Pubbl. Mer, 12 Mar 2025
L´affermazione del paradigma comparatistico: da Carandini a Schiavone. Le categorie della mentalità arcaica nello studio metodologico del mondo antico
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Gerardo Marco Bencivenga

Attraverso il ricorso a temi e documentazioni critiche presenti nel volume Archeologia del mito di Andrea Carandini l´articolo ricostruisce un significativo avvicendamento di paradigmi metodologici nell´approccio allo studio del mondo antico, che ha visto un certo paradigma comparatistico sempre più sostituirsi a un paradigma storicistico-umanistico spesso prevalente fino a un recente passato negli studi storici , ed osservato a reagire al metodo comparatistico stesso promosso da Carandini stesso già con il suo ” La nascita di Roma ”. L´approccio comparatistico si riflette nel diritto romano, con Schiavone che identifica una ”ipoteca conservativa” arcaica e religiosa persistente nella repubblica romana.
Sommario: 1. Una frattura epistemica; 2. Il conflitto tra i paradigmi comparatista e storicista-razionalista; 3.Le categorie della metalità primitiva; 4. Spazio multidimensionale del mito e logica del sacro; 5. Fondazione urbano come atto eroico-sacrale; 6. Ius e conservatorismo arcaico
1. Una frattura epistemica
È molto importante saper riconoscere quelle “fratture epistemiche” speciali capaci di rideterminare, a diverso titolo, un campo di ricerca. Nel contesto degli studi sul mondo antico una simile frattura sembra essersi - almeno in parte - consumata negli anni recenti all’interno del peculiare ambito della cultura italiana, partendo dalle discipline archeologiche e via via ricadendo direttamente sulla storiografia e quindi, assieme a ciò, al dominio disciplinare dello stesso diritto. Si è trattato di una querelle né banale né secondaria, poiché tale “frattura” ha finito per scompaginare e poi ricompaginare un certo aspetto tradizionale soprattutto della storiografia classicistica in Italia, attaccando però in questo modo anche un vero e proprio paradigma di riferimento ed in gran parte dominante negli studi romanistici fino alle propaggini del nuovo secolo.
Come vedremo, forse si potrebbe anche parlare di un’«onda» culturale nuova, poiché ha finito per coinvolgere diversi studiosi ed attraversare diverse discipline; ma nel momento in cui vogliamo sintetizzarne il quadro e riassumerne la scena, dobbiamo riconoscere allora soprattutto a una speciale figura di studioso, operante nell’ambito archeologico, un ruolo fondamentale in tale vicenda. Esso è senz’altro da riconoscere nel celebre ricercatore Andrea Carandini, figura titolare in simile vicenda d’una duplice impresa: quella di scavi archeologici capaci di fare epoca e letteratura scientifica, ma anche quella d’una riflessione probabilmente decisiva attorno ai paradigmi di ricerca utilizzati nei confronti del mondo antico, e in special modo nei confronti del contesto storico e culturale romano.
2. Il conflitto tra i paradigmi comparatista e storicista-razionalista
Carandini, dopo una sua intensa e pregressa attività di scavi assieme ad interventi critici specialmente inerenti il campo dell’economia antica, si impegnò con successo per anni, verso la fine del secolo scorso, a riportare alla luce possibili evidenze materiali delle fondazioni mitologiche di Roma, soprattutto sul colle Palatino indicato dalla tradizione e memorialistica romane come luogo ed epicentro della “Roma quadrata” fondata da Romolo. In effetti, tali campagne di scavo sono riuscite a portare alla luce notevoli evidenze archeologiche in tal senso, offrendo di fatto tutta una serie di prove materiali a conferma della tradizione relativa alla fondazione romulea, le quali documentazioni maturarono in un volume emblematicamente intitolato La nascita di Roma(1), nell’anno 1997. Tale sforzo, come dicevamo, realmente “fratturò” a suo modo il clima e le visuali dominanti dell’antichistica storiografica e, più in generale, suscitò un energico dibattito, con diverse reazioni anche piuttosto severe specialmente provenienti da un certo ambiente degli studi storici antichi(2). Maturò così un’elaborata risposta di tipo critico e metodologico da parte di Carandini, sfociata nel suo successivo e fondamentale studio, intitolato Archeologia del mito(3): un contributo, a nostro avviso, decisivo sul piano della riconfigurazione concettuale e riposizionamento paradigmatico dell’intero quadro, secondo una prospettiva multidisciplinare, delle discipline coinvolte.
