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Pubbl. Sab, 21 Nov 2020

Quando il mobbing sul lavoro integra lo stalking. Commento a Cassazione penale n.31273/2020

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Giuliano Libutti
Funzionario della P.A.LUISS Guido Carli



Secondo la Corte di Cassazione, nel caso in cui ricorrano gli elementi costitutivi del reato ex art. 612 bis c.p., i comportamenti vessatori posti in essere dal datore di lavoro costituenti mobbing possono integrare il delitto di stalking.


Sommario:1.Introduzione al commento; 2. Il job mobbing. Principali riferimenti e canoni di qualificazione; 3. La fattispecie criminosa di “atti persecutori”, ex art. 612 bis c.p. Cenni normativi ed ermeneutici; 4.Il caso giursprudenziale; 4.1 Le censure del ricorrente; 4.2 La decisione della Cassazione

1. Introduzione

La suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 31273, depositata in data 09.11.2020, ha affrontato la tematica del possibile inquadramento di condotte di mobbing sul lavoro nell’alveo applicativo della fattispecie criminosa di “atti persecutori”, prevista dall’art. 612 bis c.p.

In particolare, il thema decidendi della sentenza in commento riguarda la  possibilita' che la reiterazione di condotte moleste costituenti mobbing, confinata in ambito lavorativo, possa essere punita a titolo di stalking.

A tal proposito, si rende necessario un previo inquadramento delle principali linee definitorie dei due istituti.

2. Il job mobbing. Principali riferimenti e canoni di qualificazione

Il job mobbing è qualificabile come un insieme di condotte vessatorie, reiterate e durature rivolte nei confronti di un lavoratore, finalizzate a ledere la sua integrità psicofisica o ad estrometterlo dall’azienda o dall’ente in cui svolge la propria attività lavorativa.

In più precisi termini definitori, la Suprema Corte,[1]lo ha individuato in una “condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione e di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità”.

La definizione giurisprudenziale testé indicata è riferibile perlopiù ad una specifica e statisticamente rilevante forma di mobbing, il cd. mobbing verticale discendente, ossia quell’insieme di attività vessatorie realizzate da soggetti posti in un grado di superiorità gerarchica o strategica rispetto alla vittima; va dato atto, invero, della potenziale configurabilità ed annoverabilità di differenti tipologie alternative di mobbing realizzabili in ambito lavorativo, quali il mobbing verticale ascendente, orizzontale, trasversale, relazionale, strategico, indiretto.

Tale istituto giuridico, particolarmente rilevante per le connessioni con le branche della psicologia, della sociologia e delle scienze del lavoro, è stato oggetto di una progressiva operazione di valorizzazione giuridica e sociale, in virtù dell’allarmante espandersi di pratiche mobbizzanti in ambito lavorativo, con un incremento significativo delle tutele giuridiche predisposte in ambito civilistico, giuslavoristico e, nei termini inseguito prospettati, penalistico.

Quanto ai requisiti significativi [2] ai fini della configurabilità di tale illecito, vanno annoverati il compimento di una pluralità di atti vessatori o lesivi, la protrazione nel tempo dei medesimi, la volontà di perseguitare o emarginare il dipendente, una lesione attuata sul piano professionale avendo riguardo alla sfera sessuale, psicologica o fisica della vittima e il nesso di causalità tra le ripetute azioni mobbizzanti e il danno psico-fisico in capo al dipendente.

La casistica relativa alle diverse forme di attuazione di condotte mobbizzanti si presenta quanto mai variegata, comprendendo ipotesi di isolamento fisico del lavoratore (relegato in una sede o in una postazione particolarmente scomoda o isolata),  privazione del godimento di benefit aziendali, ingiustificato e squalificante demansionamento, pretestuoso affidamento di insopportabili carichi di lavoro, fino alla realizzazione di protratti comportamenti diffamatori o ingiuriosi e, nei casi più gravi, all’attuazione di violenze sul piano fisico o di aggressioni alla sfera sessuale.

Venendo alla natura giuridica dell’istituto, è necessario riferirsi innanzitutto al job mobbing (sempre inteso quale mobbing verticale discendente, specificamente attinente alla sentenza in oggetto) quale condotta illecita e civilisticamente inadempiente degli obblighi contrattuali assunti dal datore di lavoro.

