Pubbl. Ven, 2 Feb 2024
I contratti nel diritto romano: il sistema della condictio
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Mattia Gemelli
Il presente contributo tenta di offrire una chiave di lettura diversa degli elementi a fondamento del sistema romano dei contratti, cioè le cose (re), le parole (verbis) e le lettere (litteris), con l´individuazione della loro rilevanza nel prisma della legis actio per condictionem. La condictio, dunque, in quanto strumento meno pericolosus e più snello per litigare nelle aule di giustizia romane, abbisognava di elementi certi per poter essere esperita e, dunque, secondo il parere di chi scrive, avrebbe dato sfogo ad una fitta attività interpretativa per la enucleazione di elementi su cui si sarebbero innestate le cause con cui condicere. Da qui ci si spinge ad analizzare il pactum quale risultato di questo impianto ed i contratti consensuali come categoria sorta in seno al re contrahere.
Quis spopondisse me dicet? for a reading on the tripartite division re, verbis and litteris in the context of the contrahere obligationem
This contribution attempts to offer a different interpretation of the elements underlying the Roman system of contracts, i.e. things (re), words (verbis) and letters (litteris), with the identification of their relevance in the prism of legis actio per conditionem. The condictio, therefore, as a less dangerous and more streamlined tool for arguing in the Roman courtrooms, needed certain elements to be able to be experienced and, therefore, in the opinion of the writer, it would have given vent to a dense interpretative activity for the enucleation of elements on which the causes with which to season would be grafted. From here we push ourselves to analyze the pactum as a result of this system and consensual contracts as a category that arose within the re contrahere.Sommario: 1.1 Introduzione al problema; 1.2 Dalla logica clanica alla partizione Gaiana; 1.3 Il ruolo della legis actio per condictionem nell’ambito della tripartizione del contrahere; 1.4 A proposito della azionabilità della pretesa di una certa pecunia. Cicerone e la difesa di Roscio; 1.5 l pactum e la sua classificazione nell’ambito degli accordi transattivi; 1.6 Obligationes consensu contractae. L’ampliamento delle fattispecie contrattuali alla luce del re contrahere.
1.1 Introduzione al problema
Il sistema romano delle obbligazioni ha da sempre rappresentato un terreno fertile su cui la dottrina giusantichistica ha potuto concentrare la propria attenzione, in particolare modo rispetto alla genesi di una tale categoria, che è in grado di segnare l’esperienza giuridica di tutte le stagioni storiche. Ad oggi la struttura dell’obligatio trasmette a grandi linee, all’interno del dettato codicistico italiano, il modello offerto dalla tripartizione Gaiana in cui, però, l’interprete coglie solo la “sommità fiorita” del concetto di obbligazione, che aveva raggiunto una modesta maturazione già quando il Gaio delle res cottidianae sentì la necessità di suddividerlo in categorie.
Pertanto, nello sviluppo della riflessione che segue, sarà utile analizzare come i meccanismi del processo privato romano - uno su tutti il sistema della condictio - siano riusciti a sortire una corsia preferenziale per individuare le tipologie primarie delle parole, delle lettere e delle cose che hanno influenzato tutti i negozi giuridici arcaici e gran parte di quelli delle epoche successive (come le classificazioni contrattuali) fino, grossomodo, al diritto giustinianeo, in cui il contratto rintraccia come suo sinonimo la conventio e quindi l’accordo.
L’obligatio, tuttavia, nascendo come vincolo personale che tiene “obbligato” il debitore al suo creditore e poi trasformatosi successivamente in vincolo giuridico, concepisce il rapporto obbligatorio come l’insieme di un elemento che definirei “materiale” e strettamente collegato per relationem alla causa fondativa del negozio a cui si aggiunge, a completamento della fattispecie, l’elemento soggettivo dell’accordo, che però degrada a mera componente accessoria.
L’indagine che segue prende come suo riferimento proprio il negozio giuridico più esemplificativo, rappresentato senza dubbio dal contratto, rispetto alla cui classificazione noi siamo abituati ad osservare una dogmatica basata principalmente sull’accordo di volontà tra due parti che decidono di regolare i loro interessi tramite lo strumento negoziale riconosciuto loro dall’ordinamento giuridico. Viceversa, il diritto romano divideva i contratti in reali, letterali, verbali e, a partire dall’età preclassica, consensuali. Il consenso, a ben vedere, in questa ricostruzione costituisce l’elemento minimo necessario di tutti, al quale poi si sommerebbe un fattore - che Grosso chiama “l’elemento obbligante” - che è la res (ci vuole la consegna per far nascere il negozio), che sono le litterae (ci vuole la scrittura per far nascere il negozio), i certa verba (sono necessarie le parole per far nascere il negozio) o il solus consensus nei contratti consensuali, che da solo è condizione necessaria e sufficiente per la nascita del vincolo.
Grosso ritiene che questo sistema, fino a quel momento dato per assodato e che poi si raggiungeva con l’abbandono dei rami secchi del contratto letterale e verbale, non fosse il sistema originario. Per scovare il punto di partenza del contratto occorrerebbe analizzare gli elementi primi di quelle costruzioni: pertanto soccorre a questa interpretazione un’intuizione secondo la quale non verrebbe prima il contratto, poi scandito in sottocategorie relative al contratto verbale, letterale, reale e consensuale, ma sarebbe piuttosto vero il contrario.
Gli elementi primi che costituiscono i contratti sorgerebbero prima del concetto stesso di contractus, in cui il consenso rappresenterebbe solo la condizione necessaria ma non anche quella sufficiente. In altre parole, data l’emersione e l’esistenza di un re contrahere, di un litteris contrahere, di un verbis contrahere, che di per sé erano in grado di generare obbligazioni, su questi si innesta l’idea di contratto come consenso.
Quali sono, dunque, questi elementi primi? Il re, il verbis, il litteris: la radice di tale articolazione, però, sarebbe il re contrahere da cui si svilupperebbe poi il meccanismo della legis actio per condictionem tramite il cui impianto gli operatori del diritto tenteranno di individuare quegli strumenti utili all’azionabilità della stessa, per beneficiare degli effetti positivi che la condictio avrebbe potuto offrire in termini di economicità del processo. Lo scopo, dunque, nell’ottica di una possibile riordinazione del regime delle obbligazioni, è quello di tentare di fissare il collegamento che, ancora prima della categoria contrattuale, tenga unita l’individuazione dei cc.dd. “elementi primi” alla condictio.
Tuttavia, in quest’ottica, tali coefficienti iniziali che hanno arricchito il consensus nel contractus sarebbero stati accertati nell’ambito di un ricco travaglio giurisprudenziale, proprio con la finalità di indicare quali fossero i presupposti della legis actio per condictionem in prossimità della nuova stagione del processo privato romano.
1.2 Dalla logica clanica alla partizione Gaiana del contrahere
Il regime delle obbligazioni trova un suo antico legame con l’istituzione famigliare, quale primigenio nucleo fondante del diritto privato romano, in quanto centro di imputazione di relazioni di potere di cui il pater rappresenta il perno centrale.
Pertanto, questo principio, riflettendosi in parte nelle XII tavole - nel caso sia di fatti illeciti che di atti negoziali - mette in luce, già da questa affermazione, le due grandi categorie di fonti delle obbligazioni: l’illecito privato (il delictum) e l’atto negoziale. Il collegamento con i fatti illeciti risale all’epoca in cui la società era ancora organizzata per antichi gruppi gentilizi, relativamente ai quali qualora il componente di un gruppo avesse commesso un delictum si sarebbero aperte principalmente due strade: ciò, poteva sfociare in una guerra oppure nella consegna dell’autore del delitto al gruppo a cui apparteneva la persona offesa, che - vendicandosi su di lui - evitava lo scontro armato.
Quando, però, Roma assiste alla nascita della familia incentrata sulla figura del pater rimane ancora traccia di questo regime della vendetta in una norma delle XII tavole (Tab. VIII. 2), nella quale si prevedeva la legge del taglione. Nel dettato decemvirale, dunque, si affermava che se un individuo avesse occasionato una lesione permanente (si membrum rupsit) ad un altro, l’aggressore avrebbe subìto il taglione (talio esto), a meno che non pattuisse con lui il pagamento in denaro, per il danno subito.
Questa norma è di fondamentale importanza in quanto capace di segnare il passaggio dal sistema arcaico della vendetta ad un meccanismo più evoluto, all’interno del quale l’autore di una lesione rimaneva solo obbligato al pagamento di una somma di denaro a titolo di pena privata (una forma di obbligazione in dipendenza della commissione di un fatto illecito). Ad ogni modo, nel passare in rassegna le teorizzazioni che portano alla tripartizione Gaiana delle obbligazioni, non si può prescindere dal rilevare la summa divisio che l’ordinamento giuridico immagina proprio in relazione alla natura ancipite dell’illecito e come “crimen” e come “delictum”, a valle del processo di generale separazione concepito dalle XII tavole, tra atti negoziale ed illeciti. V’è comunque da segnalare che ad oggi, in dottrina, parlare di un vero e proprio diritto penale romano inteso come branca a se stante dell’ordinamento giuridico di Roma antica, non è scontato e non trova di certo unanime accordo tra gli studiosi della materia1.
La difficoltà più evidente rileva sotto il profilo della incapacità dei prudentes di riuscire ad elaborare un adeguato sistema normativo penale che sia addivenuto, nel corso dei secoli, a fargli raggiungere una sua autonomia rispetto al ius visto nella sua compiutezza2. Per questo motivo varie sono le denominazioni che vengono attribuite a questa materia: taluni3 optano per parlare, almeno fino all’età classica, di diritto criminale sottolineando l’importanza dell’intervento pubblico per la repressione di alcune fattispecie che oggi si fanno rientrare nell’ambito della materia “penale”. Altri4, invece, ritengono che si possa discutere di un vero e proprio diritto penale romano solo in età postclassica e Giustinianea, allorquando molteplici illeciti che trovavano cittadinanza nell’ambito del processo privato iniziano ad essere soppressi dal potere pubblico. L’eterogeneità dei punti di vista sul valore semantico dell’espressione “diritto penale romano” collima, peraltro, con l’ampio ventaglio terminologico a cui i romani potevano accedere per riferirsi ad una condotta meritevole di essere sanzionata: crimen, delictum, maleficium, peccatum.
Ma tra i molti termini, solo i primi due meritano un’attenzione particolare finalizzata a questo studio, in quanto dotati di una spiccata connotazione che li rende carichi di significato5. Con tutta probabilità il termine crimen deve la sua origine etimologica alla radice *krei, che richiama il verbo “separare” e che risulta presente nelle grammatiche della lingua greca, celtica e germanica6. Questo radicale, appunto, avrebbe poi dato origine al verbo “cernere” che, partendo dall’idea del “distinguere” sarebbe poi giunto a raccogliere varie interpretazioni idonee a farlo avvicinare all’idea di “scegliere”.
Questo passaggio etimologico avrebbe, poi, causato l’attribuzione al sostantivo crimen di una semantica giuridica riconducibile al concetto che mira a distinguere ciò che è giusto e ciò che non lo è, finendo poi per identificarsi con la condotta carica della portata criminosa punibile per l’ordinamento7. Delictum, invece assume una provenienza differente che risalirebbe alla radice *leik di origine greca, rinvenibile nel verbo λείπω che vuol dire “lasciare” o “abbandonare8”, motivo per il quale, come chiosa a tal proposito la Galeotti9, la lingua latina finisce per far assorbire al lemma “delictum” un’accezione associata alla volontaria accettazione di contravvenire ad una regola imposta dall’ordinamento giuridico. Pertanto il distinguo tra crimina e delicta non pare emergere chiaramente se visionato all’interno di una disamina meramente linguistica, in quanto rientranti ambedue i fenomeni nel più ampio genus dell’illecito che rappresenta quella condotta antigiuridica caratterizzata da un carico di disvalore tale da indurre il potere pubblico a conferire una risposta sanzionatoria in termini di poena.
Ma se dunque risulta difficile tratteggiare una separazione tra il crimen e il delictum in termini ontologici, in quanto entrambi avvicinabili ad una logica vista in termini consequenziali di lesione e pena, sembra opportuno cogliere le relative differenze sotto un diverso profilo che strizza l’occhio alla gravità del fatto commesso ed al soggetto ultimo che lamenta il danno: l’individuo o il popolo interamente considerato. Il diritto romano più arcaico è spettatore di un sistema ancorato alle logiche punitive tali per cui all’offesa si risponde con l’offesa, regime - questo - poi soppiantato dal più evoluto ragionamento del diritto protostorico di Roma, di guisa che la persecuzione di quelle condotte ritenute odiose per il gruppo abbandona il sistema sanzionatorio dell’autotutela privata a favore dell’accoglimento di un adeguato apparato di repressione “statale”.
Pertanto se la facoltà di punire rimane nella disponibilità dell’offeso che può autonomamente farsi giustizia per quegli illeciti che ledono l’individuo (sebbene con un controllo “statuale” che conferisca al soggetto strumenti come le noxae deditio, il taglione o il riscatto) stessa cosa non accade per le violazione che turbano il rapporto intercorrente tra la comunità e i suoi Dei10. E così, al fine di risalire al discrimine che divide le due tipologie di illeciti occorre ben valutare l’impianto normativo delle leges regiae che, a parere di alcuni, costituirebbero il nucleo primigenio e fondante del diritto criminale romano11 in prospettiva non tanto di una distinzione iniziale tra crimine e delitto, bensì di quella tra scelus expiabile e scelus inexpiabile.
Dottrina maggioritaria è dunque quella che ravvede l’emersione di una bipartizione a partire dal sistema processuale delle legis actiones e specificatamente all’interno dell’agere sacramento in persona: qui, infatti, il cuore fondante della nascita di un delictum non propriamente inteso come pena pubblica da comminare al reo per ristabilire un equilibrio sociale ma come obligatio ex delictu proviene proprio dall’intentio pronunciata dall’attore.
E infatti, seguendo questa impostazione, colui che agisce in giudizio assegna un particolare fondamento causale al dare oportere relativo ad un “illecito penale” la cui intentio, però, non trova dimora in un vincolo giuridico volutamente contratto, bensì in una lesione subita.
Questa impostazione sistematica costituirà il terreno fertile su cui i prudentes inizieranno a considerare l’elaborazione di una pena che miri al ristoro dell’interesse patrimoniale dell’individuo offeso; da qui, poi, sempre l’interpretatio prudentium ammetterà la possibilità di parlare giustamente di obligatio ex delictu, solo a partire dalla Lex Aquilia, quando il ragionamento sul punto era arrivato a completa maturazione.
E così che sorge la netta suddivisione tra crimina e delicta, tale per cui i primi continuano a mantenere un gradiente di gravità estrema responsabile di provocare una reazione pubblica, mentre per i secondi si assiste ad un lento e progressivo attenuamento della portata delittuosa, fino a collimare completamente con il concetto della sanzione privata tout court. Da questa scissione prenderà linfa, consequenzialmente, anche lo sviluppo dei due processi, quello privato e quello pubblico, che traccerà gli steccati dei lineamenti del diritto romano classico e preclassico.
