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Immutabilità della contestazione disciplinare e la proporzionalità della sanzione nel settore privato, privatizzato e pubblico
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Pubbl. Mer, 7 Mag 2025

Immutabilità della contestazione disciplinare e la proporzionalità della sanzione nel settore privato, privatizzato e pubblico

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Francesco Salvo
AvvocatoUniversità degli Studi di Palermo



Una riflessione sistematica sul principio di immutabilità della contestazione disciplinare nei diversi modelli di impiego, alla luce del principio di proporzionalità e dell’interferenza del giudizio penale


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Immutability of disciplinary challenge and proportionality of sanction in the private, privatized and public sector

A systematic reflection on the principle of immutability of disciplinary challenge in the different models of employment, in the light of the principle of proportionality and the interference of criminal judgment

Sommario: 1. Premessa; 2. La ratio del principio di immutabilità della contestazione disciplinare nell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori; 3. Dal contraddittorio nel settore privato a quello nel settore pubblico privatizzato; 4. La discrezionalità nel settore pubblico, tra regime privatizzato e pubblicistico; 5. L’addebito nel procedimento disciplinare nel settore pubblico e privato: un confronto alla luce della giurisprudenza; 6. Il principio di immutabilità della contestazione nella giurisprudenza recente; 7. L’incidenza dell’esisto del procedimento penale nel giudizio disciplinare, attraverso l’esame di due sentenze di merito; 8. La comune chiave di lettura e il coordinamento dei principi espressi nelle sentenze in tema di immutabilità della contestazione; 9. Il coordinamento tra immutabilità della contestazione e proporzionalità della risposta sanzionatoria; 10. Conclusioni.

1. Premessa

Il procedimento disciplinare è caratterizzato da specifiche garanzie per il lavoratore, tra le quali assumono importanza centrale i principi di specificità e, consequenzialmente, di immutabilità della contestazione disciplinare, che trovano fondamento, nell’ambito del lavoro privato e nel pubblico impiego privatizzato, principalmente nell’art. 7 della Legge n. 300/1970 e nel più ampio disegno costituzionale di salvaguardia del diritto di difesa. Per effetto di tali principi la formulazione dell’addebito deve essere cristallizzata sin dall’inizio del procedimento disciplinare.

Per ricostruire la ratio e la portata applicativa del principio è utile esaminare le declinazioni che assume nei diversi settori dell’impiego: privato, pubblico contrattualizzato e pubblico non contrattualizzato.

Nella prassi si sono riscontrati dubbi interpretativi allorquando la modificazione del contenuto della contestazione si rende opportuna a seguito di interferenze provenienti dal procedimento penale, come accade nei casi in cui intervenga una sentenza di assoluzione che smentisce le premesse accusatorie sulla base delle quali era stata avviata l’azione disciplinare.

Attraverso l’esame della giurisprudenza di legittimità e di merito – con specifico riferimento a due recenti decisioni del Tribunale di Palermo – in questo scritto si indaga se, ed entro quali limiti, sia possibile per il datore di lavoro riconfigurare il contenuto dell’addebito disciplinare senza violare il principio di immutabilità. Particolare attenzione è dedicata alla distinzione tra mutamento dell’elemento soggettivo e alterazione del nucleo materiale della contestazione, nonché al ruolo del giudice nella verifica della lesione concreta del diritto di difesa. L’obiettivo è quello di offrire una riflessione sistematica, ancorata al dato normativo e giurisprudenziale, in grado di orientare l’interprete dinanzi a una tematica tanto ricorrente quanto delicata nella prassi dei rapporti di lavoro.

2. La ratio del principio di immutabilità della contestazione disciplinare nell'art. 7 dello Statuto dei Lavoratori

L’art. 7 della Legge n. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) introduce il principio di immutabilità della contestazione disciplinare quale garanzia essenziale per il lavoratore. Tale principio persegue due esigenze fondamentali, ossia la tutela del diritto di difesa e la certezza del diritto in ordine alle regole del procedimento disciplinare. Il lavoratore deve, quindi, poter rispondere agli addebiti contestati con piena cognizione di causa, già nel corso del procedimento disciplinare, non essendo possibile alterare la contestazione in una fase successiva e, in particolare, nella fase giudiziale, essendo questa destinata al vaglio dell’addebito, non alla sua formulazione.