Ex art. 2087 c.c., in particolare, il datore di lavoro è obbligato ad adottare tutte le misure che, secondo le particolarità dell’attività svolta, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

Orbene, senza addentrarci in modo ultroneo nel tema della responsabilità civile, va rilevato che la violazione di siffatti obblighi, sia nel caso in cui il datore di lavoro stesso realizzi condotte mobbizzanti che in quello in cui tali atti lesivi siano commessi da altri dipendenti in assenza dei necessari controlli, comporti a carico del datore di lavoro l’obbligo al risarcimento del danno a favore della vittima.

Tanto premesso, la questione che qui interessa attiene alle potenziali conseguenze di natura penale derivanti in capo all’autore del mobbing, ossia se la realizzazione sul luogo di lavoro di alcuna tra le condotte prima citate possa integrare una fattispecie criminosa vigente nel nostro ordinamento.

La risposta al quesito appare essere positiva e la casistica giurisprudenziale al riguardo si presenta vieppiù varia; le fattispecie criminose più frequentemente invocate a tal proposito sono quelle di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.), a condizione che le condotte vessatorie si siano verificate all’interno di contesti lavorativi connotati da un rapporto familiare tra i dipendenti, violenza privata (art. 610 c.p.), minaccia (art. 612 c.p.), lesioni personali dolose o colpose (artt. 582 e 590 c.p.), abuso d’ufficio (art. 323 c.p) e violenza sessuale (art. 609 bis c.p.).

Resta da chiarire, ed è questo il focus fondamentale offerto dalla pronuncia che si intende commentare, se talune condotte integranti il mobbing siano idonee ad integrare il delitto di “atti persecutori”, ex art. 612 bis c.p.

A tal fine, si rende necessario definire analiticamente la disciplina prevista da tale norma penale.

3 La fattispecie criminosa di “atti persecutori”, ex art. 612 bis c.p. Cenni normativi ed ermeneutici

Il delitto di “atti persecutori”, comunemente denominato "stalking", introdotto nel nostro ordinamento penale con il D.L. 23.2.2009, n. 11, punisce chiunque, con condotte reiterate, minacci o molesti taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.

Orbene, l’ipotesi criminosa appena considerata può essere qualificata come “fattispecie causale, caratterizzata da condotte alternative e da eventi disomogenei, ciascuno dei quali idoneo ad integrarla, i quali devono essere oggetto di rigoroso e puntuale accertamento da parte del giudice[3].

Il reato di stalking, dunque, è connotato da una condotta tipica costituita dalla reiterazione delle minacce o delle molestie a danno della vittima, idonee a generare alternativamente uno tra gli eventi sopra indicati e tutela il bene giuridico della integrità psico – fisica del soggetto offeso.

Per quanto concerne l’elemento soggettivo in capo all’agente, questo va individuato nel dolo generico, consistente nella volontà e coscienza di porre in essere ogni singolo atto persecutorio e, in una visione d’insieme, di realizzare più condotte idonee a cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.

Dunque, non si ritiene necessario ai fini della configurabilità del reato che l’agente realizzi le condotte sopra citate per raggiungere uno specifico scopo, in quanto “sotto il profilo dell’elemento soggettivo, è sufficiente il dolo generico, il quale è integrato dalla volontà di porre in essere le condotte di minaccia e molestia nella consapevolezza della idoneità delle medesime alla produzione di uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice.”[4]

Tale delitto è pertanto connotato (similmente al mobbing, il quale, giova ribadirlo, non costituisce ex se una autonoma fattispecie criminosa) dalla reiterazione di condotte moleste o minatorie idonee a realizzare gli eventi, o anche solo uno tra gli eventi, previsti nell’art. 612 bis c.p.

A differenza del mobbing, il quale è invece qualificabile come una condotta illecita suscettibile di riparazione sul piano economico e di ulteriori conseguenze di natura disciplinare in capo all’agente (nonché di sanzione penale ove integri un reato), lo stalking è specificamente contemplato quale ipotesi criminosa nel nostro ordinamento.