Diversi cruciali fattori venivano infatti analizzati e fatti emergere da Carandini in questo suo successivo volume, inevitabilmente giocati in contrapposizione ai suoi critici - in special modo come detto gli storici - nel decisivo rapportarsi da parte degli studi contemporanei verso il mondo antico e il patrimonio dei suoi documenti. In primo luogo, di fronte a una questione fondamentale: ossia, la pretesa “mancanza” d’una mitologia a Roma, e più ampiamente l’abituale rappresentazione - presso una dominante cultura storiografica, a maggior ragione quando diventa divulgativa - di Roma stessa come una specie di “spazio vuoto” privo non solo d’una mitologia come quella ellenica ma anche di fatto d’un suo autonomo immaginario, nonché di qualsiasi segnale, per esempio, di totemismo, o che potesse almeno confrontare, a suo modo comparare Roma con tante altre situazioni etno-culturali apparse nell’antichità mediterranea e del Vicino Oriente, o presso quei popoli tribali contemporanei ancora caratterizzati da uno stadio civile preurbano, in altri continenti. In realtà, tutta l’impresa di Carandini potrebbe già riassumersi qui, in questo punto, e cioè nello sforzo di dimostrare al contrario la ricca vitalità d’un certo “immaginario romano”, mostrando l’esistenza d’una serie di tracce culturali “proto-mitologiche” caratteristiche ed autoctone alle origini paleostoriche della civiltà romana.
Se da una parte il ricorso alle evidenze archeologiche - solo parziali, certo, ma al contempo sempre anche indiziarie e portatrici di senso - ha sostenuto basilarmente l’opera di Carandini, dall’altro però tale impresa di incomprensione prospettica della storia e cultura di Roma ha potuto svilupparsi specialmente grazie al tramite altrettanto fondamentale d’una riprospettazione teorica e dell’approccio metodologico stesso, in relazione allo studio dei dati antichi: una riprospettazione, basata proprio su di un metodo comparativo interdisciplinare chiamato al lavoro nei confronti di tali dati venuti dal passato. Ovverosia, proponendosi come un vero e proprio paradigma, contrapposto per forza di cose a un altro paradigma spesso dominante nel ventesimo secolo, ossia quello da Carandini descritto quale “storicista”, “classicista”, oppure talvolta nella formula “storicista umanista”, e alle cui spire italiane l’autore dedica un intero, rivelatorio capitolo in rassegna(4).
3. Le categorie della “mentalità primitiva”
Entra in gioco infatti un originale recupero culturale, da parte di Carandini, ossia l’opera antropologica spesso dimenticata di Lucien Lévy-Bruhl ed in special modo la sua teorizzazione di una certa “mente primitiva”, con tutta una serie di sue peculiari caratteristiche distintive(5). Attraverso tale riferimento Carandini in effetti va a chiamare in causa una rappresentazione del funzionamento psicologico-scritturale capace di aderire in una maniera più adeguata alle dinamiche dell’immaginario protostorico, quando lo si confronti alle categorie utilizzate dallo storicismo: se quest’ultime infatti concepiscono il passato solo a partire dalle documentazioni letterarie scritte, e secondo un impianto di lettura psicologica tendenzialmente razionalistico e utilitaristico - come certo è avvenuto spesso, quando poi allo storicismo s’è unito anche il metodo marxista - l’ipotesi psico-antropologica di Lévy-Bruhl riporta invece l’esperienza e le rappresentazioni delle società pre-scritturali a un dominio non solo “razionale” ma anche emotivo e partecipativo, come richiama Carandini, ampliando poi tali categorie antropologiche con ulteriori riferimenti anche a concetti e definizioni sociologici, filosofici, psicologici.
Ossia, l’archeologo italiano richiamandosi all’antropologia, ma anche a queste altre discipline delle scienze umane, propone la decisa adozione di un paradigma rinnovato per la comprensione della vita arcaica, fondato su di un metodo comparativo ed integrativo tra i vari campi di studio, di fronte alla complessità della “mente arcaica”. Lo studioso giunge in Archeologia del mito ad estendere tale metodo anche oltre le categorie temporali, allargando la comparazione anche a certi modelli d’esistenza sociale studiati, nel nostro tempo, dagli antropologi in diverse altre parti del mondo, messi però proficuamente a confronto con quelli della nostra antichità più arcaica - in questo caso, con certe società dell’Oceania contemporanea (6). Accanto a Lévy-Bruhl, Carandini chiama così in causa anche Émile Durkheim e Max Weber dalla parte sociologica, ma anche il contributo di Schelling da quella filosofica, al quale Schelling si deve infatti la teorizzazione della mitologia come universo avente una logica a sé stante, e la cui lezione (7) permette così di accostarsi molto più appropriatamente al fenomeno della “mentalità primitiva”.
