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Pubbl. Mer, 30 Set 2020

I modelli di risoluzione alternativa delle controversie

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Annamaria Di Clemente



Il presente contributo delinea i profili normativi dei modelli di risoluzione alternativa anche alla luce della più recente evoluzione giurisprudenziale


ENG This contribution outlines the regulatory profiles of alternative resolution models in the light of the most recent jurisprudential developments

Sommario: 1. Premessa; 2. L'arbitrato; 3. La mediazione; 4. La negoziazione assisitita; 5. Conclusioni. 

1. Premessa 

La risposta di giustizia assicurata dai modelli di risoluzione alternativa delle controversie che verranno esaminati nel corso del presente contributo garantisce la tutela ai soggetti interessati senza escludere, naturalmente, il ricorso, se del caso, a quella in sede giudiziale in ossequio al fondamentale diritto di difesa costituzionalmente garantito e consacrato, com'è noto, dall’art. 24 Cost. nonché dall’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali oltre che dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. 

La ratio che accomuna tali modelli anche definiti genericamente come “ADR”, quale acronimo della espressione inglese “Alternative Dispute Resolutions”, è ispirata ad una logica di tipo deflattivo del contenzioso. 

In altri termini, quindi, deve escludersi che, in tema di diritti disponibili, la giurisdizione rivesta un ruolo esclusivo di risoluzione delle controversie, costituendo, al contrario, soluzione residuale nei casi in cui i privati non abbiano, diversamente, trovato un accordo con l’utilizzo degli strumenti alternativi.  

Discorso diverso a farsi per quanto riguarda, più in generale, la tutela dei diritti in sede esecutiva in cui ricorre un vero e proprio monopolio dello Stato (1).

Per completezza è appena il caso di precisare, inoltre, come la valorizzazione di tali strumenti sia stata recepita anche in ambito comunitario con la Direttiva 2998/52/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio  che, come si legge nella parte introduttiva della stessa, ha lo scopo di “agevolare un miglior accesso alla giustizia” in attuazione delle deliberazioni adottate dal Consiglio alla riunione di Tampere del 15 e 16 ottobre 1999.

2. L'arbitrato.

L’arbitrato viene definito come lo strumento alternativo alla cognizione ordinaria con cui le parti, senza ricorrere alla giurisdizione ordinaria, possono risolvere le controversie tra loro insorte ovvero le controversie che tra loro insorgeranno in relazione ad un determinato rapporto giuridico sostanziale in materia civile o commerciale, mediante l’affidamento di apposito incarico ad un soggetto terzo rispetto alla controversia.

Tale soggetto può essere costituito da un arbitro, quindi, in veste monocratica, ovvero da un collegio arbitrale, solitamente composto da tre arbitri, di cui due scelti rispettivamente da ciascuna delle parti ed il terzo nominato da una persona super partes, che nel risolvere la controversia emette una pronuncia, detta lodo arbitrale. 

La scelta di affidare la risoluzione della controversia ad un arbitro o ad un collegio arbitrale può essere contenuta ab initio in un contratto con l’inserimento di una apposita clausola detta, appunto, clausola compromissoria ovvero può essere fatta dalle parti a posteriori, vale a dire nel caso di successiva insorgenza della controversia tra le stesse, mediante la sottoscrizione di un apposito accordo detto compromesso arbitrale.

L’arbitrato è previsto e regolato, nel libro quarto del codice di procedura civile, dagli artt. 806 ss. c.p.c., come riformato, più di recente, con il d. lgs. 2 febbraio 2006, n. 40.

Tale riforma ha inciso pronfondamente sulla portata del potere negoziale delle parti come previsto nel previgente testo dell'art. 806 c.p.c. secondo cui le parti potevano far decidere da arbitri "le controversie tra di loro insorte, tranne quelle previste negli artt. 409 e 442, quelle che riguardino questioni di stato e di separazione personale tra coniugi e le altre che non possono formare oggetto di transazione".

Invero, diversamente, secondo il vigente testo dell’art. 806 c.p.c. “Le parti possono far decidere da arbitri le controversie tra di loro insorte che non abbiano per oggetto diritti indisponibili, salvo espresso divieto di legge. Le controversie di cui all'articolo 409 possono essere decise da arbitri solo se previsto dalla legge o nei contratti o accordi collettivi di lavoro”
Pertanto, all'attualità, fuori dai casi in cui ricorrano diritti indisponibili, quali, ad esempio, i diritti personalissimi, oppure divieti di legge, come nel caso dei giudizi di volontaria giurisdizione o dei procedimenti cautelari e, ancora, nelle controversie di lavoro se l'arbitrato non sia previsto dalla legge o nei contratti o accordi collettivi di lavoro, l’unico limite posto all’arbitrato è costituito dalla natura indisponibile del diritto e quindi dalla mancanza di capacità negoziale sullo stesso.

