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Pubbl. Gio, 5 Ott 2023

Per la Cassazione va garantito un salario minimo costituzionale

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Editoriale a cura di Ilaria Taccola



La Corte di cassazione, con la sentenza del 2 ottobre 2023, n. 27713, ha affermato il principio per cui il salario minimo fissato mediante contrattazione collettiva non è esente da una verifica del giudice sulla congruità rispetto ai parametri costituzionali della giusta retribuzione.


In questa storica sentenza, la Corte di cassazione ha affermato il principio per cui il giudice può sindacare il salario minimo previsto dalla contrattazione collettiva se non garantisce una retribuzione sufficiente a garantire una vita dignitosa.

Il salario minimo fissato mediante contrattazione collettiva non è pertanto esente da una verifica del giudice sulla congruità rispetto ai parametri costituzionali della giusta retribuzione ai sensi dell'art. 36 della Costituzione.

Ne consegue che se sussiste una retribuzione minima determinata sulla scorta del contratto collettivo comparativamente più rappresentativo nell’ambito del settore di attività, laddove sia dedotto un contrasto con l’articolo 36 della Costituzione, al giudice non è impedito di analizzare altri parametri concorrenti.

Invero, deve essere ricordato che nella Costituzione c’è un limite oltre il quale non si può scendere. E questo limite vale per qualsiasi contrattazione collettiva, che non può tradursi in fattore di compressione del giusto livello di salario e di dumping salariale; in particolare, quando la presenza di molteplici contratti collettivi in uno stesso settore, tanto più se sottoscritti da soggetti poco o per nulla rappresentativi (si veda ad es. in materia di trattamenti contrattuali collettivi dei c.d. riders la circolare del Ministero del lavoro del 19.11.2020), diventa un fattore di destabilizzazione, mettendo in discussione l’attitudine alla parità di salario a parità di lavoro che il rinvio alla determinazione collettiva sottende.

Questo limite diventa cogente quando, come ha avvertito la Corte cost. nella sentenza n. 51/2015 dedicata alla disciplina del salario collettivo dei soci di cooperativa, venendo meno alla sua storica funzione, la stessa contrattazione collettiva sottopone la determinazione del salario al meccanismo della concorrenza invece “di contrastare forme di competizione salariale al ribasso”.

Infatti, la Corte di cassazione nella sentenza n. 27711/2023 tratta di “lavoro povero”, ovvero di “povertà nonostante il lavoro”, principalmente dovuto alla concorrenza salariale “al ribasso” innescata da molteplici fattori, in particolare dalla molteplicità dei contratti all’interno della stessa contrattazione collettiva la quale, pur necessaria, può entrare in tensione con il principio dell’art. 36 della Costituzione che essa stessa è chiamata a presidiare per garantire il valore della dignità del lavoro.

La giurisprudenza, secondo una elaborazione che dura oramai da oltre 70 anni, (Cass. 12.5.1951 n. 1184; Cass. 21.2.1952, n. 461; 27.2.1958 n.663, 15 febbraio 1962 n. 308) ha affermato che il giudice chiamato ad adeguare, in base all’art. 2099, 2° comma c.c., il trattamento retributivo all’art. 36 della Cost. può fare riferimento, come parametri esterni per la determinazione del giusto corrispettivo, alla retribuzione stabilita dai contratti collettivi nazionali di categoria, i quali fissando standard minimi inderogabili validi su tutto il territorio nazionale, finiscono così per acquisire, per questa via giudiziale, una efficacia generale, sia pure limitata alle tabelle salariali in essi contenute.

Tutto questo avviene ovviamente nei limiti e con le difficoltà, le variabili e gli opportuni adattamenti di un’operazione di estensione di una regola generale all’interno di ogni concreta controversia individuale; attesa la carenza a tutt’oggi di altri meccanismi tali da garantire in concreto ad ogni individuo che lavora nel nostro Paese il diritto ad un salario minimo giusto o altrimenti una soddisfazione automatica o un controllo documentale della corretta erogazione del salario costituzionale all’infuori di una controversia processuale (o di un accertamento ispettivo).

