disturbo di personalità non specificato con conseguente piena capacità di intendere e di volere” ed ancora, “in particolare i periti hanno focalizzato la loro attenzione sulla complessiva condizione psicologica dello XXX per poi individuare l’eventuale esistenza di un nesso causale tra il disturbo della personalità riscontrato ed i fatti oggetto di giudizio addivenendo a conclusioni dettagliatamente motivate che, seppur non condivisibili nel merito delle conseguenze in tema di imputabilità, trovano sicuro fondamento in una teoria scientifica correttamente  e dettagliatamente esposta”.

Tali affermazioni non sono scevre da riflessioni poiché, se da un lato il sistema giuridico-giudiziario ha sempre utilizzato soprattutto le verità non scientifiche basate sulle convenzioni del diritto, il c.d libero arbitrio, appare oggi più incerto grazie al progresso delle neuroscienze.

Non si tratta tanto di immaginare i processi mentali governati dal principio di causalità lineare, valido in altri ordini di fenomeni, quanto, piuttosto, da quello di causalità circolare, tipico dei sistemi molto complessi, tra i quali bisogna annoverare quelli odierni. Un principio estremamente problematico, com’è ovvio, e tuttavia essenzialmente diverso da ciò che tradizionalmente definiamo libertà[4].

Orbene, sul punto si tratta della conoscenza comune che vi debba essere infermità o seminfermità mentale, limitando questa definizione alle malattie mentali per le quali sussistano reperti clinici. Ciò non è scientificamente fondato, perché possono darsi fortissimi restringimenti del campo di coscienza e perdita di autocontrollo, tali da eclissare la capacità di intendere e volere in condizioni di disturbi mentali funzionali, perfino soltanto nevrotici, soprattutto nei minori o in individui debilitati da malattie fisiche, oppure da esperienze traumatizzanti, od in condizioni, per varie ragioni, di totale soggezione mentale.

Appare evidente che vi sia un divario notevole tra quello che è il sistema penale - giudiziario e quella che sia la verità della scienza.

In primo luogo, deve evidenziarsi che non si possono trattare le verità scientifiche ed ancor più quelle quasi scientifiche come verità assolute. Anch'esse, in misura variabile, sono soggette a mutare col progresso della conoscenza, inoltre, appare evidente che l’applicazione di verità scientifiche sia sempre possibile e neppure sempre utile. Per il problema di cui qui si tratta, è certo impossibile, ne deriverebbe un pregiudizio gravissimo per l’ordine sociale e per lo stesso sistema penale.

Peraltro, può certo essere scientificamente fondato abolire nella prassi giudiziaria penale, ad esempio relativa ai minori, la maturità oppure aggiornare in modo più conforme alle verità scientifiche e quasi scientifiche la convenzione che riguarda i requisiti per la non imputabilità, compreso il limite di età.

Ma se, da un lato appare anche impossibile, per evidenti ragioni pratiche, rinunciare a fissare i criteri del libero arbitrio una volta per tutte, dall’altro anche l’aggiornamento dei requisiti per la non imputabilità non può ispirarsi integralmente alle verità scientifiche e quasi scientifiche. Se appare ragionevole riconoscere come potenzialmente limitativi della capacità di intendere e volere i gravi disturbi mentali soltanto funzionali, non lo è affatto anche per quelli nevrotici, o per le gravissime carenze educative.

Questi ultimi, per essere assai più difficilmente valutabili dei primi rispetto alle conseguenze sull’adattamento sociale in generale, nei procedimenti giudiziari, anche quando la loro entità non lo giustifica, possono essere strumentalizzati con relativa facilità per la non imputabilità. Infatti, poiché il nostro ordinamento giudiziario è fondato sulla verità processuale, troppo facilmente e troppo spesso, risulta diversa dalla realtà effettiva, considerare sufficienti, a meno che non si tratti di minori, gravissime carenze educative o gravi disturbi nevrotici per la non imputabilità implicherebbe una “patente di impunità”[5].

3. La perdurante validità della Sentenza Raso

Una delle pronunce più rappresentative dell’elaborazione giurisprudenziale è rappresentata dalla Sentenza Raso.

