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Pubbl. Lun, 6 Gen 2025

Attualità e inattualità dei codici : il diritto e le sue grandi sfide

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Gerardo Marco Bencivenga
Dottorando di ricercaUniversità telematica Guglielmo Marconi



Una riflessione relativa all´attualità e inattualità dei codici tenendo presente la centralità del giurista chiamato a svolgere un ruolo fondamentale nel soppesare e bilanciare gli interessi in gioco anche dinanzi all´intelligenza artificiale, garantendo misura e limite nelle nuove forme di potere che si affermano nell´infosfera


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Current and outdated nature of codes: law and its great challenges

A reflection of the topicality and no actuality of the codes keeping in mind the centrality of the jurist called to play a fundamental role in a play a fundamental role in weighing and balancing the interests at stake even before artificial intelligence, guaranteeing measure and limit in the new forms of power that they say in the info sphere

Sommario: 1. Possibili aspetti “inattuali” della codificazione: l’aspirazione all’unicità; 2. L’altra faccia della codificazione: 3. Autonomia versus eteronomia: l’arte giurisprudenziale come modello dell’indipendenza critica; 4. La responsabilità dell’interpretazione e lo ius “automatizzato”; 5. Sapere della misura e del limite : verso un impegno proceduralista del diritto.

1. Possibili aspetti “inattuali” della codificazione: l’aspirazione all’unicità

La complessa ed epocale opera di codificazione nella sua lunga elaborazione e vicenda storica, concentratasi infine nel Corpus Iuris Civilis, ci offre la possibilità di autonome riflessioni sulla materia. 

Più nello specifico, l’idea è quella di provare a confrontare tale orizzonte giuridico e civile venuto dal passato - un passato che, in realtà, ha comunque a diverso titolo inciso sui secoli successivi, fin dentro la modernità stessa - con le manifestazioni giuridico-politiche dominanti nello scenario contemporaneo, ragionando, per spunti, attorno a un certo asse di riferimento attuale/inattuale, riferito all’opera stessa della codificazione.

 A questo proposito, i nostri spunti possono partire da una peculiare assunzione, e cioè che la codificazione giustinianea vada interpretata - oltre che nei suoi tanti, più analitici aspetti tecnici, visti nello specifico - come un grande esercizio di visione, quale azione generale più complessivamente intesa: ossia, la visione di un’intera, millenaria storia ricostruita sui suoi diversi piani, da quello giuridico a quello politico-civile in senso più lato, la quale presupponeva per realizzarsi proprio di uno straordinario “esercizio” capace di integrare e coordinare questa sterminata eredità storica e culturale.

Saper riunire i tanti fili della propria storia giuridica e civile pretendeva, per quei nuovi codificatori, l’adozione e lo sviluppo di una grande capacità di “visione” da intendersi come una consapevolezza della complessità, prima di tutto, ma anche la sua possibilità di tradursi in un insieme coerente di parti riunite coerentemente tra di esse.

Ma è proprio su questo aspetto più generale attribuito alla grande codifica tardoantica che può anche emergere un primo spunto di riflessione, nel suo confronto con l’ambiente sociopolitico e giuridico contemporaneo, poiché proprio nella appena citata pretesa di comporre un insieme coerente di parti da parte della codificazione antica si può indovinare un elemento, per così dire, “critico”.

Tale elemento, alquanto predominante nel progetto dei codici giustinianei, è la sua centrale pretesa di unicità, quella unicità perseguita e ritrovata come missione fondamentale e caratterizzante la sua impresa. Come ben sottolinea Schipani, l’intenzione primaria dei codici fu quella di una unificazione del materiale legislativo e giuridico, d’una riduzione dei tanti diritti delle genti a un unico diritto - certo, definitivo, risolutivo.

Una simile operazione, segnata da molteplici implicazioni nobili e una reale, grande visione politica e civile, al confronto con le prospettive moderne sembra scontare però anche una forte ascendenza autocratica ed imperiale, che di fatto fu realmente all’opera nella forte intenzione e controllo verso l’intera impresa di codifica da parte di Giustiniano. 

Da questo punto di vista il progetto del Corpus Iuris segnala la sua appartenenza, oltre che a una ricca tradizione giuridica e una lunga storia civile, anche e forse soprattutto alla volontà in buona parte assolutistica della figura imperiale, la quale forse proprio in questa sua intenzione di sintesi definitiva della storia giuridica, di una riduzione all’unico dei molteplici modelli legislativi e del diritto pare risuonare, sembra potersi riflettere, in quello che potremmo definire un modello “empatico” con le proprie prerogative di dominio verticale, riconoscibile nella visione di Giustiniano anche sul piano militare, politico e religioso.

L’imperatore infatti perseguì la via della “riunificazione” nei diversi ambiti del suo dominio, nel quale la “riunione dello ius” lavorò in parallelo alla riunione sognata dell’impero, così come di una ritrovata pace unificatrice religiosa. Ora tale prospettiva, così peculiare a quell’epoca storica di fatto piuttosto lontana, e sotto molti aspetti così specifica di quella fase imperiale cominciata almeno con Teodosio II e maturata col grande imperatore codificatore, sembra davvero molto lontana dalle prerogative della civiltà contemporanea e in genere della storia dei secoli recenti, nei quali almeno sul piano delle intenzioni s’è imposta una cultura liberal-democratica a suffragio universale, e un cosiddetto “Stato di diritto” in cui dovrebbe essere bandito il potere di uno solo, ogni soluzione assolutistica o anche solo verticistica della vita sociale e politica. 

Perciò l’aspetto così centrale nei codici costituito dalla loro capacità di unificazione giuridica, accanto alla parallela aspirazione di porsi come definitivi, e che probabilmente costituì nel contesto della loro stesura e pubblicazione una caratteristica vissuta in maniera positiva alla percezione dell’epoca, non può altrettanto bene risuonare nella sensibilità odierna, poiché ormai segnata dalla convivenza con la molteplicità e la dinamicità sia delle relazioni, sia dei giudizi, sia degli stessi orientamenti legali e morali.

Evidentemente, nel mondo imperiale inseguire un unico modello poteva essere una prospettiva accettabile, la ricerca della “totalità” era un valore di per sé positivo; ma nel contesto di oggi, inseguire una “totalità”, cercare una soluzione definitiva appare come un rischio.