Definiti per linee generali gli istituti del mobbing e dello stalking, è possibile passare in rassegnare la pronuncia della Cassazione prima introdotta e i suoi importanti risvolti.

4. Il caso giurisprudenziale

4.1 Le censure del ricorrente

Con ordinanza del 20 dicembre 2019, il Tribunale di Torino, in riforma dell’ordinanza emessa dal Gip, applicava la misura cautelare degli arresti domiciliari per il reato di atti persecutori, ex art. 612 bis c.p., nei confronti dell’amministratore delegato di una s.r.l., asseritamente realizzato a danno di un dipendente della medesima società.

Avverso l’ordinanza del riesame di Torino l’indagato proponeva ricorso, articolato in quattro motivi, uno dei quali -l’unico qui analizzato perché specificamente attinente al tema in oggetto-volto a censurare la violazione della legge penale contenuta nell’atto impugnato.

In particolare, ad avviso del ricorrente, il Tribunale avrebbe impiegato il medesimo criterio metodologico utilizzato dal Gip nella valutazione dei fatti, giungendo tuttavia a sovrapporre erroneamente le condotte di mobbing a quelle di stalking occupazionale.

La predetta sussunzione, invero, sarebbe stata erroneamente operata poiché le condotte moleste imputate al datore di lavoro avrebbero esplicato i propri effetti unicamente nell’ambito lavorativo e non, più in generale, nella vita privata della persona offesa.

In sintesi, i reiterati atti molesti del datore di lavoro sarebbero stati realizzati (e per così dire confinati) nell’ambito dell’attività lavorativa svolta e non avrebbero assunto risvolto alcuno nella vita privata del dipendente, non potendo per tal via integrare la fattispecie criminosa di "atti persecutori".

4.2 La decisione della Corte di Cassazione

Il ricorso presentato dall’indagato è stato ritenuto infondato dalla Corte.

Tralasciando l’analisi dei diversi motivi di ricorso non attinenti al tema in commento, sono qui esposti i principali rilievi forniti dalla Cassazione sul motivo appena citato.

La Corte, in particolare, ha dapprima ribadito i tratti fondamentali dell’istituto del mobbing lavorativo, il quale si configura ove ricorra l’elemento obiettivo e, cioè, una pluralità di comportamenti vessatori del datore di lavoro, e il requisito soggettivo dell’intendimento persecutorio del datore di lavoro, che unifica la condotta, unitariamente considerata.

Ad avviso del giudicante, tale finalità persecutoria avrebbe una peculiare funzione selettiva, in quanto “ai fini della configurabilità del mobbing, non è condizione sufficiente l’accertata esistenza di plurime condotte datoriali illegittime, ma è necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione.[5]

Per tal via, si ritiene che l’essenza dell’illecito del mobbing sia correttamente identificabile nella mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti, convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro.

Tanto rilevato, gli Ermellini hanno individuato talune ipotesi di rilevanza penale del mobbing tradizionalmente evocate dalla giurisprudenza: il caso di “maltrattamenti in famiglia”, qualora il rapporto tra datore di lavoro e dipendente abbia connotazione para – familiare, poiché caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia; ancora, la fattispecie criminosa di “abuso dei mezzi di correzione o di discplina”, nel caso in cui la condotta del datore di lavoro superi i limiti fisiologici nell’esercizio di tale potere.

Dopo aver dunque plasticamente evidenziato che condotte mobbizzanti, a seconda del contesto e delle modalità, possono ben integrare fattispecie criminose previste nel nostro ordinamento, la Corte ha analizzato lo specifico caso della realizzabilità della fattispecie criminosa di “atti persecutori”.

In particolare, si legge nella pronuncia, che la riferita qualificazione del mobbing quale mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro, “non esclude – ma anzi conferma – la riconducibilità dei fatti vessatori alla norma incriminatrice di cui all’art. 612 bis cod. pen., ove ricorrano gli elementi costitutivi di siffatta fattispecie e, in particolare, la causazione di uno degli eventi ivi declinati”.

Invero, la fattispecie criminosa prevista dall’art. 612 bis c.p. è integrata dalla necessaria reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice e dal loro effettivo inserimento nella sequenza causale che conduce fino alla determinazione dell’evento, come risultato della condotta persecutoria nel suo complesso.

