Pubbl. Sab, 11 Gen 2020
Riflessioni sul principio di inesigibilità nel diritto penale
Modifica paginaIl presente contributo si propone di analizzare il principio di inesigibilità tanto nella sua componente dogmatica, quanto nelle sue applicazioni giurisprudenziali, mettendone in luce la rilevanza nel sistema penale.
Sommario: 1. Introduzione 2. Inquadramento dogmatico della categoria dell’inesigibilità 3. Applicazioni giurisprudenziali dell’inesigibilità della condotta lecita. 4. Rapporto tra inesigibilità e scusanti: indagine codicistica ed esegesi normativa. 5. Inesigibilità e stato di necessità. 6. Considerazioni conclusive.
1. Introduzione
L’inesigibilità della condotta lecita assume particolare rilevanza, oltre che estremo interesse, nella moderna dogmatica giuridica, anche alla luce dell’evoluzione del sistema penale, caratterizzato dalla sempre più significativa centralità dell’illecito colposo ed omissivo.
In particolare, ci si domanda se il comportamento imposto dal precetto penale sia sempre esigibile dai consociati e, in caso contrario, a quali condizioni una condotta da esso difforme possa ritenersi esente da pena, rectius scriminata.
In prima battuta, è innegabile rilevare come una locuzione siffatta celi in sé una componente aporetica, atteso che predica l’impossibilità di pretendere un comportamento che l’ordinamento giuridico, nella sua opera di selezione di fatti penalmente rilevanti, ritiene lecito.
Ne discende un possibile contrasto con il principio di non contraddizione, sul quale il sistema penale è informato e la cui rilevanza illumina l’intrecciarsi della tematica in discorso con quella delle cause di giustificazione e delle scusanti, ove il conflitto tra norme è solo apparente.
In via preliminare, al fine di meglio organizzare le seguenti riflessioni, è opportuno operare un inquadramento scientifico del principio di inesigibilità, delineandone i connotati essenziali.
Nel linguaggio comune, esigibile è ciò che può essere preteso in un determinato conteso relazionale, come il suffisso bilis - che illumina il concetto di possibilità - suggerisce.
Donde il concetto di inesigibilità si ricava per differenza da quello di esigibilità, contrassegnando ciò che non può essere preteso.
Ciò posto, al fine di meglio contestualizzare la categoria dell’inesigibilità nel sistema penale, è utile operare un raffronto con il sistema civilistico, dove il concetto di esigibilità è assai noto.
In particolare, come emerge con nitore dall’esegesi degli art. 1175 e 1176 c.c., nonché da una lettura sistematica del capo dedicato alle obbligazioni, l’esecuzione della prestazione da parte del debitore (id est: l’adempimento) assurge a condotta lecita nell’ambito del rapporto obbligatorio, in ossequio a quell’impostazione dottrinale che vede nelle obbligazioni una tecnica scientifica, prima ancora che legislativa, di razionalizzazione dei comportamenti umani.
Ciò nondimeno, vi sono delle situazioni in cui, anche alla luce del principio generale di buona fede, siffatto adempimento non può essere preteso dal creditore, altrimenti verificandosi un’ipotesi di abuso del diritto, ossia un comportamento irrazionale.
Così, volgendo lo sguardo in particolare ai casi di responsabilità per inadempimento o di impossibilità sopravvenuta di esecuzione della prestazione (di cui agli artt. 1218 ss. e 1256 cc.), l’inadempimento del debitore, da comportamento che viola la lex contractus, assurge a fatto non perseguibile coi rimedi che l’ordinamento tipicamente appresta in tali ipotesi.
Calando tali riflessioni nel sistema penale, può dirsi che l’inesigibilità rappresenta un concetto omnicomprensivo che racchiude al suo interno tutte le ipotesi in cui l’adempimento del precetto penale non può essere richiesto dal singolo.
Ciò in particolare si verifica allorché, avuto riguardo alla fenomenologia dell’azione criminosa, sussistano delle circostanze concomitanti o di fatto tali da rendere in concreto l’adempimento del precetto inesigibile.