L’altra figura originaria di obbligazione collegata all’impianto famigliare, la deriviamo invece dal nexum, quale atto conclusosi mediante mancipatio, grazie alla quale il debitore di una somma in denaro si sottoponeva al potere (mancipatio) del creditore, restando in una situazione di soggezione personale (in causa mancipii), fino al pagamento del debito. Anche di questa forma più antica di obbligazione, troviamo riferimento diretto nelle XII tavole (Tab. VI.1), che prevede l’efficacia vincolante delle pattuizioni orali, accompagnate dalla conclusione del nexum. In entrambi i casi, dunque, ciò che determina il carattere primitivo del regime delle obbligazioni era il vincolo personale che legava il debitore alla persona del creditore: nella lesione permanente, egli ne avrebbe risposto in base al taglione, per quanto - invece - riguardava il nexum, attraverso la soggezione personale al creditore, sino al pagamento. Quindi, il concetto di obbligazione nasce come un legame materiale, come prova anche l’etimologia da cui deriva la stessa parola obbligazione (ob ligare).
Sempre nelle XII tavole, comunque, si parlava di un terzo tipo di rapporti relativi, invece, alle più antiche figure di garanti: i praedes ed in vades. Erano entrambe figure che si stagliavano sullo sfondo delle logiche processuali civili, all’interno delle quali i primi erano chiamati a garantire la parte processuale acchè, in un actio sacramenti in rem ottenuto dal magistrato - al termine della fase in iure - il possesso interinale della res controversa, conservasse il bene e i frutti che avrebbe percepito dallo stesso nel caso di successiva soccombenza, consegnandoli poi al soggetto dichiarato vincitore.
Contrariamente a questi ultimi (praedes litis et vindiciarum), attestato che nei procedimenti arcaici che avevano ad oggetto un diritto conteso di proprietà le parti avevano l’obbligo di versare la c.d. summa sacramenti (prima, nel tempio di Nettuno, poi nelle casse dello stato), qualora le loro pretese si fossero rivelate infondate, entrambe dovevano presentare dei garanti per il pagamento di tale somma nell’ipotesi di sconfitta: questi ultimi erano nominati “praedes sacramenti” (Gaio, inst. 4.16). I vades (Tab. I.10) avevano, invece, la funzione di garantire la presenza del convenuto davanti al tribunale del magistrato nel giorno ed ora stabiliti per il processo: anche per queste due ulteriori figure di obbligati si pensa che essi rispondessero delle proprie obbligazioni con la propria persona qualora il garantito non avesse tenuto la condotta dovuta.
È doveroso ricordare che accanto alle tipologie di obbligazioni appena descritte le XII tavole (Tab. II. 1b) ne conoscevano altre, in cui - però - il vincolo obbligatorio non era più materiale, bensì giuridico, nel senso che l’obbligazione in questione imponeva al debitore una certa condotta ma non anche la soggezione materiale alla persona del creditore, per ottenerla. È il caso di una delle figure più antiche di contratto, la sponsio, da cui sorgeva per il debitore promittente l’obbligazione di dare o fare verso il creditore.
La assoluta novità rappresentata dal rapporto obbligatorio nascente dalla sponsio è alla base dell’elaborazione del concetto più evoluto di obbligazione, destinato a valere per tutta la durata successiva dell’esperienza giuridica romana: la sua formulazione viene magistralmente racchiusa nella definizione di obbligazione presente nelle istituzioni di Giustiniano (3.13 pr.), ripresa, poi, con notevole probabilità, da un giurista anteriore (forse Gaio o Paolo), dove si riflette il suo valore di vincolo giuridico: “obligatio est iuris vinculum, quo necessitate adstringimur, alicuius solvandae rei, secundum nostrae civitatis iura”.
Come si può notare facilmente, sebbene sia stato elaborato un concetto relativo ad un vincolo solo giuridico, l’accezione del legame materiale rimane sempre ben saldo, come sottolineano le parole “vinculum” e “adstringimur”. Da una tale definizione, si gettano le basi per tracciare le fila degli aspetti generali dei rapporti obbligatori, rispetto alla cui prima parte si mette in evidenza che i suoi soggetti sono determinati: da un lato, il debitore o i debitori che devono tenere un certo comportamento e i creditori che, invece, possono esigerlo. Dal secondo lemma della definizione si percepisce che il vincolo giuridico si traduce, poi, nell’adempiere rispetto a qualcosa.
Dalle Istituzioni di Gaio (4. 2) apprendiamo inoltre che si distinguevano obbligazioni di dare, facere o non facere e praestare. Il dare esprimeva la trasmissione della proprietà di qualcosa, per cui il debitore avrebbe dovuto effettuarne la consegna al creditore con effetti traslativi, per quanto attiene al facere, invece, ci si riferiva all’obbligo di tenere o non tenere una certa condotta che si traduceva nel realizzare qualcosa o anche nel consegnare una cosa senza, però, il dovere di trasferirne anche la proprietà (come nel caso della locazione). Il termine praestare, assume una semantica differente dal nostro attuale “prestare”, in quanto il termine medesimo aveva - a Roma - una pluralità di accezioni: in primo luogo, poteva includere il significato del “far da garante”, “assicurare” una prestazione contrattualmente voluta da parte del debitore, con il consequenziale rischio dell’inadempimento di quest’ultimo.
L’altra accezione, viceversa, è da rinvenirsi in locuzioni come praestare actionem, con cui si indicava la possibilità di trasmettere un diritto e il relativo potere di azione da un soggetto ad un altro. Riferito, nello specifico, all’oggetto di un’obbligazione, vuole significare che il debitore era obbligato a trasmettere le azioni al creditore, trasferendogli i suoi diritti verso terzi (come nel caso in cui un creditore voglia recuperare da altri cose date in comodato o in deposito dal debitore, utili all’adempimento). Il sintagma “alicuius solvandae rei gratia” della definizione giustinianea introduce anche due ulteriori aspetti relativi al contenuto di un rapporto obbligatorio: il primo è la patrimonialità (la suscettibilità di una valutazione economica non doveva mai mancare) ed in seconda battuta la necessità che il creditore avesse un proprio interesse connesso all’adempimento. Per quanto riguarda la indefettibile patrimonialità dell’obbligazione, merita comunque essere ricordato che il diritto romano riuscì, comunque, a dare rilevanza ad interessi ritenuti non patrimoniali; ciò avveniva sempre mediante lo strumento di una penale in denaro che il debitore avrebbe dovuto corrispondere al creditore qualora non avesse soddisfatto la condotta non patrimoniale da quest’ultimo voluta (Gaio 4.48).
Infine, il passaggio conclusivo della definizione “secundum nostrae civitatis iura” contiene non a caso il termine “iura”, ad indicare la pluralità di ordinamenti (o piani ordinamentali) che caratterizzava anche il settore delle obbligazioni; difatti, alcune di essere erano originate dal ius civile (da qui, oportere), altre - piuttosto - erano un prodotto del ius honorarium, e per questo designate con la circonlocuzione actione teneri. Passando ad esaminare le varie categorie delle fonti delle obbligazioni: il testo più antico di diritto romano in cui si espongono le fonti delle obbligazioni sono le istituzioni di Gaio (3.88), secondo cui ogni obbligazione nasceva o da contratto o da delitto.
Tale definizione, però, si mostro ben presto insufficiente visto e considerato che Gaio, dopo averla enunciata, provvedeva subito a mostrarne i limiti, in relazione ad un atto che non riusciva a collocare in nessuna di queste due categorie (Inst. 3.91). Si trattava del pagamento dell’indebito, che era sì una fonte di obbligazione, ma diversa dal contratto, in quanto si configurava quando un soggetto, credendo erroneamente di essere debitore, adempieva verso un altro, a sua volta convinto altrettanto erroneamente di esserne il creditore. L’errore sull’esistenza del credito doveva essere necessariamente comune ad entrambe le parti, altrimenti si riteneva che il preteso debitore avesse compiuto una donazione ed il preteso creditore, un furto.
Di conseguenza nasceva l’obbligazione per il creditore di restituire quanto ricevuto; se non lo avesse fatto, la parte adempiente avrebbe potuto agire a tali fini nei suoi confronti con un’azione chiamata condictio indebiti. Ebbene, Gaio era perfettamente consapevole che il pagamento dell’indebito non retrasse né tra i fatti illeciti né tra i contratti, perché chi aveva dato una somma non dovuta (o adempiuto una prestazione non dovuta) non aveva nessuna intenzione di concludere un contratto, bensì di sciogliere un vincolo obbligatorio.
Tuttavia, da questa sua considerazione, non facendo discendere l’ovvia conseguenza di una terza categoria di obbligazioni, il giurista decide - per semplificare la sua trattazione, per fini didattici - con il trattare l’obbligazione sorta dal pagamento di indebito insieme a quella derivante dal mutuo. In seguito, secondo l’opinione più diffusa, Gaio avrebbe modificato la sua precedente posizione sul punto, con una successiva versione del suo manuale istituzionale conosciuta come res cottidianae o Aurea, di cui possediamo lunghi squarci nel Digesto. Qui, infatti, in tema di fonti delle obbligazioni, il giurista effettua una tripartizione, secondo cui le obbligazioni nascono da contratto o da delitto o da varie figure di cause.
Questa terza categoria non era omogenea, bensì rappresentava un contenitore generale entro cui inserire tanto alcuni atti leciti, quanto alcuni atti leciti non contrattuali (pagamento di indebito e gestione di affari altrui), quanto una serie di figure di illeciti di derivazione pretoria, come l’effusum vel deiectum, consistente nel far cadere liquidi o oggetti solidi da case e danneggiare persone che passano di sotto ed il furto o danneggiamento commesso su una nave o in un albergo. Oltre a Gaio, anche altri giuristi dovevano aver elaborato classificazioni proprie delle fonti delle obbligazioni; uno tra tutti, Erennio Modestino (D. 44. 7. 52), che afferma che le obbligazioni potevano nascere da un contratto reale (re), da un contratto reale e verbale (re et verbis), da un contratto verbale (verbis), da un contratto consensuale (consensu), da un comportamento necessario (necessitate) o illecito (ex peccato), dalla legge (lege) o dal diritto onorario (iure honorario).
Questa, una classificazione che in parte riprende la bipartizione Gaiana, senza però fare riferimento alla categoria generale di contratto, bensì provvedendo a porre in essere una distinzione tra contratti e, in parte, introducendo delle fonti nuove come la legge e il diritto onorario. Il testo di Modestino ci rivela dunque che non si era affermato fra i giuristi romani un unico modello di classificazione delle fonti delle obbligazioni, ma se ne erano teorizzati vari. Tuttavia, quando i compilatori giustinianei si trovavano a dover scegliere una di queste classificazioni, preferirono quella delle res cottidianae di Gaio, ma perfezionarono tramite l’elaborazione di una nuova classificazione esposta nelle istituzioni (3.13.2) che ha avuto un grandissimo successo fino alle codificazioni moderne del XIX secolo, come possiamo vedere fin dalla sua adozione da parte del codice civile francese e del codice civile italiano del 1865. In base ad essa le obbligazioni nascevano da contratto (ex contractu) o da quasi contratto (ex quasi contractu), da delitto (ex maleficio) o da quasi delitto (ex quasi maleficio). Si tratta, quella che precede, di una quadripartizione che utilizzava le due macrocategorie originarie (contratto e fatto illecito) e suddivideva quella eterogenea della varie figure di cause nelle due categorie dei quasi contratti e quasi delitti.La differenza tra contratti e quasi contratti è abbastanza semplice, perché questi ultimi raccolgono tutti gli atti leciti privi di natura contrattuale in quanto manca il consenso tra le parti.
La differenza, invece, tra delitti e quasi delitti non dipende dalla loro natura, bensì dall’origine: le Istituzioni di Giustiniano ci suggeriscono che i compilatori intendevano per delitti certi fatti illeciti previsti dal ius civile: furtum, rapina, iniuria e damnum iniuria datum, mentre tra i quasi delitti si indicavano illeciti introdotti dal pretore (actio de effusis vel deiectis, actio de posito vel suspenso, actio furti in factum e actio damni in factum adversus nautas, caupones et stabularios, actio sepulchri violati, iudex qui litem sua facit). I poli identificati dalla dottrina romana che fanno capo alla obligatio, sono, dunque il debitum e la responsabilità; da questi due concetti la scienza giuridica tedesca delle pandette del XIX secolo - nel tentativo di ricostruire un quadro unitario delle fondi del diritto romano - ripercorrerà il ragionamento dei giuristi classici. Tra questi, Aloys von brinz riuscirà a teorizzare anche per il diritto moderno la scissione tra i due elementi del debito (shuld) e responsabilità (haftung) contribuendo a far passare l’idea di questo rapporto alla dogmatica italiana, per cui anche la moderna civilistica continuerà a fare i conti con queste categorie dogmatiche che affondano le loro radici nel diritto romano classico, filtrate - poi - dalla grande compilazione giustinianea.
Quindi, passando per la nozione letta nelle istituzioni di Gaio, nell’esperienza giuridica romana ci sono tre fonti delle obbligazioni, fungendo così da modello per la dottrina italiana (art. 1173 c.c.) delle fonti delle obbligazioni, che sarà proprio basata sullo schema tripartito delle res cottidianae. Così facendo, il codice civile del 1942 innova sostanzialmente rispetto alla tradizione precedente, perché quello del 1865 era modellato sulla scorta del Code civile del 1804 che, piuttosto, aveva optato per il modello bipartito Giustinianeo, non trovando molta fortuna a causa delle maglie troppo strette che una tale classificazione comportava.
1.3 ll ruolo della legis actio per condictionem nell’ambito della tripartizione
Dopo un breve excursus circa la trasformazione, nel tempo, del concetto di obligatio e della relativa suddivisione sistematica è necessario riprendere le fila generali dell’argomentazione proposta, che si pone come obbiettivo quello di evidenziare la funzione dell’agere per condictionem nell’individuazione dei fondamenti che si porranno alla base dei negozi giuridici più avanzati, rispetto a quelli dell’annoso rigido formalismo di epoca arcaica. La condictio conserva importantissimi spunti di novità proprio perché si pone a valle di un percorso a tappe che vede evolvere il processo privato nell’ottica della celerità del procedimento e di una maggiore tutela delle parti nell’ambito del giudizio instaurato da attore e convenuto.
Pertanto, il processo civile romano, quando le forme troppo stereotipate e sclerotizzate dell’antico sacramentum non rispondono più al progresso economico e culturale di Roma, subisce una rapidissima evoluzione; così, l’inadeguato processo arcaico - quello delle legis actiones - che è formale, basato sulle troppe ritualità, periculosus12 e che dura, grossomodo, fino al primo secolo a.C., tramite l’intervento della Lex iudiciorum privatorum viene soppiantato dall’agere per formulas che poi, a sua volta, verrà sostituto dalla cognitio per opera di una costituzione imperiale di Costanzo II e Costante I nel 342 d.C. da Gaio13 sappiamo che le legis actiones fossero in totale cinque, suddivise tra quelle esecutive ed altre, invece, dichiarative; delle dichiarative la più antica era proprio il sacramentum, in cui le parti prestavano un giuramento che consisteva nella promessa di asserire la verità dei fatti da ciascuno raccontati e sulla cui attendibilità il iudex avrebbe verificato, per stabilire la soccombenza o la vittoria dei giuranti. Il giudice dunque non era dunque chiamato a decidere mediante un’indagine finalizzata ad attestare la corrispondenza giuridica dei fatti, ma solo quella formale del giuramento da cui poi, per inferenza logica, ne sarebbe derivata anche l’attestazione del diritto conteso. Roma, però, a partire dal III secolo a.C. assiste ad un proprio stravolgimento degli assetti economici e finanziari, legati ad un’economia su larga scala che vede nuovi stakeholders provenienti da tutto il Mediterraneo a contrattare con i romani il cui ordinamento, però, rimane sempre vincolato a tutele giuridiche a maglie troppo strette per proteggere i capitali dei commercianti che necessitavano di una giustizia capace di correre incontro alle proprie esigenze.