Per la verità, comprendiamo questo pericolo tanto più durante questa più specifica epoca: nella quale s’è già da alcuni decenni profilato una tendenza di governo sovranazionale, ben testimoniata oggi dall’Unione Europea, per esempio, e di cui sembra non sempre apprezzabile la propensione a sovrapporsi alle legislazioni nazionali, via via imponendo una certa “legge uniformata”, una “norma unica” da calare al di sopra, sembrerebbe, delle stesse elaborazioni legislative parlamentari locali.

In questo senso, dunque, potrebbe persino dirsi che sia tornata, una certa tendenza alla codificazione attrice nelle grandi istituzioni internazionali e sovranazionali - ma, se è apprezzabile l’intenzione “universale” di integrazione civile, emerge a maggior ragione una sensazione altresì di pericolo, quello d’una deriva unicizzante e a suo modo verticale, che discende da tali istituzioni internazionali su interi Stati, legislazioni, tradizioni, scelte specifiche e consuetudini locali. Il rischio che, sotto il segno della “uniformità” ed uniformazione normative, un eccessivo devolversi al globale comprometta e sin troppo comprima le esigenze del locale, osservato in questo caso su di un piano politico e giuridico.

Si tratta come si vede d’una questione in realtà molto importante ma anche ricca di potenziali livelli di interpretazione, e che non da poco tempo sta coinvolgendo diverse discipline di studio e anima un certo dibattito intellettuale, per esempio in Europa, ma la cui origine per diversi aspetti può essere individuata proprio nella “grande visione” del Corpus Iuris nella sua tendenza all’universalismo, connessa però anche un certo suo rischio, ed appartenenza, assolutistici, almeno come grande modello originario di sensibilità e di visione “totale” del diritto - un rischio più sottilmente insinuato, forse, oggi, nel contesto in piena evoluzione degli Stati nell’epoca globale.

Ritorneremo per qualche battuta su questo peculiare dilemma, ma possiamo intanto riconoscere che quell’aspetto prevalente nella codificazione antica che Schipani riassume quando dice essere un’operazione in cui “è incluso tutto”, in quanto scritto, e quale certo, appare lontano dalla visione invece contemporanea della legge e dello Stato. 

In confronto alla modernità, tale propensione appare infatti un potenziale problema, più che soluzione - piuttosto, la prospettiva contemporanea rivela un fondamentale indirizzo verso un’idea di legislazione - e costituzione - sempre dinamica, aperta, evolutiva. Il potersi/doversi costantemente mettere in discussione, anche sul piano giuridico e costituzionale appare porsi come un dato fondativo ed essenziale degli ordinamenti moderni, una specie di caposaldo della società democratica contemporanea, soprattutto nelle sue più acclarate intenzioni e manifestazioni ideali.

2. L’altra faccia della codificazione

D’altra parte, se taluni riflessi “assolutistici” possono sembrare connessi all’universalismo “definitivo/definitorio” dei Codici, in essi va però anche rilevato un aspetto di diverso tenore, e dalla differente tonalità di lettura, che possiamo assumere e valutare con rinnovato interesse.

Infatti, abbiamo visto come nei codici giustinianei più sottilmente agisca anche qualcosa di ben diverso da una pura devoluzione assolutistica: ovverosia, una concezione della codificazione quale sinergia tra le parti sociali, tra l’imperatore, i giuristi ma anche, alla base, il popolo stesso, come ben sottolineava, d’altra parte, ancora Schipani, specie quando si vadano a considerare le Institutiones ed il loro spirito, così centrali nell’impianto definitivo della codificazione constantinopolitana.

Sembra respirare in tale propensione qualcosa di ancestrale e profondo, che definisce l’opera dei codici nel senso d’una specie di “contratto sociale”, di patto rinnovato della vita sociale del mondo antico. Si vede allora qui un diverso valore in azione connesso all’atto della codificazione, generato nella sua propria visione - quella richiamata già come prospettiva di lettura privilegiata, all’inizio di queste Conclusioni - seguendo la quale il recupero dei saperi giurisprudenziali e una nuova fondazione del diritto dell’intera impresa sembrano essersi svolti attraverso un doppio movimento, da una parte di reale, esteso coinvolgimento civile nella elaborazione, a diversi livelli collettivi e sapienziali, della stesura tecnica ed interpretativa dei Codici, dall’altra attraverso un’azione di recupero ancor più esteso e concepito in profondità della cultura romana, per certi versi dell’intera sua stessa lunga e complessa storia. 

Respira in effetti nei codici una non secondaria “atmosfera d’appartenenza” civile, che pare soprattutto riportarla a un certo spirito “democratico”, o forse meglio a un certo coinvolgimento comunitario, a una condivisione nel senso della cittadinanza, e nell’appartenenza profonda all’identità della civitas.

Sotto questo punto di vista, allora, l’esercizio di visione realizzato dai Codici antichi potrebbe offrire qualcosa di significativo ed importante ancora oggi, poiché in esso accanto alla titolarità preminente della tutela imperiale si afferma in realtà anche, più o meno in parallelo, una grande capacità di coinvolgimento autentico dell’intero corpo sociale, nonché di attingere alla propria stessa storia venuta dai secoli; potremmo dire, affermando in questo modo una virtuosa attitudine di affermazione in orizzontale del progetto legislativo e civile, e non solamente in verticale delle sue decisioni. I Codici vollero recuperare l’intero spirito attivo nel diritto di Roma, se non, addirittura, di esso l’elemento per certi aspetti archetipico di uguaglianza e valorizzazione collettiva, ben al di fuori, se non contro, qualsiasi intenzione di supremazia arbitraria di classe, di razza, di popolo, di censo economico.

Questo, allora, appare oggi più che mai un valore da recuperare non solo presente nei Codici, ma di fatto caratterizzante nell’intimo il loro spirito, nel quale in realtà voleva trovare una sistemazione efficace e precisa l’intera eredità della cultura giuridica e civile della storia romana, quindi anche la sua venustà tradizione già repubblicana: lo attestano gli stessi giuristi valutati, recuperati ed eletti dalla sistemazione dei nuovi Codici. Possiamo perciò affermare che un simile spirito e capacità di visione, così convinto della necessità della conoscenza di sé e, dove possibile, anche del recupero di tutta la propria storia, nel tempo attuale appare invece come un grande valore positivo, perché una tale attitudine può offrirsi in termini antitetici ad alcune, negative qualità della società contemporanea, la quale sembra spesso funzionare sotto il segno invece del dimenticare, per cui la perdita di memoria e della propria storia si afferma sovente oggi come una maniera diffusa di essere.