Significativo l’accenno anche ad Angelo Brelich(8), studioso italiano senz’altro consapevole di certa lezione interdisciplinare capace di offrire linee di interpretazione proficue agli studi storici classici, durante la metà del secolo scorso, ma anche e proprio per questo ignorato per lunghi decenni dalle vie accademiche prioritarie della cultura classicisti stessa, in Italia. Riassume l’intera problematica in questo modo Carandini:
“(…) il contributo degli Italiani a una comprensione in direzione della bi-logica è stato purtroppo inesistente, avendo essi confuso nell’accusa di irrazionalismo qualsiasi interesse per la componente affettiva. La ragione va difesa, non però in modo angusto, ma anzi assegnandole un compito sempre più vasto, come quello fondamentale di comprendere - con partecipazione e distacco - l’intera natura umana, dal punto di vista personale e sociale, a partire dalla misconosciuta logica religiosa o dei sentimenti (9)”.
In realtà, proprio perché limitato a uno schematico approccio razionalistico, spesso riduzionistico appiattito sul dato storico-letterario - o in un preteso “empirismo bruto”, come sembra avvenire con lo storico inglese Wiseman - il cosiddetto “classicismo umanistico” secondo Carandini ha mancato un’adeguata comprensione della vita romana arcaica, e in genere della cultura latina stessa: esso infatti ha clamorosamente eluso o trascurato un intero patrimonio di riferimenti che la stessa storiografia antica antiquaria ha tramandato, e con ciò le possibili tracce di un immaginario a reale titolo “mitico” connesso ai primordi della civiltà di Roma - e negando tutto questo oltremodo, anche dopo una serie significativa di conferme, verso tale tradizione, giunte dalle evidenze e testimonianze archeologiche.
Per questo habitus mentale e paradigma storicistico il campo dello studio storico non può essere calcato dall’archeologia, sociologia o antropologia, per esempio, e quindi neppure dalle loro scoperte e nuove proposte interpretative; per quel che riguarda Roma, così, le irrigidite risposte di personalità come Carmine Ampolo, il citato Wiseman o Gabba alle ipotesi proposte da La nascita di Roma hanno continuato a rivendicare tale “vuoto” protostorico, fissando i temi, le rappresentazioni e le credenze fondamentali di Roma a un’unica eredità sempre e comunque originata dal patrimonio mitologico e culturale di origine greca. Si tratta qui d’un punto cruciale di tale querelle, poiché si andò evidenziando ancora ai margini iniziali del nuovo secolo una sorta di chiusura prospettica quasi assoluta, sia sul piano metodologico, sia sul piano della considerazione di tutta una serie indicativa di dati nuovi emersi offerti da diverse discipline, dall’archeologia alla linguistica, dalla psicanalisi all’antropologia (10).
Un’intera lezione multidisciplinare - le cui propaggini, come visto, possono risalire fino a Schelling nell’Ottocento o a Lévy-Bruhl subito dopo, e al resto d’un dibattito successivo lungo già decenni - elaborata dalle scienze umane veniva così agli inizi del 2000 ancora una volta ricusata ed ignorata; ma, ormai, il tempo di un cambio di paradigma sostanziale probabilmente era, e l’intero impianto critico di Archeologia del mito se ne assunse il preciso compito.
4. Spazio multidimensionale del mito e logica del sacro
Il “salto epistemico”, per così dire, va fatto “all’indietro”, per giungere a una più credibile e ricca comprensione del mondo arcaico e, come tale, dell’antichità paleostorica latina: da una parte accedendo alla logica del sacro visto in se stesso, nel suo peculiare funzionamento, dall’altra entrando in una adeguata maniera nello spazio multidimensionale del mito, recuperando in tal modo l’orizzonte di senso vissuto dalla civiltà antica, nelle sue fasi più ancestrali. All’interno d’una questione di per sé piuttosto articolata e complessa, comprendiamo però già sufficientemente, sulla scia dei confronti interpretativi portati da Carandini, per esempio come solo facendo patrimonio degli insegnamenti della linea antropologica inaugurata da Lévy-Bruhl, affiancata dalle rivelazioni venute da Freud e dalla psicanalisi, si possa realmente accedere alla peculiare dinamica e logica del mito, nel suo offrire personaggi e situazioni puntualmente rappresentati in versioni molteplici, variabili, difformi, spesso raffigurati attraverso la compresenza di qualità oppositive, anche nella medesima storia o figura divina:
“il principio di identità domina oggi il pensiero esatto ma sono esistiti ed esistono vasti sistemi di rappresentazione in cui questo principio disconosciuto, come appare appunto nelle mitologie. Nei miti la parte equivale al tutto. Pensare che un uomo è un canguro e come identificare una identità con un’altra” (11).