Un assunto di tal genere ben si giustifica nella prospettiva in cui, in ossequio ad esigenze di civiltà prima che di razionalità, si ritenga che la pretesa di adempimento sia intrinseca alla norma penale, altrimenti trovandosi, similmente a quanto avverrebbe nel caso di un precetto di comando che non preveda una sanzione per la sua inosservanza, di fronte ad un absurdum, che mal si concilierebbe con la coerenza cui il sistema penale aspira.
Alla luce delle prefate riflessioni, appare chiaro che la tematica dell’inesigibilità della condotta lecita è intimamente connessa alla nuova dimensione della colpevolezza (cd. normativa), che in una più matura cultura giuridica contrassegna non solo il rapporto tra soggetto e fatto, intriso da un’inevitabile componente psicologica, ma anche quello tra soggetto ed ordinamento, al quale è stata conferita dignità anche costituzionale dalla storica sentenza n. 364/1988 della Corte Costituzionale[1].
La centralità di un rapporto siffatto nella tassonomia della colpevolezza appare coerente, specie ove si consideri che l’ordinamento, nell’effettuare le scelte di incriminazione, ricollega l’operatività della sanzione penale al verificarsi di fatti, ossia comportamenti umani.
In tale prospettiva, l’inesigibilità della condotta lecita assurgerebbe a principio razionale, poiché sarebbe contraddittorio che un ordinamento che si pone come obiettivo principale la razionalizzazione dei comportamenti umani, ai fini del progresso della civiltà disciplini il reale in maniera irrazionale, ossia con norme la cui portata precettiva sia inesigibile, né di realtà può parlarsi ove vi sia irrazionalità.
Fatte queste premesse di carattere generale, si impone una precisazione di carattere epistemologico.
Il rapporto tra soggetto e norma, inteso in termini di intelligibilità del precetto, presuppone in capo al singolo la capacità di comprensione e di rispetto di quanto la norma penale impone.
Così, similmente a quanto avviene nel rapporto obbligatorio di civilistica impronta, dove l’inadempimento è valutato con maggior rigore nei confronti del soggetto dotato di particolari capacità, allo stesso modo potrebbe sostenersi che il principio dell’inesigibilità della condotta lecita non estenda il proprio raggio di operatività nell’ipotesi in cui il soggetto si distingua per particolari abilità di comprensione del reale, poiché il rispetto della norma costituirebbe un’aspettativa razionale del sistema nei confronti di costui.
Negli altri casi, dove sembra illuminarsi il noto principio ad impossibilia nemo tenetur, il comportamento lecito in presenza del verificarsi di date condizioni è inesigibile, ciò comportando alcun vulnus alla cooperazione e, in particolare, l’indifferenza dell’ordinamento, che si traduce nella esenzione da pena.
2. Inquadramento dogmatico della categoria dell’inesigibilità
Così delineato il fondamento scientifico dell’inesigibilità, occorre ora fornirne un più puntuale inquadramento dogmatico.
In limine, può dirsi che, conformemente a quanto sostenuto dalla concezione intermedia in merito al rapporto tra ordinamento penale e ordinamento extrapenale, non paiono esservi cause ostative all’applicazione in tale contesto delle coordinate civilistiche dianzi delineate, seppur con i dovuti adattamenti richiesti dal particolare atteggiarsi del sistema penale.
Così, piuttosto che di impossibilità di porre in essere una determinata condotta (come avviene nei casi di caso fortuito, di forza maggiore e di incapacità), l’inesigibilità designa l’impossibilità di pretenderla, in ciò illuminandosi l’intima connessione della categoria in discorso con la problematica inerente alla qualificazione soggettiva, propria del dominio giuridico.
Che di impossibilità naturale piuttosto che di impossibilità tecnica debba parlarsi appare essere una sfumatura concettuale non priva di importanza, ritenendosi preferibile la prima soluzione in un ordinamento che più degli altri risente della penetrazione delle categorie scientifiche.
Di non secondario interesse, inoltre, appare essere il supposto conflitto tra la teoria dell’inesigibilità, di pura derivazione dottrinale ed un ordinamento retto dal principio di legalità, che in tal caso si manifesta nel corollario della tipicità.
L’elaborazione di principi non previsti, invero, sembrerebbe assurgere a limite per l’interprete, specie in un ordinamento articolantesi per singole fattispecie rigidamente predeterminate dal legislatore, da ciò discendendo uno dei possibili punti di tensione della teoria siffatta con un sistema costruito oltre ogni ragionevole dubbio.