Specialmente, quando si affermano in essa le tendenze più incontrollate e sregolate del mercato della finanza, le quali paiono talvolta porsi senza freni o limiti per i loro interessi e traffici, e dunque “premendo” spesso contro le stesse costituzioni moderne e i loro vincoli d’ispirazione sociale e tutelare; come capita, evidentemente, quando nel tempo attuale si osservano le evoluzioni del cosiddetto “neoliberismo”.

L’esempio della tradizione, l’autentica dedizione ai valori dell’intera propria storia assunta nelle sue tante differenze e declinazioni culturali, paiono davvero valori essenziali e senz’altro alquanto attuali che un’impresa concepita nel segno delle Codificazioni ancora può offrirci. Si potrebbe dire, perciò, che in tale aspetto si rivela in tutto questo l’altra faccia dell’universalismo legislativo eletto dai Codici, segnato da una sincera adozione aperta dei valori condivisi, e con al proprio centro un’idea forte di uguaglianza e di tutela.

La codificazione dunque come un’opera imperiale, in un legame autentico dunque tra governo e il popolo il quale così configurandosi si pone, seppur a suo modo, come valore oggi più che mai perseguibile; ed a maggior ragione, quando si constati come un simile “legame autentico” tra le sfere governative e la società - oggi, spesso, “consumerista” - nel momento attuale appaia essersi in buona parte fratturato.

Questo peculiare aspetto riscontrabile nelle codifiche - viste, come detto, nel loro più intimo rivelarsi quale “esercizio di visione” - lo possiamo perciò pienamente apprezzare ed anche acquisire, perché in esso risuona con evidenza il nucleo potente d’una reale appartenenza civile, dove la società tardo antica ancora si riconosceva, e che trovò proprio nel diritto una zona, probabilmente, di maggiore “comunicazione sociale” tra gruppi, poteri, classi.

Ma tale devoluzione a un universalismo integrativo e trasversale alle classi e ai popoli sembra nei Codici potersi rivelare anche in un’ulteriore aspetto e tutt’altro che banale, ossia quel che emerge nell’ultimo capitolo del fondamentale studio, già considerato più volte, di Aldo Schiavone, nel quale s’affaccia una affascinante - ma anche pervasiva - intuizione, e cioè che nella storia giuridica romana a partire dalla tarda epoca repubblicana, poi maturata e ripresa dai grandi giuristi dell’epoca severiana, si sia di fatto affermata una dinamica d’accoglimento nello ius romano della sensibilità legata al diritto naturale, attraverso un’evoluzione che, però, mai riuscì a maturare in quel mondo antico di Roma. Prevalse, come spiega Schiavone, il radicamento forte del costume giuridico romano in una prassi rivolta al privato, dove non poté realmente svilupparsi fino in fondo una certa “etica sociale”, nella prevalenza come dice Schiavone stesso “della proprietà” al posto “del contratto”.

È importante però di questa prospettiva raccogliere la fondamentale tensione in gioco, e capace come tale di offrire un ulteriore valore, utile ancora nella situazione del mondo odierno: infatti, ereditata già dal pensiero ciceroniano fino ai giuristi dell’epoca imperiale come Gaio, Ulpiano o Papiniano si consuma nei secoli antichi la tensione tra ragione naturale – Gaio - e diritto positivo, tra equità naturale – Ulpiano - e fatalità della storia, tra la ricerca d’un ordine giusto e la concreta fattispecie della realtà delle disuguaglianze umane.

Di fronte per esempio alla grande questione dello schiavismo, emerse a più riprese il riconoscimento d’una potenzialmente superiore legge di natura, tanto più necessaria ed evidente quanto più si andava facendo complessa, nell’espandersi dello Stato imperiale, la situazione delle relazioni tra le genti, così come si esigevano risposte più complesse di fronte alla crisi politico-economica dell’epoca e, propriamente, alla dismisura che tale nuova entità civile sembrava oramai manifestare durante una simile fase storica. I pensatori del diritto seppero accogliere dunque, al di sopra di tutto - di ogni contingenza e ragione specifica, o storicamente ereditata - una tensione rivolta verso una eticità superiore, coltivando di conseguenza l’idea d’una equità naturale attraverso cui, perciò, ottenere o provare a conseguire un ordine giusto, concepito non nella dismisura, ma secondo misura

Ecco, tale tensione in sospeso tra astrazione e possibilità, tra isolamento teorico del diritto e necessità etica d’una sua realizzazione pratica sembra a sua volta qualcosa di esemplare, anche per l’epoca contemporanea. Nella quale, difatti, sempre più la coltivazione giuridica trova al di fuori dei propri domini, davvero, un regno della dismisura nella realtà e nelle relazioni sociali, nelle prassi politiche e nelle evoluzioni scientifiche e della conoscenza, e dove realmente valori come l’equità, il giusto ordine, l’interesse collettivo o il riconoscimento di forti disuguaglianze paiono spesso scavalcati impietosamente da tale realtà in vertiginosa, continua trasformazione.

È la tensione stessa, probabilmente, a offrirsi da quel contesto giuridico antico come un’esperienza per noi molto significativa, una tensione, la quale sembra essersi coniugata in quel tempo anche con un desiderio, con una peculiare voglia - quella di risistemare lo squilibrio e il disordine del mondo, e che però ora come allora, sotto rinnovate e molto più complesse sfide, ritorna ancora di fronte al diritto. Una grande, inedita sfida, dove il richiamo al diritto naturale si trova a dover rimeditare se non fronteggiare, oggi stesso, tanti strappi ideologici e concettuali che vorrebbero, per definizione, ormai andare persino oltre la natura stessa, ed in quanto tale.

La lezione da dedurre seguendo la riflessione di Schiavone è, di conseguenza, proprio quella non seguita, fino in fondo, dalla giurisprudenza antica, ossia il dover uscire dal proprio isolamento teorico da parte degli uomini del diritto, e inevitabilmente provare a schierarsi entrando coraggiosamente nella discussione civile, ed incidere dentro essa.