È tuttavia il segno di quei tempi che impone di soppiantare il procedimento per sacramentum che, progressivamente, inizia a correggere talune sue articolazioni che saranno utili nella successiva edificazione teorica di quelle tecniche che porteranno all’attivazione del nuovo processo formulare. Ai fini di questa disamina è utile vagliare preventivamente come in una società antica come quella romana, demandare ad un giudice la risoluzione della controversia fosse l’unico modo per non sconvolgere gli equilibri interni della comunità ed un tale stato di cose lo rendeva anche il parametro preferito per i giuristi, al fine di teorizzare strumenti di diritto sostanziale sempre più adeguati a quelli processuali continuamente in divenire, e che poi avrebbero trovato dimora nell’attività di ius edicendi del pretore nell’affidamento di rimedi sempre più adeguati alle occorrenze dei consociati. Il percorso che porta a far coincidere il processo quale luogo del concepimento delle regole più che tempio in cui esse vengano fatte rispettare è debitore di una concezione tutta romana, tale per cui il confine che traccia la differenza netta tra il diritto soggettivo e la relativa tecnica di protezione è notevolmente sbiadito. I romani non sentivano il bisogno di idealizzare una situazione giuridica soggettiva dotata di autonomia al di fuori del processo (come avviene oggi, ad esempio, nel caso delle azioni di accertamento negativo) in quanto essa avrebbe avuto linfa e, quindi, una propria funzione solo in quella che il Talamanca definisce “concezione materiale dell’azione14”, concetto che rimanda all’idea per cui può dirsi titolare di un diritto soggettivo colui che possa vantare il potere di farlo valere in giudizio chiedendone l’accertamento, la determinazione della sanzione e l’eventuale inflizione della stessa.
In quest’ottica, dunque, che vede l’azione come “mera proiezione processuale del diritto soggettivo15”, viene ancora più in evidenza quella che definirei una “processualizzazione del diritto” in virtù del principio che i tedeschi sogliono definire aktionenretliches denken. Tale espressione in italiano potrebbe essere tradotta come “diritto delle azioni” per rimandare ad una tradizione giuridica tale per cui a Roma antica l’individuo poteva dirsi portatore di un diritto, solamente se avesse ottenuto il riconoscimento in giudizio, da parte del pretore, di un’azione disponibile da spendere davanti al giudice.
Questo cortocircuito rispetto al moderno sistema che guarda all’indagine di un diritto positivo come punto di partenza per dare avvio ad una lite dinanzi al magistrato giudicante, milita a sostegno della tesi per la quale il diritto sostanziale, sospinto dal rovello dottrinario dei prudentes, fosse particolarmente influenzato dall’attività pretoria che, obbligando i giureconsulti ad elaborare un impianto normativo sostanziale che stesse al passo dell’edictum, allo stesso tempo si serviva dei nuovi concetti da questi ultimi elaborati per modernizzarsi ininterrottamente.
Pertanto, in questa logica di strettissimo legame che teneva uniti il processo e la funzione nomopoietica dei prudentes, pare opportuno focalizzare l’attenzione sulla dipendenza che vede la trasformazione del processo sacramentale in quello per condictionem, al fine di valutare come la tripartizione re, verbis e litteris nel prisma dell’obligatio nasca proprio per rispondere all’esigenza di individuare le condizioni utili di azionabilità di quegli strumenti processuali idonei all’attivazione della legis actio per condictionem.
La prima fase di cambiamento di prospettiva ci giunge sicuramente dalla legis actio per iudicis arbitrive postulationem: le XII tavole16 prevedevano che si agisse con tale rimedio
“[…] si qua de re ut ita ageretur lex iussisset, sicuti lex xii tabularum de eo quod ex stipulatione petitur […] itaque in eo genere actionis sine poena quisque negabat. item de hereditate dividenda inter coheredes”.
Già in questa prospettiva il processo sente il bisogno di iniziare ad individuare un meccanismo diverso dalla generalità17 delle precedenti actiones e che trova la sua modernità nella indicazione di elementi certi, determinati e determinabili a vantaggio di una procedura più snella e meno anchilosata dell’agere sacramento in rem e in personam. Difatti, i crediti nascenti da sponsio o da stipulatio aventi ad oggetto una determinata somma di denaro finiscono per diventare le uniche condizioni necessarie per attivare la suddetta actio.
Da qui in poi, considerati gli effetti benefici di una tale impostazione, gli interventi legislativi successivi si preoccuparono, piuttosto, di ampliarne l’azionabilità: una legge Licinia permise presto la possibilità di esperire una actio per iudicis arbitrive postulationem per le controversie relative alla divisione di beni comuni diversi dall’eredità19 e, successivamente, per quelle aventi ad oggetto la regolazione dei confini. Un impianto processuale così rinnovato portò non pochi benefici a coloro che dovevano accedere alla giustizia, soprattutto per l’iniziale scardinamento del giuramento e della consequenziale scomparsa del versamento della summa sacramenti da parte dei litiganti. Come già acennato, dalla lettura delle istituzioni di Gaio20 pare proprio evidente che gli stessi romani considerassero l’effetto rischioso del processo sacramentale. Il giurista, difatti, parlando dell’agere sacramento afferma che:
“[…] eaque actio proinde periculosa erat falsi convictis...nam qui uictus erat, summam sacramenti praestabat poenae nomine.”
L’aggettivo usato da Gaio nel definire l’azione, oltre a “generalis” che si poneva già in collisione con l’agere per iudicis arbitrive postulationem che invece era speciale, è proprio “periculosa” a rimarcare ancora una volta il pericolo e la probabilità di un nocumento economico a danno di colui che avesse giurato il falso. Questo metodo di affrontare le controversie piacque non poco ai romani, tanto che a partire dall’età preclassica, probabilmente sulla spinta della giurisprudenza, esordì una nuova tipologia di procedura finalizzata ad ottenere un accertamento indiretto ex sponsione di questioni che, se incardinate nell’agere sacramento, avrebbero causato le lungaggini già accennate.
Questa nuova forma di agere fu detta per sponsionem: essa è di fondamentale importanza in quanto costituisce la liaison che segna, da un lato, il decadimento del processo imperniato sul giuramento e, dall’altro, l’approdo alla nuova procedura formulare. Le parti, agendo per sponsionem, costringevano il magistrato giusdicente a valutare la questione sostanziale attraverso la verifica della conformità o meno di quanto promesso con la precedente sponsio. In questi termini, dunque, i due litiganti, convenuto da parte di entrambi il proposito di scegliere una corsia processuale più lineare e meno rischiosa del sacramento, sceglievano di agire ex sponsione, per il tramite una sponsio del convenuto nella fase in iure, con la quale si prometteva che il convenuto avrebbe pagato una somma di denaro simbolica (c.d. summa sponsionis) nel caso di coincidenza ai fatti della promessa prestata.
Questa sponsio, detta praeiudicialis, aveva la funzione di provocare il iudex a decidere sull’appartenenza o meno di un diritto reale o meno in capo all’attore, per il tramite della verifica dei fatti promessi. Certamente il senso della procedura, che poteva essere poi attivata o con l’actio per iudicis arbitrive postulationem o con la condictio, non era quella di far riscuotere la somma promessa, ma serviva a far sì che, dopo l’analisi attuata sui fatti attinenti alla sponsio praeiudicialis, sarebbe emerso chi effettivamente fosse stato il proprietario della cosa o l’accertamento di un determinato diritto.
Ma a portare a compimento gli sparuti tentativi di rivoluzionare il processo privato romano fu proprio il lege agere per condictionem, che accompagnò il processo per legis actiones, per farlo approdare a quello formulare. Mi sembra opportuno, in prima istanza, procedere all’analisi del termine “condictio” che non deve essere confuso con il lemma più comune che, per assonanza, richiama a “condicio”. Se condicio indica una situazione soggettiva o uno status entro il quale un determinato soggetto viene inquadrato21 ovvero un fatto costituente un presupposto affinché una determinata cosa possa aver luogo22, la condictio, invece, assume tutt’altra semantica. Condicere in latino significa letteralmente “avvisare”, “notificare” o “intimare” e, pertanto, evoca l’idea di una scadenza temporale che processualmente si traduce nell’ingiunzione formale a carico di un destinatario del quale si richiede l’ottemperanza di un particolare comportamento23.
Probabilmente tale lemma richiama per metonimia il meccanismo di un tale procedimento basato proprio su un sistema legato all’intimazione: difatti, si agiva per condictionem grazie all’intervento di una Lex Silia24 per i crediti di una determinata somma di denaro e, successivamente, mediante una Legge Calpurnia25, de omni certa re26. Anche questa azione era sine periculo, bifasica e permetteva all’attore, affermato nei confronti del convenuto l’oportere relativo ad un oggetto preciso anche senza indicare la fonte (purché fosse certa res o certa pecunia), di intimare (da qui, il “condicere”) al convenuto che aveva negato la pretesa attorea a ripresentarsi dinanzi al magistrato entro trenta giorni27 per nominare un iudex che risolvesse la controversia28.
A partire da questo stato di cose, la legis actio per condictionem evidenza le novità già presentate dalla recente legis actio per iudicis arbitrive postulationem, che, nell’ambito del processo privato romano, mirano a smussare progressivamente tutte le rigidità che costituivano vecchie propaggini del sacramentum. Il giudice, grazie alla condictio, non era tenuto a compiere alcuna attività di determinazione del petitum, in quanto avrebbe saputo esattamente a che cosa avesse dovuto condannare (se chiedo 100 sesterzi, il giudice condanna a 100 sesterzi). Tuttavia, questa neonata legis actio sarebbe stata abolita con la lex Aebutia e tutto ciò avrebbe determinato un effetto a cascata, tale per cui, oramai, essendosi il processo romano incardinato in un modo siffatto di concepire la lite, esso non avrebbe retto in assenza di un nuovo modello che preservasse maggiore celerità e semplicità delle forme a tutela delle relazioni giuridiche. Se andiamo, pertanto, ad analizzare la struttura di queste azioni, possiamo cogliere taluni punti che giustificano l’introduzione di una nuova legis actio: perché, dunque, la necessità di un tale rinnovamento sistematico, nell’ambito del processo romano? I motivi sono vari: concedendosi trenta giorni per il pagamento dopo l’intimazione - già introdotti dalla lex Pinaria per il sacramentum - non si aveva più la necessità di provocare la controparte alla prestazione di un giuramento, sebbene il problema fosse già stato in parte risolto dalla legis actio per iudicis arbitrive postulationem, relativamente a certi crediti derivanti da sponsio. Nel caso della condictio, però, la differenza più grande consiste nell’astrattezza processuale: questa azione di legge, infatti, era concepita in modo tale che qualora la parte avesse intentato l’azione, non fosse poi tenuta a dichiarare la ragione giuridica per la quale agiva; occorreva presentare direttamente un oportere di fronte a cui si metteva il convenuto nelle condizioni di confermare o negare. L’attore non spiegava quale fosse la causa del petitum, che poteva essere un mutuo, un credito da mandato, una donazione o un la pretesa su un diritto reale: una grande novità, questa, rispetto alle precedenti legis actiones, a partire dalla legis actio per iudicis arbitrive postulationem o per il sacramentum che richiedeva, invece, la precisa determinazione nella formula, caratterizzata da quei certa verba che si pronunciavano, della causa petendi per la quale si agiva. Relativamente alla astrattezza della condictio la dottrina si divide marcatamente sul punto: difatti, taluni ritengono che la condictio dovesse rappresentare la causa dell’agere direttamente nell’intentio o addirittura nella demonstratio29 e chi invece ritiene, come pare più opportuno allo scrivente, che l’azione della legis actio per condictionem venisse intentata sine expressa causa30. Un’azione così concepita, comunque, recepiva una astrattezza processuale che non rifletteva anche una astrattezza sostanziale; ciò significa che l’attore quando doveva portare le prove davanti al giudice doveva calare quella astrattezza in una causa concreta essendo dunque tenuto a spiegare quale fosse effettivamente la ragione per cui stava agendo ed impegnarsi parallelamente a favorire anche le prove a sostegno del petitum. Come osserva giustamente il Varvaro31, che riprende per sommi capi l’interpretazione offerta dal Baron32, l’attore avrebbe beneficiato non poco di questa astrattezza processuale, di guisa che colui che agisce in giudizio avrebbe potuto scegliere solo nella fase apud iudicem quale sarebbe stata la causa su cui incardinare il processo, con la diretta conseguenza di circoscrivere l’indagine processuale alla sola obbligazione dalla controversia avanzata di fronte al giudice. Rimane comunque importante notare che l’astrattezza processuale fa sì che si determini un lavorio della giurisprudenza che inizia proprio in questo periodo (cioè nel periodo successivo della Lex Calpurnia), volto ad individuare quali fossero le cause in base alle quali fosse possibile agire attraverso quegli efficaci strumenti processuali.
Questo potrebbe apparire un controsenso rispetto a ciò che si è anzidetto: vero è che chi utilizzava la condictio non aveva l’onere di indicare la causa petendi al pronunciamento dei certa verba, ma i giuristi, per evitare che degenerasse in peius trasformandosi in un’azione generalissima che potesse utilizzarsi per qualsiasi mezzo, si impegnano ad individuare talune cause - ovvero, certune ragioni giuridiche - che giustificassero l’esperibilità di quell’azione.
Questo formante giurisprudenziale prende le mosse proprio a partire dal II secolo a.C. dai fondatores, cioè da quei giuristi, come Rufo, Manilio, Quinto Mucio, proprio coloro che vissero nella stagione immediatamente successivi all’emanazione della legge secondo cui per qualsiasi certa res poteva azionarsi la legis actio per condictionem.
1. 4 A proposito della azionabilità della pretesa di una certa pecunia. Cicerone e la difesa di Roscio
A questo punto occorre ragionare su un celebre caso processuale che vede coinvolto direttamente l’attore comico Quinto Roscio Gallo rispetto all’azione intentata contro di lui da Caio Fannio Cherea, difeso da Publio Saturio. Cicerone, nell’orazione che riporta il nome del suo assistito, deve difendere Roscio da un’actio certae creditae pecuniae relativa ad una somma determinata di denaro comportante l’applicazione di sponsio et restipulatio tertiae partis. Il brano merita attenzione in quanto, ai fini della disamina proposta, a partire dall’esperimento dell’actio certae creditae pecuniae, costitutiva proprio della condictio certae pecuniae, l’Arpinate è ligio nel ricostruire un ragionamento che porta a causalizzare la condictio con la finalità di individuare gli elementi fondativi dell’obligatio di cui si discute in giudizio. Occorre giustamente notare come sia necessario fare un distinguo limitatamente alla consistenza semantica del concetto di “causa” relativa alla astrattezza processuale della condictio.