Poiché nella mentalità primitiva/arcaica non vige il dominio d’un’esclusiva logica distintiva, d’una logica razionale basata sulla non contraddizione, quanto piuttosto la forza d’una rappresentazione aperta e dinamica nei suoi elementi, ben compresa a sua volta dalla psicanalisi quando scoprì il “lavoro dell’inconscio”. In esso, nell’inconscio, difatti condensazioni, sovrapposizioni e compresenze contraddittorie dell’identità costituiscono una dinamica essenziale del suo funzionamento, svelando con ciò una zona impensabile per il razionalismo ma ben attiva ed operativa all’interno della realtà mentale ed esistenziale umana, e la cui dinamica di funzionamento - predualistica e prerazionalistica, potremmo dire - sembra essere stata molto più centrale e preponderante nelle epoche più antiche della nostra stessa civiltà; la via seguita da Carandini, qui, è quella d’una concezione dell’inconscio non solo come spazio del rimosso ma come strutturante, anche ricollegandosi agli sviluppi della teoria elaborati da Ignacio Matte Blanco, e la sua idea della psiche quale dinamica “bi-logica (12).
Entrare nel mito, nella sua, caratteristica logica, significa entrare in questa visuale prospettica, attraverso la quale i suoi significati e il valore testimoniale di esso può rivelarsi in ben più profondi spazi di comprensione e sensatezza dei suoi materiali tramandati.
Simile il discorso riguardo al sacro, altra dimensione da trattare con speciale accortezza d’approccio e lettura, come ben mostra l’esempio di Carandini relativo al farro, nel suo sottile rapporto con l’eroe fondatore Romolo. Si dovrà infatti capire come l’elemento materiale - certamente alla base della storica dieta alimentare romana - evocato e trattato nei rituali non possa però nell’ottica antica essere visto solo nei termini di “pura necessità nutritiva”, materialisticamente intesa cioè, ma piuttosto quale elemento mobile di senso e rappresentazione capace di trasfigurarsi nell’eroe fondatore mitico, appunto Romolo, e dunque di valere quale spazio di compenetrazione dove l’aspetto materiale e quello simbolico si sovrappongono e richiamano l’un l’altro (13).
Concetto decisivo qui può rivelarsi secondo Carandini quello di dema/Dema, parola d’origine nella Nuova Guinea ripresa da Lévy-Bruhl con la quale in quelle culture si rimanda al mondo soprannaturale indifferenziato, e se utilizzato al maiuscolo è riferito a esseri soprannaturali creatori ed ibridi, in un immaginario caratterizzante epoche pre-religiose e mitopoietiche: in tale immaginario vige una sorta di “omogeneità essenziale” tra gli esseri viventi e gli oggetti, per cui “il simbolo è anche l’essere o l’oggetto che rappresenta - non è questione di somiglianza avanti consustanzialità”, il che implica perciò il funzionamento di “una mentalità opposta alla nostra (14) come spiega lo studioso.
La forza del simbolo, d’altronde, gioca un ruolo anch’essa fondamentale in simile percezione e rappresentazione del mondo, con un richiamo a sua volta emblematico nel saggio di Carandini all’opera di Ernst Cassirer, nella sua individuazione del simbolo quale dinamica di concentrazione espressiva e di senso, laddove in esso si afferma “l’unità del significato con l’emozione e il sentimento” (15), e capace perciò d’offrirsi come privilegiata “dinamica unificatrice” d’esperienza nella sua relazione col mondo stesso. Emozione e partecipazione, attraverso il lavoro e del simbolo, e del rito, e del mito, entrano con forza nella rappresentazione del vissuto delle società arcaiche, e ne fondano la logica preponderante delle scelte, creazioni, trasformazioni come tali, le quali società da questo presupposto psicologico ed esistenziale erano totalmente compenetrati, poiché per gran parte delle civiltà del passato - e specie le cosiddette “primitive” - l’esperienza del mondo nel suo offrirsi era, sempre, “sacra”, dunque quale “religiosa”.
Gli esempi in proposito tratti dagli studi sul campo da un ricercatore come Marshall Sahlins, antropologo contemporaneo, risultano a questo proposito rivelatori, i quali delineano la dimensione del mito come “una realizzazione contingente d’un modello culturale”: perché in questa mentalità la relazione tra evento e narrazione mitologica si costituisce attraverso un’interdipendenza caratteristica, dove è il mito posto a spiegazione, ma anche a generazione, del reale stesso e dei suoi avvenimenti (16) a essere sentito e concepito. Qui Carandini, per così dire, sembra “sistemare” un’ulteriore diatriba novecentesca spesso riemersa, soprattutto nel confronto tra storicisti e strutturalisti, ossia la dualità tra struttura ed evento, declinata pure nella dicotomia storia-mutamento, perché l’esempio arcaico dimostra infatti - se osservato da vicino, ossia adattandosi alla sua peculiare logica - come quelle società tramite il complesso ricorso agli spazi plurivoci del rituale e del mitologico sapevano ben coordinare la dinamica tra stabilità e cambiamento all’interno di esse, così come erano in grado di accordare l’esperienza diretta dell’evento empirico con la rappresentazione concettuale dei significati sociali e culturali di esso (17).