Ciò posto, la teoria dell’inesigibilità ha fatto il proprio ingresso nella dogmatica penalistica sulle spinte della dottrina tedesca, come spesso avviene nel diritto penale (si pensi agli studi relativi alla teoria del rischio o a quelli in materia di dolo eventuale e colpa cosciente).
Sulla scia di tali elaborazioni, l’inesigibilità viene a configurarsi dapprima come causa generale di esclusione della colpevolezza di matrice extralegale[2], mentre in un secondo momento, ad opera della teoria tripartita, assume carattere autonomo.
L’accoglimento in via pressoché definitiva della teoria in discorso è avvenuto ad opera della teoria finalistica dell’azione, nota nell’ambito della teoria generale del reato, specie negli studi sul fatto tipico.
Secondo tale impostazione, l’inesigibilità assurgerebbe a requisito ulteriore dell’azione teleologicamente orientata, in ciò illuminandosi un volere che, seppur contrario all’obbligo e integrante un fatto tipico-in ragione della volontaristica adesione all’illecito, non viene punito, da ciò discendendo l’indifferenza dell’ordinamento.
In tal senso, ai fini dell’attribuzione della responsabilità penale, non occorrerebbero solamente il compimento del fatto, la riconducibilità al suo autore tanto da un punto di vista dell’imputazione oggettiva, quanto dell’imputazione soggettiva e l’accertamento –posteriore a quello del fatto di reato- dell’imputabilità, ma anche che la pretesa del comportamento fosse in concreto esigibile.
Ne discende che la focalizzazione della componente finalistica dell’azione, espressa da siffatta impostazione teorica, permette di affermare con maggior enfasi il rapporto tra soggetto e norma che è richiesto ai fini della colpevolezza e di cui proprio l’inesigibilità costituirebbe uno degli epifenomeni più significativi.
Alla luce delle prefate riflessioni, ben si comprende come il fiorire della teoria dell’inesigibilità abbia trovato terreno fertile nell’illecito colposo ed in quello omissivo, che secondi taluna dottrina costituiscono la nuova dimensione del moderno illecito penale.
Ciò in ragione del fatto che di inesigibilità della condotta lecita pare potersi discutere tanto nel caso del mancato rispetto dell’obbligo previsto dalla norma cautelare - che peraltro prescrive il cd. comportamento alternativo lecito – quanto nel mancato rispetto dell’obbligo giuridico di impedire l’evento, discendente dalla sussistenza di una posizione di garanzia in capo al soggetto attivo.
Ciò posto, da più parti si è sottolineato come l’inesigibilità costituisca una clausola di carattere generale ed aperto, attraverso la quale è possibile l’ingresso nell’ordinamento delle cause di scusa, specie quelle non tipizzate.
Ne discende che le scusanti costituiscono la principale forma di manifestazione dell’inesigibilità nel sistema penale, come emerge con nitore dalla circostanza che predicare l’inesigibilità di una data condotta, seppur lecita, comporta indiscutibilmente un giudizio di valore, come tale rientrante nel dominio giuridico.
Sulla scia di tali riflessioni, ben si comprende la suscettibilità di siffatta categoria ad essere utilizzata per la risoluzione di conflitti tra obblighi o tra situazioni non previsti dall’ordinamento, specie allorché vengano in rilievo valutazioni di carattere extra penale, ossia di natura morale.
Ciò nondimeno, l’interpretazione prevalente non ha mancato di evidenziare l’eccessiva elasticità e vaghezza di una clausola siffatta, che mal si concilierebbe con un sistema dove ogni singola fattispecie dovrebbe essere costruita secondo il principio BARD, di cui all’art. 533 c.p.p.
Ne conseguirebbe il rischio di un eccessivo proliferare di ipotesi non previste, di ondivaga interpretazione, nonché un possibile sconfinamento nell’arbitrio da parte del sindacato giudiziale.
Né pare potersi trascurare, sulla scia di tale impostazione, il vulnus al principio di uguaglianza che risulterebbe leso ove si disciplinassero casi non previsti in maniera differente rispetto alle cause di giustificazione legislativamente tipizzate.