La remissione al Supremo Consesso si rendeva necessaria, poiché si era rilevato come nella giurisprudenza di legittimità fosse da tempo insorto un contrasto interpretativo in materia di vizio parziale o totale di mente.

Appare utile evidenziare, infatti, che secondo un risalente, ma tuttora maggioritario indirizzo giurisprudenziale, le anomalie incidenti sulla capacità di intendere e di volere fossero esclusivamente le malattie mentali in senso stretto, nonché, le psicosi acute o croniche[6].

Altro indirizzo minoritario, invece, riteneva che ai fini dell'incapacità di intendere e di volere dovessero essere prese in considerazione anche le nevrosi e le psicopatie, qualora esse si manifestassero con un elevato grado di intensità[7].

A tal proposito uno dei punti centrali della sentenza Raso è rappresentato “l'“infermità mentale” trascende l'ambito della “malattia mentale”[8].

La pronuncia in particolar modo evidenziò come accanto all’indirizzo medico dovesse considerarsi anche un criterio giuridico di imputabilità, tal per cui si potesse ampliare il di infermità e, quindi, di imputabilità, che eccedesse il semplice confine della malattia psichiatrica.

Le Sezioni Unite hanno rilevato come l’impostazione accolta dal codice di rito fosse di “normazione sintetica” per cui il legislatore volontariamente ha “a definire in termini descrittivi tutti i parametri della fattispecie” delineando in tal modo cosa debba intendersi per imputabilità, ma ha fatto riferimento ad una realtà extragiuridica, il cui accertamento “spetta pur sempre oggi all'interprete, che deve individuarla alla stregua delle attuali acquisizioni medico-scientifiche al riguardo, non potendo quindi ritenersi cristallizzato... un precedente parametro extragiuridico di riferimento ove lo stesso sia superato ed affrancato”.

In altre parole, le S.U. hanno affermato che anche i disturbi della personalità appaiono idonei ad escludere o a scemare grandemente la capacità di intendere o di volere imponendo così all’interprete di tener conto dei mutamenti nella materia in esame, dai quali vanno ricavati i riferimenti extra-normativi[9].

Su tale punto, la Cassazione ha delineato – come già evidenziato nei primi commenti della sentenza Raso – “un modello su due piani del giudizio di imputabilità”[10], sempre autorevole dottrina ha evidenziato come nel giudizio debba in primo luogo farsi riscontro di “un'indagine attenta alla reale incidenza del disturbo diagnosticato sulla capacità di intendere o di volere ma non in via generale ed astratta bensì in termini strettamente relazionali e cioè con specifico riferimento al rapporto che lega il disturbo alla condotta criminosa (secondo piano del giudizio)”[11].

Su tale ultimo punto, però, altra parte della dottrina ebbe modo di criticarne l’approccio, rilevando che in tal senso si tratterebbe di una imputabilità “individualizzata”[12] che non parte dalla ricerca della classificazione del disturbo, ma che invece prenda in considerazione l'idoneità, il grado del disturbo e i suoi effetti su un determinato soggetto.

Invero, la Corte ha dato lustro ad un principio determinante, secondo il quale deve trattarsi di “un disturbo idoneo a determinare (e che abbia in effetti determinato) una situazione di assetto psichico incontrollabile ed ingestibile (totalmente o in grave misura), che, incolpevolmente, rende l'agente incapace di esercitare il dovuto controllo dei propri atti, e conseguentemente indirizzarli, di percepire il disvalore sociale del fatto, di autonomamente, liberamente autodeterminarsi”.

Pertanto, ai fini dell’accertamento della capacità di intendere e di volere, ai sensi e per gli effetti dell’art. 85 c.p., occorre, inoltre, sempre valutare la reale incidenza che ha avuto il disturbo psichico sul fatto delittuoso, dovendosi necessariamente individuare un nesso eziologico tra il disturbo mentale ed il reato.

La ratio posta a base della Sentenza Raso, in buona sostanza, ci dice che nei c.d. “deliri sistematizzati”, e cioè in quelle malattie che colpiscono unicamente un settore della psiche dell'individuo, l'imputabilità deve conseguentemente considerarsi esclusa o diminuita solo quando l'atto criminoso sia la conseguenza dell'alterazione mentale, e non qualora il monomane compia un delitto relativo ad un ambito del tutto diverso da quello che riguarda la sfera psichica alterata[13].