5. Fondazione urbana come atto eroico-sacrale
La sistemazione proposta da Lévy-Bruhl tra il livello d’una “mitologia primitiva” - contraddistinto da una “comunione mistica” con la materia stessa delle proprie rappresentazioni, ancora in una piena connessione tra uomo e mondo circostante - ed il livello d’una “mitologia colta” - cioè, la ricca elaborazione tarda maturata a narrazione durante l’epoca classica, dove s’afferma piuttosto una rappresentazione del vissuto capace di farsi racconto, nelle forme d’un intreccio leggendario - aiuta a sua volta il tentativo di una ricostruzione critica più consapevole dei circoli culturali e della mentalità più antichi, individuando la differenza tra fasi arcaiche mitopoietiche e le riprese e rielaborazioni tarde, anch’esse impegnate nella rielaborazione del proprio vissuto secondo però nuove visuali realmente influenzate dalla cultura ellenica, e a diverso titolo, talvolta, “demitizzate”.
In questo punto può inserirsi un’ulteriore, fondamentale questione - sul piano storico quanto sul piano paradigmatico - ossia quella relativa alla fondazione di Roma, poiché nella convergenza dimostrata dal discorso archeologico di Carandini e certo discorso leggendario ereditato dalla tradizione antica sembra affermarsi un ulteriore argomento a favore dell’approccio comparativo e, diremmo, antropologico-psicologico nei confronti del mondo antico, per la sua più adeguata lettura e comprensione. Pare emergere in effetti come, tramite un’azione puntuale, uno spazio sul Palatino fosse stato “disegnato” nei precisi termini di un rito di fondazione, e databile quasi esattamente al periodo tramandato dalla tradizione a proposito di Romolo, come le citate ricerche archeologiche di Carandini, riassunte ne La nascita di Roma e in altri suoi successivi interventi (18), sembrano suggerire (19).
Si tratta del disegno relativo al cosiddetto pomoerium, linea tracciata di confine della città in questo modo fondata da parte di un sacerdote-augure, il quale nella peculiare logica pertinente alla società arcaica possiamo senz’altro anche riconoscere quale rex, ossia quale primo riferimento sociale in cui dimensione politica e dimensione religiosa si compenetrano pienamente, e che perciò in questo modo ridefinisce la figura stessa di Romolo, appunto augure, sacerdote e al tempo stesso re fondatore di Roma, attraverso un preciso rituale collocato in un altrettanto preciso punto spazio-temporale (20).
Un testo (21) già avviato su questa linea interpretativa d’un ricercatore indipendente ma di notevole interesse, come La religione dei romani di Renato Del Ponte, per esempio, già rilevava la grande importanza delle scoperte e proposte derivate dagli scavi di Carandini, da cui l’autore desumeva una serie convincente di prove a favore della sua ricostruzione della religione ed immaginario romani, riletti secondo una prospettiva ben più ricca ed originale nei suoi fondamenti culturali ed aspetti religioso-sacrali peculiari, e contribuendo perciò a superare la citata visuale “povera” attribuita per molto tempo alla cultura stessa e allo spirito più intimo di Roma. Del Ponte rilevava perciò il seguente scenario storico:
“(…) come si è visto, il rex primordiale latino, prefigurato da Romolo, è colui che r e g –iones di- ri g -it, cioè in primo luogo un operatore sacrale: colui che traccia la linea celeste e quella terrestre per mezzo del bastone (-scettro) augurale e anche chi traccia la via da seguire, incarnando al contempo «ciò che è retto». Egli è il re (22).
Emerge inevitabilmente a questo proposito un ulteriore punto problematico, a sua volta sottolineato da Carandini e relativo al dibattito tra presunta “fondazione collettiva” delle città, secondo la visuale sostenuta dallo storicismo razionalista, e mitologica “fondazione individuale” di esse, sostenuta invece dagli studi storico-religiosi, archeologici ed antropologici: nella trasposizione mitologica, infatti, presso tante culture comparativamente confrontabili tra di loro la fondazione appare sempre realizzata da un’unica figura assurta a “eroe fondatore”, nella quale finiscono poi per unirsi e riassumersi i diversi caratteri del religioso e del politico; come perfettamente dimostra il caso stesso di Romolo, re-augure ed eroe riconosciuto quale fondatore di Roma.