3. Autonomia versus eteronomia: l’arte giurisprudenziale come modello dell’indipendenza critica 

Soffermandoci una volta di più sulla codificazione nel suo rivolgersi dedicato alla propria storia e memoria, giurisprudenziale e politica, possiamo comprendere in realtà un ulteriore livello di valore, assumibile alla nostra coscienza di moderni.

Si tratta d’una riflessione mantenuta per quasi nell’intero percorso di questa ricerca, ricollegata alla dimensione pedagogica del diritto e delle sue codificazioni: ebbene, andrà riconosciuta all’interno di esse una reale, autentica azione propriamente pedagogica, dispiegata sull’intera vita civile del proprio tempo, e proiettata quale modello di sapere per i secoli a venire e le generazioni successive.

Ma in merito a ciò andrà soprattutto compreso che, attraverso la virtuosa frequentazione dell’intenzione codificatrice, la società tardoantica sembra aver sistemato come un privilegiato percorso, per così dire, di applicazione autoformativa sistematica, perché si è costretta, tramite uno studio mirato e approfondito del diritto, a coltivarsi nell’ars giurisprudenziale e nella conoscenza delle leggi. Tale devoluzione al diritto, recuperato dopo un periodo di grave abbandono, determinò così un peculiare atteggiamento cognitivo, appunto capace attraverso lo ius di porsi in una pregevole condizione autoformativa e sistematica, cioè sapendo coltivarsi e migliorarsi attraverso una simile missione di conoscenza, sia teorica che pratica.

Se ne dovrebbe perciò rilevare lo speciale valore socio-culturale, anche perché tale adozione in via sistematica dello ius non si limitò a una semplice acquisizione passiva di nozioni venute dalla tradizione, ma si realizzò attraverso la difficile opera di selezione dei materiali, e ancor più d’una loro, rimeditata elezione e nuova assunzione, quale percorso civile e giuridico privilegiato nella propria funzionale sistemazione della vita sociale.

La funzionalità stessa, come tale, attesta tale sforzo, che dunque fu non solo volto a un apprezzabile culto del passato e della tradizione, ma anche se non soprattutto a un’opera di riflessione e ri-meditazione tutt’altro che secondaria, nella sua importante esercitazione intellettiva come nel suo impegno civile. 

Quale esempio così riattingibile di autoformazione civile, capace di studio ma anche di rielaborazione allo stesso tempo, il momento topico delle codificazioni antiche si rivela perciò sotto questo peculiare aspetto tanto significativo quanto attuale, perché colloca un esercizio di conoscenza viva al centro del patto sociale e della coltivazione civile, irrorandone d’alta sapienza l’educazione comune collettiva. 

Ma a questo punto emerge un ulteriore aspetto significativo su tale linea di riflessione, e cioè la non banale posizione di importanza assunta dal sapere giurisprudenziale nella sua assunzione, così centrale, promossa dalla impresa delle codificazioni. In questo affidarsi al sapere dei giureconsulti si afferma infatti in parallelo una speciale considerazione e validazione di un’arte interpretativa e di pensiero, laddove il mondo tardoantico seppe riconoscere alla capacità di elaborazione del giudizio e alle tecniche del responso un livello di valore decisivo per il giusto vivere civile.

Ecco, tale riconoscimento verso un’arte come quella giurisprudenziale sembra restituire una visione alta nel rapporto sociale tra politica, economia e “capitale culturale”, una visione dove i saperi profondi e meditati - tipici degli uomini del diritto - vengono assunti riconosciuti in una posizione preminente di prestigio, e presi a modello del proprio nuovo orientamento civile.

L’importanza d’una simile assunzione di valore va sottolineata, perché ci restituisce un’azione politica capace di mettere al proprio centro non il puro perseguimento del dominio e la supremazia economica o militare, ma un’arte, una disposizione dello spirito, un patrimonio dei saperi: quanto di più urgente allora oggi, quando si vede il forte rischio d’una pura orientazione della cosa pubblica in senso economico ed affaristico, se non puramente lobbistico, parallelo a una svalutazione via via progressiva dei saperi umanistici, della cultura, della stessa elaborazione critica del pensiero.

Ma è proprio la peculiare dote d’esercizio critico di pensiero, quella che caratterizza il profilo dei giuristi ed il loro specifico modello di sapere: perciò, questa loro centrale assunzione di valore nell’impresa antica dei Codici dovrebbe, a sua volta, essere adeguatamente riconosciuta e recuperata anche per il tempo presente, nel quale appare necessario in effetti ritrovare un giusto ruolo di valore all’esercizio dell’interpretazione applicata, a una distinzione basata sia sulla competenza in profondità dei saperi sia sulla capacità acuta del giudizio - un modo della distinzione degno delle menti più attente, “prudentes” nel senso più antico e più ampio della parola.

In simile esercizio del giudizio e del “capitale di sapere” rappresentato dall’arte giurisprudenziale si afferma, in più, un altro, decisivo a livello di valore, ossia la sua indispensabile formazione ed affermazione nell’esclusivo perimetro di un’autonomia dell’interpretazione stessa e dell’individualità rispondente chiamata in gioco. In questo modo, recuperare autenticamente l’arte giurisprudenziale significa di per sé recuperare anche uno spazio decisivo riservato all’autonomia dell’interpretazione come tale, e dunque uno spazio cruciale per lo stesso esercizio della libertà di giudizio, d’espressione e di pensiero. L’importanza di una simile condizione è grande, in una società, nella quale preservare spazi d’autonomia autentica costituisce un presupposto decisivo del suo funzionamento, se vuole ancora avere senso il fattore della libertà. 

A ben vedere, ciò prescinde dalla premessa diremmo costituzionale uno stato, sul piano magari delle forme considerate democratiche: ma in realtà, comprendiamo che proprio una autonomia del giuridico a poterne autenticamente garantire all’uno una “continuità di contatto” con certo esercizio della libertà stessa, il che non appare cosa scontata neppure nelle cosiddette “democrazie”. 