Nello specifico sembra dirimente valutare, ai fini dell’interpretazione del concetto di astrattezza, se sia il caso di rimandare all’insieme di tutte le situazioni a fondamento della domanda che l’attore avrebbe potuto far valere processualmente al fine di ottenere una condanna o l’assoluzione del convenuto oppure se una tale astrattezza possa essere riferibile a quella che Nerazio definisce “causa proxima actionis33” e quindi valevole ad assumere un rilievo importante per la determinazione degli effetti della litis contestatio.
Mi pare dunque che dalla dottrina traspaia un orientamento che conduce alla progressiva identificabilità tra l’actio certae creditae pecuniae e la condictio certae pecuniae con il risultato di smussare l’idea di causa actionis in un’ottica tecnico processuale in relazione e agli effetti della litis contestatio e alla rapporto tra più azioni34.
Detto ciò, potendo indiscriminatamente parlare di actio certae creditae pecuniae o condictio certae pecuniae, essa si basava sulla predeterminazione del certum prima della litis contestatio e su una sponsio e una restipulatio tertiae partis, sulla base delle quali l’attore, in iure, avrebbe provocato il convenuto a promettere, con sponsio, di pagare una somma di denaro se la pretesa dal primo avanzata si fosse rivelata vera e il convenuto, per converso, avrebbe opposto una sponsio inversa35 (restipulatio) che avrebbe avuto la finalità di costringere l’attore a pagare alla controparte una somma di denaro pari a un terzo di quella richiesta in giudizio nel caso in cui fosse risultata soccombente nell’azione principale.
La considerazione di Cicerone a proposito della azionabilità della pretesa di una somma determinata di denaro, emerge chiaramente dal passo 5.14 dell’orazione in esame in cui:
“Stipulatus es - ubi, quo die, quo tempore, quo praesente? Quis spopondisse me dicit? Nemo. Hic ego si finem faciam dicendi, satis fidei et diligentiae meae, satis causae et controversiae, satis formulae et sponsioni, satis etiam iudici fecisse videar cur secundum Roscium iudicari debeat. Pecunia patita est certa; cum tertia parte sponsio fatta est. Haec pecunia necesse est aut data expensa lata aut stipulata sit.“
Analizzando il passo, si apprende come già un po' prima di Cicerone, forse col giurista Quinto Mucio36, la giurisprudenza aveva individuato in maniera chiara tre meccanismi che fossero in grado di generare obbligazioni, distinguendo, inizialmente, tra quelle “di dare” ("aut data"), per le quali si può appunto agire per pretendere un certum.
Nel caso di specie, Cicerone afferma che l’obbligazione per nascere deve pur essere circostanziata da un fatto idoneo ad averla fatta esistere che, riferendosi ad una somma di denaro data a mutuo (haec pecunia) essa ha bisogno o di essere stata consegnata - e qui l’elemento “re” riferito all’atto della numeratio - oppure iscritta a debito “expensa lata” e quindi “litteris” ovvero “stipulata” attraverso un atto svolto “verbis”, cioè tramite l’uso di determinate parole.
Dunque, Cicerone, indirettamente, concorre ad individuare tre meccanismi produttivi di obbligazione o, altrimenti detto, di tre generi di obbligazioni, quale profilo strettamente connesso ad una concreta esigenza processuale. Rispetto a queste tre categorie, l'obbligazione sorge sempre per una sola delle parti, anche se il momento obbligante non fa emergere, allo stesso tempo, nessuna volontà; difatti il sistema risente ancora di un rigido formalismo che non è assolutamente in grado di evidenziare quello che sarà il quarto elemento del consensus su cui si baserà il sistema evoluto della categoria contrattuale, coincidente successivamente con l’accordo. Tornando all’esame della fattispecie presentata nell’orazione, Cicerone, per escludere dunque che l’obbligazione sia sorta, ragiona ad excludendum e rileva come nulla possa essere imputato all’assistito Roscio, poiché Fannio non è in grado di dimostrare che uno dei tre elementi su cui dovrebbe incardinarsi l’obligatio si sia realmente integrato: né il “re”, né il “litteris”, né tantomeno il “verbis”. L’oratore, infatti, continua asserendo che:
“Datam non esse Fannius confitetur, expensam latam non esse codices Fanni confirmant, stipulatam non esse taciturnitas testium concedit”
Nel passaggio ora scritto Cicerone perora la causa del suo assistito puntando proprio sulla mancata presenza di quei presupposti che avrebbero potuto dare sostanza, se sussistenti, alla domanda attorea di Fannio. “Fannio asserisce” prosegue Cicerone “che nessuno gli ha consegnato nulla, i suoi libri confermano che la cifra non è stata trascritta, il silenzio dei testimoni fa logicamente supporre l’inesistenza di una stipulazione”.
In queste poche righe è concentrata l’essenza della tripartizione, secondo cui sarebbe stato unicamente possibile da parte dell’actor, nell’ottica della difesa, esperire una condictio a danno di Roscio o in virtù di denaro che era stato consegnato, o attraverso i nomina transcripticia o nell’ambito di una stipulatio; passando in rassegna, infatti, il primo dei tre elementi summenzionati, il re contrahere significherebbe non solo obbligarsi accettando una datio rei, ma anche obbligarsi nei limiti della res ricevuta, esprimendo in maniera siffatta il contenuto dell’obbligazione.Per provvedere a chiarire come l’elemento del re obligari emerga in seno alla condictio, occorre valutare preventivamente un dato che attiene proprio alla causalizzazione del condicere quale procedimento che, a partire dalle legis actiones, confluisce nel processo formulare.
La legis actio per condictionem, proponibile nell’azione formulare come condictio, viene intesa come un’azione unitaria anche se poi, con Gaio, si assisterà ad una sua lenta disgregazione. Merita dunque, nel ragionamento che conduce a valutare il procedimento per condictionem quale mezzo atto al riconoscimento di componenti accessorie al consenso, individuare come la riflessione giuridica tende a individuare i motivi idonei all’esperibilità di tale azione. La condictio, pertanto, comincia ad essere utilizzata per sanzionare il mutuo, quale negozio utilizzassimo e che si prestava molto bene ad essere inserito tra le causae condictionis, in quanto rappresentativo di un certum da richiedere ed entro cui fissare il proprio limite: difatti il mutuante consegna dei fungibili al mutuatario che sarà, poi, tenuto a restituire il tantundem eiusdem generis et qualitatis. Per comprendere a fondo la funzione ed il significato di re obligari, rispetto al quale Grosso parla di elemento vincolante, si pone in evidenza il passo presente in D.12.5.6, Ulp. XVIII ad Sabinum in cui si rileva un indizio importante ed utile a comprendere l’ambito di applicazione del re obligari.
“[…] Perpetuo Sabinus probavit veterum opinionem existimantium id, quod ex iniusta causa apud aliquem sit, posse condici: in qua sententia etiam Celsus est.”
Tale frammento viene inserito nel digesto a partire dal diciottesimo libro a Sabino, in cui Ulpiano disquisiva dei legati, e, secondo la palingenesi di Lenel, nello specifico del legato di pecunia, che permetteva di far sì che l’usufruttuario di somme di denaro disposte con legato fosse tenuto, terminato l’usufrutto, a restituire tali somme all’erede. Questa restituzione poteva avvenire o soddisfacendosi della cautio usufructuaria previamente prestata, oppure esperendo la condictio. Ulpiano, dunque, giurista del III secolo d.C., citando Sabino, giurista del I secolo d.C., che aveva approvato l’opinione dei veteres, riteneva dunque che si potesse esperire la condictio per ripetere quello che si trovava presso qualcuno in base a una causa non approvata dal diritto: pertanto la condictio sarà attivabile sempre rispetto ad un re obligari ed a un re contrahere ogniqualvolta un individuo abbia aggiunto al proprio patrimonio cose proveniente da altri in assenza di una situazione oggettiva che giustificasse la ritenzione della cosa da parte dell’accipiens di guisa che ciò ne determinasse il dovere di restituzione al dans.
Ciò avviene nel mutuo e anche nella solutio indebiti, in virtù del fatto che nel primo caso il mutuante consegna dei fungibili al mutuatario che deve restituirne nel tantundem eiusdem generis et qualitatis. Iniziano, dunque, ad apparire altri casi per cui sarà possibile agire con la condictio e la sua applicabilità a questi ultimi è rimasta anche in età storica: uno tra tutti, il pagamento dell’indebito, tale per cui io agisco con la condictio per la ripetizione del dato. In questo caso l’obligatio sorgerebbe proprio dalla res che è stata consegnata, obbligando il falso creditore a restituire. Ma il caso più particolare è sicuramente rinvenibile nel furto, in cui l’obbligazione restitutoria nasce, allo stesso modo, dalla res: se, difatti, io rubo qualcosa a qualcuno, sono costretto, quantomeno, alla restituzione. Il derubato, per raggiungere questo obbiettivo, ha a disposizione azioni penali (actio furti, volta a ottenere il pagamento di una pena) e azioni reipersecutorie (per aggredire la cosa attraverso la clausola restitutoria). Io posso, se sono derubato proprietario, con la condictio per la restituzione della cosa.
Queste ultime sono tre fattispecie che evidenziano un re contrahere: la res è in questo caso elemento obbligante da cui scaturisce l’obbligazione, ma non è solo il fondamento dell’obbligazione, in quanto è al tempo stesso misura dell’obbligazione restitutoria stessa. Ciò significa che io non posso pretendere più del valore dell’ammontare della cosa e per questo la res non solo fonda l’obbligazione ma ne costituisce anche il perimetro esterno che ne delimita l’ambito di applicabilità. Un tale perimetro non si può rompere, nemmeno convenzionalmente: sappiamo, ad esempio, che nel mutuo per percepire gli interessi occorre realizzare un altro contratto (stipulatio) aggiuntivo.
La regola generale conduce a ritenere che non si possa eccedere il limite della dazione: questo principio rimane anche nel diritto classico, quando il re obligari si assottiglia. Le cose iniziano a cambiare quando questo re contrahere ampio, molto diffuso e pervasivo, subisce due cesure: la prima deriva da una sovrastrutturazione dell’idea di consenso a questo concetto di re obligari il quale viene veicolato all’interno del concetto di contrahere alla cui base si incomincia a formare l’idea del consenso. Il caso del furto è esemplificativo: è evidente che nel furto non ci può essere alcun consenso, poiché il “furtum sciens” non può essere considerato furtum.
Quindi, lo spostamento concettuale di questo re obligari, che, secondo l’interpretazione proposta, sarebbe sorto nel sistema della condictio e quindi all’interno di un sistema processuale diverso da quello del contrahere determina come primo frutto naturale l’espulsione del furtum dalla categoria. Questa ceduazione della categoria del furtum dal re contrahere avviene ovviamente per il tramite della disapplicazione: difatti i Romani non sono adusi ad abrogare istituti, bensì operano in un modo diverso, svuotando gli istituti dall’interno: Il furtum viene destrutturato come re contrahere dall’interno, però, per una vischiosità che nel momento processuale è più evidente che nel momento sostanziale, rimane la condictio.
La condictio che era giustificata sulla base del presupposto dell’essere il furtum una sorta di re contrahere, a un certo punto non ha più presupposto, ma rimane come azione che sanziona il furto, tanto che Gaio, quando parla della condictio afferma che la essa viene concessa a chi abbia trasferito la proprietà e la rivendichi. Così nel mutuo il mutuante trasferisce la proprietà e chiede un dare oportere: sta proprio qui la contraddizione contro cui gaio si trova a sbattere rovinosamente. Il predicato “dare” nelle fonti tecnico-processuali assume sempre il solo significato di trasferire la proprietà e ciò crea dunque un cortocircuito perché Gaio non si spiega come possa spiegarsi il fatto che sia data la condictio contro il furtum; infatti, il ladro non è diventato proprietario della cosa che ha rubato e non potendo vantare un un dare oportere, non può trasferire la proprietà della cosa rubata perché non ne è diventato proprietario. Come può dunque spiegarsi tale contraddizione in termini? È plausibile ritenere che ciò accada perché Gaio ormai vive in un sistema dove la condictio si è irrigidita all’interno del contratto ed è volta solo alla ripetizione della proprietà, per cui ognuno è obbligato a restituire quello per cui io ti ho fatto proprietario.
È forse un fossile che è rimasto della vecchia struttura del re obligari per la vischiosità processuale, anche quando il re obligari come presupposto sostanziale per il furtum non esiste più. Il secondo passaggio, invece, riguarda l’espulsione dalla categoria della solutio indebiti. Questo avviene al tempo di Gaio; è lui infatti che si pone il problema (Gai 3.91), ma con lo strumentario che ha non può risolverlo. Perché, dunque, prima di lui non si era creato il problema? Perché eravamo nell’ambito di un re contrahere che non era ancora diventato contractus: un concetto per cui è possibile concludere l’obbligazione mediante la res, in cui si incominciava a porre il consenso. Nella solutio indebiti il consenso c’è, in quanto dando una cosa è evidente che un minimo di elemento volitivo ci sia e ciò fa sì che nella categoria di un re contrahere, al tempo di Quinto Mucio, la solutio indebiti possa rimanere.
Successivamente questo re obligari inizia a focalizzarsi sull’elemento minimo della datio che è traslativa ed ecco perché elemento costitutivo della condictio diventa l’avere trasferito la proprietà: una datio che deve essere volontaria, per cui ci vuole una volontà anche se non è negoziale ed infatti la la solutio indebiti regge ancora in questo sistema in quanto, sebbene non sia supportata da un consenso negoziale, sussiste per quel minimo che basta a sortire gli effetti di quella minima volontà in grado di farla ancora rientrare nel sistema della condictio. Il passaggio a cui assistiamo porta l’obbligazione sorta re dall’originario re obligari, così come elaborato nell’ambito della condictio, al re contrahere, cioè per mezzo della cosa.
Pertanto in quest’ottica il re obligari indicherebbe il passaggio di una cosa da un possessore ad un altro che si vede accresciuto ingiustificatamente il suo patrimonio e per questo sarà tenuto a restituire e ciò sarebbe in linea con la possibilità di azionare per queste fattispecie la condictio che nasce proprio per questo obbiettivo.
Ma quando il consenso inizia a supportare questo passaggio di cose, l’atto traslativo inizia a divenire datio rei tale per cui l’atto traslativo di un bene concepisce una volontarietà alla base e, divenendo re contrhaere, è idoneo a costituire un vero rapporto contrattuale per il semplice tramite della cosa. In quest’ultimo caso la solutio indebiti non può essere un articolazione del re contrhaere ma solo del re obligari, perché se è vero che un minimo di volontà nel trasferire una somma di denaro, non può essere inteso come atto ablativo del patrimonio consistente nella volontà di dar vita ad un vincolo obbligatorio.
Per questo motivo Gaio inserirà la solutio indebiti nell’ambito delle variae figuris causarum e successivamente, nella compilazione giustinianea, nel campo delle obligationes ex quasi contractu, in quanto considerata, la solutio, atto lecito, sì, ma non contrattuale. Una soluzione così prospettata non disturba l’interprete dal comprendere come la condictio rimanga comunque utile nell’ambito del re obligari e del re contrahere, tutte le volte in cui si necessiti la restituzione di una proprietà che è stata trasferita e per cui si necessita la rivendica, indipendentemente dalla natura contrattuale (re contrahere) o non contrattuale (re obligari).