Il peculiare rapporto tra le dimensioni politica ed economica nel mondo arcaico sembra perciò sempre meglio rivelarsi nella sua piena compenetrazione con una dominante prospettiva religiosa capace di contenerle, laddove per l’antichità la trasformazione stessa di un “abitato” o di un “insediamento” in una “città” doveva sempre configurarsi tramite l’azione di un’opera rituale, sacrale e religiosa, attraverso un unico atto, momento solenne e memorabile di passaggio e trasformazione, tanto spirituali quanto materiali.
Tale prospettiva d’approccio ed interpretazione più attenta al religioso e al sacrale all’interno della civiltà romana si è sempre meglio affermata perciò in diverse direzioni, come attestano varie riprese d’attenzione verso la complessa mentalità al contempo razionalistica e rituale caratteristica del mondo romano, finalmente considerato al di fuori di una prospettiva riduzionista e sotto il peso d’una supposta “inferiorità” nei confronti della civiltà greca, con una pretesa devozione latina a una visione materialistico-pragmatica alquanto banalizzata. Già la lezione (23) di Dario Sabbatucci, in tal senso, aveva aperto la via a una penetrazione più acuta e pervasiva all’interno delle dinamiche religiose e culturali di Roma, ma la “svolta” di Carandini, con le sue ricadute di visione prospettica, e metodologico-disciplinari, ha senza dubbio molto contribuito a ridisegnare l’approccio all’intera dimensione esistenziale quanto civile del mondo romano.
Va sottolineata una volta di più l’importanza non solo degli scavi ma soprattutto del confronto teorico tra modelli di ricerca e paradigmi interpretativi, il significato profondo della querelle intervenuta attorno alle proposte lanciate da Carandini, poiché attraverso di essa sembra essersi ridefinita e ridisegnata una prospettiva più ampia e comprensiva di lettura nei confronti del mondo romano antico e, a parere nostro, offrendo una ben più ricca strumentazione d’approccio ed analisi per una sua migliore penetrazione ed interpretazione, se non una reale comprensione dei suoi aspetti più intimi e complessi.
6. Ius e conservatorismo arcaico
Una simile evoluzione negli studi sul mondo antico non ha potuto fare a meno di influenzare anche il campo degli studi giuridici, e soprattutto sembra aver contribuito ad affinare l’analisi e conoscenza d’una certa mentalità politico-giuridica della civiltà romana, ossia riconoscendo come dovuto al fattore religioso e rituale la sua fondamentale centralità nella storia stessa dell’operare giuridico a Roma, la sua posizione essenziale nelle sue concezioni e prassi del diritto. E non si può allora mancare di sottolineare un certo “contatto evolutivo” che si potrebbe indovinare tra la lezione di Carandini e la magistrale, illuminante sintesi successiva proposta, pochi anni or sono, da Aldo Schiavone con il suo Ius (24): uno sforzo sotto molti aspetti anch’esso epocale nel quale viene sviluppata una lettura coerente della cultura giuridica romana vista come un unicum tra le civiltà antiche, espressione intima d’un carattere e mentalità peculiari della civitas romana.
Anche Schiavone, dunque, ridona per così dire una “centralità a se stessa” della cultura e civiltà romane, secondo una titolarità capace di determinare, originalmente, una caratteristica architettura disciplinare, quella del diritto, che a Roma riuscì ad autodefinirsi in un suo spazio d’autonomia a suo modo unico quanto decisivo e, sul piano storico, dalla straordinaria influenza civile nella lunga, successiva storia europea, fin dentro l’epoca moderna. Ma non sfugge neppure, allo storico italiano, come in questa “invenzione del diritto” di Roma non possa eludersi, nel suo più intimo fondamento, un motore religioso, sacrale e rituale dal peculiare tenore “arcaico” con cui esso nei primordi di Roma andò a costituirsi e poi, per secoli, anche a conservarsi.
Schiavone nella sua riflessione riaccede infatti con precisione al carattere sacerdotale-rituale posto storicamente alla base del diritto a Roma, in quanto esercizio di juris prudentia professato da un collegio a pieno titolo sacerdotale, quello degli esponenti pontificali, componenti dei decemviri: l’attitudine cioè a tale ars - la vera dimensione pertinente a tale esercizio del diritto, visto come un’“arte” e come tale richiamata in più punti del volume, da Schiavone - dell’interpretazione si costituì non su più lineari basi “laiche” e “politiche”, magari in un’intesa di esse simile a quella della modernità, seguendo un certo alveo della demitizzazione applicata al contesto antico, ma piuttosto basandosi sul fondamento di un sapere rinchiuso all’interno d’una conoscenza sacrale e rituale, probabilmente iniziatica ed alquanto esclusiva.