Alla luce di ciò viene esclusa l’attitudine dell’inesigibilità ad assurgere a categoria generale del sistema penale.[3]
Altri autori, invece, sottolineano l’inutilità di una clausola siffatta, atteso che al conseguimento delle finalità che essa si pone potrebbe pervenirsi mercè un’interpretazione estensiva dell’esimente dello stato di necessità di cui all’art. 54 c.p, operazione peraltro frequente in giurisprudenza[4].
Quest’ultima, dal canto suo, ha accolto la teoria in discorso, ma limitatamente alla misura in cui possano darsi nella fenomenologia criminosa delle circostanze concomitanti che incidano sul processo motivazionale dell’agente e siano tali da restringere il dovere giuridico penale, ove esso sia in concreto inesigibile, nonché il raggio dell’incriminazione delle condotte umane.
3. Applicazioni giurisprudenziali dell’inesigibilità della condotta lecita
In tal senso, può volgersi lo sguardo ad una significativa casistica giurisprudenziale, dove sembrerebbero venire in rilievo ipotesi di inesigibilità della condotta lecita.
Originariamente, sotto l’imperio di un decreto luogotenenziale del 1942, la Cassazione escluse nell’immediato dopoguerra il reato di aiuto al nemico (e più precisamente, di collaborazionismo con il regime nazista) relativamente alla condotta di un funzionario, che aveva agevolato con la propria condotta le mire dell’avversario invasore[5].
Ciò in ragione del fatto che tale reato, secondo la Suprema Corte, sarebbe stato integrato solo allorquando la condotta dovuta (cioè lecita) non avesse esposto il soggetto ad alcun pericolo di carattere personale, da ciò discendendo la non punibilità e dunque l’inesigibilità della condotta lecita nel caso concreto.
Successivamente, nel caso del reato di false comunicazioni sociali previsto dall’art. 2621 c.c., antecedentemente alla riforma avvenuta ad opera del dlgs. n. 74 del 2000, la giurisprudenza ha affermato la non punibilità del falso documentale posto in essere dal soggetto attivo posto in essere per occultare illeciti commessi precedentemente (come la corruzione o il contrabbando).
Per contro, un orientamento più recente non ha mancato di evidenziare l’irrazionalità di una conclusione siffatta, ritenendo che anche tali condotte fossero meritevoli di sanzione, da ciò discendendone la non esclusione dal raggio della punibilità.
Dell’inesigibilità della condotta lecita si è cercato di fare applicazione come strategia difensiva da parte dei soggetti titolari imprese situate in zone di alta densità mafiosa, al fine di scongiurare l’accusa processuale a titolo di concorso esterno in associazione mafiosa, non trovando però tale ultima impostazione accoglimento da parte della giurisprudenza.
Da ultimo, una significativa ed attuale applicazione del principio in discorso si è avuta nella materia tributaria, che costituisce una delle ultime frontiere del diritto penale, come emerge in maniera nitida dalla rilevanza della tematica dell’abuso del diritto anche penalisticamente inteso.
Segnatamente, nell’ipotesi in cui si verifichi un inadempimento dell’obbligazione tributaria (rectius: una mancata cooperazione da parte del debitore con l’Amministrazione finanziaria ) in ragione della crisi di liquidità nella quale versa l’imprenditore, la più recente giurisprudenza ha escluso che la condotta concretantesi nell’omesso versamento delle imposte dovute entro il termine previsto possa essere scriminata, salvo che il colpevole dimostri che tale crisi, seppur manifestantesi proprio alla scadenza del termine utile del versamento, sia dipesa da causa a lui non imputabile.
È necessario, inoltre, che tale crisi non potesse essere fronteggiata con idonee misure a tal fine, anche se sfavorevoli per il patrimonio personale[6].
Ne discende un restringimento del raggio di operatività dell’inesigibilità della condotta lecita, che appare essere razionale, specie ove si consideri che la crisi di liquidità, pur essendo una circostanza di indubbia serietà, non presenta quella gravità tale da escludere l’esigibilità della pretesa dell’adempimento del precetto, in ciò richiamandosi quanto in precedenza puntualizzato a livello dogmatico.
Alla luce delle prefate considerazioni, può dirsi che il riconoscimento di spazi di autonomia ed operatività al principio in discorso viene operato dalla giurisprudenza solo nei casi in cui l’adempimento del precetto da parte del destinatario della norma sia soggettivamente impossibile.