Nella sentenza in commento, infatti, si legge come “i complessi ed approfonditi accertamenti posti in essere dal perito YYY hanno indotto lo stesso ad affermare che la sopra descritta situazione psicopatologica ha grandemente scemato la capacità di intendere e di volere dell’odierno imputato e che i reati oggetto di giudizio trovano la loro genesi proprio nel grave disturbo di personalità in comorbidità con la sindrome di Asperger…”.

Il giudice, in altri termini, ha valutato concordemente alle considerazioni peritali la sussistenza di un quadro psicotico, tale da influenzare il comportamento dell'imputato, non potendone escludere la compromissione della capacità di intendere o di volere.

Ma vi è di più. La sentenza in esame mostra la piena consapevolezza dell’intervento di una pluralità di fattori, esogeni ed endogeni, che possono contribuire all'insorgenza dei disturbi mentali – atti a compromettere la capacità di intendere e di volere – giungendo, sia pur gradualmente, alla revisione critica della visione eziologica monocausale, e dunque dell'impostazione ‘tradizionale’, precedentemente dominante, in base alla quale soltanto le malattie mentali in senso stretto, nosograficamente delineabili, potevano incidere sulla capacità di intendere e di volere[14].

Tanto che si legge che il perito “ed i suoi ausiliari sono giunti alla diagnosi ed alle conseguenti conclusioni in tema di imputabilità  all’esito di una approfondita analisi critica dei fatti storici oggetto di giudizio, dei dati ricavati dai numerosi  strumenti diagnostici utilizzati e dall’analisi critica delle teorie scientifiche e delle metodologie applicabili nel caso di specie, affrontando in un’ottica falsificazionista le problematiche ed i margini di errore della ipotesi prospettata all’esito dell’accertamento peritale ed indicando con cura il grado di consenso che la tesi applicata raccoglie nella comunità scientifica internazionale”.

Sembra accogliersi l’orientamento delle S.U. le quali, hanno ribadito il principio di diritto secondo il quale “ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, rientrano nel concetto di ‘infermità' anche i ‘gravi disturbi della personalità', a condizione che il giudice ne accerti la gravità e l'intensità, tali da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere o di volere, e il nesso eziologico con la specifica azione criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale”.

4. La futura revisione del modello definitorio dell’infermità mentale

Dall’analisi fin qui esposta appare evidente come sia necessario pervenire ad un’estensione del concetto di vizio di mente, dovendo affiancare alla ‘tradizionale’ nozione codicistica di infermità, altri disturbi non strettamente riferibili a parametri medici in senso stretto.

Una concezione più estesa dell’incapacità di intendere e di volere che recepisca modo chiaro i “i moderni insegnamenti delle scienze psicopatologiche, che... già da tempo hanno segnalato l'idoneità, sia pure eccezionale, dei disturbi aspecifici a incidere sulla psiche umana”[15].

Già il progetto Pagliaro risalente al lontano 1992 faceva riferimento accanto all’infermità mentale ad “altre anomalie”[16], il progetto Grosso nella stesura originaria del 2000 faceva riferimento a “un'altra grave anomalia”, tanto che, nel testo modificato del 2001 utilizzava le parole di “altro grave disturbo della personalità”, fino ad arrivare alla riforma Orlando.

Tale predetta riforma, all’art. 16 l. 23 giugno 2017, n. 103, nel delegare il Governo ad adottare, nel termine di un anno dalla data di entrata in vigore della legge, una serie di decreti legislativi, delineava al contempo i principi ed i criteri direttivi ai quali ispirarsi, disponendo, alla lett. c), la revisione del modello definitorio dell'infermità mentale “mediante la previsione di clausole in grado di attribuire rilevanza, in conformità a consolidate posizioni scientifiche, ai disturbi della personalità”, ponendo di fatto l’accento sul carattere insoddisfacente dell'attuale assetto normativo.