L’ars responsiva, protrattasi come nucleo d’azione a fronteggiare le leggi e consuetudini anche scritte per tutti i secoli della civiltà romana, viene a questo proposito perciò da Schiavone sistematicamente riconnessa alle sue dimensioni più arcaiche, cioè al suo originario determinarsi quale spazio incantatorio se non magico, dove il linguaggio stesso gioca non solo quale “tecnica distintiva” nei confronti del mondo ma ancora come dispositivo connettivo e trasformativo nei confronti di esso, mantenendo cioè l’arcaica ed originaria sua funzione-utilizzo di tenore rituale e trasformativo. Nella civiltà romana, anche quella repubblicana successiva, in realtà, tale “contatto arcaico” non smise mai di funzionare e mantenere un suo ruolo direttivo soggiacente all’esercizio dello ius, caratterizzando come tale quel tipico elemento e profilo conservativo di fondo, pure già riconosciuto generalmente tra i cardini peculiari della mentalità e costume civile di Roma.
Proprio derivando da tale riconoscimento, cioè d’una intima connessione del politico e del giuridico con il religioso, a Roma, matura in Schiavone uno dei suoi originali “teoremi” interpretativi verso la storia politico-civile di Roma stessa: per lo storico italiano infatti vi sarebbe una sorta di contrapposizione latente da registrarsi all’interno dell’universo giuridico e civile romano, ossia quello tra leges e jureconsulta, opposizione in qualche modo duplicatasi poi storicamente in posizione ancor più profonda in quella tra ruolo della politica e ruolo del diritto, laddove proprio il conservatorismo di quest’ultimo, nella sua capacità di “bloccare” le leggi/la politica attivando l’interpretazione, l’ars dei responsa, avrebbe finito per valere da strategia di conservazione e dispositivo di neutralizzazione delle istanze innovatrici che la vita repubblicana stessa, sul piano politico, sapeva a sua volta proporre e le metteva dinanzi.
Una riflessione applicata in merito alle Leggi delle XII Tavole da parte di Schiavone (25) sviluppa con speciale acutezza proprio questa ipotesi, dalla quale lo studioso trae una più ampia visione interpretativa della storia di Roma, vista, secondo questa peculiare ottica oppositoria, in buona parte condizionata da tale “ipoteca” giuridico-sapienziale, la quale avrebbe in questo modo impedito, quasi bloccato una più libera “autonomia del politico” della Res publica - come sarebbe avvenuto, invece, nella civiltà delle polis greche. A Roma, all’interno della quale questo spirito libertario e “democratico” era sorprendentemente emerso già molto presto con le XII Tavole, finì però represso e spesso neutralizzato proprio da tale “motore giurisprudenziale”, in quanto metodo privilegiato e al contempo arcaico dell’operare civile, e quale azione strategica perdurante gestita dai ceti aristocratici e conservatori della città.
Seguendo questo destino per Schiavone la produzione dei testi legislativi fini per essere nella sostanza spesso riassorbita, se non a diverso titolo rimaneggiata, dall’azione dispositiva dei sacerdoti pontefici nella loro interpretazione attuativa, per diversi secoli. Così, fra la legge e la sua interpretazione, fra la lex e il responsum, “era il secondo che, di fatto, tornava a prevalere come elemento generatore del ius. E così sarebbe stato per secoli.” La forza autonoma delle leggi si immergeva, in questo modo, intimamente nel campo d’attrazione della sapienza ermeneutica dei pontefici.
La storia di Roma, secondo Schiavone, sarebbe stata perciò in questo senso condizionata nel suo funzionamento più profondo da una forte ipoteca del “giuridico” posizionato contro il “politico”, con il giuridico collocato in una posizione di dominio di sistema capace di superare i secoli, gli ordinamenti e le evoluzioni sociali intervenuti via via nel tempo della civitas romana. Una caratterizzazione insomma costitutiva dell’essenza più intima della civitas stessa, e che può ricomprendersi solo riconoscendo funzionare all’interno di essa un fondamentale ruolo al sacrale e al rituale nelle dinamiche storiche dello spazio giuridico, e in grado di mantenersi perciò anche ben oltre le fasi della demitizzazione, secolarizzazione e laicizzazione apparse con l’ellenismo ed affermatesi nelle età successive, nella cultura di Roma repubblicana.
Ma, giungendo alle conclusioni, sarebbe da chiedersi, allora: non è che, in realtà, un’intera visuale prospettica sul mondo antico debba meglio ricomprendersi all’interno di un paradigma comparatista, da estendersi probabilmente anche alle presunte età demitizzate e desacralizzate, repubblicane ed imperiali - nell’azione cioè perdurante d’un certo elemento sacrale di fondo, d’una certa devoluzione rituale sottile, secondo dinamiche psicologiche non solo “razionali”, separate, moderne, ma anche “connettive”, magico-sacrali, bi-logiche a loro modo, e profondamente attive anche nei secoli classici? Il patrimonio offerto infatti dalla lezione comparatista sembra svelare più profondamente proprio questo, ossia la preponderante presenza, specie nel da noi lontano mondo antico, d’una forse mai eliminata dimensione “primitiva”, ossia connessionista e sacrale, anche fin dentro pagine storiche ritenute ormai lontane dal mondo arcaico e mitico.