Se e quanto nelle democrazie moderne esista uno spazio per una reale autonomia del giuridico è senz’altro una grande questione, al di fuori della portata di queste più libere meditazioni finali, certo è però l’esempio venuto dalle codifiche antiche, nelle quali non solo come dicevamo assunse una centralità significativa la figura del giureconsulto con l’intera sua trasmissione storica di saperi, ma anche e soprattutto si riservò un alto valore di considerazione alla sua speciale attitudine nei confronti della scelta e del giudizio, ossia verso il suo porsi come sapere critico, ogni volta, capace di interpretare le situazioni - qualcosa, allora, che di per sé, nel suo stesso costituirsi, garantiva una possibilità di scelta ogni volta da poter interpretare, di nuovo interpretare, e dunque un possibile spazio d’azione rimasto aperto per l’attuazione della libertà. Tutto questo attesta così un importante valore, che non solo dalle codificazioni ma da gran parte dell’età antica e dalla tradizione della romanità giunge preziosamente fino a noi, chiamati a preservare nella più credibile maniera tale autonomia del giuridico inteso però, specialmente, nella libera autonomia e possibilità di interpretazione: dimensione per nulla scontata, come già dicevamo, perché il potere delle lobby di interesse può “inibire” oggi più che mai l’autonomia del giurista, accanto agli apparati dello Stato assunti spesso a spazio di clientele, e alle pressioni “narrativa” sovente unidirezionali dei paralleli apparati di comunicazione e mass media, anch’essi in grado di condizionare, se non acquisire un certo discorso, e posizione, evidentemente, del mondo giuridico all’interno di sé.

La pedagogia dei Codici, allora, si rivela propriamente in questa sua forte devoluzione all’arte giurisprudenziale, quale vero “programma sociale” di estesa didattica pubblica e privata dei saperi giuridici ma anche di significativa valorizzazione dell’autonomia interpretativa, seppur riservata a un’isola sociale, quella del giureconsulti e del loro spazio di pensiero ed esercitazione. 

In questa maniera, una simile pedagogia allora come oggi può preservare una zona preziosa, segnata da una certa autonomia critica nella società chiamata a fronteggiare qualsiasi, pur sempre possibile deriva nel senso dell’eteronomia del dominio giunta da qualsivoglia posizione - politica, militare, sanitaria, comunicativa, finanziaria…Che dovesse imporla.

4. La responsabilità dell’interpretazione e lo ius “automatizzato”

Tale osservazione può allora molto bene accompagnarci a considerare lo scenario che si va profilando attualmente, nel quale sempre di più sembra imporsi la facile via d’una certa “automazione” delle scelte, giudizi, calcoli in tanti ambiti sociali, sotto la suggestiva spinta delle potenze informatiche di elaborazione: un processo della modernità tecnologica da tenere senz’altro sotto controllo nelle sue evoluzioni, e di cui soprattutto andrà messa in discussione la facile deriva, per così dire, di affidamento” più o meno passivo alla “macchina”, cioè al calcolo e poi alla scelta fatta direttamente dalla nuova “macchina digitale informatica”.

La forza decisionale dell’intelligenza artificiale appare come una specie di “paese dei balocchi” dove il giudizio, la comprensione, e quindi poi il de-cidere da parte degli uomini può essere “risparmiato”, lasciando questo ogni volta faticoso percorso all’automazione dei computer.

Uno “spettacolo tecnologico” alla fine del quale, molto probabilmente, potrebbe rivelarsi come esito una vera e propria de-responsabilizzazione collettiva della società umana, uscendo - quasi senza accorgersene - da ogni vincolo etico secondo un principio responsabilità, convocabile in causa sulle gravi indicazioni, per esempio, d’un importante pensatore contemporaneo come Hans Jonas. In un punto così delicato, allora, è proprio la lezione più sottile proveniente dai Codici, e dalla loro implicita ed esplicita coltivazione della critica giurisprudenziale che può venire un’indicazione fondamentale: quella d’una peculiarità unica della capacità di interpretazione umana, così come della sua ineludibile condizione di autonomia nel giudizio e d’elaborazione sua critica; e con essa, ancora, la forza della responsabilità individuale altresì ineludibile, e coincidente con l’esercizio stesso del “responso”, dell’interpretazione applicata.

Dimensioni come quelle della flessibilità e della adattabilità, connesse per definizione al giudizio umano, alla sua capacità di elaborazione considerando i tanti fattori contestuali ed ambientali si rivelano dei fattori decisivi, perciò, in questa complessa fase in cui sembra profilarsi l’ombra di un certo “ius tecnologico” se non di un inedito ‘ius informatico’. A questo proposito, può offrire un significativo contributo un recente intervento di Danilo Ceccarelli Morolli, impegnato a ragionare proprio attorno alla grande questione I. A. - Intelligenza umana.

Lo studioso italiano, in questa sua illuminante prova di riflessione, risale alla celebre affermazione di Celso, passata alla storia quale sintesi d’essenza del compito giuridico, appunto delineato dall’antico giurista quale "ars boni et aequi”, un’espressione la cui pregnanza semantica - come la definisce Ceccarelli Morolli - può richiamare direttamente alla “essenza ontologica” del diritto: ma se il diritto è un’arte del buono e dell’equo, come si relaziona, in quanto tale, con l’avvento delle nuove tecnologie? È in questione, per lo studioso, la centralità stessa del giudizio umano, quel che noi abbiamo appena più sopra riassunto nella dialettica autonomia-eteronomia dell’interpretazione giurisprudenziale, oggi appunto posta in questione: secondo Ceccarelli Morolli, si tratta di comprendere più a fondo prima di tutto il concetto stesso di “equità” risalendo perciò alla definizione che ne dava Aristotele, il quale sosteneva che la chiamata in causa dell’equità fosse da relazionarsi pienamente con la giustizia e presa in considerazione del caso concreto, poiché necessaria nell’azione applicativa proprio per mitigare la rigidità in astratto delle norme e delle leggi.

L’intervento umano dunque è già di per sé implicato nell’esercizio del primo principio dell’arte giuridica, l’equità così inestricabilmente collegata alla concretezza dei casi e alla contestualità, anche la più complessa, delle singole situazioni. D’altra parte, per Ceccarelli Morolli l’altro principio-base del diritto, il bonum, costituisce il fine stesso a cui dovrebbe tendere l’attività giuridica in quanto tale, quale “stella polare che orienta l'interprete e l'operatore del diritto” nel loro agire e così “rendere giustizia”.

Di fatto si registra oggi un fenomeno inedito anche sul piano della elaborazione giuridica, il quale profila all’orizzonte una sorta di campo nuovo disciplinare in cui dovrebbero incontrarsi le logiche della potenza informatica con le forme del diritto, e definito dal neologismo “Giuscibernetica".