Se dunque la condictio, che dal modello delle legis actiones confluisce nel processo formulare, rimane esperibile a fronte di un preventivo trasferimento di una cosa, rimane non immediato comprendere come mai residui la possibilità per il derubato di poter azionare la condictio ex causa furtiva: il trasferimento della res furtiva in capo al ladro non è supportata da un benché minimo volere, perché la res è stata oggetto di uno spossessamento in cui il derubato non ha avuto nessun coinvolgimento.
Le spiegazioni possono essere essenzialmente di due tipi: in prima battuta può ritenersi che l’ordinamento abbia mantenuto la possibilità di condicere, oltre alla concessione dell’actio poenalis, proprio come risposta sanzionatoria in odio furem dettata dall’offerta di più rimedi possibili per recuperare la cosa o per punire il ladro. Un’altra spiegazione potrebbe rilevarsi da una maggiore convenienza, per il derubato, di poter esperire la condictio tutte le volte in cui, essendo la res non più integra e quindi non rivendicabile in capo al possessore attuale magari diverso dallo spossessatore, il ladro fosse stato solvibile e quindi potenzialmente in grado di garantire il prezzo intero da recuperare. Questo dato, peraltro, conserva una rilevanza non da poco, in quanto qualunque consistenza avesse l’entità della datio, l’obbligazione non avrebbe potuto, nell’eventuale sede giudiziale, esorbitare i limiti di ciò che era stato, appunto, consegnato37.
Ed infatti la determinabilità di quanto richiesto era di fondamentale importanza proprio per l’attivazione dell’actio certae pecuniae proprio perché l’ottica della accelerazione processuale sospinta dalla condictio - in quanto testimonianza diretta di una completa e avvenuta laicizzazione dell’impianto processuale - doveva basarsi esclusivamente sul certum. E la condizione indifferibile di un tale stato di cose ci proviene proprio dalle parole dell’oratore che afferma come “Hic tu si amplius nummo petisti quam tibi debitum est, causam perdidisti, propterea quod aliud est iudicium, aliud est arbitrium38. Iudicium est pecuniae certae, arbitrum incertae”.
Qui, in maniera chiara, Cicerone, nel difendere Roscio, parte dal principio secondo cui, indipendentemente dalla presenza dei tre elementi a sostegno dell’oportere, il iudex dovrà decidere solo sulla base di quanto esattamente presente nella domanda attorea e non “un solo sesterzio in più di ciò che ti è dovuto […]”. Il giudice, infatti, ed è in questo senso che l’avvocato di Roscio sfrutta il primo argumentum ex silentio, ribadisce che la lite intentata sarebbe comunque persa, qualora l’attore avesse errato nell’avanzare un petitum diverso da quello potenzialmente vantabile, in virtù del fenomeno della plurispetitio che avrebbe provocato. Partendo da questo elemento che vive strettamente in una logica processuale, in quanto mirante ad una difesa ex ante che tenta - nell’ottica dell’Arpinate - di realizzare un impianto difensivo a partire dai meccanismi precisi e puntuali del condicere, Cicerone continua nel rimarcare che l’obligatio non sarebbe mai sorta, e l’obbiettivo demolitori delle accuse mosse da Fannio è immediatamente percepibile già dall’inizio della narrazione che, aprendosi in medias res in quanto sprovvista dell’exordium39, si pone da subito in questi termini:
“…Is scilicet vir optimus et singulari fide praeditus in suo iudicio suis tabulis testibus uti conatur. Solent fere dicere qui per tabulas hominis honesti pecuniam expensam tulerunt: 'egone talem virum corrumpere potui, ut mea causa falsum in codicem referret?' Exspecto quam mox Chaerea hac oratione utatur: 'egone hanc manum plenam perfidiae et hos digitos meos impellere potui ut falsum perscriberent nomen?' Quod si ille suas proferet tabulas, proferet suas quoque Roscius. Erit in illius tabulis hoc nomen, at huius non erit.”
La difesa di Roscio, dunque, parte subito dal presupposto della mancanza dell’elemento litteris che sarà fondamentale nell’ambito del ragionamento retorico che segue. Cicerone sostiene infatti che il credito avanzato non possa in nessun modo essere preteso, poiché manchevole della corrispondenza che doveva essere richiesta nei libri contabili del debitore e del creditore: l’assenza di questa reciprocità di debito-credito farebbe cadere in maniera del tutto irrecuperabile il giudizio in cui si impianta il condicere. La difesa, pertanto, in maniera ironica stigmatizza non poco la volontà dell’attore di esibire i suoi registri contabili, sfidandolo anche a farlo poiché “[…] Quod si ille suas proferet tabulas, proferet suas quoque Roscius.” Ciò che più giustifica l’assenza di colpa da parte del convenuto - sostiene Cicerone - è proprio l’impossibilità di ritenere così scarsamente privo di fides un uomo come Roscio. Vero che Cicerone non lo afferma esplicitamente, ma l’atteggiamento di riprovevole insinuazione di Fannio a danno di Quinto Roscio proviene proprio dalle domande retoriche negative riportate, tra le quali, su tutte, appare “egone talem virum corrumpere potui, ut mea causa falsum in codicem referret?”. Nell’espressione “talem virum” si concentra, come sostengono talune pregevoli dottrine40, un dato importante secondo cui Roscio sarebbe stato dotato di “fides” che, a Roma, si traduceva nella capacità di un soggetto di essere oggetto di un tale riconoscimento, il suo “credito”, la sua affidabilità (fides mihi est apud aliquem significa, letteralmente, “ho credito presso qualcuno”). Si badi bene come nella cultura romana arcaica, la fides fosse la qualità di un soggetto che doveva apparire “affidabile” rispetto ai suoi comportamenti e alle sue parole. Nella società romana, l’affidabilità di un soggetto si lega alle sue condizioni economiche e sociali (si spiega così il rapporto, riscontrabile nei tesi latini, tra il termine fides e concetti come quelli di honor, decus, fama, dignitas.).
In uno stato siffatto di cose che deponevano a sostegno della tesi per cui Roscio fosse un uomo “di tal pasta”, scarse sarebbero state le possibilità di un atto così poco decoroso come la dolosa trascurataezza della corretta trascrizione sul libro contabile di Roscio, del debito nei confronti di Fannio. In ogni modo Cicerone, impinge proprio sulla rilevanza della somma da riscuotere, che renderebbe a dir poco incredibile la manchevolezza imputabile ad un uomo così per bene come Roscio, tanto che non si possa certamente prendere in considerazione come i “brogliacci” di Fannio riescano - da soli - a provare un simile accadimento. E l’oratore, difatti, insiste molto su tale principio: si domanda, infatti, per quale motivo Fannio abbia atteso ben tre anni prima di trascrivere sul libro dei conti il debito - consistente - dovuto da Roscio, nella misura in cui, solitamente, i frequenti rapporti contrattuali imponevano a coloro che fossero interessati dal vincolo debito - credito di trascrivere attentamente e con zelo tutti i passaggi economici, addirittura - prosegue l’avvocato di Roscio - “ […] mensuas paene rationes”, ovverosia “mese per mese”. In un caso di questo tipo, dunque, la fattispecie sembrerebbe passare da una mera analisi della mancanza dell’elemento litteris, come fondamento dell’obligatio, alla volontà di fare emergere un comportamento sleale imputabile a Fannio e riconducibile ad una surrettizia volontà di imbrogliare il convenuto tramite l’indebita trascrizione di somme non dovute. Ciononostante, dopo aver cercato di smontare l’accusa rilevando l’assenza di un tale elemento a sostegno dell’obligatio, nonché dopo aver dimostrato l’assurdità del giudizio proposto anche sottolinenando l’assurdità dell’esperimento della condictio dopo l’arbitrato41, Cicerone passa all’analisi delle rimanenti due condizioni (re e verbis) allo stesso tempo mancanti e sufficienti a dimostrare, per ciò che rimane, la morte sul nascere dell’obbligazione su cui si fonderebbe il presupposto che giustifica la domanda di Fannio. Dopo aver dunque sostenuto, a proposito di ciò, che “[…] duae partes causae sunt confectae” l’Aripinate entra nel dettaglio e continua sostenendo che:
“[…] Adnumerasse sese negat, expensum tulisse non dicit, cum tabulas non recitat. Reliquum est ut stipulatum se esse dicat; praeterea enim quem ad modum certam pecuniam penetre possit non reperio“
Qui, dunque, vive il cuore della teorica della tripartizione che Cicerone magistralmente racchiude in questo breve ragionamento a contrario: se infatti - traducendo dal testo latino - egli nega di aver pagato in contanti42 (re), ma al tempo stesso “non dicit” di aver riportato tale somma a debito43 (litteris) a beneficio dell’attore “[…] reliquum est ut stipulatum se esse dicat”, alla difesa non rimane che valutare la possibilità dell’esistenza, quantomeno, dell’ultima componente del “verbis contrahere”. In questa ultima chiosa Cicerone sottolinea infatti che Fannio, dopo aver in prima battuta affermato l’inesistenza di un mutuo ed aver implicitamente ammesso, complice il rifiuto di darne lettura, di non aver neppure trasmesso il debito di Roscio sulle sue tabulae, debba giocoforza affermare di aver contratto una stipulatio. In realtà, con l’affermazione - presente poco oltre - di Cicerone per la quale “[…] stipulatam non esse taciturnitas testium concedit" il processo finisce per fondarsi su un contratto verbale di cui non vi è traccia: probabilmente l’atteggiamento dell’avvocato assume tratti sarcastici e sono idonei a dimostrare, per assurdo, la fragilità delle pretese rivolte.
1.5 Il pactum e la sua classificazione nell’ambito degli accordi transattivi
L’orazione prosegue e l’avvocato del convenuto continua rimarcare sempre in maniera molto sperticata le doti morali del suo assistito; lo definisce spesse volte “probus […] pudens, castus, liberalis” proprio a voler mettere prima di tutto in luce la reputazione che Roscio poteva vantare di fronte ai consociati i quali - forse era risaputo pubblicamente - avevano la possibilità di riconoscere in lui una certa probità.
Nondimeno, però, il discorso di Cicerone non riesce a rimanere privo di condizionamenti, tant’è che in alcuni passaggi si lascia trasportare da un’eccessiva partigianeria per il suo cliente, quasi alla ricerca dell’approvazione di una claque. Si pensi, a tal proposito, ad argomenti poco credibili che vengono addotti come temi proposti dall’Arpinate, tra i quali la mancanza da parte di Roscio di qualsiasi attaccamento al denaro, che contribuiscono a segnarlo come un uomo privo di vizio alcuno tanto che, si dice che “[…] tantas et tam infinitas pecunias non propter inertiam laboris sed propter magnificenti liberalitatis repudiarit!44”. Quello che, tuttavia, suscita maggiormente l’attenzione è un argomento che la difesa propugna più avanti, e, nello specifico, a partire dal paragrafo 25, in cui si percepisce come l’elemento consensuale nulla rilevi sotto il profilo dell’insorgenza di un’obbligazione:
“ […] Dic enim, tabulas habes an non? Si non habes, quem ad modum pactio est ? Si habes, cur non nominas ? ”
In queste brevi righe è ravvisabile un principio fondamentale della tesi di Cicerone, il quale non concepisce l’idea che senza una veste che copra il consenso, l’obbligazione non abbia alcuna efficacia e non possa, dunque, sorgere. Questo principio deve spiegarsi necessariamente con l’insita ritualità delle procedure giuridiche romane che, fin dall’inizio della loro applicazione, sono state caratterizzate da una rigida intransigenza e resistenza alla modificazione di alcune stereotipie. In tal senso, infatti, tutti gli istituti di diritto Quiritario che hanno caratterizzato il ius civile sono stati impiantati dalla sacralità, relativamente alla quale si demandava la realizzazione di determinati effetti giuridici al compimenti di certune gestualità, tali per cui non rilevava affatto la volontà dettata dal foro interno di chi li recitava, ma valeva solamente l’effettuazione o meno di tali formule.
Questo piano di diritto sostanziale si rifletteva direttamente anche sotto il profilo processuale che, essendo dettato inizialmente dal sacramentum, imponeva all’attore e al convento di pronunciare certe determinate parole che potevano, se sbagliate, determinare ex nunc la soccombenza in giudizio, indipendentemente dalle ragioni di ognuno45. Sulla base di quanto detto, l’interprete è abituato ad analizzare una nozione del “contrarre” (quello che Cicerone chiama “pactio”) che sia fondata sull’accordo - e cioè sul consenso - e a ripartire lo stesso in contratti reali, letterali, consensuali, verbali. Il consenso, dunque, seguendo l’impostazione riportata nel testo, da solo non sarebbe bastevole per perfezionare un accordo, ma si porrebbe come l’elemento minimo necessario, al quale poi deve aggiungersene uno ulteriore che può essere la res (ci vuole la consegna per far nascere il negozio), che possono essere le litterae, o più semplicemente i certa verba nella stipulatio.
Per scovare le origini del contratto, secondo il celebre giurista, occorreva scovare gli elementi primi di quelle costruzioni, raggiungibili tramite un’intuizione geniale: non è sufficiente affermare che venga prima il generale concetto di contratto, per poi scandirlo in sotto elementi del contratto verbale, letterale o reale, ma è piuttosto vero il contrario. Da qui, dunque, gli elementi primi che costituiscono i contratti re, verbis e litteris sorgerebbero ben prima della nozione di pactio (termine su cui verremo a breve), in cui il consenso sarebbe una condizione necessaria ma non sufficiente. In altre parole, data l’emersione e la esistenza di un re contrahere, di un litteris contrahere o di un verbis contrahere, che di per sé erano in grado di generare obbligazioni, su questi si innesta l’idea di contratto come consenso.
Una monumentale concettualizzazione che il diritto romano elabora è, dunque, quella pactum, che sarà antesignano del concetto di conventio, nella quale poi convergerà anche il contractus supportato dal consenso. Tracciando un profilo cronologico intorno al concetto di “pactum” è plausibile affermare, in ordine all’idea di una individuazione della tripartizione re, verbis e litteris, che il concetto di patto sia di molto anteriore a quello di contractus e che risulti inquadrarsi nell’ambito di forme ancestrali di “contrattazione non formale46”.
Il termine Pactum è, generalmente da ricondursi al verbo paciscor, che evoca concetti come quello di “promettere” o “impegnarsi” e che tendenzialmente introduce a identificare il patto come accordo intervenuto tra due soggetti non generativo di obbligazioni. Occorre, però, individuare le cause che portano ad una tale differenziazione con la categoria contrattuale che, piuttosto, sarà capace di dar vita ad obbligazioni e godrà di una tutela sicuramente più ampia e non limitata alle sole eccezioni, come avveniva invece per il patto. Mi pare ragionevole ricordare come la famiglia di parole che condivide il gruppo PĀC- / PAG- trovi il suo primitivo dal sostantivo pax, da cui poi deriverebbero gli aggettivi pacalis, pacifer e pacificus e i correlati predicati paciscor e paco. Tuttavia, il campo semantico che parrebbe abbracciare tale lemma è quello che richiama il “far pace” ed il “mettere fine ad un conflitto” quale significato del derivativo verbale “paciscor”, “paco” e ”pacisco”, da cui poi ne sortirebbe il deverbativo “pactum”. Secondo una ricostruzione etimologica così esposta, il pactum non sarebbe altro che un accordo transattivo interveniente47 dopo uno squilibrio di interessi, per ripristinare una situazione sperequativa e prima di un eventuale controbilanciamento, al fine di evitare la lite; in questo senso sembrerebbero orientarsi le XII tavole, in cui si legge che “[…] si membrum rup(s)it, ni cum eo pacit, talio esto48”. Qui, la terza persona singolare del verbo paco segue l’impostazione suesposta, di guisa che in una stagione in cui all’irrogazione di pene era sostituita solitamente l’autotutela privata, nel caso in cui un delinquente avesse occasionato una lesione ad un altro membro della comunità era ammesso di “pacere” e, quindi, ristabilendo l’ordine degli interessi in campo, prevenire la guerra armata mediante un accordo che mantenesse la pace. Sempre dall’analisi che emerge dal testo decemvirale, uno stesso connotato del termine si rinviene nella tavola III, in cui si tratta il procedimento cui veniva sottoposto l'addictus relativamente alla procedura azionata dalla legis actio per manus iniectionem.