Più in generale, sotto il profilo pratico ed applicativo, le ragioni che possono indurre le parti a scegliere l’arbitrato, nelle sue diverse modulazioni, sono rappresentate principalmente dalla prospettiva di ottenere la relativa decisione in tempi brevi, solitamente prestabiliti, tra 60 e 120 giorni, e con costi prefissati, di massima inferiori a quelli di un giudizio ordinario. 

Su tale premessa, si profilano i singoli tipi di arbitrato.

La prima distinzione è quella tra arbitrato rituale ed irrituale.

Il tipo di arbitrato rituale ricorre nei casi in cui, conformemente alla volontà espressa dalle parti, la decisione da assumere è rappresentata dal lodo rituale, avente per sua natura efficacia di sentenza e, come tale, idoneo, quindi, ad assumere valore di giudicato formale e sostanziale, nonché ad acquisire efficacia di titolo esecutivo con la sua omologazione.

L’art. 824 bis, infatti, così prevede: “Salvo quanto disposto dall'articolo 825, il lodo ha dalla data della sua ultima sottoscrizione gli effetti della sentenza pronunciata dall'autorità giudiziaria”.

Sulla natura dell'arbitrato rituale nel suo complesso, incluso, quindi, il lodo, è appena il caso di sottolineare come, anche a seguito della citata riforma, è ancora acceso in dottrina il dibattito tra quanti perseverano in una ricostruzione di tipo squisitamente privatistico dell'istituto e quanti, invece, attribuiscono allo stesso natura pubblicistica tale, cioè, da far propendere per una soluzione giurisdizionale degli effetti del lodo; soluzioni opposte, queste, nel cui divario non mancano, tuttavia, anche tesi interrmedie (2).

In giurisprudenza, non è macato in tema l'intervento delle Sezioni Unite che hanno riconosciuto natura giurisdizionale all’arbitrato rituale anche alla luce delle modifiche legislative attuate con la legge n. 25 del 1994 ed il d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, osservando come tali modifiche hanno assicurato la compatibilità costituzionale dell’istituto attraverso la previsione di idonee garanzie processuali, sia sul piano dell’imparzialità dell’organo giudicante, che in ordine al rispetto del contraddittorio ed alla possibilità di impugnativa, nei limiti in cui l’ordinamento tipizza le fattispecie di nullità, davanti agli organi della giurisdizione ordinaria (3).  

Passando all'arbitrato irrituale si può affermare che, al contrario, lo stesso ricorre quando, conformemente alla volontà espressa dalle parti, la decisione da assumere è rappresentata dal lodo irrituale, avente, per sua natura, efficacia negoziale che, se pur inidoneo ad acquisire efficacia di titolo esecutivo, potrà essere, tuttavia, utilizzato, ad esempio, per richiedere ed ottenere un decreto ingiuntivo ovvero, più in generale, come prova documentale.

L'art. 808 ter c.p.c. prevede, infatti, che “Le parti possono, con disposizione espressa per iscritto, stabilire che, in deroga a quanto disposto dall'articolo 824 bis, la controversia sia definita dagli arbitri mediante determinazione contrattuale”.

E’ appena il caso di precisare che il lodo irrituale, quale istituto nato dalla prassi, fino alla citata riforma del 2006 che, appunto, ha dedicato allo stesso, l’art. 808 ter, era privo di specifica disciplina normativa.

Sia l’arbitrato rituale che quello irrituale richiedono, ai fini della loro validità, la forma scritta ad substantiam della clausola compromissoria, relativa, come già visto, ad una possibile controversia che potrebbe insorgere tra le parti, ovvero del compromesso arbitrale, relativo alla decisione di una controversia già insorta tra parti.

Riguardo alla validità delle clausole compromissorie per relationem, vale a dire previste in un diverso documento a cui si rinvia, la Suprema Corte ha avuto modo recentemente di riaffermare come, sul rilievo che la previsione della devoluzione agli arbitri delle controversie scaturenti dall'interpretazione o dall'esecuzione di un contratto deve avvenire, ai sensi dell'art. 808 c.p.c., tramite una clausola compromissoria redatta in forma scritta ad substantiam, la quale identifichi con esattezza le future controversie aventi origine dal contratto principale, tale requisito di forma è soddisfatto anche con riguardo alle clausole compromissorie per relationem, allorché “il rinvio, contenuto nel contratto, preveda un richiamo espresso e specifico della clausola compromissoria e non, invece, allorché il rinvio sia generico, richiamandosi semplicemente il documento o il formulario che contenga la clausola stessa, in quanto soltanto il richiamo espresso assicura la piena consapevolezza delle parti in ordine alla deroga alla giurisdizione "  (4).  