Le forme di tale nuovo campo disciplinare della Giuscibernetica si manifestano nelle diverse applicazioni logico-informatiche oggi in via di sviluppo, di cui riconosciamo soprattutto queste le più specifiche declinazioni: i sistemi di analisi predittiva, ossia l’utilizzo di algoritmi capaci di offrire statistiche relative ai dati legali di cause e controversie ed offrire così possibili strumenti preventivi; gli strumenti di legal tech, e cioè delle piattaforme web in grado di offrire servizi legali automatizzati, come contratti, consulenze legali o pratiche burocratiche; i sistemi di giustizia predittiva, ossia delle vere e proprie “soluzioni affidate al computer” il quale può suggerire ai giudici delle sentenze dopo una rapida analisi-comparazione informatica, realizzata da degli algoritmi di machine learning su dati e precedenti giurisprudenziali. 

Come si vede, una scenario in grande evoluzione, all’interno del quale però già si evince il rischio che abbiamo più sopra rilevato, quello di una devoluzione non all’interpretazione umana ma all’automazione dei sistemi informatici e all’intelligenza artificiale; peraltro, è già diventato controverso il caso del sistema Compas, il quale ha fatto emergere un orientamento nelle sue valutazioni tutt’altro che soddisfacente o di per sé “neutrale”; anche perché dovrà essere ribadito in realtà come, nonostante tutto, il patrimonio dei data base elaborati dall’intelligenza informatica provengano in ogni caso da contenuti originari prodotti da esseri umani, e dunque contraddistinti come tali dalla inevitabile parzialità delle azioni umane stesse.

Ma soprattutto, come ragiona Ceccarelli Morolli, risulta evidentemente improprio attribuire ad apparecchiature informatiche il peso di quella che va riconosciuta come una vera e propria ars, cioè lo stesso diritto: quella specifica capacità di interpretazione che abbiamo visto caratterizzare l’identità giurisprudenziale nella sua essenza, e volta a comprendere le norme tramite un’applicazione flessibile e contestualizzata di esse. Come dice lo studioso, il diritto è un’arte di “soppesare i principi etici e di bilanciare gli interessi in gioco”, e i suoi rappresentanti devono perciò “sentirlo” intuitivamente, razionalmente ed emotivamente quando sono chiamati ad applicarlo, citando in ciò il contributo di François Gény. 

Perciò, la pur utile possibilità in termini di consultazione dei database e memorizzazione dei casi col supporto dell’informatica, esclude al tempo stesso un utilizzo esclusivo o di per sé centrale dell’intelligenza artificiale nel lavoro giuridico, perché non può che rimanere decisivo all’interno di esso il suo realizzarsi all’interno del giudizio e dell’interpretazione squisitamente umani. 

Soprattutto, all’interno di una responsabilità umana esclusiva e decisiva, richiamando in ciò proprio il pensiero di Jonas, quando il filosofo tedesco ribadiva il fatto che "l'uomo è l'unico essere che ha la responsabilità dell'essere".

L’ausilio delle “intelligenze” algoritmiche, dunque, andrà collocato nell’ordine di quello che esso realmente costituisce, ovverosia uno strumento, un instrumentum semplicemente a disposizione della decisione umana, come già avviene con tanti strumenti, “protesi” che la storia dell’umanità si è messa a propria utilità. Cosicché il dilemma andrà superato per così dire ritornando alla base stessa delle due concezioni, quella strumentale e quella critico-interpretativa, e di conseguenza rilevando l’ineluttabilità della seconda nella gestione sostanziale della prima. 

Sembra questa l’unica via logicamente percorribile: il rischio, altrimenti, è quello di una "disumanizzazione" della giustizia, con decisioni automatizzate che non terrebbero adeguatamente conto delle specificità di ogni caso concreto, del contesto sociale e culturale in cui si inserisce, delle emozioni e dei valori che entrano ogni volta in gioco. 

Se il diritto è “arte”, infatti, ossia espressione della creatività e del giudizio umani, è lecito chiedersi se gli algoritmi possano mai sostituirsi all'uomo nella sua elaborazione e applicazione, non essendo certamente nè una vera e propria arte né una vera e propria interpretazione capace d’originalità. 

In definitiva, l'intelligenza artificiale può essere un valido alleato del giurista, ma non potrà mai sostituirlo completamente. Il diritto, in quanto "arte del buono e dell'equo", richiede un approccio umano e contestualizzato, che sappia bilanciare l'esigenza di certezza e prevedibilità con la flessibilità e l'adattabilità necessarie, come detto, per garantire giustizia in un mondo in continua evoluzione. Può essere utile, al riguardo, riportare direttamente le considerazioni alquanto pertinenti su tutto ciò dello stesso Jonas, tratte da uno stimolante volume intitolato Sull’orlo dell’abisso, e strutturato sul modello dell’intervista. Quando la discussione giunge al tema delle “macchine informatiche”, il pensatore offre questo suo spunto illuminante, per cui la moderna tecnologia informatica costituisce “un’attività meccanica eseguita prima da un essere vivente e poi da una macchina”, laddove la possibilità di attribuirgli qualcosa di simile alla consapevolezza critica umana é del tutto fuorviante, perché “chi considera seriamente questa ipotesi paragona anzitutto il calcolo al pensiero e poi il pensiero alla coscienza”. Infatti, bisogna comprendere bene questo aspetto: 

“che l’automa possa divenire attraverso l’esecuzione dei compiti esso stesso vivente, acquisire una psiche con una propria volontà non è altro che una sfrenata speculazione”, (…) “Come non si può ascrivere sensibilità ad un termostato perché è sensibile agli stimoli esterni, tantomeno abbiamo motivo di ascrivere il pensiero ad un processo meccanico perché, predisposto da noi a farlo, opera in modo corrispondente al pensiero”.

Jonas, dunque, distingue il calcolo dal pensiero, così come il pensiero stesso alla coscienza: l’opera del computer così si rivela per quello che è, ossia un’operazione di calcolo capace di realizzare con grande solerzia i passi meccanici necessari d’un processo - ma, in realtà destinata tale stessa operazione a essere sempre poi assunta da un atto di coscienza, da una coscienza che, sola, ne dà il significato. 