Il celebre brano riporta che: “[…] erat autem ius interea paciscendi ac, si pacti forent, habebantur in vinculis dies sexaginta.” Anche in questo caso il verbo paciscor ed il deverbativo pactum indicano la possibilità di “risolvere la situazione” da cui poi, in caso contrario - si pacti forent - si sarebbe proceduto alla esposizione utile al riscatto per tre giorni continuativi di mercato e, fallito il tentativo, alla vendita trans tiberim o, ancora peggio, alla spartizione del corpo. In ogni modo, ciò che pare interessante è che agli occhi dei decemviri il pactum tale non è che una modalità cui i privati possono ricorrere ogniqualvolta sorga la necessità di addivenire ad una soluzione utile a “fare la pace” nel senso di sopire una controversia - o, più in generale ad una situazione potenzialmente produttiva di conseguenze negative - già instaurata o instauranda. Sempre dall’esegesi della Q. Roscio pare sempre potersi ricavare il carattere transattivo del termine pactum, così come delineato dalla indagine terminologica proposta, nel passo 12.43, che recita come:
“[…] Ergo huc universa causa deducitur, utrum Roscius cum Flavio de sua parte an de tota societate fecerit pactionem”
Qui il difensore di Roscio sottolinea un punto fondamentale rispetto al quale è possibile sciogliere il nodo della matassa su cui si insinua la lite tra i due socii. E infatti la valutazione deve vertere proprio sul fatto che la prima transazione chiusa tra Roscio e Flavio avrebbe obbligato solo il suo cliente “an de tota societate”, e, dunque, non anche Fannio, essendo a quest'ultimo rimasta integra la possibilità di escutere l'uccisore di Panurgo. Ciò che comunque merita attenzione è l’utilizzo del termine pactionem per rimandare all’accordo intervenuto tra Fannio e l’uccisore di Panurgo che aveva interrotto il processo senza arrivare a sentenza, perché ad un certo momento fu concluso proprio un pactum (un accordo transattivo) tra Roscio e Flavio, in virtù del quale l’assassino trasferiva all'altro contraente un fondo dietro impegno a rinunciare ad ogni ulteriore pretesa.
Della stessa consistenza mi pare la definizione che sempre Cicerone offre del pactum nel De inventione49: “Pactum est, quod inter quos convenit ita iustum putatur, ut iure praestare dicatur […]”. Da una traduzione letterale del frammento L’avvocato di Arpino afferma come il patto sia ciò che viene pattuito (convenit) tra individui (quos, che a mio modo di vedere costituisce un pronome indefinito) così da essere ritenuto giusto (ita iustum putatur), tanto da considerarsi (ut dicatur) preferibile (praestare, secondo l’accezione impersonale del verbo) per diritto (iure). Per quanto concerne le interpretazioni offerte del frammento, a mio modo di vedere esso pare possa avallare la soluzione dell’origine del pactum, in qualità di accordo transattivo di risoluzione ex post o ex ante di una controversia: Cicerone si esprime a favore dell’idea che vede il pactum come un accordo che vive fuori dal diritto, in quanto agirebbe proprio a latere delle procedure di legge allorquando le parti preferiscano optare per soluzioni alternative rispetto a quelle previste dall’ordinamento.
L’accordo, però, deve essere da un lato iustum e quindi capace di contemperare gli interessi in ballo e mantenere la situazione in equilibrio benché non vagliata dalla legge e dall’altro - debet - praestare e quindi essere addirittura più favorevole ad entrambi seguire la strada dell’accordo privato e non proseguire con la controversia. Il punto di vista designato non trova accoglimento da parte di coloro che rinvengono nel pactum un sinonimo del contrahere; se il contractus nasce successivamente all’individuazione degli elementi che costituiscono l’ombrello del consenso, come le lettere, le parole o la consegna materiale di una res, è pur vero che il pactum con tutta probabilità possa aver gettato il seme per la validazione del consensus, trasformandolo da elemento accessorio a quelli che abbiamo definito “elementi primi” a fondamento autonomo di talune figure contrattuali accettate dal ius gentium e protette dalla giurisdizione pretoria.
1.6 Obligationes consensu contractae. L’ampliamento delle fattispecie contrattuali alla luce del re contrahere
Il ius civile vetus50 era caratterizzato da una situazione di rigida tipicità contrattuale che irreggimentava la libertà dei contraenti alla mera scelta del contratto previsto dall’ordinamento per i fini cui tendevano, non permettendo di accettare la possibilità di dare valore ad un accordo privato tra consociati, in quanto il principio di libertà contrattuale - in epoca arcaica - non era di certo ancora riconosciuto.
Quando, però, Roma si apre ai commerci e il ius honorarium assorbe i principi del ius gentium il pretore non può non affidare il giusto riconoscimento ad accordi che, sebbene non certamente incardinati in un’azione di legge, meritavano di essere presi in considerazione: il pretore espande, così, il suo potere di valutazione non mediante l’abrogazione del ius civile, bensì tramite l’utilizzo di canali preferenziali, quali l’aequitas ed il bonum, che entrano di buon grado nel processo decisionale del praetor permettendogli di dare rilevanza a tutte quelle situazioni che appaiono sì corrette iure civili ma suscettibili di essere considerate inique se osservate con le lenti del buono e dell’equo51.
Allo stesso modo il pretore inizierà ad affidare tutela ai pacta tutte le volte in cui una parte avesse strumentalizzato i mezzi affidatigli dal ius civile per vantare disonestamente pretese diverse da quelle previste dal patto intervenuto precedentemente ed in grado, dunque, di infrangere il principio del fine morale dell’ordinamento di cui il pretore avrebbe tenuto conto, in via d’eccezione del convenuto. Questo modus operandi nasconde, secondo il mio modo di vedere, un retroscena illuminante e che potrebbe costituire il punto di passaggio da un sistema incardinato in un panorama contrattuale rigido e caratterizzato dai tria genera contractum per res, litteras et verba a quello consensuale. Il patto inizia a farsi spazio verso la fine del II secolo a.C. quando la giurisdizione peregrina ha già avuto modo di sperimentare la sua portata innovativa circa l’affidamento di una tutela suppletiva dell’ormai antiquato ius civile. L’iniquità da non tutelare, però, se si riflette attentamente, non è altro che un modo alternativo di tenere in considerazione il consenso tutte le volte in cui questo abbia dato vita a quello che poco più avanti Pedio definirà conventio, inteso quale accordo di volontà tra le parti ed idoneo ad affermare la concezione per cui l’elemento indispensabile di tutti i contratti fosse la convenzione. Se infatti seguiamo l’impostazione proposta tale per cui il pactum fosse una modalità esterna ai metodi offerti dall’ordinamento di risoluzione ex ante (o ex post) di una lite è possibile scorgere qui l’antesignano del contratto di transazione.
Difatti quando il sistema dell’economia cresce in maniera rilevante e gli stranieri hanno bisogno di strumenti più versatili per poter pervenire alle loro necessità, il sistema romano dei contratti, non permettendo un ampliamento rispetto alle sue tipizzazioni, non resiste alle maglie troppo strette dell’arcaico diritto civile, facendo sì che esso apra ad una personale gestione degli assetti economici che si attua inizialmente mediante il sistema dei patti che trovano tutela nell’ambito dell’attenzione offerta dal pretore peregrino attraverso le corsie preferenziali da questi concesse. Il patto, dunque, in un sistema siffatto, vive in un limbo giuridico per cui prende linfa solamente per opera dell’attività di supplire, adiuvare vel corrigere il ius civile e precipuamente nel campo dei iudicia bona fidei limitatamente ai quali il pretore gode di un ampio spettro di poteri traducibili in una vasta discrezionalità nel concedere la formula di giudizio. Il pactum, però, è tutelabile solo in via di eccezione proprio perché l’opera posta in essere dal diritto onorario può certamente correggere le anomalie in iure civili disputate, sebbene, però, non abbia in nessun modo il potere di sostituirsi ad esso: così, dunque, il patto viene tutelato solamente in via di eccezione proprio perché il ius civile non ammetteva l’idea che un mero accordo di volontà che autonomamente non aveva nessun tipo di valore potesse dare vita ad un rapporto generativo di obbligazioni e per questo tutelabile con una azione52.
Le cose cambiamo drasticamente agli inizi del II secolo d.C. quando Aristone afferma che una convenzione, intesa come un accordo di volontà, anche qualora non corrispondesse ad un contratto tipico, ma presentasse una causa, avrebbe comunque dato vita ad un contratto, privo di nome, idoneo però a generare obbligazioni. Seguendo questa direttiva si apre la strada verso il riconoscimento dei contratti innominati ed il patto, in quanto accordo di volontà, inizia ad assumere tratti distinguibili e, per questo, produttivi di obbligazioni se stipulati in continenti nei giudizi da cui nascevano azioni di buona fede fino all’attestazione successiva di alcuni tipi di nudi patti che si tramutano in figure contrattuali per intervento del pretore, il quale concede loro tutela non più con una semplice eccezione, bensì con una vera e propria azione.
In tal modo si riconobbe al patto la capacità di far nascere un rapporto obbligatorio, indicato dalle fonti con il termine actione teneri e sarà anche per questo che i medioevali li qualificheranno come patti pretori, facendoli rientrare insieme ai patti legittimi nella categoria dei pacta vestita, dove la veste è rappresentata dalla forma contrattuale che gli proviene dall’azione introdotta dal pretore o dalle costituzioni imperiali. Se da una parte la rilevanza assunta dal ruolo che gioca il consenso induce al rafforzamento della categoria dei patti, anche il sistema dei contratti si amplia e i tre elementi primi delle parole, delle cose e delle lettere vedono l’accostamento di una quarta categoria, quale quella dei contratti consensuali: la società, il mandato, la compravendita e la locazione. Dunque, nel corso dello sviluppo di questo studio, che importanza riveste la tripartizione re-verbis-litteris nella formazione di questa quarta categoria? A mio modo di valutare la questione, assume senza dubbio una rilevanza primaria il re obligari che, nella sua veste del re contrhaere, se si osserva attentamente, condivide con tutti i contratti consensuali un fondamento principale e caratterizzante, quale appunto la datio rei. La “dazione di cosa” altro non sarebbe che la consegna materiale del bene oggetto del contratto da cui discende il trasferimento della proprietà. Il termine “dare” in latino, infatti, non si riferisce alla mera consegna materiale svincolata dall’intenzione di trasferire anche ciò che si provvede a rimettere nella disponibilità di colui che riceve l’oggetto della traslazione.
Dunque questa consegna qualificata, quale la datio, è sì il presupposto e la causa fondativa dei contratti reali ma, a ben vedere, rappresenta anche il punto di contatto con i contratti consensuali appena considerati. Difatti, partendo dalla compravendita, esso rappresenta senza dubbio il negozio in cui maggiormente vengono condivisi gli elementi del “dare” in qualità di contratto che si sostanzia proprio in un binomio dare pretium - tradere possessionem; la datio, dunque, non è altro che la funzione economico sociale del contratto di compravendita che trova come suo esatto corrispettivo la somma di denaro dovuta dall’acquirente. Si porta, in questo caso, alle estreme conseguenze il concetto della datio che, addirittura, nell’ambito della emptio venditio può essere finanche sottoposta a condizione e riferita solamente ad un criterio avente ad oggetto mere quantità o misure, come nell’actio rei speratae.
L’altra fattispecie di contratto consensuale che interessa la nostra attenzione proviene proprio dal contratto di società, in cui - anche in questo caso - la datio assume un tratto caratteristico ed esemplificativo della natura del contratto in esame. La societas altro non è che un contratto che discende dalla volontà unanime dei socii di mettere in comunione una certa quantità di beni al fine di farli confluire tutti in un arca communis tramite la quale svolgere operazioni economiche53 e da questa somma guadagnarci o produrre passivo.
L’elemento della “dazione” qui è dirimente in ordine sia alla tipologia di societas dipendente dalla quantità di beni “dati”: nella societas totorum bonorum, ad esempio, i socii optano per inserire all’interno della cassa comune l’universalità di beni in loro possesso mentre, nel caso delle societates unius negotiationis, il socius opta per deferire una sola quota del suo patrimonio. La datio, in questi casi determina anche la responsabilità del socius, che per la maggior parte delle volte sarà solo tra i soci e non anche verso l’esterno, in quanto delimiterà l’ampiezza di responsabilità entro il quale esso potrà rispondere e che sarà illimitata nel caso di societas totorum bonorum o pro quota negli altri casi coperti da contratto.
Per quanto, invece, concerne la locatio conductio, qui il concetto del dare assume un significato diverso rispetto al generale intendimento che lascia presupporre il verbo dare come sinonimo di “trasferimento della proprietà”. Difatti se noi circoscrivessimo il campo di applicazione della datio al solo atto traslativo del patrimonio, non riusciremmo a giustificare - secondo l’opinione proposta - quale e quanta sia la rilevanza del dare nell’ambito della locatio conductio.
Essa è infatti quella fattispecie contrattuale che prevedeva la possibilità da parte del locatore di mettere a disposizione dell’altra un bene che si obbligava successivamente a restituire dopo averlo goduto per un certo tempo, o dopo averlo lavorato, manipolato, trasformato nel modo pattuito. Qui, infatti, più che dinanzi ad una fattispecie contrattuale ci troviamo di fronte ad un genus entro il quale vivono le tre species della locatio rei, della locatio operis e della locatio operarum. Nel primo caso, dunque, il soggetto locatore mette a disposizione la mera disponibilità della res, che però vive in un rapporto diverso da quello dell’acquirente o del possessore ad usucapionem.
Nella stagione storica in cui ha preso piede la categoria del contratto di locatio rei, la nozione di proprietà ha cominciato ad assumere tratti distinti dal possesso, non identificandosi più nell’oggetto stesso della proprietà ed abbandonando, dunque, quel convincimento che portava a far coincidere la proprietas con il solo esercizio materiale del potere su una res di appartenenza; concetto peraltro magistralmente racchiuso nell’espressione del giudizio per sacramentum del meum esse. Superata questa fase iniziale e con l’affidamento delle terre provinciali ai privati e con la tutela interdittale sempre più frequente, la signoria sulla cosa inizia a vivere in una condizione autonoma rispetto alla materiale disponibilità della stessa tanto da consentire, dunque, di possidere pro alieno.