Per altro aspetto, la Suprema Corte ha riaffermato recentemente, ai fini dell'esatta intepretazione della clausola dubbia, che il discrimen tra arbitrato rituale ed irrituale è da ravvisarsi nell’obiettivo che le parti intendono perseguire tramite la clausola compromissoria, non per il suo oggetto, quindi, ma in relazione alla volontà delle parti di deferire la controversia ad un arbitrato "rituale" ovvero "irrituale", così richiamando il principio, già statutito con precedente sentenza, secondo cui  "in tema di interpretazione del patto compromissorio, anche con riferimento alla disciplina applicabile prima della introduzione dell'art. 808 ter cod. proc. civ. ad opera del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, il dubbio sull'interpretazione dell'effettiva volontà dei contraenti va risolto nel senso della ritualità dell'arbitrato, tenuto conto della natura eccezionale della deroga alla norma per cui il lodo ha efficacia di sentenza giudiziaria".(5).
Sotto altro profilo, la Suprema Corte, sulla premessa che l'arbitrato irrituale costituisce un istituto atipico, derogatorio dell'istituto tipico regolato dalla legge e sfornito delle garanzie all'uopo previste dal legislatore, ha statuito che, in mancanza di una volontà derogatoria chiaramente desumibile dal compromesso o dalla clausola compromissoria, il riferimento delle parti alla soluzione di determinate controversie all'arbitrato è da intendersi, normalmente, quale espressione della volontà di fare riferimento all'istituto tipico dello stesso come previsto dal codice  di rito (6).

Altra distinzione è tra arbitrato la cui decisione è da assumersi secondo diritto, cosicché gli arbitri devono applicare unicamente le norme di diritto regolatrici della materia e arbitrato secondo equità, quando, diversamente, la decisione è da assumersi secondo le regole etico-sociali tratte dalla morale e dalla coscienza comune, nel rispetto dei principi generali e delle norme fondamentali dell’ordinamento.

L'art. 822 c.p.c., infatti, così statuisce “gli arbitri decidono secondo le norme di diritto, salvo che le parti li abbiano autorizzati con qualsiasi espressione a pronunciare secondo equità”. 
Inoltre, l’arbitrato può essere amministrato, quando le parti richiedono l’intervento di un Ente o di un’Istituzione preposta alla gestione e al controllo di ogni fase del procedimento secondo regole contenute in regolamenti e tariffari prefissati, come avviene con la Camera Arbitrale. 
Altra tipologia, ancora, è rappresentata dall’arbitrato ad hoc, quando la disciplina del procedimento è direttamente prevista e determinata dalle parti nella clausola compromissoria o nel compromesso ovvero in un atto separato.

Ricorre, invece, l’arbitrato documentale nei casi in cui il procedimento si svolge solo tramite esame di prove documentali. 
Infine, ulteriore distinzione si ravvisa tra arbitrato interno ed arbitrato internazionale ovvero arbitrato commerciale internazionale, relativo a quelle controversie che hanno, appunto, connotazione internazionale per essere, ad esempio, le parti una italiana e l'altra straniera, oppure per essere l’oggetto inerente al diritto del commercio internazionale. 
Svolte le superiori osservazioni anche alla luce delle interpretazioni offerte dalla giurisprudenza, si esamina ora, più da vicino, l'iter del processo arbitrale.

Il processo arbitrale nasce dalla domanda di arbitrato, vale a dire l’atto con cui viene individuato l’oggetto del processo, così da determinarne il thema decidendum al pari, per certi aspetti, di ciò che si verifica per effetto della domanda proposta in sede giurisdizionale.

Durante il processo arbitrale le parti possono proporre eccezioni relativamente all’interpretazione, alla validità e all’efficacia della convenzione di arbitrato.

Come si è già visto, gli arbitri decidono secondo diritto, salvo che le parti li abbiano autorizzati a decidere secondo equità.

La decisione che definisce il processo arbitrale adottata dall’arbitro o dal collegio arbitrale, si chiama, quindi, lodo arbitrale con diverso valore ed efficacia a seconda della sua natura rituale ovvero irrituale.