Il principio di immutabilità è insito nel più vasto concetto di specificità della contestazione disciplinare. Il comma 2 dell’art. 7 cit. prevede l’obbligo per il datore di lavoro di contestare preventivamente l'addebito al lavoratore, regola questa che non implica l’adozione di un particolare formalismo[1], bensì risponde solo alla necessità che sia instaurato un contraddittorio tra le parti del contratto di lavoro. Occorre, infatti, riflettere sul fatto che l’ordinamento attribuisce a una delle parti del contratto di lavoro la possibilità di irrogare una sanzione, e ciò eccezionalmente, tenuto conto che un tale potere è in genere concesso a un organo giurisdizionale o un’Autorità super partes[2].

D’altronde, l’inadempimento, in ambito contrattuale, può conferire a una parte il diritto di recedere dal contratto, di risolverlo, o di proporre le altre azioni previste dal codice civile, ma fra le facoltà attribuite a una delle parti non è mai riconosciuta quella di irrogare all’altra una sanzione.

Questa opzione è prevista esclusivamente per il contratto di lavoro e riservata unicamente al datore di lavoro, in considerazione della particolare natura del vincolo giuridico che lo lega al lavoratore e che caratterizza il contratto di lavoro rispetto altri negozi giuridici.

Ciò che contraddistingue il contratto di lavoro è, infatti, la soggezione del lavoratore al potere direttivo del datore di lavoro (art. 2094 c.c.), che fonda la supremazia gerarchica di quest’ultimo ai sensi dell’art. 2086 c.c.

Il potere che l’ordinamento assegna al datore di lavoro, a sua volta, è chiaramente espressivo del principio di libera iniziativa economica previsto dalla Costituzione all’art. 41, principio sul quale è impostato il potere direttivo del datore di lavoro, che sarebbe privo di significato senza la possibilità per questi di irrogare una sanzione disciplinare conservativa od espulsiva.

Perché tale potere non sfoci in arbitrio, il legislatore ha previsto, tuttavia, il contraddittorio come strumento di bilanciamento delle prerogative dell’imprenditore e del lavoratore. Il tema è stato, peraltro, affrontato dalla Corte Costituzionale, nella sentenza n. 204 del 1982, che ha valorizzato il contraddittorio regolato dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, riconoscendolo quale elemento indefettibile, affinché la sanzione disciplinare risulti legittima e conforme ai principi costituzionali.

La Corte ha spiegato le ragioni per le quali il legislatore ha legittimato il datore di lavoro, pur non essendo un organo super partes, a condurre un procedimento disciplinare e irrogare una sanzione. Tale facoltà dà certamente spessore ed effettività al vincolo di subordinazione, sicché, per contemperare i contrapposti interessi delle parti private, la Corte ha specificato il ruolo che in tale contesto assume il contraddittorio nel procedimento disciplinare, essendo l'unico mezzo attraverso il quale il potere sanzionatorio del datore di lavoro possa acquisire una connotazione di legalità e legittimità. In altri termini, la sanzione è giustificata solo se preceduta da un iter che consente al lavoratore di esporre le proprie ragioni. Tale costruzione si fonda sul principio del contraddittorio, cristallizzato nella massima audiatur et altera pars, che la Corte riconosce come principio fondamentale di garanzia ed equo bilanciamento degli interessi delle parti.

La sentenza afferma chiaramente che l'obbligo del contraddittorio risponde all'esigenza di compensare la mancanza di imparzialità dell’organo sanzionatore. Il procedimento disciplinare ha, quindi, il compito di cristallizzare la posizione datoriale e quella del lavoratore, dando luogo a un unico corpo documentale che contiene entrambe le prospettive. La cristallizzazione delle rispettive posizioni consente un vaglio successivo da parte di un giudice o di un organo conciliativo, così garantendosi il rispetto dei principi costituzionali di uguaglianza e di difesa (artt. 3 e 24 Cost.).