In tal senso, ben si comprende che l’inesigibilità possa contribuire a meglio perimetrare la dimensione della colpevolezza e ad illuminarne la sua essenziale natura di qualificazione soggettiva, come di recente messo in luce dalla più moderna dottrina[7].
4. Rapporto tra inesigibilità e scusanti: indagine codicistica ed esegesi normativa
Cosi delineato il fondamento dogmatico dell’inesigibilità ed evidenziatane le principali applicazioni giurisprudenziali, è opportuno ora soffermarsi sulla problematica delle scusanti, che, come messo in luce poc’anzi, costituiscono il più tangibile epifenomeno del principio de quo nel sistema penale.
Ciò appare coerente, anche, se non soprattutto, in relazione alle scusanti non codificate, che, come si vedrà nel prosieguo della trattazione, appaiono essere il più diretto effetto dell’inesigibilità.
In via preliminare, una precisazione si impone.
In un ordinamento dove impera il principio di tipicità, l’affermazione dell’immanenza di un principio, nonché il suo accoglimento, non può essere frutto di una conclusione aprioristica, bensì discendere dal dato positivo, attraverso i noti strumenti ermeneutici a disposizione dell’interprete.
Diversamente, potendo essere le disposizioni normative oggetto non già di manipolazione, ma solo di interpretazione, una costruzione teorica che propugnasse l’esistenza o la validità dogmatica di una teoria sarebbe caratterizzata da un difetto metodologico, specie ove non fosse ancorata saldamente o tradisse il dato positivo.
Alla luce di ciò, onde inferire l’immanenza di un principio che per ragioni logiche e di natura teoretica appare ammissibile-come in precedenza chiarito- è opportuno procedere ad un’indagine induttiva che, penetrando nei meandri del tessuto codicistico, analizzi le principali ipotesi di scusanti previste dal nostro ordinamento.
In particolare, come sottolineato in dottrina, in tali ipotesi ad essere eliminata è l’antigiuridicità soggettiva della condotta del soggetto agente, mentre a permanere è quella oggettiva.
È proprio in relazione alle scusanti, peraltro centrali nella teoria delle cause di esclusione della pena, che si illumina la validità del principio di inesigibilità per la risoluzione di conflitti tra doveri giuridici o obblighi previsti dall’ordinamento.
Ciò posto, l’art. 54 comma 3 c.p. prevede che la disposizione relativa allo stato di necessità si applica anche se questo è determinato dall’altrui minaccia, ma in tal caso del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi la ha obbligata a commetterlo.
Dall’esegesi della norma de qua emerge plasticamente la non punibilità del deceptus, ossia del soggetto minacciato, allorché sotto minaccia, si sia trovato a dover compiere il fatto previsto dal primo comma.
Controverso è l’inquadramento della fattispecie in discorso nelle cause di giustificazione o nelle cause di scusa.
A favore della prima tesi deporrebbe sia l’esplicito richiamo che il legislatore opera alla previsione di cui al primo comma, dal quale sembrerebbe potersi affermare la natura di ipotesi speciale di stato di necessità della disposizione in commento, sia, oltre al dato topografico, la possibilità che di tale esimente possa farsi un’interpretazione estensiva, tale da ricomprendere anche casi che presentino elementi specializzanti o aggiuntivi rispetto alla norma di base.
Per contro, la previsione dell’ipotesi dello stato di necessità determinato dall’altrui minaccia e dello stato di necessità classico in due commi diversi, nonché il richiamo alla coazione morale, che emerge con nitore dall’utilizzo legislativo del termine minaccia-che, in ossequio alla costanza nell’utilizzo dei termini legislativi, va inteso nel senso di cui agli artt. 611 e 612 c.p.-, farebbero propendere per l’inquadramento dell’ipotesi di che trattasi nell’alveo delle cause di scusa.
Ciò in ragione del fatto che la coazione morale sotto forma di minaccia cagionerebbe una sorta di evento psichico tale da creare una frattura in quell’adesione di carattere psicologico (rectius: volontaristico ) che è necessaria ai fini della colpevolezza, da ciò discendendo che nell’ipotesi in discorso si illuminerebbe una causa di esclusione della colpevolezza a livello soggettivo.