Invero, il lodo, ai sensi dell’art 824 bis citato, dalla data della sua ultima sottoscrizione ha gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria che, però, necessita, al fine di acquisire l’efficacia di titolo esecutivo, della procedura di omologa. Ai sensi dell’art. 825 c.p.c., occorre, infatti, che il lodo venga depositato presso la cancelleria del tribunale nel circondario dove ha avuto sede l’arbitrato.

Tale deposito serve anche ai fini della trascrizione e dell’annotazione.

La natura dell’arbitrato rituale implica che i mezzi di impugnazione del lodo consentiti dalla legge sono quelli tipici previsti dall’art. 827 c.p.c. - nullità, revocazione ed opposizione di terzo -, mentre il lodo irrituale è soggetto alle impugnative negoziali, con riferimento sia alla validità dell’accordo compromissorio, sia all’attività degli arbitri, da proporre con l’osservanza delle norme ordinarie sulla competenza e del doppio grado di giurisdizione.

L’arbitrato irrituale, infatti, resta nei confini dell’autonomia privata e consiste nell’affidare all’arbitro, o agli arbitri, la soluzione di controversie, insorte o che possano insorgere in relazione a determinati fatti giuridici, soltanto attraverso lo strumento negoziale, mediante una composizione amichevole o un negozio di accertamento riconducibile alla volontà delle parti stesse, le quali si impegnano a considerare la decisione degli arbitri come espressione della loro volontà (7).
La clausola compromissoria non esclude la competenza del giudice ordinario ad emettere il decreto ingiuntivo richiesto da una delle parti, sussistendone i presupposti di cui agli artt. 633 ss. c.p.c. ed attesa la non rilevabilità d’ufficio del difetto di competenza per essere la controversia devoluta agli arbitri, ma, se proposta opposizione e dal debitore ingiunto eccepita la competenza arbitrale, si verificano, a seguito della contestazione del credito, i presupposti fissati nel compromesso e viene a cessare la competenza del giudice ordinario, con la conseguenza che quest’ultimo, una volta rilevata l’esistenza della valida clausola compromissoria, deve dichiarare la nullità del decreto ingiuntivo e rimettere la controversia al giudizio degli arbitri (8).
Con particolare riferimento al caso di opposizione all’esecuzione forzata “la clausola compromissoria riferita genericamente a qualsiasi controversia nascente da un determinato rapporto giuridico cui essa inerisce può essere interpretata, con giudizio riservato al giudice di merito, nel senso che rientrano nella competenza arbitrale anche le opposizioni all'esecuzione forzata, salvo che si controverta in materia di diritti indisponibili; viceversa, non sono compromettibili in arbitrati le opposizioni agli atti esecutivi, in quanto la verifica dell'osservanza di regole processuali d'ordine pubblico riguarda diritti di cui le parti non possono mai liberamente disporre” (9).
In riferimento all’arbitrato rituale ed alla necessità di accertare se una controversia appartenga alla cognizione dell’arbitro ovvero del giudice ordinario oppure del giudice amministrativo o, ancora, del giudice straniero, ricorrono diverse e rispettive soluzioni. 
Sulla premessa che l’arbitrato rituale rappresenta uno strumento con il quale le parti decidono di sottrarre al giudice ordinario la decisione di una determinata controversia per affidarla ad arbitri, lo stesso sostituisce la giurisdizione ordinaria e, quindi, stabilire se la decisione di una controversia appartenga alla cognizione dell'arbitro o del giudice ordinario attiene ad una questione di competenza. 
Pertanto, la parte convenuta in giudizio può e deve sollevare l'eccezione di incompetenza del giudice ordinario a fronte dell'esistenza di un accordo compromissorio, solo nel primo atto difensivo, vale a dire nella comparsa di risposta.

La competenza arbitrale, infatti, assimilata alla competenza territoriale ha carattere relativo e derogabile, con l’effetto che nel caso in cui la parte non eccepisca l'incompetenza del giudice ordinario nei modi e nel termine suddetto, la competenza resta radicata in capo a quest’ultimo. 
Diversamente, stabilire se una decisione appartenga alla cognizione dell'arbitro o a quella del giudice amministrativo attiene ad una questione di giurisdizione.

Alla medesima conclusione si perviene anche in riferimento al caso in cui ricorra una clausola compromissoria di arbitrato estero, laddove, l’eccezione di compromesso, attesa la natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario da attribuirsi all’arbitrato rituale in conseguenza della disciplina complessivamente ricavabile dalla L. 5 gennaio 1994, n. 5 e dal d. lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, deve essere annoverata tra quelle di rito, dando così luogo ad una questione di giurisdizione e rendendo ammissibile il regolamento preventivo di cui all’art. 41 c.p.c., sempre che  il convenuto non abbia espressamente o tacitamente accettato la giurisdizione italiana e quindi quando non ne abbia eccepito la carenza nel suo primo atto difensivo (10).