Prima del processo di calcolo vi è, quindi, sempre un’istanza umana in qualità di istruzione, così come alla fine del medesimo processo vi è un atto di coscienza, una presa di coscienza, sempre altrettanto umana. L’istruzione prima, e la coscienza poi aprono e chiudono perciò qualsiasi processo di senso, in questo modo obbligano a una presa di responsabilità la coscienza umana stessa. In questo preciso funzionamento essenziale si colloca di conseguenza la chiamata in causa e la funzione specifica come tale del sapere giurisprudenziale, e ogni applicazione del diritto dotata di senso - sotto la duplice stella morale dell’aequum e del bonum - non potrà che osservarne la rigorosa logica.

5. Sapere della misura e del limite: verso un impegno proceduralista del diritto

Riprendendo così il filo del discorso portato avanti da queste conclusioni, si vede come l’essenza dell’identità giurisprudenziale, osservata e ricostruita in questo lavoro nella sua nascita occidentale nel cuore della civiltà romana, possa davvero - se ricomprese, appunto, nella sua più autentica essenza - rappresentare un dispositivo fondamentale di equità e saggezza volto a costituire un baluardo  contro qualsiasi deriva di squilibrio, dismisura e in-discriminazione, nel suo porsi, al contrario, quale sapienza della misura e del limite, quelli da porre in contrapposizione all’azione dei processi incontrollabili della società tecnologica, in tutte le sue possibili variabili contemporanee. 

Misura e limite, come tali, rappresentano le vere dimensioni profonde verso cui riferirsi, oggi, quelle più pertinenti al ruolo e funzione del pensare ed agire giuridico.

Sembra però giusto concludere ampliando, anche al di fuori della problematica “giuscibernetica”, l’orizzonte delle sfide che paiono sorgere nel complesso quadro della società contemporanea, di fronte al diritto. La dismisura e lo squilibrio possono essere anche quelli tendenzialmente imposti, per esempio, dalla società securitario, e dal vincolo info-elettronico cui potrebbe indirizzarsi l’intera società dello scambio economico, nella sostituzione della moneta con card e pagamenti interamente digitali. Si tratta di scenari tutt’altro che estranei al momento presente, ed in cui molte problematiche, inerenti la libertà degli individui, o la loro privacy, paiono sempre più effettivamente emergere.

La possibilità d’un controllo potenzialmente oppressivo di apparati tecnologici al di sopra dell’intera esistenza delle persone appare oggi realmente tangibile ed evidente, così come l’insidiosa possibilità di monitoraggio, profilo azione e acquisizione dati comportati oggi dall’uso dei social.

Gli spazi del comunicare, attualmente, sembrano un territorio realmente incontrollato, e la discussione rimane aperta è piuttosto intensa in proposito; ma già una certa via di risposte sembra essere stata segnata, per esempio dai fondamentali contributi in materia offerti da Stefano Rodotà, a proposito della storica regolamentazione della privacy, e in genere sul nuovo rapporto tra mondo contemporaneo e contesto delle regole. Sarà, da questo magma concettuale sempre in movimento, solo forse qui da rilevare un valore, fissato proprio dal pensiero e dalla regolamentazione proposti da Rodotà, ossia il compito per il diritto di proteggere le parti fragili della società contemporanea, che nella realtà sono costituite dalla stessa popolazione comune. 

Infatti, quel che sembra più profilarsi è proprio lo squilibrio, tra l’onnipotenza dei sistemi di produzione e controllo delle informazioni nell’epoca tecnodigitale e l’infinita schiera dei loro utilizzatori comuni, i quali non hanno accesso, realmente, al loro controllo di base e sostanziale. La questione della privacy, in realtà, è stata approntata tutta a partire da questo presupposto, e cioè la protezione del “cittadino digitale” dalla smisurata forza di Big Tech e le sue spire di insinuazione e controllo fin dentro l’intimo della quotidianità dei cittadini contemporanei.

Il ruolo del giurista contemporaneo – e con esso la sua formazione giusromanistica – dunque, rimane del tutto prezioso e, quasi, potremmo allora capovolgere l’interpretazione incontrata nei capitoli precedenti proposta da Schiavone, a proposito della funzione per così dire di “custodi esclusivi” da parte dei giureconsulti nella Roma repubblicana arcaica: casta distinta ed oligarchica, capace di “tenere sotto controllo” ma in un preciso senso di dominio la parallela produzione legislativa dalla forte linea di tendenza democratica. I giuristi, cioè, “tenevano in pugno” in senso conservativo la dinamica politico-legislativa delle leggi. Oggi, per certi aspetti, il rischio sembra essere divenuto il contrario: la sfera politica e quella industriale trasgrediscono spesso i vincoli imposti dalla misura giurisprudenziale.

Si può assistere a un duplice fenomeno: da un lato, un certo “mascheramento” della politica all’interno di una “pelle giuridica”, come si è visto negli ultimi decenni con operazioni di invasione militare internazionali giustificate, in qualche modo, da una presunta indicazione di altrettanto presunte “corti internazionali”. Il cui statuto di neutralità e obiettività, sin dall'inizio e già da tempo, è stato pesantemente messo in discussione. Dall'altro lato, si assiste a una “iperproduzione normativa” quasi fuori controllo, prodotta dalla politica liberal-democratica e da una certa deriva burocratica e amministrativa. Un fenomeno tangibile nelle esigenze quotidiane dei cittadini, ad esempio in un paese come l’Italia.

Una volta di più, perciò, il richiamo al senso della misura che dovrebbe garantire la sapienza giuridica, il suo stesso modo e ragione d’essere, potrebbe agire da momento di moderazione “calmierando” tale spesso incontrollata tendenza. Una paradossale funzione, però forse non insensata qui da chiamare in causa, di un diritto chiamato a “moderare le leggi”, o forse meglio una produzione normativa incontrollata; ma in questo modo, in realtà, rideterminando forse in maniera decisiva una politica di separazione dei poteri e delle sensate applicazioni relative alle diverse prerogative, da parte delle sfere sociali in azione. 