Questo, dunque, è quello che accadde nel caso della locatio rei rispetto alla quale, pertanto, il dare non si presenta come trasferimento della proprietà, bensì del possesso. Si intenda dunque, nell’accezione così proposta, una diversa articolazione dell’espressione datio rei, la cui evoluzione è, per quanto mi riguarda, direttamente proporzionale allo sviluppo della proprietà e del possesso, andando a confluire nel “dare” qualunque atto ablativo del patrimonio che possa dirsi “coscienzioso” e quindi in grado di trovare la sua ragione primaria in una originaria volontà del soggetto di trasferire o la proprietà o solamente la possessio civilis. In quest’ottica l’ampliamento della categoria del dare non coglie solamente il tipo di diritto che viene trasferito, bensì anche l’oggetto del trasferimento stesso.
Le obligationes re contractae vedevano nel mutuo, nel pegno, nel deposito, nella fiducia o nel sequestro un trasferimento di una cosa materiale (immobile o mobile) o di un animale che andava restituita: non era, dunque, previsto che ciò che oggetto di traslazione fosse un’opera dell’ingegno o una prestazione che vedesse nella manualità del suo prestatore il punto di inizio e di fine. Questo segno di svolta si appura nel prisma delle due fattispecie non considerate che sono dunque la locatio operis e la locatio operarum.
La prima, dunque, prevede che l’obbligazione sia di risultato e che quindi abbia come scopo non tanto il trasferimento atto al godimento del soggetto locatario, quanto la trasformazione di una res affidata a seguito di una lavorazione specifica del soggetto a cui viene demandato questo compito.
Non è diffcile, dunque, immaginare che proprio nella locatio operis si scorgano gli antecedenti storici del contratto di appalto come, allo stesso modo, è indubbio ritenere che proprio il contratto di locatio operarum possa essere considerato l’embrionale contratto di lavoro, prevedendo - quest’ultimo - uno scambio dettato da denaro in cambio di prestazioni d’opera che si sostanziano nel concetto di lavoro, per come possiamo intenderlo attualmente. In questo modo è plausibile che con l’espansione del commercio e dell’economia, non più domestica ed ancorata ad uno scambio di beni di consumo primario, il concetto di datio possa essersi adattato a nuove tipologie di scambio che, su larga scala, prevedeva che le “res” trasferite per le nuove esigenze commerciali non fossero più le stesse e che includessero anche opere intellettuali, prestazioni di maestranze e, finanche, compiti da concludere.
Ed è proprio su quest’ultimo aspetto che viene a prendere forma l’ultima delle fattispecie finora elencate e che troverebbe proprio nel dare, nei limiti delle nuove accezioni attribuitegli, la sua ratio: il mandato. Il diritto romano ha, con l’istituto della rappresentanza, un rapporto controverso e sicuramente distante da quello attuale imperniato sull’articolo 1388 cc. Oggi, infatti, la disposizione codicistica appena citata afferma il principio della rappresentanza diretta, tramite la quale un soggetto denominato rappresentante ha la facoltà di concludere un contratto in nome e per conto del soggetto rappresentato (art. 1704 cc.) di guisa che gli effetti derivanti dalla conclusione del negozio giuridico posto in essere si riverseranno direttamente in capo al soggetto procurante.
D’altro canto il ius civile non riuscì a concepire un istituto di questo genere, in quanto gli effetti di un atto che generasse conseguenze sotto il profilo giuridico si sarebbero riverberati sempre sul soggetto che materialmente lo avesse compiuto54. Pertanto, riprendendo sempre il collegamento con la disciplina odierna, è opportuno affermare che Roma conobbe solo il modello della rappresentanza indiretta (art. 1705 c.c.) proprio attraverso il riconoscimento del contratto consensuale di mandato. In realtà - occorre dirlo - il diritto romano riuscì solo indirettamente ad attestare una sorta di rappresentanza diretta, precipuamente nei casi in cui il soggetto che agiva in nome e per conto di un individuo fosse uno schiavo o un filius familiae; un sottoposto a potestà che, dunque, non aveva capacità giuridica e non poteva essere chiamato per rispondere di alcunché, nel caso dell’insorgenza di una controversia. A ciò, per di più, si aggiungeva la prescrizione decemvirale per cui un soggetto alieno iure non potesse produrre passività a svantaggio del dominus o del pater, bensì solo guadagno: facendo ciò si sostanziava a favore del preponente e a sfavore del mercato una situazione di evidente sbilanciamento. Per questo, dunque, grazie all’opera del pretore, iure honorario si concepirono actiones utiles in grado di ripartire il carico delle responsabilità in virtù del principio per cui cuius commoda eius et incommoda.
Le azioni suddette presero appunto il nome di actiones adieticiae, cioè azioni adiettizie proprio perché aggiungevano una responsabilità in capo al soggetto che deteneva la potestas sui sottoposti, che poteva rispondere illimitatamente o limitatamente a seconda delle modalità attraverso cui aveva deciso di preporre i suoi rappresentanti.
Detto ciò, conviene ritornare sul nesso tra il mandato e ed il re contrahere: come si è detto sopra, il mandato, in qualità di contratto consensuale, si concepiva come quel contratto mediante il quale un soggetto conferiva un incarico ad un altro soggetto affinché quest’ultimo lo svolgesse e ne trasferisse gli effetti in capo al primo. Ora, in questa sede interessa comprendere dove possa rinvenirsi in questo caso la datio che, a ben vedere, condividendo la causa fondativa con i contratti reali, avrebbe ampliato una tale categoria fino a sfociare in quella dei contratti consensuali: qui, ancora una volta, occorre analizzare il significato di dare e quale possa essere la sua accezione in un negozio di questo tipo. Il vero dare, in latino, come già visto, accoglie numerose interpretazioni e per questo motivo mi pare che tale predicato possa includere anche il significato di “affidare” un incarico. Esemplificativo in tal senso è il frammento riportato in D.17.1.36.2 all’interno del diciassettesimo libro dedicato, appunto, al mandato:
“Quod si fundum, qui per partes venit, emendum tibi mandassem, sed ita, ut non aliter mandato tenear, quam si totum fundum emeres: si totum emere non potueris, in partibus emendis tibi negotium gesseris (sive habueris in eo fundo partem sive non) et eveniet, ut is cui tale mandatum datum est periculo suo interim partes emat et, nisi totum emerit, ingratis eas retineat. nam propius est, ut cum huiusmodi incommodis mandatum suscipi possit praestarique officium et in partibus emendis perinde atque in toto debeat ab eo, qui tale mandatum sua sponte suscepit.”
In questo breve testo si affronta la questione relativa al mancato rispetto dell’incarico affidato relativo all’acquisto di un campo. Il soggetto incaricato - si legge - ha provveduto ad acquistare un fondo per “quote parti” (in partibus emendis) in dispregio del compito di acquistare, invece, tutto il fondo (si totum fundum emeres). Pertanto, il mancato rispetto del mandato impone di imputare il rischio di acquistare le altre parti in capo al mandatario, in difetto delle quali nessuna actio mandati contraria sarà possibile nel caso in cui il mandate decidesse di non volerle, non potendo disporre del fondo nel suo complesso. Quello che però interessa è il predicato verbale che viene usato per descrivere la modalità attraverso cui viene affidato l’incarico: nella frase “[…] ut is cui tale mandatum datum est periculo suo interim partes emat et, nisi totum emerit, ingratis eas retineat” (letteralmente: “accadrà che colui a cui fu conferito tale mandato acquisti frattanto a suo rischio e pericolo le parti e, se non riuscirà a comprarlo tutto, sarà costretto suo malgrado a trattenerle.” Il verbo utilizzato per spiegare la modalità di affidamento del mandato è proprio il perfetto passivo del verbo do. Questo, dunque, parrebbe indicare un ulteriore indirizzo relativo all’ampio spettro di significati cui potrebbe, questo termine, attingere.
Da qui parrebbe che i contratti consensuali nascano proprio per il bisogno di ampliare una categoria ormai troppo agganciata alle formalità del ius civile, quale quella dei contratti reali, e quindi bisognosa di ampliarne i connotati richieste dalla nuova stagione commerciale, con i contratti consensuali.
1 Si vedano a tal proposito T. Masiello, Mommsen e il diritto penale romano, Bari, 1997; C. Ferrini, Diritto penale romano: Teorie generali, Milano, 1899; O. F. Robinson, The criminal law of ancient Rome, Baltimore, 1995; C. Gioffredi, I principi del diritto penale romano, Torino, 1970; G.B Falchi, Diritto penale romano, I. Dottrine generali, Treviso, 1930; v. anche G.G. Archi, Gli studi di diritto penale romano da Ferrini a noi. Considerazioni e spunti di vista critici, in RIDA, IV, 1950; G.B. Sommariva, Lezioni di diritto penale romano, Bologna, 1996; B. Santalucia, La giustizia penale in Roma antica, 2013, Bologna. Per una visione del procedimento penale v. Anche A. Banfi, Acerrima Indago. Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d. C., 2016, Torino. Sullo studio della terminologia giuridica delle fonti rispetto a tale disciplina cfr. E. Albertario, Delictum e crimen nel diritto romano classico e nella legislazione Giustinianea, in Studi di Diritto romano, III. Obbligazioni, Milano, 1936, 143. A. Guarino, l’ignoranza del diritto penale romano, in Pagine di diritto romano, IV, Napoli, 1995, 274. Si vedano, in ultima istanza, le considerazioni presenti in C. Cascione, Roman Delicts and Criminal law: Theory and Practice, in Obligations in Roman Law: Past, Present and Future, edited by Th. A.J. Mcginn, Ann Arbor, 2012, 267.
2 TH. Mommsen, Römisches Strafrecht, Leipzig., 1899, 4 ss.; C. Ferrini, Diritto, cit., 1 ss. Sul punto v. pure C. Gioffredi, I principi, cit., 14 s.; G. Impallomeni, Riflessioni sul tentativo di teoria generale penalistica in Claudio Saturnino (D. 48:19.16), in Studi in onore di A. Biscardi, III, Milano, 1982, 177 ss., ora in Scritti di diritto romano e tradizione romanistica, Padova, 1996, 47; F. Gnoli, voce Diritto penale nel diritto romano, in Dig. disc. pen., IV, Torino, 1990, 46 s.; T. Masiello, Mommsen, cit., 28 (con riferimento al pensiero del Mommsen); D. Bock, Römischrechtliche Ausgangspunkte der strafrechtlichen Beteiligungslehre. Täterschaft und Teilnahme im römischen Strafrecht, Berlin, 2006, 18 ss.
3 Uno su tutti V. Giuffrè, La repressione criminale nell’esperienza romana. Profili, Napoli, 1998, XI ss; G. Franciosi, Corso istituzionale di diritto romano, Torino, 2014, 45.
4 U. Brasiello, Delitti (diritto romano), in Enc. dir., XII, Milano, 1964, 7
5 TH. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., 9 ss.
6 A. Ernout - A. Meillet, voce cernō, in Dictionnaire étymologique de la langue Latine, Paris, 1951, 206.
7 V. C.A. Cannata, Corso di Istituzioni di Diritto Romano, II.2, Torino, 2017, 227; per un approfondimento sul tema, v. anche S. Galeotti, Delictum e Crimen: la qualificazione dell’illecito nell’esperienza giuridica romana, in L. Garofalo, Diritto penale romano. Fondamenti e prospettive. I. Le discipline generali, Napoli, 2022, 25.
8 In tal senso alcuni lo intendono per inferenza logica nel senso di abbandonare la legge. Sul punto cfr. con F. Carrara, programma del corso di diritto criminale. Parte generale. I. Del delitto, della pena, Firenze, 1897, 61. v. anche S. Galeotti, Delictum e Crimen., cit., 25.
9 S. Galeotti, Delictum e Crimen., cit., 30.
10 Relativamente alla pax deorum è indispensabile richiamare P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, in SDHI, XIX, 1953, 48 ss. (ora in Studi di diritto romano, I, Padova, 1985, 224 ss.); B. Santalucia, Il processo penale nelle XII tavole, in Socie-ta e diritto nell'epoca decemvirale. Atti del convegno di diritto romano. Copanello, 3-7 giugno 1984, Napoli, 1988, 319, nt.3.
11 V. sul punto S. Galeotti, Delictum e Crimen., cit., 35, nt. 93.
12 4.12
13 4.13
14 M. Talamanca, Istituzioni di Diritto Romano, Milano, 1990, 275
15 M. Talamanca, Istituzioni., cit., 276
16 Tab.II. I b
17 Gaio, sempre in Gai., 4.13, nel descrivere l’agere sacramento si preoccupa di definire tale modalità di litigare come “generalis” in quanto si poteva agire per sacramentum ogniqualvolta non fosse stato previsto che si dovesse agire altrimenti. Viceversa, la legis actio per iudicis arbitrive postulationem era specialis proprio perché speciale - e dunque chiuso - era l’elenco delle casistiche necessarie per azionarla.
18 3.92
19 M. Varvaro, Lineamenti di procedura civile romana, Napoli, 2023, 40
20 Gai, Inst., 4.13-14
21 Si pensi a D.1.5.9. - “In multis iuris nostri articulis deterior est condicio feminarum quam masculorum”; oppure a D.8.6.11 - “Marcellus libro quarto digestorum. Is cui via vel actus debebatur, ut vehiculi certo genere uteretur, alio genere fuerat usus: videamus ne amiserit servitutem et alia sit eius condicio, qui amplius oneris quam licuit vexerit, magisque hic plus quam aliud egisse videatur […]; o ancora, in D. 1.5.5 - “Marcianus libro primo institutionum. Et servorum quidem una est condicio: liberorum autem hominum quidam ingenui sunt, quidam libertini”.
22 Cfr. Il caso della condizione sospensiva in D.1.5.15 da cui dipende la manomissione testamento della serva Arescusa ed il conseguente status dei nati, al verificarsi di un parto di almeno tre figli - "Tryphoninus libro decimo disputationum. Arescusa, si tres pepererit libera esse testamento iussa, primo partu unum, secundo tres peperit: quaesitum est, an et quis eorum liber esset. Haec condicio libertati adposita iam implenda mulieri est. sed non dubitari debet, quin ultimus liber nascatur: nec enim natura permisit simul uno impetu duos infantes de utero matris excedere, ut ordine incerto nascentium non appareat, uter in servitute libertateve nascatur. incipiente igitur partu existens condicio efficit, ut ex libera edatur quod postea nascitur, veluti si quaelibet alia condicio libertati mulieris adposita parturiente ea existat. vel manumissa sub hac condicione, si decem milia heredi Titiove dederit, eo momento quo parit per alium impleverit condicionem: iam libera peperisse credenda est.”; v. Anche il caso della stipulatio poenae in D.4.8.11.5. - “Idem dicit, et si sub condicione fuerit poena compromissa, veluti "si navis ex Asia venerit, tot milia": non enim prius arbitrum cogendum sententiam dicere, quam condicio exstiterit: ne sit inefficax deficiente condicione. et ita Pomponius libro trigensimo tertio ad edictum scribit.”
23 V. Gai, Inst, 4.18; cfr. anche il caso del legato di usufrutto D. 7.5.5.1 - “Si pecuniae sit usus fructus legatus vel aliarum rerum, quae in abusu consistunt, nec cautio interveniat, videndum, finito usu fructu an pecunia quae data sit, vel ceterae res, quae in absumptione sunt, condici possint. sed si quidem adhuc constante usu fructu cautionem quis velit condicere, dici potest omissam cautionem posse condici incerti condictione: sed si finito usu fructu ipsam quantitatem, Sabinus putat posse condici: quam sententiam et Celsus libro octavo decimo digestorum probat: quae mihi non inarguta videtur.”; D.12.1.23 - “Africanus libro secundo quaestionum. Si eum servum, qui tibi legatus sit, quasi mihi legatum possederim vendiderim, mortuo eo posse te mihi pretium condicere Iulianus ait, quasi ex re tua locupletior factus sim.”
24 Sulla identificazione della legge, probabilmente datata intorno al III sec. a. C. vedi M. Varvaro, Lineamenti, cit., 42, nt. 126.
25 Sulla datazione della Lex Calpurnia cfr. G. Nicosia, La legis actio per condictionem e la novità dell’intervallo dei trenta giorni, in Seminario internazionale di Dottorato di Ricerca e Presentazione degli Scritti minori di Raimondo Santoro, Palermo, 12 giugno 2009, 66
26 Gai, Inst, 4.19 - “Haec autem legis actio constituta est per Legem Siliam et Calpurniam, lege quidam Siliam certae pecuniae, lege vero Calpurnia de omni certa re.”
27 Gai. Inst., 4.15 - “ […] ad iudicem accipiendum venirent; postea vero reversis dabatur. Ut autem xxx iudex daretur, per legem Pinariam factum est; ante eam autem legem statim dabatur iudex. Illud ex superioribus intellegimus, si de re minoris quam aeris agebatur, quinquagenario sacramento, non quingenario, eos contendere solitos fuisse. Postea tamen quam iudex datus esset, comperendinum diem, ut ad iudicem venirent, denuntiabant; deinde cum ad iudicem venerant, antequam apud eum causam perorarent, solebant breviter ei et quasi per indicem rem exponere; quae dicebatur causae coiectio, quasi causae suae in breve coactio.”
28 Il termine di trenta giorni non è del tutto una innovazione introdotta dalla legge Silia, in quanto già con una Lex Pinaria tale intervallo di tempo era già previsto. Tra gli studi più completi sul tema vedi G. Nicosia, La legis actio per condictionem e la novità dell’intervallo dei trenta giorni, in Seminario internazionale di Dottorato di Ricerca e Presentazione degli Scritti minori di Raimondo Santoro, Palermo, 12 giugno 2009; cfr. anche F. Briguglio, La ‘lex Pinaria’ e la nomina del giudice alla luce della nuova lettura di Gai 4.15, in Il giudice privato nel processo civile romano. Omaggio ad Alberto Burdese, Castelfranco veneto, 2012, Vol. I, 267-291. C’è anche chi sostiene come H. Lévy- Bruhl, Recherches sur les actions de la loi, Paris, 1960, 253 ss., come la Lex Pinaria avesse de facto introdotto la legis actio per iudicis arbitrive postulationem. Quest’ultima ipotesi è stata smentita successivamente da C. Pelloso, ‘giudicare’ e ‘decidere’ in Roma arcaica. Contributo alla contestualizzazione storico-giuridica di tab. 1.8, in Il giudice privato nel processo civile romano. Omaggio ad Alberto Burdese, Castelfranco veneto, 2012, Vol. I, 74, nt. 26.
29 J. Chr. Hasse, ueber das Wesen der actio, ihre stellung im system des Privatrechts und über den Gegensaz der in personam und in rem actio, in RhM 6, 1835, 85: «Iudex esto. quod Aulus Agerius Numerio Negidio centum mutuo dedit, qua de re agitur, si paret Numerium Negidium Aulo Agerio centum dare oportere, iudex Numerium Negidium Aulo Agerio centum condemnato, si non paret absoluito.»
30 Tra tutti, il fautore di questa linea interpretativa è J. Baron, der Process gegen den schauspieler Roscius, in ZSS, R.A. 1, 1880, spec. 131 ss.; Id.; abhandlungen aus dem Römischen Civilprozess, I. Die Condictionen, Berlin 1881, 3: «die Bezeichnung der Causa musste überhaupt unterbleiben, es musste genügen, den Anspruch quantitativ bestimmt in der Klage anzugeben; die Analogie der actio in rem, welche damals ohne Ausnahme sine causa expressa statt hatte, musste diesen Ausweg empfehlen.» Merita confrontare un recente orientamento che segue tale impostazione nel contributo di M. Varvaro, Condictio e causa actionis, estratto dagli Annli del seminario giuridico dell’università degli studi di Palermo, in AUPA, Torino, 2014, Vol. LVII, 265-318.
31 M. Varvaro, Condictio, cit., 272.
32 J. Baron, die Condictionen, cit., 7 ss; sul punto è convenuto anche Lenel, nello specifico in O. Lenel, das Edictum perpetuum. Ein Versuch zu seiner Wiederherstellung 3, Leipzig, 1927, 237 nt. 6.
33 D. 44.2.27 (Nerat. 7 membr.) - “Cum de hoc, an eadem res est, quaeritur, haec spectanda sunt: personae, id ipsum de quo agitur, causa proxima actionis. nec iam interest, qua ratione quis eam causam actionis competere sibi existimasset, perinde ac si quis, posteaquam contra eum iudicatum esset, noua instrumenta causae suae repperisset”; Per quanto attiene alla nozione di ‘causa proxima actionis’ impiegata in questo frammento v. G.F. Puchta, ueber die expressa causa bey der Eigenthumsklage und derer Einfluß auf die Exceptio rei judicatä, in RhM 2, 1828, 252 ss. e nt. 6.
34 Uno su tutti che conviene su tale teoria è E. Levy, die Konkurrenz der aktionen und Personen im klassischen römischen Recht, I, Berlin 1918, 80 ss.
35 A proposito del fondamento e del valore della restipulatio si veda la disamina affrontata in A. M. Giomaro, Agere per sponsionem: dal procedimento interdittale al procedimento in rem. Studi Urbinati, in Scienze Giuridiche, Politiche ed Economiche, 214. Https://doi.org/10.14276/1825-1676.912. Qui, la Giomaro interpreta la restipulatio, quale promessa inversa, come scommessa da far sopportare all’attore che aveva provocato la sponsio iniziale, come pegno da pagare per la calunnia consistente nell’aver attentato alla buona fede del convenuto, per aver insinuato una avvenuta insolvenza a suo danno.
36 Mod., I, 14. 4.
37 Cfr. anche C.A. Cannata, La ‘distinctio’ re-verbis-litteris-consensu et les problèmes de la pratique (Études sur les obligations I), in Sein und Werden im Recht. Festgabe U. von Lübtow (Berlin 1970) 450; Id., Der Vertrag als zivilrechtlicher Obligierungsgrund in der römi- schen Jurisprudenz der klassischen Zeit, in Collatio iuris Romani. Études H. Ankum I (Amsterdam 1995).
38 Ci si riferisce al giudizio arbitrale intervenuto tra Fannio e Roscio, limitatamente alla richiesta del primo a danno del secondo di una parte dei proventi realizzati dal fondo concesso a Roscio da Flavio, in qualità di risarcimento per il danno subìto a seguito dell’uccisione dello schiavo-attore Panurgo.
39 La parte immediatamente iniziale dell’orazione è lacunosa a causa della perdita della maggior parte dei manoscritti dell’umanista Poggio Bracciolini che contenevano le ultime battute della Pro Rabirio e della Pro Roscio Comoedo.
40 J.H. Freese, Cicero, Pro Roscio Comoedo, VI, London-Cambridge, 1967, 275, sottolinea come il debitore solitamente era tenuto a riportare sul suo libro il debito da corrispondere, ma se si fosse trattato di un “honest man” come Roscio, che non aveva precedenti penali, scarsissime sarebbero stato le possibilità di essere perseguito nel caso di omissione del dato.
41 Qui il ragionamento dell’oratore si fonda sul presupposto che se Cherea avesse registrato il debito di Roscio sui suoi libri contabili, così come era normale che fosse ordinariamente, non avrebbe avuto il bisogno di ricorrere all’arbitrato prima ancora di tentare la regolare procedura legale, che sarebbe stata assai più satisfattiva in quanto a risarcimenti in caso di vittoria in tribunale. Cic, Pro Roscio, 13 - “Ceteri cum ad giudice causam labefactari animadvertunt, ad arbitrum confugiunt, hic ab arbitro ad iudicem venire est ausus! Qui cum de hac pecunia tabularum fide arbitrum sumpsit, iudicavit sibi pecuniam non deberi”
42 Difatti, in tal senso il verbo “adnumerare” significherebbe “pagare tramite contanti”, che in questo ultimo caso - passando da Fannio a Roscio - creerebbe un’obbligazione di mutuo, che viene parallelamente esclusa dall’attore stesso nel par. 14 “datam non esse Fannius confitetur”.
43 Si noti, ivi, l’uso intelligentissimo delle parole calibrate e dosate della difesa, in cui l’oratore modula il temperamento dei verbi in quanto, in questa occasione, non utilizza più l’espressione “negat”, perentoria e lapidaria con cui Fannio ha ammesso di non aver ricevuto niente “re”; stavolta, piuttosto, si preoccupa di affermare solamente che “non dicit” da cui deriva la deduzione del rifiuto dell’attore di non esibire i registri come prova della testimonianza.
44 Non è certo facile credere all’affermazione di un Cicerone così dichiaratamente di parte, anche perché i proventi realizzati dall’attività di Roscio come attore erano altissimi e la sua stessa attività all’interno dell’attività societaria con Fannio per lo sfruttamento dello schiavo Panurgo era ben remunerata.
45 Esemplificativo, a tal proposito è il celebre passaggio riscontrabile in Gai. 4.11, nel quale il giurista, nell’esporre la materia delle azioni all’interno del sui quarto commentario, indica proprio un avvenimento utile a sottolineare l’estrema sacralità del procedimento per leges actiones: un uomo, infatti, dovendo ricorrere al pretore per chiedere tutela de arboribus succisis, sbagliò pronunciando la parola “vitibus” in luogo del corretto e più generico “arboribus” decretando così la sua soccombenza in giudizio - “[…] Unde eum, qui de vitibus succisis ita egisset, ut in actione vites nominaret, responsum est rem perdidisse, quia debuisset arbores nominare, eo quod lex XII tabularum, ex qua de vitibus succisis actio conpeteret, generaliter de arboribus succisis loqueretur.”
46 Così li definisce Gallo, in F. Gallo, Synallagma e conventio nel contratto. Ricerca degli archetipi della categoria contrattuale e spunti per la revisione di impostazione moderne, in Corso di Diritto romano, Vol. I, Torino, 1992, 40.
47 Si consideri che il Gallo, in F. Gallo, Synallagma e conventio., cit., 41, non segue questa opinione, negando - con una ripresa delle posizioni dello Sturm - l’esatta corrispondenza tra pactum ed accordo transattivo.
48 Tab.II.1b
49 Cic., De Inv. 2,22,68.
50 Con tale espressione gli studiosi sogliono riferirsi al sostrato più risalente del diritto romano, le cui fonti erano rappresentate principalmente dagli antichi mores maiorum del diritto quiritario (ius Quiritium), le leggi delle XII tavole (lex duodecim tabularum) e le leges regiae (ius legitimus vetus), nonché l’attività interpretativa (interpretatio prudentium), il cui ambito di applicabilità riguardava dapprima i soli pontefices, ma con il passare del tempo venne concessa anche ai giuristi laici (prudentes), i quali non si limitavano ad applicare una mera interpretazione del diritto, bensì in un’attività di tipo creativo e, dunque, nomopoietica in quello che al tempo poteva essere considerato il sistema giuridico romano. Per altre fonti in tema V. F. Rossi, Apparenza del diritto e rapporti di fatto nell’esperienza giuridica di Roma antica, Firenze, A.A. 2015/2016, 63, nt. 121.
51 Per una breve disamina in materia, pur tenendo in considerazione la sconfinata letteratura ratione materiae, Cfr. S. Di Salvo, Ius gentium e lex mercatoria, in SDHI, 80 (2014), pp. 351-358; S. Riccobono, La fusione del «ius civile» e del «ius praetorium» in un unico ordinamento, in Labeo, 35/2 (1989), pp. 215-232. Sul ruolo della scienza giuridica in rapporto al processo si veda, in particolare, P. Giunti, Iudex e iuris peritus. Alcune considerazioni sul diritto giurisprudenziale romano e la sua narrazione, in V. Marotta – E. Stolfi (a cura di), Ius controversum e processo fra tarda repubblica ed età dei Severi, Roma: L’Erma di Bretschneider, 2012, pp. 213-251
52 Relativamente alla produzione scientifica in tema di contratto e validità del pactum si indicano tra i molti G. GROSSO, voce Contratto (dir. rom.), in Enc. dir., IX, Milano, 1961, p. 750 ss., ora in Scritti giuridici, III, Torino, 2001, p. 687 ss.; ID., ‘Contractus’ e ‘συνάλλαγμα’ nei giuristi romani, in Scritti in onore di G. Bonfante, I, Brescia, 1976, p. 341 ss., ora in Scritti giuridici, III, Torino, 2001, p. 776 ss.; ID., Da Pedio ai Bizantini in D. 2.14.1.3-4, in Studi in onore di E. Volterra, I, Milano, 1971, p. 55 ss., ora in Scritti giuridici, III, p. 741 ss.; ID., Il sistema romano dei contratti3, Torino, 1963, passim; AA.VV., Le dottrine del contratto nella giurisprudenza romana a cura di A. Burdese, Padova, 2006, passim; F. GALLO, ‘Synallagma’ e ‘conventio’ nel contratto. Ricerca degli archetipi della categoria contrattuale e spunti per la revisione di impostazioni moderne. Corso di diritto romano (2 volumi), Torino, 1992, passim; ID., Eredità di giuristi romani in materia contrattuale, in SDHI, LVI, 1990, p. 123 ss.; M. TALAMANCA, voce Contratto e patto nel diritto romano, in Dig. disc. priv. - Sez. civ., IV, Torino, 1989, p. 58 ss.; G. MELILLO, Il contratto bilaterale romano. ‘Contrahere’ e ‘pacisci’ fra il primo e il terzo secolo. Lezioni2, Napoli, 1986, passim; R. SANTORO, Il contratto nel pensiero di Labeone, in AUPA, 1983, XXXVII, p. 5 ss.; B. BIONDI, Contratto e ‘stipulatio’. Corso di lezioni, Milano, 1953, p. 195 ss.; P. VOCI, La dottrina romana del contratto, Milano, 1946, passim; S. RICCOBONO, Corso di diritto romano: ‘stipulationes, contractus, pacta’, Milano, 1935, passim; ID., La formazione della teoria generale del ‘contractus’ nel periodo della giurisprudenza classica, in Studi in onore di P. Bonfante, I, Milano, 1930, p. 125 ss.
53 Per una presa d'atto completa della materia sul fenomeno societario ed associtaivo in Roma Antica si rinvia ad P.P. Onida, “La causa della societas fra diritto romano e diritto europeo”, in Diritto @ Storia. Rivista Internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana, 5, 2006 = http://www.dirittoestoria.it/5/Memorie/Onida-Causa-societas-diritto-romano-diritto-europeo.htm.
54 Cfr. G.C. Seazzu, Iussum e Mandatum. Alla origine delle actiones adiecticiae qualitatis. I. Ipotesi di lavoro e stato della dottrina, cit., 25 ss.