3. La mediazione

L'istituto della mediazione rappresenta un altro strumento di risoluzione stragiudiziale delle controversie, introdotto dal d.lgs. n. 28 del 4 marzo 2010.

In linea generale, si può affermare che chiunque sia parte di una controversia civile vertente su diritti disponibili può liberamente tentare di risolverla in virtù di una mediazione, però, come si vedrà più avanti, per alcune specifiche controversie l’utilizzo della mediazione è imposto dalla legge che la rende, quindi, obbligatoria. 
Le ipotesi di mediazione, previste dal d.lgs. cit, sono le seguenti: 1. mediazione obbligatoria, prevista come condizione di procedibilità della domanda giudiziale in tutti i casi tassativamente indicati dalla legge; 2. facoltativa, come scelta opzionale cui ricorrono spontaneamente le parti; 3. delegata, quando nel corso di un processo il giudice invita le parti a conciliarsi; 4. concordata, quando la clausola di mediazione o conciliazione è contenuta in un contratto, ovvero nello statuto o, ancora, nell’atto costitutivo di una società. 
Le ipotesi di mediazione o conciliazione, pur essendo, come si è visto, varie, si differenziano principalmente in ordine alla sussistenza o meno dell’obbligo di esperire la mediazione anche rispetto al momento in cui tale obbligo sorge. 
Il procedimento si svolge nel seguente modo. 
Innanzitutto, le parti sono libere di scegliere l’organismo pubblico o privato presso il quale svolgere il procedimento di mediazione, purché tale organismo sia accreditato presso il Ministero di giustizia. Dal momento della comunicazione alle altre parti, la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale, vale a dire interruzione e sospensione dei termini di prescrizione, ed impedisce, al tempo stesso, la decadenza per una sola volta. 
Il procedimento, avente una durata di quattro mesi, pur svolgendosi senza formalità particolari, richiede, ai sensi dell’art. 8, comma 1, del d.lgs citato, la partecipazione delle parti con l’assistenza degli avvocati. L’art. 5 del d.lgs. n. 28/2010 citato, rubricato “Condizione di procedibilità e rapporti con il processo”, il cui primo comma è stato dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, con sentenza 6 dicembre 2012, n. 272, prevede al comma 1 bis, inserito dall’art. 84, comma 1, lett. b), D.L. 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modificazioni dalla L. 9 agosto 2013, n. 98, e sue successive modificazioni, l’elenco tassativo dei casi in cui è prevista l’obbligatorietà della mediazione, secondo il seguente testo: “Chi intende esercitare in giudizio un'azione relativa a una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, è tenuto, assistito dall'avvocato, preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto ovvero i procedimenti previsti dal decreto legislativo 8 ottobre 2007, n. 179, e dai rispettivi regolamenti di attuazione ovvero il procedimento istituito in attuazione dell'articolo 128-bis del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni, ovvero il procedimento istituito in attuazione dell'articolo 187-ter del Codice delle assicurazioni private di cui al decreto legislativo 7 set- tembre 2005, n. 209, per le materie ivi regolate. L'esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale”. 
In considerazione della rilevanza della materia dei diritti di proprietà intellettuale e sulla riconducibilità o meno degli stessi, ai fini dell’applicabilità dell’art. 5, comma 1 bis, in esame, al genus dei diritti reali, è interessante richiamare un recente intervento del Tribunale di Milano, Sezione specializzata in materia di impresa, che, ponendosi nel solco del consolidato orientamento in tema, ha riaffermato il principio secondo cui in materia, appunto, di diritti di proprietà intellettuale il mancato esperimento della procedura di mediazione obbligatoria non determina l’improcedibilità della domanda atteso che gli stessi non possono essere assimilati alla categoria dei diritti reali, per i quali soltanto è prevista tale condizione di procedibilità (11).
In caso di presenza di una clausola compromissoria, si ritiene che le parti che abbiano accettato la precitata clausola non abbiano l’obbligo di procedere al tentativo di conciliazione obbligatoria. Tale considerazione trae spunto dal tenore letterale dell’art. 5 d.lgs. n. 28/2010, riferito all’autorità giudiziaria e al giudice, e che sembra poter escludere, pertanto, l’arbitro. 
In riferimento alle domande riconvenzionali sollevate dal convenuto ed al relativo obbligo di esperire il procedimento di mediazione nei casi previsti dall’art. 5 comma 1 bis, o da terzi, non si registra un orientamento uniforme in giurisprudenza (12).