Orbene, l’elemento fondamentale al fine dell’integrazione del delitto di “atti persecutori” è rinvenibile nel fatto che la condotta, intesa quale unione di molteplici atti vessatori, si riveli causalmente orientata alla produzione di uno degli eventi alternativamente contemplati dalla norma, contraddistinti da un comune “nucleo essenziale”, ossia lo stato di prostrazione psicologica della vittima delle condotte persecutorie.

Ad avviso della Corte di Cassazione, dunque, l’antigiuridicità della condotta sarebbe connessa alla lesione del predetto nucleo essenziale e connotata, per così dire, da una modalità di realizzazione atipica, potendo esplicarsi in un qualsiasi ambito della vita della vittima.

Detto con le significative parole della Corte: “il contesto entro il quale si situa la condotta persecutoria è del tutto irrilevante, quando la stessa abbia determinato un vulnus alla libera autodeterminazione della persona offesa, determinando uno degli eventi previsti dall’art. 612 bis c.p. Ed assume mero contenuto descrittivo, che peraltro registra ma non limita la varietà degli ambiti fenomenologici, il riferimento a diverse declinazioni del reato, correlate a specifiche ambientazioni (cd. Stalking condominiale, giudiziario, ecc.)”.

Sulla base di tale fondamentale rilievo, il giudicante ha manifestato l’inconferenza ed erroneità delle censure mosse dal ricorrente, volte a inquadrare una sorta di “zona franca” della ravvisabilità dello stalking in ambito lavorativo, la quale, ove ritenuta ammissibile, potrebbe condurre ad una visione atomistica della libertà morale, iniquamente limitabile in taluni settori della vita.

Invero, laddove il soggetto agente realizzi reiterate condotte minatorie e moleste idonee a integrare la fattispecie criminosa ex art. 612 bis c.p., non può rilevare, o assumere valore assorbente, l’ambito della vita in cui tali vessazioni vengono realizzate, né tanto meno può assumere rilievo dirimente, ad un addebito per “atti persecutori”, il fatto che le condotte realizzate siano idonee ad integrare un’ipotesi di mobbing, non essendo razionalmente concepibile un divieto di sovrapporre i due istituti.

In chiusura, alla stregua delle altre fattispecie criminose prima citate, è ben possibile che condotte qualificabili in termini di mobbing lavorativo possano integrare, tra le altre, anche l’ipotesi criminosa di "atti persecutori", ove i necessari elementi costitutivi del reato siano integrati.

Pertanto, ritenuta l’infondatezza del motivo qui analizzato e degli altri tre motivi di ricorso avanzati dal ricorrente, la Cassazione ha rigettato il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Cass. 17/2/2009 n. 3785, Pres. Sciarelli Est. D’Agostino, in Orient. Giur. Lav. 2009, 115

Per un’altra definizione, Cass. 1/8/2008 n. 21028, Pres. Sciarelli Est. Balletti, in Lav. nella giur. 2008: “Ipotesi di comportamento materiale o di provvedimento (del datore di lavoro) che sia contraddistinto da finalità persecutorie o di discriminazione, con connotazione emulativa e pretestuosa, indipendentemente dalla violazione (da parte del lavoratore) di specifici obblighi contrattuali.”

[2] Sul punto, Cass. 28/8/2013 n. 19814, Pres. Roselli Est. Blasutto, in Riv. It. Dir. lav. 2014: “Ai fini della configurabilità del mobbing sono rilevanti quattro elementi: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.”

[3] Corte App. Milano, Sez. V penale, 14 dicembre 2011 (dep. 13 gennaio 2012), n. 5123/11, Pres. ed Est. Cerqua, Imp. D.F.

[4] Cass. Penale, Sez. V, 15 maggio 2013 (ud. 27 novembre 2012), n. 20993, Presidente Zecca, Relatore Guardiano, P. G. Gaeta

[5] Sul punto, la Cassazione rinvia a rilevanti pronunce in materia, ossia “Sez. L, n. 10992 del 09.06.2020, V contro A., Rv. 657926, n. 4222 del 2016 Rv. 639204, N. 12437 del 2018 Rv. 648956, N. 26684 del 2017 Rv. 646150Il