Ribadito che secondo la comune interpretazione mai derogata da questa Corte, il riferimento al salario di cui al CCNL integra solo una  una presunzione relativa di conformità a Costituzione, suscettibile di accertamento contrario, va anche detto che attraverso questo sistema si è pure temperata, in concreto, in mancanza dell’attuazione dell’art. 39 Cost., la tesi espressa dalla già richiamata sentenza delle Sez. Unite n. 2655/1997, secondo cui l’ordinamento consentirebbe al datore di lavoro di autodeterminare la categoria di appartenenza ovvero di poter applicare un contratto stipulato da organizzazioni operanti in un settore produttivo diverso rispetto a quello nel quale si trovi concretamente ad operare.

In sede di applicazione dell’art. 36 Cost. il giudice di merito gode, ai sensi dell’art. 2099 c.c., di una ampia discrezionalità nella determinazione della giusta retribuzione potendo discostarsi (in diminuzione ma anche in aumento) dai minimi retributivi della contrattazione collettiva e potendo servirsi di altri criteri di giudizio e parametri differenti da quelli collettivi (sia in concorso, sia in sostituzione), con l’unico obbligo di darne puntuale ed adeguata motivazione rispettosa dell’art.36 Cost.

Pertanto l'apprezzamento dell'adeguatezzal’art. 36, 1° co., Cost. garantisce due diritti distinti, che, tuttavia, «nella concreta determinazione della retribuzione, si integrano a vicenda»: quello ad una retribuzione «proporzionata» garantisce ai lavoratori «una ragionevole commisurazione della propria ricompensa alla quantità e alla qualità dell’attività prestata»; mentre quello ad una retribuzione «sufficiente» dà diritto ad «una retribuzione non inferiore agli standards minimi necessari per vivere una vita a misura d’uomo», ovvero ad «una ricompensa complessiva che non ricada sotto il livello minimo, ritenuto, in un determinato momento storico e nelle concrete condizioni di vita esistenti, necessario ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa». In altre parole, l’uno stabilisce «un criterio positivo di carattere generale», l’altro «un limite negativo, invalicabile in assoluto». 

Il giudice, pertanto, non può sottrarsi a nessuna delle due valutazioni che, seppur integrate, costituiscono le direttrici sulla cui base deve determinare la misura della retribuzione minima secondo la Costituzione.

Pertanto, pur individuando in prima battuta i parametri della giusta retribuzione nel CCNL, il giudice deve controllari e disapplicarli allorché l’esito del giudizio di conformità all’art. 36 si riveli negativo, secondo un suo motivato giudizio.

Infatti, non esiste una riserva normativa o contrattuale a favore della contrattazione collettiva nella determinazione del salario nell'attuale ordinamento costituzionale (ed a maggior ragione in uno stato di mancata attuazione dell’art.39 Cost.

La nostra Costituzione ha accolto una nozione di remunerazione della prestazione di lavoro non come prezzo di mercato, ma come retribuzione sufficiente ossia adeguata ad assicurare un tenore di vita dignitoso, non interamente rimessa all’autodeterminazione delle parti individuali né dei soggetti collettivi. I due requisiti di sufficienza e proporzionalità costituiscono limiti all'autonomia negoziale anche collettiva.

Per determinare una retribuzione dignitosa, il giudice può considerare contratti collettivi “della categoria affine” per prestazioni analoghe, in base all'art. 3 della legge 142/2001 e può fare anche riferimento ad indicatori statistici, anche secondo quanto suggerito dalla Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022.

La Sezione Lavoro, in tema di retribuzione proporzionata e sufficiente, ha affermato i seguenti principi:

«Nell’attuazione dell’art. 36 della Costituzione il giudice, in via preliminare, deve fare riferimento, quali parametri di commisurazione, alla retribuzione stabilita nella contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale può discostarsi, anche ex officio, quando la stessa entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall’art. 36 Cost., anche se il rinvio alla contrattazione collettiva applicabile al caso concreto sia contemplato in una legge, di cui il giudice è tenuto a dare una interpretazione costituzionalmente orientata.

Ai fini della determinazione del giusto salario minimo costituzionale il giudice può servirsi a fini parametrici del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe.

Nella opera di verifica della retribuzione minima adeguata ex art. 36 Cost. il giudice, nell’ambito dei propri poteri ex art. 2099, comma 2, c.c., può fare altresì riferimento, all’occorrenza, ad indicatori statistici, anche secondo quanto suggerito dalla Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022».


Note e riferimenti bibliografici