Ebbene, se, come appena visto, il mancato esperimento del procedimento di mediazione, nei casi previsti dall’art. 5 comma 1 bis, determina l’improcedibilità della domanda, rimane da chiedersi in che modo ed entro quale termine la stessa possa essere fatta valere. 
Tale improcedibilità, prosegue l’art. 5, “deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d'ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice ove rilevi che la mediazione è già iniziata, ma non si è conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all'articolo 6. Allo stesso modo provvede quando la mediazione non è stata esperita, assegnando contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione. Il presente comma non si applica alle azioni previste dagli articoli 37, 140 e 140-bis del codice del consumo di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e successive modificazioni”
Ciò posto, l'attenzione si incentra a questo punto sulll’esito dell’esperimento del procedimento di mediazione.

Ebbene, giova premettere che anche nei casi in cui le parti siano tenute a promuovere la mediazione, le stesse, naturalmente, non sono allo stesso modo obbligate ad addivenire ad un accordo conciliativo, né tanto meno ad aderire alla proposta formulata dal mediatore, il quale, si precisa, a differenza dell’arbitro non decide sulla controversia, ma facilita le parti nel raggiungimento di un accordo.

Come previsto dall’art. 5 in esame, quando l'esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale, la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo; pertanto, le parti, non avendo raggiunto l’accordo conciliativo, potranno rivolgersi al giudice e, dimostrando di aver esperito il procedimento di mediazione, chiedere ed ottenere una sentenza che definisca la controversia. 
Al contrario, nel caso in cui la mediazione viene svolta e le parti raggiungono l’accordo conciliativo, il mediatore ne redige processo verbale a cui, ai sensi dell’art. 11 d.lgs. citato, è allegato il testo dell’accordo. L’accordo sottoscritto dalle parti e dai rispettivi avvocati costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, l’esecuzione per consegna o rilascio, l’esecuzione degli obblighi di fare e di non fare, nonchè per l’iscrizione di ipoteca giudiziale. A tal fine è necessario, però, che gli avvocati attestino e certifichino la conformità dell’accordo alle norme imperative ed all’ordine pubblico. 
Diversamente, ai sensi dell’art. 12, comma 1, del d.lgs. citato, l’accordo allegato al verbale può essere omologato, su istanza di parte, con decreto del Presidente del Tribunale previo accertamento della regolarità formale e del rispetto delle norme imperative e dell’ordine pubblico. 
In ogni caso, in pendenza del procedimento di mediazione è sempre ammessa la tutela cautelare.

4. La negoziazione assistita

Anche la negoziazione assistita è un istituto di risoluzione alternativa delle controversie rappresentato da un accordo, chiamato convenzione di negoziazione assistita, con cui le parti risolvono bonariamente una controversia con l'assistenza degli avvocati. 
Tale istituto ha trovato ingresso nell'ordinamento giuridico italiano con il d.l. n. 132/2014, convertito nella l. n. 162/2014.

La convenzione deve essere redatta, a pena di nullità, in forma scritta e deve essere conclusa con l'assistenza di uno o più avvocati, i quali certificano l'autografia delle sottoscrizioni apposte all'accordo sotto la propria responsabilità professionale. 
La convenzione, inoltre, deve contenere: il termine concordato dalle parti per l'espletamento della procedura, non inferiore ad un mese e non superiore a tre mesi, termine, questo, tuttavia prorogabile di ulteriori trenta giorni per accordo delle parti; l'oggetto della controversia, che non può riguardare diritti indisponibili o vertere in materia di lavoro. 
Anche la negoziazione assistita si distingue in facoltativa ed obbligatoria.

Mentre la negoziazione facoltativa ricorre tutte le volte in cui le parti, relativamente a controversie vertenti su diritti disponibili, decidono spontaneamente di trovare un accordo stragiudiziale con l’assistenza degli avvocati, la negoziazione assistita obbligatoria ricorre per le azioni riguardanti il risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti e per le domande di pagamento a qualsiasi titolo di somme, purché non eccedenti 50.000 euro e non riguardanti controversie assoggettate alla disciplina della mediazione obbligatoria. 
Va precisato che più di recente, con intervento del 2015, il legislatore ha introdotto una nuova ipotesi di negoziazione assistita obbligatoria in materia di contratto di trasporto o di subtrasporto.