In buona sostanza, il potere disciplinare del datore di lavoro non è assimilabile a quello esercitato da un organo giudiziario o comunque terzo, poiché manca di imparzialità. Pertanto, il contraddittorio diviene lo strumento attraverso il quale si “legalizza” un atto che, altrimenti, sarebbe arbitrario.

3. Dal contraddittorio nel settore privato a quello nel settore pubblico privatizzato

L'esigenza di garantire il contraddittorio vi è tanto nel settore privato quanto in quello pubblico, seppur con differenze sostanziali derivanti dalla natura giuridica dei due ambiti e dalle diverse esigenze sottese all’iniziativa d’impresa e all’amministrazione pubblica.

Dal quadro tracciato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 204/1982, si è visto come, nel procedimento disciplinare nel settore privato, il contraddittorio sia considerato strumento di bilanciamento del potere sanzionatorio del datore di lavoro, con il diritto di difesa del lavoratore, ma anche con il diritto di uguaglianza che, in questo caso, è alla base dell’equo contemperamento degli interessi dei contraenti.

Nel settore del pubblico impiego privatizzato, il rapporto di lavoro dei dipendenti è attualmente regolato dal codice civile, secondo quanto previsto dall'art. 2, d.lgs. 165/2001, sicché la Pubblica Amministrazione, sebbene conservi prerogative e funzioni pubblicistiche, nella gestione del rapporto di lavoro assume il ruolo di parte contrattuale, similmente a quanto avviene nel settore privato.

Nell’esercitare il proprio potere disciplinare, la P.A., pertanto, agisce come datore di lavoro privato, sicché non può essere considerata super partes in questo contesto, poiché esercita un potere che incide unilateralmente sulla posizione del lavoratore.

Sotto questo profilo, la garanzia del contraddittorio, nel settore pubblico privatizzato, assume rilievo al pari di quanto avviene nel settore privato, tant’è che l’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori trova applicazione senza distinzione tra i due settori[3].

Tuttavia, non deve trascurarsi come, nonostante la privatizzazione, la Pubblica Amministrazione mantenga comunque una peculiarità strutturale, ma anche giuridica, che la distingue dai datori di lavoro privati.

Se, infatti, l’imprenditore agisce con il legittimo scopo di tutelare la propria iniziativa economica, la P.A. persegue piuttosto il rispetto dei principi di imparzialità e buon andamento (art. 97 Cost.).

Invero, la P.A. è contemporaneamente parte del rapporto di lavoro e organo pubblico che agisce nel rispetto di imparzialità e buon andamento dell’Amministrazione. Tale polisemica natura deriva dall’esigenza di scindere l’azione prettamente autoritativa della P.A. (es. emissione di ordinanze, provvedimenti amministrativi unilaterali) da quella negoziale (es. compravendite, locazioni o altri contratti). La prima forma di manifestazione, iure imperii, è espressione del potere pubblico e soggetta a un regime di diritto amministrativo, la seconda, iure privatorum, è disciplinata dal diritto civile e quindi soggetta alle stesse regole applicabili ai privati. La fonte di tale distinzione è notoriamente costituita dall’art. 1 L. n. 241/1990.

In ambito lavorativo, deve, quindi, distinguersi la sfera di gestione del rapporto di lavoro (dove la PA è parte contrattuale e quindi non super partes), dalla sfera dell’azione amministrativa generale (dove la PA deve rispettare i principi di imparzialità e buon andamento). Nel primo caso, il provvedimento adottato dal datore di lavoro nei confronti di un dipendente è una questione inerente al singolo, dove la P.A. agisce anch’essa da singolo e, quindi, iure privatorum, con ciò determinando l'istaurazione di un paritario contraddittorio delle parti regolato dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, come integrato dall’art. 55bis d.lgs. n. 165/2001.