Ciò accentuerebbe ancor di più la dimensione soggettiva dell’inesigibilità della condotta lecita, che in tale ipotesi si manifesterebbe nell’impossibilità di pretendere la realizzazione di quanto statuito dalla norma da parte di un soggetto che materialmente si trova nell’impossibilità di comportarsi diversamente, il che è a fortiori comprensibile, a livello pratico, stante il requisito della minaccia legislativamente previsto.
Un’altra ipotesi a venire in rilievo nel presente contesto è quella di cui all’art. 51 comma 4, in forza del quale non è punibile chi esegue l’ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine.
Dall’analisi della norma de qua si evince a contrario che, qualora l’ordine, seppur illegittimo, sia sindacabile, il soggetto che lo ha eseguito di regola non è esente da pena, salvo i casi in cui tale ordine si presenti intrinsecamente contraddittorio o affetto da illogicità manifesta.
Nei casi, invece, di insindacabilità dell’ordine, a venire in rilievo è l’impossibilità dell’operatività della scriminante dell’adempimento del dovere, da ciò discendendo che nel caso in cui l’ordine illegittimo consista nella commissione di un reato, il sottoposto non è punibile, poiché ha agito in casi di pressione psicologica o giuridica tali da rendere inesigibile un comportamento diverso.
Proseguendo nell’analisi delle scriminanti codificate, è ora opportuno soffermarsi sull’art. 55 c.p , disciplinante l’eccesso colposo.
In particolare, è stabilito che quando nel commettere uno dei fatti previsti dagli artt. 51, 52, 53, 54 si eccedano colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall’ordine dell’Autorità, ovvero imposti dalla necessità, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo.
Dall’esegesi della norma in commento emerge plasticamente l’impossibilità di estendere il raggio della punibilità all’eccesso doloso, poiché un’interpretazione di tal fatta tradirebbe il dato testuale, che dice espressamente di delitto colposo, come emerge con nitore dall’avverbio colposamente che qualifica la condotta travalicante i limiti legalmente previsti.
Né pare potersi trascurare che sarebbe contraddittorio punire a titolo doloso chi ecceda i limiti previsti per il delitto colposo, in quanto ciò, oltre ad essere intrinsecamente illogico, sovvertirebbe una delle regole principali in tema di tecniche di tipizzazione dell’illecito che è quella della necessaria tassatività dell’illecito colposo, dovendo ogni fattispecie colposa essere prevista in forma dolosa.
In un’ipotesi di tal fatta, l’inesigibilità della condotta lecita si illuminerebbe nell’impossibilità da parte di chi ecceda inconsapevolmente i limiti imposti di tenere un comportamento diverso, mancando quell’adesione all’illecito che è propria del reato doloso.
Nel caso della scriminante putativa, prevista dall’art. 59 comma 4, in base al quale se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui, non escludendosi la punibilità qualora l’errore sia determinato da colpa e il fatto sia preveduto dalla legge come delitto colposo, invece, si è in presenza di una causa soggettiva di esclusione della colpevolezza.
Ciò in ragione del fatto che, posto il conflitto tra scriminante reale e scriminante putativa, in tal caso la scriminante non esiste, il che determina la non punibilità dell’agente e dunque l’inesigibilità di un comportamento diverso, altrimenti non ritenendosi integrato l’elemento soggettivo, che sarebbe viziato dalla discrasia tra la condotta illecita posta in essere dal soggetto e la mancata adesione al fatto di reato.
Da ultimo, nel caso di recente introduzione di cui all’art. 590 sexies c.p. - disciplinante il cd. omicidio sanitario - ai sensi del quale qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le linee guida sempre che siano adeguate al caso concreto, ove si aderisse a quell’impostazione dottrinale che, diversamente da quanto sostenuto dalla Suprema Corte, che dice di causa di on punibilità, ravvisa in tale fattispecie una scusante, potrebbe sussumersi nell’alveo dell’inesigibilità e quindi valutarsi come non punibile la condotta del sanitario che in concreto non abbia potuto rispettare le linee guida.
Osservato il quadro normativo, può dirsi che le ipotesi di inesigibilità, oltre a presentare una contiguità a livello sistematico, sono accomunate dall’impossibilità soggettiva di adempiere al precetto normativo e dall’irragionevolezza della sanzione della condotta criminosa, pur tipica, posta in essere dal soggetto agente.
Quanto alle scriminanti non codificate, che rappresentano uno degli effetti diretti del principio di inesigibilità, può dirsi che l’ampliamento del novero delle cause di scusa ad ipotesi non legislativamente previste avverrebbe tecnicamente attraverso il ricorso all’analogia, che è ammessa nell’ambito delle cause di giustificazione.
Ciò permetterebbe l’estensione a casi analoghi dei principi previsti in materia di esimenti.
5. Inesigibilità e stato di necessità
In tale prospettiva, può osservarsi che, tanto in dottrina, quanto in giurisprudenza, come evidenziato in precedenza, si è cercato di pervenire ad un’interpretazione estensiva dello stato di necessità, con particolare riferimento ai requisiti della gravità, della involontarietà e della inevitabilità del pericolo, fermo restando il limite expressis verbis previsto della proporzionalità del fatto al pericolo, imprescindibile per l’operatività dell’esimente[8].
Così si è ravvisata l’operatività dello stato di necessità, ritenendo sussistere l’eadem ratio, anche nelle ipotesi in cui a venire in rilievo non è un bene strettamente personale, come nel caso del bene patrimoniale, accedendo a quell’impostazione che vede nel patrimonio la proiezione o comunque una delle manifestazioni della personalità dell’individuo.
Ne discenderebbe che anche in presenza del pericolo grave, causato non involontariamente e inevitabile, ma riguardante un bene non strettamente personale, il soggetto sarebbe “lecitamente” orientato alla commissione del fatto, andando esente da pena.
Per contro, altra parte della dottrina, in ossequio ai principi fondamentali del sistema penale, ritiene non praticabile un’interpretazione estensiva dello stato di necessità, da ciò discendendo il rifiuto della categoria dell’inesigibilità della condotta lecita, poiché violativa del principio di obbligatorietà della legge penale, di cui all’art. 3 cp.
Le esigenze di giustizia sostanziale che tale principio si prefigge di rispettare, in altre parole, potrebbero essere soddisfatte mediante il ricorso alle attenuanti generiche o alla determinazione della pena ex art. 133 c.p.
Passando all’esame delle scusanti speciali, utile ai fini di una più completa disamina della categoria, può dirsi che nel caso previsto dall’art. 384 c.p. parrebbe illuminarsi un’ipotesi speciale di stato di necessità, in quanto piuttosto che di danno grave alla persona, il dato positivo fa riferimento alla libertà ed all’onore, che della persona lato sensu intesa costituiscono significativo epifenomeno, ma non ne esauriscono il concetto, dovendo questa intendersi ora in senso statico biologico, ora in senso dinamico relazionale.
A tale conclusione conduce anche la presunzione di costanza dei termini utilizzati dal legislatore, come emerge con nitore dalla locuzione “fatto commesso per esservi costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto.
Di tale causa di non punibilità si è fatto applicazione, peraltro icasticamente suggerita dall’espresso richiamo effettuato dal legislatore, nel caso dei delitti di falsa testimonianza, specie nel caso in cui il soggetto si trovi costretto, al fine di salvare il proprio onore o quello di un prossimo congiunto, ad affermare il falso.
Ricordandosi che, in ossequio al principio di carattere processuale nemo tenetur se detegere espresso anche dall’art. 199 c.p., che regola la facoltà di astensione da parte dei testimoni, nessuno è tenuto ad autoaccusarsi, in ragione del naturale istinto alla autoconservazione, si ritiene che in tali ipotesi correttamente possa dirsi di inesigibilità della condotta lecita anche alla luce del rispetto dei vincoli di solidarietà familiare, che, nell’ottica di un bilanciamento di valori, possono ritenersi prevalenti rispetto al corretto funzionamento della macchina giudiziaria.
Merita di essere segnalato, infine, un recente orientamento, il quale, ponendosi in contrasto con quanto sostenuto dalla giurisprudenza prevalente, anche costituzionale, ha esteso la causa di esclusione di cui all’art. 384 c.p. anche al convivente more uxorio, attraverso un’interpretazione estensiva del concetto di famiglia[9].