A ciò aggiungasi che la negoziazione assistita, se pure riguardante diritti controversi rientranti nelle materie indicate espressamente dalla legge, prima viste, non ricorre come obbligatoria in alcuni procedimenti di natura sommaria, quali quelli di ingiunzione, compreso, però, il successivo giudizio di opposizione, il procedimento di consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite ex art. 696-bis c.p.c., nei procedimenti di opposizione relativi all’esecuzione forzata, nei procedimenti in camera di consiglio, nonché nei casi di azione civile proposta in sede penale. Sono, inoltre, escluse dall’obbligatorietà della negoziazione assistita tutte le controversie concernenti obbligazioni contrattuali derivanti da contratti conclusi tra professionisti e consumatori, nonché tutte le controversie per cui è già previsto il tentativo obbligatorio di mediazione. 
Nei casi in cui è previsto come obbligatorio, l'esperimento del procedimento di negoziazione assistita è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L'improcedibilità deve essere eccepita, non oltre la prima udienza, dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d'ufficio dal giudice. 
Qualora, la negoziazione assistita sia già iniziata ma non conclusa, il giudice provvederà a fissare l'udienza successiva dopo la scadenza del termine fissato dalle parti per la durata della procedura di negoziazione e indicato nella convenzione stessa. 
Qualora, invece, la negoziazione non sia ancora stata esperita, il giudice, oltre a provvedere alla fissazione dell'udienza successiva assegna contestualmente alle parti un termine di quindici giorni per la comunicazione dell’invito.

Il procedimento inizia con l'informativa da parte dell'avvocato al proprio cliente della possibilità di ricorrere alla convenzione di negoziazione assistita. 
La parte che sceglie di avvalersi della procedura di negoziazione assistita invia alla controparte, tramite il proprio legale che lo sottoscrive, invito a stipulare la convenzione di negoziazione, contenete l’indicazione dell'oggetto della controversia e l'avvertimento che in caso di mancata risposta entro trenta giorni o di rifiuto ciò costituirà motivo di valutazione da parte del giudice ai fini dell'addebito delle spese di giudizio, della condanna al risarcimento per lite temeraria ex art. 96 c.p.c. e di esecuzione provvisoria ex art. 642 c.p.c.. 
La comunicazione dell’invito interrompe il decorso della prescrizione e della decadenza, quest’ultima, però, è impedita per una sola volta e, in caso di rifiuto, mancata accettazione dell'invito o mancato accordo, da questo momento ricomincia a decorrere il termine per la proposizione della domanda giudiziale. 
Se l'invito è accettato, si perviene allo svolgimento della negoziazione vera e propria, la quale può avere esito positivo o negativo. In caso di esito positivo, l’accordo raggiunto deve essere sottoscritto dalle parti e dagli avvocati che le assistono, i quali devono certificare sia l'autografia delle firme che la conformità alle norme imperative e all'ordine pubblico. 
L’accordo così concluso costituisce titolo esecutivo.

In caso di esito negativo, gli avvocati dovranno redigere la dichiarazione di mancato accordo.

Per concludere, è importante richiamare un recente intervento del Giudice delle leggi, che ponendo a raffronto i due istituti processuali della mediazione e della negoziazione assistita ha chiarito come, pur presentando gli stessi profili di omogeneità rappresentati dalla finalità deflattiva, il procedimento di mediazione è connotato dal ruolo centrale svolto da un soggetto, il mediatore, terzo e imparziale, là dove la stessa neutralità non è ravvisabile nella figura dell’avvocato che assiste la singola e rispettiva parte nella procedura di negoziazione assistita.

Mentre, dunque, nella mediazione il compito, fondamentale al fine del suo esito positivo, di assistenza alle parti nella individuazione degli interessi in conflitto e nella ricerca di un punto d’incontro, è svolto da un terzo indipendente e imparziale, nella negoziazione l’analogo ruolo è svolto dai loro stessi difensori: è conseguentemente palese come, pur versandosi in entrambi i casi in ipotesi di condizioni di procedibilità con finalità deflattive, gli istituti processuali in esame siano caratterizzati da una evidente disomogeneità.

La Corte, quindi, ha così concluso: "L’evidenziata disomogeneità delle due fattispecie poste a confronto ne preclude, dunque, una comparabilità idonea a integrare la violazione dell’art. 3 Cost. e induce a escludere che sia stato irragionevolmente riservato un trattamento differenziato alla mediazione e, quindi, che la scelta legislativa denunciata dal rimettente abbia valicato il confine dell’arbitrarietà" (13) .