Lo stesso legislatore delegato ha così recepito le indicazioni fornite negli ultimi decenni dalla scienza psichiatrica, tendenti a ricondurre entro gli ambiti del vizio di mente anche i gravi disturbi della personalità, le nevrosi e le psicopatie, hanno inoltre indubbiamente pesato al riguardo le considerazioni ricavabili dalla pronuncia Raso, volta a riconfermare come la nozione di infermità mentale debba essere recepita in un'accezione assai più ampia rispetto a quella di malattia mentale.

5. Riflessi costituzionali 

Il concetto di emozione non è rilevante dal punto di vista del diritto cogente, ma ad ogni modo dottrina e giurisprudenza tendono a riconoscergli un ruolo sul piano della non imputabilità. Tale orizzonte esplicativo è destinato ad arricchirsi dei più recenti approdi della giurisprudenza costituzionale. Questa, valorizzandone la componente cognitiva e di stimolo all'azione, parrebbe aprire la strada a una nuova interpretazione del ruolo del fattore emotivo in ambito penalistico. Da un lato, infatti, si considera il riconoscimento di un ruolo, in punto di non imputabilità, anche all'emozione assente, alla c.d. indifferenza emotiva, dall'altro, è possibile prospettare un ruolo del fattore emotivo quale causa di esclusione della colpevolezza.

Il dibattito è stato preso in considerazione, in tempi relativamente recenti a seguito a seguito del sindacato di costituzionalità a cui è stato sottoposto l’art.1, comma 1, della legge n. 81 del 2014.

L'art. 1, comma 1 della legge, modificando l'art. 3-ter del d.l. 11/2011, ha inciso sulla pericolosità sociale dell'infermo di mente, stabilendo che il suo accertamento debba essere “effettuato sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle condizioni di cui all'articolo 133, secondo comma, numero 4, del Codice penale” e cioè delle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo. Cosicché situazioni di disagio familiare, o sociale, o situazioni di indigenza, che storicamente potevano legittimare l'applicazione di misure di sicurezza segreganti, non sembrerebbero più sufficienti a fondare valutazioni di pericolosità sociale per i soggetti con vizio totale o parziale di mente. Né potrebbero esserlo le condizioni di assistenza terapeutica, posto che lo stesso articolo 1 aggiunge, poco dopo, che “non costituisce elemento idoneo a supportare il giudizio di pericolosità sociale la sola mancanza di programmi terapeutici individuali”. La modifica normativa ha suscitato reazioni profondamente diverse, venendo celebrata da alcuni come una “civilissima scelta” e una “soluzione doverosa” per ricondurre la disciplina della pericolosità sociale ad essenziali parametri  di legittimità costituzionale, e stigmatizzata invece da altri per aver introdotto  addirittura una “nuova forma mascherata di pericolosità sociale presunta”. Forti resistenze sono venute soprattutto dalla giurisprudenza, che si è trovata  spiazzata di fronte alle novità introdotte dalla legge n. 81/2014,  fino poi a  sfociare nella richiesta di illegittimità costituzionale promossa dal Tribunale di  sorveglianza di Messina, che per avallare la tesi dell'incostituzionalità della  novella ha scomodato quasi l'intera gamma dei principi costituzionali (artt. 1, 2,  3, 4, 25, 27, 29, 30, 31, 32, 34, 77 e 117 primo comma).

Le osservazioni mosse dal giudice rimettente sono state particolarmente  generalizzate, accusando la novella di aver inciso “in modo determinante e  profondamente distorsivo nel giudizio di pericolosità sociale, impedendo una  valutazione compiuta della concreta pericolosità sociale del soggetto interessato  e del suo grado attuale”, e di aver costruito, come anticipato, “una forma  mascherata e surrettizia di irragionevole e costituzionalmente censurabile  presunzione legislativa di pericolosità (o di non pericolosità) senza una valida giustificazione scientifica”. La Consulta in merito ha respinto come infondata la questione di legittimità della legge n. 81/2014, riducendo tuttavia l'ambito di operatività della modifica inerente alla pericolosità sociale degli infermi e dei seminfermi di mente non imputabili.

Infatti, a differenza della prima interpretazione data alla novella legislativa, la Corte costituzionale ha ritenuto di dover escludere la rilevanza dei fattori inerenti alla vita individuale, familiare e sociale del soggetto dagli indici di predittività della pericolosità sociale.

In altre parole, la Corte ha ritenuto che la deminutio operata dal legislatore riguarda solo il criterio di scelta delle misure di sicurezza applicabili. In questo modo, però, se da un lato la Consulta ha tentato di valorizzare la portata della legge 81/2014, dall’altro ha cercato di evitare che per il futuro l'internamento nelle strutture segreganti possa essere slegato dalle condizioni del soggetto e circoscritto al solo fattore esterno dell'incapacità della rete assistenziale a prendersene cura. La soluzione della Corte Costituzionale potrebbe infatti rivelarsi sul piano applicativo meno efficace di quanto appare e fa emergere l'improcrastinabilità di una riforma complessiva della materia delle misure di sicurezza, in tema di infermità mentale [17].

6. Conclusioni

La sentenza in commento ha sicuramente avuto il merito di travalicare i confini in ana materia assai ‘scivolosa’ come l’incapacità di intendere e volere, tale per cui solo ed esclusivamente i ‘vizi’ clinici e/o medici potevano costituire elemento per una limitata imputabilità.

Dal punto di vista giuridico ma anche psichiatrico, non risulta affatto scontato il risultato essendo incerti i parametri atti a ricondurre o ad escludere un soggetto dalla stessa incapacità, tanto più che lo stesso concetto di imputabilità ricavabile dall'art. 85 c.p. e riassumibile nel sintagma “capacità di intendere e di volere” risulta ormai da tempo in crisi.

Ed ancora, è bene chiarire che per quanto attiene la sentenza in commento, quest’ultima si caratterizza in particolare per l’approndimento scientifico.

Il giudice ha recepito la più recente concezione del c.d. paradigma integrato, ovvero, ha aderito alla moderna psichiatria.

La sentenza mette in luce un "modello circolare" di produzione causale dell’infermità, una multiformità di fattori, avvalendosi delle perizie dei tecnici designati.

Sia pure con possibile diversità di incidenza, ogni fattore determinante è stato preso in considerazione tenendo conto di tutti i possibili, multideterminati, casi che la stessa scienza considera. 

La chiarezza raggiunta sul punto, dalla sentenza testimonia come la pronuncia di merito sia in linea ed uniforme con il giudice di legittimità come già sancito dalla sentenza Raso. 


Note e riferimenti bibliografici

[1] M. FRATINI, Manuale sistematico di diritto penale, ed. accademiadeldiritto, 2021, p. 533.

[2] Spinte che a volte dipendono essenzialmente dal contesto sociale, sicché occorre intervenire anche e soprattutto su tale contesto, v. A.. Fallone Giur. merito, fasc.6, 2008, p. 1781B.

[3] F. PALAZZO, Corso di diritto penale, ed. Giappichelli, 2013, p.439.

[4] G. GALUPPI, L’imputabilità in Dir. famiglia, fasc.2, 2003, p. 431.

[5] Ibidem.

[6] Cass., Sez. Un., n. 9163/2005.

[7] Cass., Sez. VI, n. 7845/1997.

[8] La giurisprudenza pertanto risulta allineata alle conclusioni più recenti degli studiosi in materia. Sul punto U. Fornari, I disturbi gravi di personalità rientrano nel concetto di infermità, cit., p. 275.

[9] P. RIVELLO, Imputability and Mental Illness in Living Law, in Cassazione Penale, fasc.1, 1 GENNAIO 2018, p. 0422B.

[10] Cit. M. BERTOLINO, L'infermità mentale al vaglio delle Sezioni unite, in Dir. pen. proc., 2005, p. 854.

[11] Cit. M. BERTOLINO, L'infermità mentale al vaglio delle Sezioni unite, cit.

[12] G. FIDELBO, Le Sezioni unite riconoscono rilevanza ai disturbi della personalità, in Cassazione Penale, 2005, p. 1851.

[13] P. RIVELLO, op. cit.

[14] M. BERTOLINO, Il nuovo volto dell'imputabilità penale, cit., p. 367 ss.

[15] M.T. COLLICA, voce Imputabilità, in Il diritto. Enciclopedia giuridica del Sole 24 Ore, 2007, p. 536.

[16] P. RIVELLO, op. cit.

[17] M.T. COLLICA, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc.1, 2016, pag. 416.