Il procedimento di formazione dell’eventuale sanzione differisce sensibilmente da quello previsto per l’emissione di provvedimenti amministrativi, quest’ultimo soggetto alle esigenze motivazionali di cui all’art. 3 L. n. 241/1990 e finalizzato al perseguimento di un interesse pubblico, dove il privato può essere ammesso a partecipare ai sensi degli artt. 7 ss. L. n. 241/1990, ma senza assumere il ruolo di contraddittore parificato alla P.A. che, invece, è riservato al lavoratore nel procedimento disciplinare[4].

Le differenze che ne derivano tra settore pubblico privatizzato e settore privato si manifestano in vario modo.

È per esempio da notare come le determinazioni disciplinari, nel pubblico impiego, non spettano al responsabile di struttura che ha contestato l’addebito, bensì a un apposito ufficio per i procedimenti disciplinari (art. 55bis d.lgs. 165/2001), che peraltro è organo collegiale, prerogativa dalla quale traspaiono degli elementi di terzietà nella conduzione della procedura disciplinare, non specchiabili nel contesto del settore privato e che mostrano come l’immedesimazione organica di cui all’art. 28 Cost. comporti che il provvedimento emanato non sia frutto della decisione di un singolo, bensì di un processo decisionale collettivo. Di contro, nel settore privato, è ampiamente riconosciuto[5] che il datore di lavoro non sia tenuto a un obbligo di parità di trattamento tra lavoratori, bensì soltanto al rispetto del divieto di discriminazione[6] e ciò lo distingue ancora, seppur sul piano meramente retributivo, dal datore di lavoro pubblico, che è invece tenuto all’osservanza della parità contrattuale ex art. 45 comma 2 d.lgs. 165/2001[7].

Differenze sostanziali emergono anche dall’accostamento dei due regimi di lavoro con quello pubblico non privatizzato, dove il procedimento disciplinare è connotato da una maggiore formalizzazione e da una struttura eminentemente pubblicistica. In tale ambito, il lavoratore non è parte di un rapporto contrattuale paritario, bensì soggetto a un regime autoritativo, in cui il potere disciplinare è esercitato da organi dotati di autonomia funzionale rispetto all’Amministrazione di appartenenza (si pensi, ad esempio, al Consiglio Superiore della Magistratura o ai Consigli di disciplina militare), che riflettono la più forte gerarchizzazione dell’apparato.

In questo contesto, il contraddittorio assume contorni differenti: esso non è solo garanzia di difesa del lavoratore, ma si colloca in un sistema volto a tutelare non solo l’interesse pubblico perseguito, ma anche il corretto funzionamento dell’Amministrazione, la tutela del prestigio e della credibilità dell’istituzione. Le garanzie difensive si articolano, dunque, entro procedimenti fortemente regolati da norme di rango primario e secondario (si pensi ad esempio alla analitica regolamentazione del procedimento disciplinare e sanzionatorio previsto in ambito militare dal d.lgs. n. 66/2010 e dal D.P.R. n. 90/2010) e si innestano in una logica in cui il rispetto dell’imparzialità e del decoro istituzionale giustifica una minore tolleranza verso le condotte illecite, anche laddove non incidano direttamente sul sinallagma funzionale del rapporto.

Ne consegue che, se nel settore pubblico privatizzato il contraddittorio assume rilievo in un contesto paritetico e contrattuale, nel lavoro pubblico non contrattualizzato esso si inserisce in un procedimento amministrativo con finalità pubbliche, dove il bilanciamento degli interessi, oltre ad essere basato sulle garanzie di contraddittorio del singolo lavoratore è anche proiettato alla salvaguardia dell’istituzione di appartenenza. In tale quadro, il principio di legalità amministrativa e il rispetto delle regole deontologiche e funzionali assumono un rilievo superiore, giustificando così l’ulteriore differenziazione rispetto al settore privato e anche rispetto allo stesso pubblico impiego privatizzato.