5. Conclusioni

In conclusione si può affermare che guardare con favore i metodi di soluzione alternativa delle controversie, o, ADR, quale acronimo dell’espressione inglese Alternative Dispute Resolutions, naturalmente nell’ambito dei diritti disponibili ed anche qualora il relativo esperimento non sia previsto come obbligatorio, oltre agli aspetti positivi già evidenziati in ragione di tempistica e costi, significa non trascurare altro aspetto importante sul piano sociale, rappresentato dalla possibilità di un più veloce ed auspicabile recupero di un rapporto pacifico tra i soggetti interessati, diversamente più arduo da conseguire in pendenza di una lite giudiziaria che potrebbe, diversamente, inasprire il rapporto tra gli stessi, rendendo, non di rado, vani il tentativo di conciliazione di cui all'art. 185. c.p.c. (14) ovvero la proposta di conciliazione di cui all'art.185 bis c.p.c. (15), benchè possibili  se non altro, come pacifico, in qualunque momento dell'istruttoria nelle rispettive e diverse modulazioni.


Note e riferimenti bibliografici

(1) in tal senso G. VERDE, Sul monopolio dello Stato in tema di giurisdizione, in Riv. Dir. Process., 2003, 371 e Lineamenti di diritto sull arbitrato, Torino, 2004

(2) per una equiparazione di effetti tra lodo e sentenza, cfr, fra gli altri, TARUFFO, in COMOGLIO - FERRI - TARUFFO, Lezioni sul processo civile, I, Bologna, 2011, 126; G.F. RICCI, Diritto processuale civile, III, Torino, 2009, 502 ss.; per il contrario orientamento, cfr. fra gli altri, E. ODORISIO, Prime osservazioni sulla nuova disciplina dell’arbitrato, in Riv. dir. proc., 2006, 269; secondo l’autore, invero, l’attuale disciplina non precluderebbe la possibilità di riconoscere natura negoziale all’arbitrato rituale; G. BONATO, La natura e gli effetti del lodo arbitrale. Studio di diritto italiano e comparato, Napoli, 2012, 65; secondo l’autore, invero, la tesi che configura il lodo come una decisione di natura privata è quella che meglio risponde al dato normativo italiano sia a livello costituzionale che a livello di sistema ordinario. 

(3)  Sezioni Unite, 25 ottobre 2013, n. 24153 

(4) Cassazione, 4 gennaio 2017, n. 81; in termini, Sezioni Unite, 19 maggio 2009, n. 1152

(5) Cassazione, 31 ottobre 2019, n. 28011

(6) Cassazione, 2 luglio 2007, n. 14972

(7)  Cassazione, 13 marzo 2019, n. 7198

(8) Cassazione, 23 ottobre 2019 n. 27085

(9) Cassazione, 30 marzo 2018, n. 7891 

(10) Sezioni Unite, 13 giugno, 2017, n. 14649

(11) Tribunale di Milano, Sezione specializzata in materia di impresa, 29 aprile 2015, n. 5439 

(12)  in senso favorevole, si veda per tutte, Trib. Palermo, 27.2.2016

(13)  Corte Costituzionale, 18 aprile 2019, n. 97

(14) art. 185 c.p.c. "Tentativo di conciliazione", testo: "Il giudice istruttore, in caso di richiesta congiunta delle parti, fissa la comparizione delle medesime al fine di interrogarle liberamente e di provocarne la conciliazione. Il giudice istruttore ha altresì facoltà di fissare la predetta udienza di comparizione personale a norma dell'articolo 117. Quando è disposta la comparizione personale, le parti hanno facoltà di farsi rappresentare da un procuratore generale o speciale il quale deve essere a conoscenza dei fatti della causa. La procura deve essere conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata e deve attribuire al procuratore il potere di conciliare o transigere la controversia. Se la procura è conferita con scrittura privata, questa può essere autenticata anche dal difensore della parte. La mancata conoscenza, senza giustificato motivo, dei fatti della causa da parte del procuratore è valutata ai sensi del secondo comma dell'articolo 116. 
Il tentativo di conciliazione può essere rinnovato in qualunque momento dell'istruzione.
Quando le parti si sono conciliate, si forma processo verbale della convenzione conclusa. Il processo
verbale costituisce titolo esecutivo".

(15) art. 185 bis c.p.c. "Proposta di conciliazione del giudice", testo: "Il giudice, alla prima udienza, ovvero sino a quando è esaurita l'istruzione, formula alle parti ove possibile, avuto riguardo alla natura del giudizio, al valore della controversia e all'esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto, una proposta transattiva o conciliativa. La proposta di conciliazione non può costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice".