Pubbl. Lun, 7 Lug 2025
La valutazione giudiziale penale del fatto negativo
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Marco Cecchi

Il contributo riproduce il testo della relazione tenuta dall’Autore in seno al Workshop “La prova del fatto negativo”, organizzato dall’AISP (Associazione Italiana Studiosi della Prova), nell’ambito della 2nd Taruffo Girona Evidence Week, svoltasi a Girona dal 2 al 6 giugno 2025.

Criminal’s Judge Evaluation of Negative Fact (Evidence)
The paper represents the text of the report given by the Author within the Workshop “The Proof of Negative Facts (Evidence),” organized by AISP (Italian Association of Scholars of Evidence), as part of the 2nd Taruffo Girona Evidence Week, held in Girona, June 2-6, 2025.Sommario: 1. Introduzione; 2. Difficoltà argomentative; 3. Valutazione giudiziale (penale), onere della prova e garanzie processuali; 3.1 Fatto negativo assoluto e fatto negativo relativo; 3.2 Richiami esemplificativi; 3.3 Motivare rafforzatamente sul fatto di prova negativo (?).
1. Introduzione
Con la presente relazione ci si propone di approfondire il tema della valutazione giudiziale penale del c.d. “fatto (di prova) negativo”.
Quando si parla di fatto (di prova) negativo, in ambito processuale penale, si fa riferimento all’assenza o la mancata prova di un determinato evento, comportamento o elemento – materiale o psicologico – che, se presente, avrebbe potuto assumere rilievo probatorio a favore o contro l’imputato.
La tematica è delicatissima, specialmente in un sistema di stampo accusatorio (ancorché temperato: dato che il giudice ha poteri d’ufficio che, in virtù del valore cognitivo del processo penale gli consentono di sopperire all’inerzia investigativa tanto dell’accusa quanto della difesa, seppur con significativi limiti).
La tematica è delicatissima, dicevo, perché in un sistema di accertamento tendenzialmente adversary, che si regge sul principio del contraddittorio (art. 111, co. 2, 3, 4 e 5 Cost. – la prova, per essere epistemologicamente buona, deve formarsi nella dialettica tra le parti; ecco, in un contesto del genere) il fatto che si utilizzi l’assenza o la mancata prova di un elemento in astratto giuridicamente rilevante è un qualcosa che stride fortemente, smaterializzandola, con la modalità dialogica (i.e. accusa e difesa che dibattono) imposta dalla legge per la corretta – cioè, giusta/equa – ricostruzione processuale dei fatti [1].
La smaterializzazione dell’oggetto della dialettica (id est si ragiona su ciò che non c’è) rende meno impattante il contraddittorio, che ne esce pertanto indebolito, mentre è – per come viene sminuito, alle volte, viene da dire che dovrebbe essere… – la golden rule dell’accertamento processuale penale consegnatoci dall’evoluzione della civiltà giuridica.
Considerate che, nonostante la valenza del principio iura novit curia (da mihi factum dabo tibi ius), le parti hanno un vero e proprio diritto di discutere e controbattere, in contraddittorio, anche sulla quaestio iuris. Una facoltà tutelata pure dal diritto convenzionale – v. Drassich c. Italia, I (2007) e II (2018).
Immaginate perciò sulla quaestio facti… che è il campo per eccellenza dello scontro dialettico tra le parti: sono le parti, infatti, a essere protagoniste del procedimento probatorio e in particolare delle fasi di ricerca e di assunzione della prova. Il giudice, come si è detto prima, interviene solo “in soccorso” e in ipotesi davvero eccezionali (v., spec., art. 507 c.p.p. – “se risulta assolutamente necessario”, dice la legge).
Non c’è tempo per soffermarsi sulla controversa e incerta – a tratti evanescente – distinzione tra quaestio(nes) facti e quaestio(nes) iuris, dovuta all’evenienza che c’è un continuo “andirivieni dello sguardo” tra ‘fatto’ e ‘diritto’. Ma, anche senza interessarsi della possibilità di distinguere davvero tra quaestio(nes) facti e quaestio(nes) iuris, ci preme rilevare che sempre – sia ‘in fatto’ sia ‘in diritto’ – è problematico/molto problematico ragionare sul fatto negativo.
2. Difficoltà argomentative
È complicatissimo sviluppare ragionamenti a partire dalla non presenza o dalla negazione di qualcosa.
Non a caso, è stato storicamente elaborato il brocardo negativa non sunt probanda. Locuzione, questa, che oggi può però dirsi superata: perché attualmente si richiede la prova altresì dei fatti negativi, sebbene se ne riconosca l’intrinseca complessità accertativa.
E in effetti, anche se non del tutto propriamente, potremmo dire che la prova del fatto negativo è un mix tra la probatio diabolica e la prova a contrariis.
Tuttavia non disperiamo né disperdiamoci in considerazioni nichilistiche e proviamo a svolgere qualche riflessione costruttiva tornando alla definizione, chiara e lineare, che il processual-penalista accoglie di fatto (di prova) negativo.
Il fatto di prova negativo è dato dall’assenza o dalla mancata prova di un determinato evento, comportamento o elemento – materiale o psicologico – che, se presente, avrebbe potuto assumere rilievo probatorio a favore o contro l’imputato.
3. Valutazione giudiziale (penale), onere della prova e garanzie processuali
Noi adesso ci concentriamo sul modo in cui hanno da essere valutate la rilevanza e l’efficacia di elementi probatori fondati non su ciò che c’è, bensì su ciò che non c’è: su quel che è assente, su quel che manca (o, ci si potrebbe spingere a dire, non è probatoriamente sostenuto/provato e quindi giuridicamente accaduto).
Ebbene, abbiamo detto che la prova negativa – per sua natura – si configura come un’assenza: la non presenza di un fatto, di una traccia, di una condotta, di una reazione, di una dichiarazione.
Essa può costituire, a seconda del contesto, tanto una prova a sostegno della colpevolezza quanto dell’innocenza (a tal proposito, frequentemente rappresenta un elemento che contribuisce alla formazione di un dubbio ragionevole).
In ogni caso, la prova negativa si fonda sul seguente meccanismo inferenziale: dal non verificarsi/non essere presente di un dato fatto (evento o comportamento, anche di natura processuale, in generale) o dalla mancanza di una evidenza (di segno contrario a quelle addotte nel processo) si trae una conclusione in ordine a un fatto penalmente rilevante.
Tutto questo ha ripercussioni di non poco momento sulle garanzie processuali, sulla presunzione di innocenza e sul riparto effettivo dell’onere della prova (che nel rito criminale grava, ça va sans dire, in prima battuta sul pubblico accusatore).
Proprio con riferimento all’onus probandi, cioè avuto riguardo all’onere della prova/alla carga de la prueba, una delle principali difficoltà che si incontrano quando si tratta di prova negativa attiene alla compatibilità di questa con la regola di giudizio dell’al di là/dell’oltre ogni ragionevole dubbio.
Il ragionamento sulla prova negativa si fa talmente teorico, ibrido e – consentitemi l’espressione gergale – “fumoso” da impedire che un’argomentazione buona tanto per l’accusa quanto per la difesa sia in grado di supportare una condanna b.a.r.d. – beyond any reasonable doubt.
C’è una simpatica pubblicità di un noto centro commerciale in cui si dice “QUI è importante ANCHE QUELLO che non c’è”. Quello che non c’è: l’assenza di qualcosa. Sembra proprio che faccia al caso nostro: si parla del fatto negativo.
Questo slogan pubblicitario, come la quasi totalità delle cose, può essere interpretato in più sensi. Si può ad esempio dire che il messaggio significa “i prodotti che qua non trovate sono deliberatamente stati esclusi, perché non valgono quanto quelli che abbiamo deciso di vendervi” oppure “i prodotti che qua non ci sono hanno comunque una loro importanza e potete trovarli altrove, sicché in quest’ottica siamo talmente leali da valorizzare anche la buona concorrenza”; o, ancora, si può sostenere che non è tanto la materialità di quel che c’è a contare, ma il clima/la sensazione/l’impressione di quel che non c’è materialmente eppure si respira nell’aria a contare davvero, a essere importante per chi entra e per chi lavora in quell’ambiente.
È una faccenda di interpretazione, analoga – in termini di possibilità interpretativo-argomentative – a quelle che si presentano nel mondo del diritto: nelle conversazioni più ordinarie, nelle lezioni universitarie, nelle aule di giustizia e via dicendo. Ed è dovuta all’ineliminabile interpretabilità delle parole.
Voi riuscireste mai a sostenere, senza lasciar residuare alcuna incertezza, che la trovata pubblicitaria del centro commerciale che l’ha inventata è inappellabilmente offensiva degli altri centri commerciali? Personalmente, rispondo di no: perché rimane sempre aperta una ragionevole interpretazione alternativa.
Mutatis mutandis, voi condannereste mai solo sulla scorta di ciò che è – e resta – tanto ambiguo quanto una prova (quella del fatto negativo) che ammette almeno una doppia interpretazione? Non si può: quel che rimane dubbioso non può fondare una pronuncia di condanna, secondo i valori odiernamente condivisi dalle società giuridicamente civilizzate.
Torniamo a noi, dopo questo momento di leggerezza esemplificativa, e introduciamo la distinzione tra fatti probatori negativi assoluti e fatti probatori negativi relativi.
3.1 Fatto negativo assoluto e fatto negativo relativo
Parlando di prova del fatto negativo, a essere più precisi, è possibile distinguere tra prova del fatto negativo assoluto e prova del fatto negativo relativo.
Sembra più agevole e in grado di fondare un giudizio penalistico l’apprezzamento probatorio del fatto negativo assoluto, che si riferisce all’inesistenza ontologica di un qualcosa: ad esempio, l’imputato non è mai stato in quel luogo o non era in quel luogo quand’è stato commesso il reato.
In quest’ipotesi, se si riesce – scusate il gioco di parole – a provare in positivo l’esistenza del fatto negativo assoluto, si è giuridicamente/processualmente tranquilli.
Se c’è la prova (positiva) dell’alibi, allora si applica la massima di esperienza che nessuno è dotato del dono dell’ubiquità e conseguentemente si esclude, al di là di ogni ragionevole dubbio, che quel soggetto abbia commesso quel fatto.
Epperò l’alibi non è una vera e propria prova di un fatto negativo. L’alibi è un fatto negativo in sé (una prova contraria, per meglio dire, rispetto a quelle addotte per provare la colpevolezza; un fatto negativo in sé, dicevamo): che, laddove provato positivamente, risolve – quantomeno per quel determinato accusato – la partita processuale. Non può certamente esser stato quell’imputato coperto da un alibi provato ad aver realizzato quel reato.
Quando si ha a che fare con fatti negativi assoluti, ci si trova innanzi a fattualità (storiche o normative) che non possono affatto darsi. Ci si muove nel campo/sul campo della impossibilità
Ci si muove, viceversa, nel campo/sul campo della possibilità se si ha riguardo alla prova del fatto negativo relativo, e questa è sicuramente foriera di un ragionevole dubbio.
La prova del fatto negativo relativo si riferisce all’assenza di un fatto possibile: ad esempio, non è stata detta questa o quest’altra cosa che avrebbe potuto essere detta; oppure, non ci si è comportati in un modo piuttosto che in un altro, quando ci si sarebbe aspettati lo si facesse; o, ancora, non è emersa la prova della presenza dell’imputato sulla sc(a)ena criminis, ma si sa che tale persona vi è stata altre volte e che il luogo del delitto non è stato ripulito… allora come mai non c’è una sua traccia?! (cfr., giusto per ricordare un caso di cronaca che, esattamente in questi giorni, è tornato nuovamente alla ribalta, il delitto di Garlasco: l’assenza di residui ematici sulle scarpe di Alberto Stasi, poi condannato per l’omicidio di Chiara Poggi, dopo che questi ha detto di aver attraversato una stanza con tantissime macchie di sangue prima di rinvenire il corpo della ragazza uccisa); e così via.
Sono elucubrazioni, pensieri, giudizi, ragionamenti di secondo livello e sviluppati su di una base possibilistica, cioè su di una realtà che non c’è stata (?) ma che avrebbe potuto/dovuto esserci.
Si prende atto dell’assenza di un fatto e si argomenta presuntivamente [2] – in un senso o nell’altro, pro reo o contra reum – a partire dalla stessa. Ecco: proprio la possibilità di argomentare, indifferentemente, in un senso o nell’altro (pro reo o contra reum, per quanto rileva ai fini penalistici), fa sì che la prova di un fatto negativo relativo sia intrinsecamente/di per sé/ontologicamente foriera di un ragionevole dubbio [3].
In quest’ipotesi, il fatto negativo non può costituire la prova unica o determinante per la decisione: senz’altro non per la decisione di colpevolezza; per il decisum liberatorio (proscioglimento o assoluzione) magari sì, in virtù del principio in dubio pro reo.
Nella matière pénale, la prova di un fatto negativo relativo può tutt’al più valere, in chiave colpevolista/per la condanna insomma, come riscontro di altri elementi probatori: quest’ultimi, sì, aventi una base materiale palpabile e auspicabilmente (necessariamente, arg. ex artt. 526, co. 1-bis e 533 c.p.p., in relazione all’art. 111 Cost.) forgiatisi nel contraddittorio tra le parti.
La regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio impedisce/sbarra la porta a diverse possibilità di impiego di questa tipologia di prova. Il ragionamento presuntivo sul quale insiste la ricostruzione della fattualità negativa non permette di raggiungere la soglia b.a.r.d. utile per condannare. Invero, come da ultimo ci ha ricordato la Cassazione (Sez. VI, 21.02.2025, n. 7329, Monachino) in materia, “il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio, per la sua immediata derivazione dal principio della presunzione di innocenza, esplica i suoi effetti conformativi non solo sull’applicazione delle regole di giudizio, ma anche, e più in generale, sui metodi di accertamento del fatto, imponendo protocolli logici del tutto diversi in tema di valutazione delle prove e delle contrapposte ipotesi ricostruttive in ordine alla fondatezza del tema d’accusa: la certezza della colpevolezza per la pronuncia di condanna, il dubbio originato dalla mera plausibilità processuale di una ricostruzione alternativa del fatto per l’assoluzione. Si tratta, dunque, sia di una regola di giudizio, che definisce lo standard probatorio necessario per pervenire alla condanna dell’imputato, escludendo l’utilizzabilità di criteri alternativi di giudizio, quali “la consistente verosimiglianza” o “la forte plausibilità” della ricostruzione adottata, sia di un metodo dialettico di accertamento del fatto, che obbliga il giudice a sottoporre, nella valutazione delle prove, la tesi accusatoria alle confutazioni costituite dalle ricostruzioni antagoniste prospettate dalle difese”.
Tutto questo, laddove ci si trovi al cospetto di un fatto negativo (vale a dire, laddove si ragioni intorno a ciò che è assente, a ciò che non c’è e avrebbe potuto/dovuto esserci), evidentemente manca: chiaramente non può darsi, non può aversi, non può effettuarsi… se non in forma labilissima, flebilissima, tanto sfumata da scomparire praticamente.
Un’immagine che rappresenta tale situazione è quella di chi si sforza al massimo delle sue capacità di ragionare e discutere su di/intorno a un argomento privo di appigli al punto da perdere la cognizione stessa: come quando si riflette sull’infinito e, a un certo punto, il pensiero (che non è in grado di comprendere tanto) si confonde e infine si perde – si ritrova tabula rasa e tutto è bianco, vuoto, assente per l’appunto.
Un po’ forte come similitudine, ma è l’impressione di quel che accade di fronte alla prova di quei fatti negativi relativi che sono indecifrabili.
3.2 Richiami esemplificativi
Adesso, dopo questi preliminari, approdiamo alla valutazione giudiziale della prova negativa e a qualche sua esemplificazione pratica.
In ambito processuale, questo impegno valutativo-motivativo impone una forte responsabilizzazione del giudice, che è chiamato a compiere un’attività inferenziale non priva di rischi, anzi colma/piena zeppa di rischi.
La legge criminale (sostanziale e procedurale) non fornisce criteri univoci per attribuire valore alle prove, né stabilisce una gerarchia tra le varie tipologie probatorie. In materia penale, ricordiamo, non esiste più la prova legale; e questo lascia un ampio – e inevitabile; eppure indispensabile, di cui occorre però farne un giusto uso – margine alla discrezionalità del decisore, che deve essere esercitata nel rispetto dei principi cardine del sistema.
A chiusura del cerchio e quale garanzia ultima, sta poi l’obbligo di motivazione. Il giudicante deve decidere e spiegare le ragioni della propria decisione: ragioni che devono essere fondate sulla logica e sul diritto (legale e normativo-giurisprudenziale).
Nel caso della prova negativa, colui che ha la facoltà di ius dicere deve motivare perché una determinata assenza probatoria deve essere considerata rilevante o, come riscontro, insieme ad altre prove persino decisiva b.a.r.d. ai fini di una certa ricostruzione; e deve farlo senza automatismi o arbitrii di sorta.
Dunque: come valuta, il giudice dei crimini, la prova del fatto negativo?
Vediamolo un poco più da vicino, con riferimento ad alcune situazioni giuridicamente rilevanti.
La giurisprudenza italiana ha affrontato la questione in più occasioni (vicende storiche – quaestio facti) e con riferimento a più istituti (fattispecie giuridiche – quaestio iuris).
Ebbene: le pronunce che negli anni sono state emanate oscillano tra un atteggiamento prudente e repulsivo e un atteggiamento più aperto e propositivo nei confronti del valore inferenziale della prova negativa. Così, per esemplificare: in merito all’alibi, i giudici spesso considerano la sua mancata prova come non sufficiente a sorreggere una condanna; in altre circostanze, l’assenza di reazioni emotive attese oppure la non denuncia spontanea dell’accaduto sono state interpretate come indizi assai rivelatori di colpevolezza.
Queste letture interpretative del fatto negativo devono essere gestite con estrema cautela, per evitare che si scivoli in apprezzamenti frutto di valutazioni stereotipate o violatrici dei principi basilari dell’ordinamento (in primis, la presunzione di innocenza) [4]; e fermo restando quanto si è detto prima: il fatto negativo non può costituire la prova unica o determinante per la decisione: senz’altro non per la decisione di colpevolezza; per il decisum liberatorio (proscioglimento o assoluzione) magari sì, in virtù del principio in dubio pro reo.
È inoltre necessaria – qua a maggior ragione – una peculiare attenzione metodologica nell’approcciare la fattispecie in esame, sia valutativamente che motivazionalmente, giacché – in definitiva – finisce per essere la qualità dell’argomentazione a fare la differenza, allorché si maneggia una categoria logico-probatoria così sfuggente. E solamente una motivazione approfondita, rafforzata in certi suoi passaggi argomentativi, può legittimare l’utilizzo – inteso come utilizzo corretto – della prova del fatto negativo.
Pensiamo, a livello di casistica giurisprudenziale:
- alla prova d’alibi (fatto probatorio negativo per eccellenza; anche se, in verità e come si è detto prima, è un fatto positivo: cioè, provato nella sua esistenza materiale – Tizio si trovava altrove rispetto al luogo dov’è avvenuto il reato. Una fattualità negativa – rectius, inappellabilmente contraria – per l’accertamento dei fatti in chiave colpevolista): alibi provato = dirimente per la decisione liberatoria dell’accusato; alibi inventato = rilevante quale indizio, ma non decisivo ex se, per la colpevolezza/rilevante per la credibilità; alibi fallito = irrilevante per la colpevolezza/rilevante per la credibilità (Cass., Sez. VI, 19.02.2020, P., in CED Cass. n. 278878; Cass., Sez. I, 11.02.2014, M.G.G., CED Cass. n. 261992; Cass., Sez. V, 10.12.2013, L.G., in CED Cass. n. 258720; Cass., Sez. I, 06.11.2012, P.K., in CED Cass. n. 254558; Cass., Sez. I, 17.01.2008, M.F., in CED Cass. n. 238647);
- all’incidenza sul riconoscimento della riparazione per ingiusta custodia cautelare della mancata adduzione, da parte del cautelato, di elementi probatori a sé favorevoli (Cass., Sez. IV, 15.03.2022, n. 8616, Ionut, secondo cui “il giudice della riparazione per l’ingiusta detenzione, per stabilire se chi l’ha patita vi abbia dato o abbia concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve valutare tutti gli elementi probatori disponibili, al fine di stabilire – con valutazione ex ante e secondo un iter logico-motivazionale del tutto autonomo rispetto a quello seguito nel processo di merito – non se tale condotta integri gli estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale. Pertanto, in sede di verifica della sussistenza di un comportamento ostativo alla insorgenza del diritto azionato ai sensi dell’art. 314 c.p.p., non viene in rilievo la valutazione del compendio probatorio ai fini della responsabilità penale, ma solo la verifica dell’esistenza di un comportamento del ricorrente che abbia contribuito a configurare, pur nell’errore dell’autorità procedente, quel grave quadro indiziante un suo coinvolgimento negli illeciti oggetto d’indagine”);
- all’emersione di una sorta di principio di non contestazione in materia di prova scientifica: l’assenza di opposizioni sulla ricostruzione specialistica sostenuta da un esperto (es. c.t.p. dell’accusa o della difesa) valorizza, fino a legittimarne la qualità giuridico-conoscitiva, l’expertise acquisita (v. Cass., Sez. IV, 1°.02.2022, n. 15159, Pavone, secondo cui “la dialettica tra le parti riduce l’area del controverso, così rendendo acquisito ciò che controverso non è, anche se di matrice specialistica”);
- alla presenza o all’assenza, per l’appunto, di “conseguenze negative o lesive anche per l’agente in caso di verificazione dell’evento”: oggetto di disamina ai fini del discrimine tra dolo eventuale e colpa cosciente, alla luce dei c.d. “criteri Thyssenkrupp” (Cass., Sez. un., 18.09.2014, n. 38343, Espenhahn);
- al giudizio doppiamente controfattuale [5] da operare nel caso in cui bisogna provare il nesso causale nei reati omissivi (Cass., Sez. IV, 11.12.2024, n. 45399, secondo cui “nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto. In particolare, si è sottolineato che, nella verifica dell’imputazione causale dell’evento, occorre dare corso a un giudizio predittivo, sia pure riferito al passato: il giudice si interroga su ciò che sarebbe accaduto se l’agente avesse posto in essere la condotta che gli veniva richiesta”/in tema di responsabilità medica, per l’accertamento del nesso di causalità tra l’omissione addebitabile ai sanitari e l’evento lesivo, è necessario un giudizio controfattuale preciso e circostanziato che dimostri, con alto grado di probabilità logica, che l’adozione della condotta omessa avrebbe evitato o posticipato in modo significativo l’evento dannoso. Tale giudizio deve essere basato su un’attenta ricostruzione della sequenza eziologica e delle caratteristiche specifiche del caso concreto, non potendo affidarsi a mere probabilità statistiche generiche);
- all’onere di documentare il fatto negativo rappresentato dal mancato riscontro del pubblico ministero alla richiesta, tempestivamente presentata dalla difesa, di rilascio copia dei supporti magnetici o informatici delle registrazioni di conversazioni telefoniche o di riprese audiovisive, utilizzate per l’adozione dell’ordinanza cautelare (v. Cass., Sez. VI, 17.06.2014, n. 28156, Bottino e Cass., Sez. VI, 10.10.2011, n. 45984, Cosentino – che negano vi sia quest’onere);
- alla mancata cooperazione dell’accusato, che non comporta un’inversione dell’onere probatorio (Cass., Sez. III, 22.10.2019, n. 43254, Ferilli) ma viene comunque valorizzata come argomento o elemento di prova per l’applicazione di determinati istituti giuridici, come le attenuanti generiche (v. Cass., Sez. II, 12.02.2020, n. 16036; Cass., Sez. IV, 06.11.2019, n. 19216, CED Cass. n. 279246-02; Cass., Sez. VI, 19.06.2019, n. 28008, CED Cass. n. 276381-01; Cass., Sez. un., 24.05.2012, n. 36258, CED Cass. n. 253152-01);
- ecc.
Che fare in questi casi?
Si potrebbe imporre l’uso, come soluzione pratico-operativa, della metodica motivazionale rinforzata.
3.3 Motivare rafforzatamente sul fatto di prova negativo (?)
La c.d. motivazione rafforzata consiste nell’obbligo di sviluppare il giudizio attenendosi a step logico-argomentativi obbligati, in modo tale da non eludere la trattazione di profili (recte di argomenti/interrogativi argomentativi) salienti della fattispecie/istituto in esame, nel momento della sua applicazione.
Si vuol disporre la custodia in carcere di una persona? Bene, prima di farlo, però – dopo aver previamente vagliato i presupposti applicativi della misura cautelare (artt. 273 e 274 c.p.p. – condizioni generali di applicabilità ed esigenze cautelari), in un punto di individuazione della cautela giusta da applicare (art. 275 c.p.p. – criteri di scelta) – il giudice è tenuto a valutare se gli arresti domiciliari, con o senza braccialetto elettronico, oppure più misure cautelari, anche applicate cumulativamente tra loro, siano sufficienti a soddisfare quelle necessità che richiedono l’applicazione di una cautela restrittiva le libertà personale (art. 292, co. 2, lett. c-bis), in combinato con l’art. 275, co. 3 e 3-bis c.p.p.). Solo se la risposta è negativa (e di tale valutazione occorre dar conto in motivazione), allora si può disporre la custodia in carcere; altrimenti, no. E laddove un simile percorso valutativo-motivativo (consistente in una serie di passaggi logico-argomentativi obbligati, ma non preconfezionati bensì da riempire contenutisticamente in concreto, alla luce delle peculiarità del caso in giudizio) non venga compiuto, la conseguenza è l’illegittimità del provvedimento emanato (art. 292, co. 2 c.p.p.).
Può essere utile impiegare questo schema/questo modulo di giudizio e di giustificazione nel caso della prova del fatto negativo, oppure no?
A parere di chi vi parla, sì: perché c’è una questione argomentativa da motivazione rafforzata da sottoporre al vaglio di chi si trova davanti a una fattispecie in cui si debba maneggiare il fatto di prova negativo; e tale questione si condensa nel seguente interrogativo: “Quale portata probatoria ha e perché assume tale specifica valenza, nel caso di specie, l’assenza di quell’elemento probatorio nel complesso del panorama istruttorio acquisito agli atti?”.
Se non si è in grado di rispondere a tale domanda/di argomentare (o meglio: di valutare e quindi di motivare), in maniera logicamente e legalmente (v. artt. 187-192-546 c.p.p.) soddisfacente, intorno a tale quesito, la decisione emessa è infondata (e, in mancanza totale di risposta, pure invalida ex art. 125, co. 3 c.p.p. – ossia, nulla). E questa deficienza decisionale può essere tranquillamente impugnata e sottoposta alla critica (di merito e di legittimità) del giudice di secondo grado o della Corte di cassazione (di ‘sola’ legittimità – art. 606 c.p.p.).
Rimetto quest’idea alla vostra critica, e vi ringrazio tanto per l’attenzione.
1] Ricordiamo che il processo penale ha una valenza cognitiva. Al giudice penale sono riconosciuti poteri officiosi che non sono ammessi al giudice civile. In sede penalistica abbiamo l’art. 507 c.p.p.; in sede civilistica, invece, c’è l’art. 112 c.p.c.
[2] La prova del fatto negativo la si ottiene attraverso presunzioni. Si ricava la prova di ciò che non c’è/che non è tangibile materialmente derivandola logicamente da un fatto positivo che, a contrario, può provarne l’esistenza (in una relazione di implicazione causale) o l’inesistenza (in una relazione di contraddizione, di esclusione implicita).
[3] Peraltro, la prova negativa solleva interrogativi non solamente giuridici, ma anche filosofici in senso stretto: cosa significa realmente “provare” qualcosa che non c’è? Ciò che non è, a ben pensarci, non è automaticamente prova di qualcos’altro, e il rischio di scambiare il vuoto probatorio per significatività è assai alto…
[4] Prendiamo il rapporto tra fatto di prova negativo e principio del favor rei. In linea di principio, l’assenza di un elemento probatorio dovrebbe tradursi in un vantaggio per l’imputato, poiché il dubbio dovrebbe risolversi in suo favore. Tuttavia, nella prassi giudiziaria, non è raro che la mancanza di spiegazioni o l’assenza di comportamenti ritenuti “normali” (e che si sarebbero potuti/dovuti tenere in quelle circostanze, ma ciò non è stato fatto) venga valorizzata come sintomo di responsabilità in capo all’accusato. Questo slittamento interpretativo è molto pericoloso, perché comporta – a cascata – un’inversione dell’onere della prova, imponendo all’imputato un dovere di difesa necessariamente attiva, che è contrario alla logica del processo penale accusatorio, sia pur temperato, che pone il fardello (the burden) della prova in capo al pubblico ministero fintantoché non è stata, da par suo, dimostrata processualmente la colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio. È chiarissima, in tal senso, la lettera dell’art. 530, co. 2 c.p.p.: la mancanza di prove (fatto negativo) circa la sussistenza del fatto, la commissione del fatto da parte dell’imputato, che il fatto costituisca reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile obbliga il giudice a pronunciare sentenza di assoluzione.
[5] Il giudizio controfattuale – id est ‘contro i fatti’ – è quell’operazione intellettuale mediante la quale, pensando assente una determinata condizione (la condotta antigiuridica tenuta dall’imputato), ci si domanda se, nella situazione in tal senso modificata (l’evento oggetto d’esame tolto il comportamento incriminato), si sarebbe verificata – oppure no – la medesima conseguenza. Se si giunge a una conclusione positiva (l’evento si sarebbe verificato comunque), allora la condizione in questione (vale a dire, la condotta in questione) non costituisce la condicio sine qua non di quell’evento. Se si arriva, viceversa, a una conclusione negativa (l’evento non si sarebbe verificato), allora la condizione in questione (vale a dire, la condotta in questione) costituisce la condicio sine qua non di quell’evento. Nel caso ci si trovi al cospetto di un reato omissivo (ossia, non è stato fatto ciò che si era giuridicamente obbligati a fare), questo ragionamento si fa ancora più articolato: il giudizio controfattuale è al quadrato – poiché occorre pensare presente una determinata condizione che non si è verificata, quando invece avrebbe dovuto obbligatoriamente verificarsi, e poi domandarsi se le cose sarebbero andate diversamente oppure no. Si parla, in proposito, di giudizio doppiamente controfattuale.