La diversa struttura delle tre categorie di rapporto di lavoro si traduce anche in una diversa costruzione dell’apparato sanzionatorio, che nel pubblico impiego non contrattualizzato è più analitico e tipizzato direttamente dalla legge. Anche nel pubblico impiego privatizzato talune sanzioni sono previste dalla legge (cfr. artt. 55quater-quinques-sexies d.lgs. 165/2001), ma con un grado di analiticità minore rispetto al settore pubblicistico puro, perché convivono con la disciplina contrattuale e con l’intervento giudiziale.

Di certo, nel settore pubblico in generale, la mancata attivazione dell’azione disciplinare non è una scelta gestoria, bensì un illecito per omissione, suscettibile di rilievo anche in sede di responsabilità erariale o amministrativa[8]. Il settore privato è quello che presenta la maggiore flessibilità e minore tipicità delle sanzioni, dove i regolamenti contrattuali stipulati con le parti sociali trovano maggiore diffusione ed assumono anche il ruolo di declinare specifiche condotte disciplinari astratte all’interno di determinate categorie sanzionatorie.

4 La discrezionalità nel settore pubblico: tra regime privatizzato e pubblicistico

Le divergenze ontologiche tra le tre macrocategorie del rapporto di lavoro incidono, come visto, anche sul margine di discrezionalità secondo il quale il datore di lavoro, pubblico o privato, è chiamato a esercitare il proprio potere disciplinare.

Il margine di discrezionalità è inversamente proporzionale al potere che il Giudice ha di entrare nel merito della sanzione o di rideterminarla.

Nel pubblico impiego privatizzato, il Giudice del lavoro è espressamente munito del potere di rideterminare la sanzione disciplinare se risulta sproporzionata rispetto alla condotta contestata, e ciò in ossequio all’art. 63, comma 2-bis, d.lgs. 165/2001.

Tale norma introduce nel settore del pubblico impiego contrattualizzato una significativa eccezione al principio generale di insindacabilità del potere sanzionatorio datoriale, attribuendo al giudice il potere di rideterminare la sanzione disciplinare annullata per difetto di proporzionalità, in applicazione delle fonti legislative e contrattuali vigenti.

Tale facoltà giudiziale non costituisce un’ingerenza arbitraria nel potere organizzativo della Pubblica Amministrazione, e non incide sulla separazione del potere amministrativo con quello giudiziario, ma si fonda su un’esigenza di equilibrio tra la tutela dei diritti del lavoratore e il perseguimento degli interessi pubblici generali (art. 97 Cost.), come esplicitamente indicato dal legislatore attraverso il riferimento allo “specifico interesse pubblico violato”. Il Giudice, in sostanza, ha il potere di correggere la proporzionalità della sanzione riportandola a equità.

Sul punto, la giurisprudenza[9] ha ribadito che la norma attribuisce al giudice un vero e proprio potere-dovere, volto a evitare che l’annullamento della sanzione per sproporzione conduca a una forma di impunità incompatibile con i principi di buon andamento, imparzialità e legalità dell’azione amministrativa.

Come osservato anche dalla dottrina[10], la norma consente di preservare l’equilibrio tra legalità e funzionalità del sistema disciplinare pubblico, in un’ottica di responsabilità coerente con la funzione pubblica del datore.

Tuttavia, un simile potere di rideterminazione non è previsto né nel settore pubblico non contrattualizzato, né nel settore privato.

Nel pubblico impiego non contrattualizzato, la valutazione della proporzionalità della sanzione rientra nel merito amministrativo, e il giudice amministrativo non può sostituirsi all’amministrazione nella scelta della misura da adottare[11].

L’unico controllo possibile è quello sulla legittimità in sé dell’atto sanzionatorio, e dunque il sindacato giurisdizionale è limitato alle tradizionali ipotesi di eccesso di potere, come l’illogicità manifesta, il travisamento dei fatti, o l’erronea qualificazione giuridica dell’infrazione. In tale contesto, la sanzione è frutto di un apprezzamento discrezionale ampio, esercitato in funzione della tutela dell’integrità e della disciplina istituzionale, e non è suscettibile di sostituzione da parte del giudice, che non può rideterminare la misura disciplinare ritenuta illegittima ma solo annullarla per vizio formale o sostanziale​.