Ne consegue che anche nel caso del convivente more uxorio che ponga in essere un fatto contemplato dalla norma suddetta parrebbe illuminarsi un’ipotesi di inesigibilità della condotta lecita.
Da ultimo, pare poter rientrare nell’alveo dell’inesigibilità altresì la previsione di cui all’art. 599 c.p., che stabilisce la non punibilità di chi ha commesso i fatti di diffamazione, oggi depenalizzati, nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui e subito dopo di esso.
Appare agevole individuare la ratio della previsione de qua facendo riferimento alle leggi scientifiche, chiamate in causa dalla circostanza che il fatto è stato commesso immediatamente dopo il fatto ingiusto altrui che ha determinato lo stato d’ira.
L’intento del legislatore è non già quello di autorizzare la vendetta privata o di ritagliare uno spazio di liceità per la follia-peraltro presa in considerazione dalla legge penale-bensì quello di evitare che un soggetto venga punito ad onta delle leggi fisiche, in base alle quali non è possibile che un proposito criminoso sorga immediatamente dopo un fatto ingiusto subito, richiedendosi un lasso di tempo apprezzabile.
Ne discende che, in ipotesi di tal fatta, pare correttamente potersi ravvisare l’inesigibilità della condotta lecita, atteso che il soggetto non avrebbe potuto comportarsi diversamente, non avendo il pieno controllo di sé.
6. Considerazioni conclusive
Avviandosi alle conclusioni, può dirsi che l’inesigibilità , pur non assurgendo a categoria generale dell’ordinamento penale, a ciò ostando dei principi di carattere scientifico da ritenersi insuperabili, può assurgere a principio ad ogni modo caratterizzante il sistema e a valido criterio per la risoluzione delle antinomie- utilizzato anche nelle contravvenzioni, dove si intreccia con il principio di buona fede- rimesso al vaglio giudiziale, affermando con maggior forza il legale sussistente tra i consociati e l’ordinamento giuridico, rectius tra diritto e realtà.
Note e riferimenti bibliografici
F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte generale, XVI edizione, Torino 2003.
F. BELLOMO, Nuovo sistema del diritto penale, II edizione, Bari 2017.
G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, parte generale, ultima edizione, Bologna 2019.
R. GAROFOLI, Manuale di diritto penale, parte generale e speciale, V edizione, Roma 2019.
F. MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, IX edizione, Padova 2015.
[1] F. BELLOMO, Nuovo sistema del diritto penale, II edizione, Bari 2017. L’autore propone, alla luce della teoria cd. pentapartita, propone un inquadramento dogmatico innovativo del principio di colpevolezza, contestualizzandone l’evoluzione nella sua dimensione normativa nell’ambito della cd. qualificazione soggettiva
[2] Cosi F. MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, IX edizione, Padova 2015, pp.361 ss. L’autore, sottolineando la derivazione tedesca della teoria in discorso, mette in luce l’essenza dell’inesigibilità come causa generale ed autonoma preterlegale di esclusione della colpevolezza, ravvisandone il fondamento nella circostanza che la colpevolezza, normativamente intesa, richiederebbe altresì la cd. esigibilità del comportamento. Ciò in ragione del fatto che la volontà dovrebbe formarsi in circostanze concomitanti normali, che siano tali cioè da consentire una normale motivazione, in presenza della quale l’ordinamento giuridico potrebbe esigere che il soggetto si conformi alla norma. Rispetto al profilo da ultimo richiamato cfr. anche R. GAROFOLI, Manuale di diritto penale, parte generale e speciale, V edizione, Roma 2019, pp. 43 ss.
[3] F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte generale, XVI edizione, Torino 2003 pp. 433 ss., il quale ritiene inopportuno che l’inesigibilità possa assurgere a principio generale del sistema penale, poiché ciò comporterebbe il rischio di interpretazioni arbitrarie da parte del giudice.
[4] G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, parte generale, ult. edizione, Bologna 2019, pp.425 ss.
[5] Così Cass., sez. fer. 3 settembre 1946.
[6] Da ultimo, Cass. Sez II, 18 gennaio 2016, n.1623.
[7] F. BELLOMO, op.cit., p. 1023.
[8] F. ANTOLISEI, op. cit., p. 434.
[9] Così Cass. Sez II, 4 agosto 2015, n.34147 in R. GAROFOLI, op. cit., p. 44