Su questa via incontriamo allora un altro grande pensatore contemporaneo, Jurgen Habermas, il quale nel suo Fatti e norme, per esempio, sembra affrontare in una maniera piuttosto approfondita simile intreccio: il filosofo tedesco infatti richiama il problema del superamento d’un puro “modello pragmatico” della produzione ed applicazione normative, sorprese nel tempo presente molto spesso a dominare la scena politica, civile e legislativa della società contemporanea. I cosiddetti criteri di efficienza, come tali, sembrano avere realizzato un processo che li ha visti invadere, partendo dalla sfera puramente amministrativa, anche l’intera impalcatura e concezione della sfera politica e della sua logica di gestione, sganciandosi però da quelle che Habermas chiama “condizioni della legittimità”.

Va però superata questa concezione della politica e soprattutto del diritto prettamente funzionalistici, e proponendo al suo posto la frequentazione d’un nuovo paradigma, il cosiddetto paradigma proceduralista, nel quale si mantenga e si rilanci la funzione di “apertura del mondo” connessa alla sfera giuridica, in quanto d’una continua ed ulteriore opera di interpretazione. Il paradigma proceduralista in qualche modo si connette a una teoria discorsiva del diritto, attraverso cui lo Stato democratico di diritto si apre a procedure e presupposti comunicativi capaci di rendere possibile una formazione discorsiva dell’opinione e della volontà. 

In questo tipo di orizzonte, andrebbe superata perciò una concezione puramente astratta della legge, convocando un incontro sempre aperto e sempre vivo tra sfera pubblica giuridica e arena d’un pubblico dibattito al centro della partecipazione sociale. Un “puro adempimento” normativo preteso a collocarsi in una posizione neutrale non sembra dunque più accettabile, laddove nei processi decisionali di governi, amministrazioni, burocrazie ai criteri di efficienza dovranno senz’altro sempre più aggiungersi dei “filtri di legittimazione”, che al decisionismo pragmatico sappia affiancare quindi una ponderazione dei beni collettivi, in ciò seguendo l’ispirazione e il modello del diritto procedurale stesso.

Sotto molti aspetti, come si vede, la complessa riflessione filosofica di Habermas costituisce, probabilmente, uno degli orizzonti più stimolanti in cui la problematica politica si incontra con quella giuridica, e attraverso la quale si intravedono delle risposte sostenibili ed anche possibili alla reale complessità dell’orizzonte socio-economico, culturale e più ampiamente antropologico del nostro tempo, tra quelle attualmente riscontrabili nel contesto della discussione filosofica e giuridica.

La presente dissertazione, lungi dall'esaurire la complessa tematica del ruolo del diritto nella società contemporanea, si propone come un contributo alla riflessione su tale problematica, muovendo da una prospettiva genealogica che affonda le sue radici nel Corpus Iuris Civilis.

Attraverso l'analisi diacronica dell'evoluzione del concetto di codificazione, si è inteso evidenziare le tensioni e le continuità tra l'antico ideale di un diritto universale e immutabile e le esigenze di un mondo in continua trasformazione, caratterizzato dalla globalizzazione, dalla rivoluzione digitale e dall'emergere di nuove forme di potere. Se l'ambizione di un diritto onnicomprensivo e statico, espressione di una visione assolutistica del potere, appare oggi un'illusione, l'eredità giuridica romana conserva tuttavia un valore paradigmatico.

La centralità dell'interpretazione, la ricerca di un equilibrio tra l'universale e il particolare, la formazione di un giurista capace di autonomia di giudizio e di responsabilità etica, si configurano come elementi imprescindibili per un diritto che ambisca ad essere strumento di giustizia e di promozione umana. L'avvento delle nuove tecnologie e dell'intelligenza artificiale, in particolare, solleva interrogativi cruciali, che interpellano la riflessione giuridica contemporanea. Come coniugare l'esigenza di certezza e prevedibilità con la flessibilità e l'adattabilità necessarie per affrontare le sfide di un mondo in continua evoluzione? Come preservare la centralità del giudizio umano e dell'interpretazione contestualizzata nell'era dell'automazione, evitando i rischi di una "disumanizzazione" della giustizia? Come garantire la tutela dei diritti fondamentali, come la privacy, di fronte alle nuove forme di potere che si affermano nell’infosfera? Questa indagine, quindi, pur nella sua limitatezza, ha cercato di offrire un contributo a tali interrogativi, attingendo al pensiero filosofico contemporaneo e alle riflessioni di giuristi che hanno dedicato la loro opera alla difesa dei diritti nell'era digitale. Se da un lato si sottolinea l'ineludibile responsabilità dell'uomo di fronte alle conseguenze della tecnologia, dall'altro si auspica il superamento di un modello puramente pragmatico del diritto, in favore di un paradigma proceduralista che promuova la partecipazione, il dibattito pubblico e la tutela dei cittadini dalle nuove forme di potere. 

In definitiva, il diritto oggi si configura come un'arte del "soppesare" e del "bilanciare", un'arte che richiede non solo competenza tecnica, ma anche sensibilità etica e profonda umanità. Solo un diritto capace di coniugare tradizione e innovazione, certezza e flessibilità, potrà essere un valido strumento per la costruzione di una società giusta ed equa, all'altezza delle sfide del nostro tempo.


Note e riferimenti bibliografici

1. S. SCHIPANI, Le vie dei codici civili, op. cit., ma anche i due importanti volumi della SOLIDORO MARUOTTI, La tradizione romanistica nel diritto europeo, op. cit.,

2. D. CECCARELLI MOROLLII, Il concetto di ‘limite’ nel diritto (romano). Brevi riflessioni, pubblicato su «Roma e America. Diritto romano comune online», N.1- 2023, pp. 81-82. È consultabile all'indirizzo https://www.romaeamerica.it/2023/07/11/danilo-ceccarelli-morolli-il-concetto-di-limite-nel-diritto-romano-brevi-riflessioni/

3. F. GÉNY, Metodo di interpretazione e fonti del diritto privato positivo, a cura di G. Tarello, UTET, Torino 1955

4. H. JONAS, Sull’orlo dell’abisso. Conversazioni sul rapporto tra uomo e natura, Einaudi, Torino 2000

5. Ibidem, pp. 45-48

6. D. LYON, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, Luiss University Press, Roma 2020 

7. S. ZUBOFF, Il capitalismo della sorveglianza, Luiss University Press, Roma 2019

8. S. RODOTA’, Tecnologie e diritti, Il Mulino, Bologna 1995

9. S. RODOTA’, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Feltrinelli, Milano 2009

10. J. HABERMAS, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Laterza, Roma-Bari 2013 

11. Ibidem, p.419