Quel che potrebbe aprire a ben più ricche rivelazioni quando una simile lezione, e trasformazione di paradigma, fossero ulteriormente applicate negli studi sull’antichità.
(1) A. CARANDINI, La nascita di Roma. Dei, Lari, eroi e uomini all'alba di una civiltà, Einaudi, Torino 1997;
(2) Tra i critici più severi delle proposte di Carandini paiono emergere soprattutto E. GABBA, Roma arcaica. Storia e storiografia, Ed. Storia e Letteratura, Roma 2000, ma anche T. P. WISEMAN, al cui pungente Reading Carandini, pubblicato nel 2001, l'autore italiano rispose con un intero paragrafo in Archeologia del mito, al capitolo XI. A una disamina analitica delle posizioni di Gabba Carandini dedica, a sua volta, una lunga nota nello stesso volume e nel medesimo capitolo, pp.142-144;
(3) A. CARANDINI, Archeologia del mito. Emozione e ragione fra primitivi e moderni, Einaudi, Torino 2002;
(4) Per la precisione, si tratta del capitolo V, pp. 52-75, in A. CARANDINI, Archeologia del mito, op. cit.;
(5) Si veda il classico dell’antropologo francese L. LÉVY-BRUHL. La mitologia primitiva, Newton Compton Editore, Roma 1973, ma anche la fondamentale raccolta in L. LÉVY-BRUHL. I Quaderni, Edizioni Scientifiche Einaudi, Torino 1952 ;
(6) Si veda la sezione intitolata Eroi culturali e re divini tra Oceania e Roma, in Archeologia del mito, cit. ;
(7) F. SCHELLING, Filosofia della mitologia, Mursia, Torino ;
(8) A. BRELICH, Tre variazioni romane sul tema delle origini, Edizioni dell'Ateneo, Roma 1955, e A. BRELICH, Quirinus. Una divinità romana alla luce della comparazione storica, in «Studi e materiali di storia delle religioni», 31 (1960), 66 e sgg.;
(9) Archeologia del mito, op. cit., p. 61;
(10) Carandini propone una serie di cinque sistematici punti con cui riassumere le mancanze problematiche del paradigma storicista: si vedano le pagine 131-133 di Archeologia del mito.
(11) Ibidem, p. 29;
(12) I. MATTE BLANCO, L’inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica, Einaudi, Torino 1975-2000;
(13) A. CARANDINI, Archeologia…, op. cit., pp. 65-67;
(14) Ibidem, pp. 61-65;
(15) Di Cassirer può essere significativo recuperare le riflessioni presenti in E. CASSIRER, Filosofia delle forme simboliche, 2. Il pensiero mitico (1923), La Nuova Italia, Firenze 1923;
(16) A. CARANDINI, Archeologia…, op. cit., pp. 133-135. Il volume citato di M. SAHLINS è Isole di storia, Einaudi, Torino 1985;
(17) Ibidem, p. 134;
(18) Per esempio ne A. CARANDINI, Variazioni sul tema di Romolo. Riflessioni dopo la nascita di Roma (1998-1999), in A. Carandini, R. Cappelli (a cura di), Roma. Romolo, Remo e la fondazione della città, Electa, Milano 2000 ;
(19) Una prospettiva dal punto di vista della storia urbanistica, a proposito della "Roma quadrata" e della dinamica dei confini della città antica, è proposta nel volume di J. RYKWERT, L'idea di città. Antropologia della forma urbana nel mondo antico, Einaudi, Torino 1981, nel lungo capitolo dedicato alle pp. 117-193;
(20) Un lavoro importante su questa materia, e capace di riunire in questo caso archeologia e studi giuridici, è stato svolto da Pierangelo Catalano, per esempio in uno studio come P. CATALANO, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, oggi presente all'indirizzo https://doi.org/10.1515/9783110854503-012. Si tratta di un autore che meriterebbe, in altra sede, una sua adeguata riscoperta;
(21) R. DEL PONTE, La religione dei romani, Rusconi, Milano 1992 ;
(22) R. DEL PONTE, op. cit., p. 48;
(23) Si veda per esempio il classico D. SABBATUCCI, La religione di Roma antica. Dal calendario festivo, Il Saggiatore, Milano 1988;
(24) A. SCHIAVONE, Ius. L'invenzione del diritto in Occidente, Einaudi, Torino 2017;
(25) A. SCHIAVONE, Ius, op. cit., p. 143 ed ultra;