Il Giudice, quindi, come normalmente avviene per l’impugnazione di un qualsiasi atto amministrativo autoritativo, non può entrare nel merito della scelta e quindi neanche nella proporzionalità della stessa, perché, diversamente, assumerebbe una decisione che invaderebbe il potere e le prerogative che l’ordinamento attribuisce alla P.A.

Nel settore privato, la giurisprudenza è solita applicare un principio consolidato[12]: il giudice non può sostituirsi all’imprenditore nella scelta della sanzione disciplinare da irrogare. La rideterminazione è consentita solo in due casi: a) quando il datore ha applicato una sanzione oltre il massimo edittale previsto dal contratto collettivo; b) quando è lo stesso datore, in giudizio, a chiedere una sanzione diversa e meno grave. Al di fuori di tali ipotesi, la valutazione della proporzionalità rientra nella libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.) e nel potere organizzativo dell’imprenditore, che può esercitarla liberamente, secondo criteri di convenienza e opportunità, pur sempre nel rispetto dei limiti posti dalla legge e dal contratto​, così da non potersi riconoscere un meccanismo analogo a quello previsto dall’art. 63 d.lgs. 165/2001 per il pubblico impiego privatizzato.

Occorre chiarire la logica delle differenze appena descritte, e ciò partendo dalla considerazione che la valutazione della proporzionalità dell’illecito rispetto alla sanzione è un apprezzamento discrezionale che – di norma – può essere contestato solo per vizi macroscopici di legittimità, come l’eccesso di potere o l’illogicità manifesta[13]​. Tale assetto, come visto, rispetta l’idea, di matrice costituzionale (artt. 97 e 113 Cost.), secondo cui la P.A. è organo tecnico-esperto, titolare di un potere proprio nella gestione delle risorse umane, che il giudice non può esercitare in sua sostituzione, anche in ragione del principio di separazione dei poteri.

Ciò avviene nel rapporto di lavoro pubblico non privatizzato, ma non nel pubblico impiego contrattualizzato, dove l’Amministrazione non agisce più con potere autoritativo, ma come parte di un rapporto contrattuale di diritto privato, sia pure con finalità pubblicistiche. meò contesto del pubblico impiego contrattualizzato, il legislatore ha trasformato la natura del rapporto, assoggettandolo a una disciplina simile a quella del lavoro privato (cfr. art. 2, d.lgs. 165/2001), e sottraendo alla logica della discrezionalità amministrativa molte decisioni gestionali, tra cui quelle disciplinari.

L’art. 63, comma 2-bis, del d.lgs. 165/2001 si inserisce proprio in questo nuovo impianto, riconoscendo al giudice del lavoro — non al giudice amministrativo — il potere di rideterminare la sanzione sproporzionata.

Il legislatore ha legittimato un sindacato sul “merito” della decisione disciplinare, che tuttavia non è esercitato in base a valutazioni di opportunità, ma entro il perimetro normativo e contrattuale definito dal sistema di diritto privato applicabile alla P.A. come datore di lavoro.

Il giudice non si sostituisce, dunque, all’Amministrazione nel senso tradizionale del diritto amministrativo, ma svolge una funzione propria del giudice del lavoro: quella di garantire l’equilibrio del rapporto contrattuale e la correttezza del potere sanzionatorio, proprio come nel settore privato.

La tensione apparente tra l’intangibilità del merito, nel pubblico impiego non contrattualizzato (limite che circoscrive il vaglio concesso al Giudice amministrativo), e la rideterminazione della sanzione, da parte del giudice del lavoro nel pubblico impiego contrattualizzato, si risolve riconoscendo che i due modelli sono giuridicamente distinti. Nel primo caso, il potere disciplinare è esercitato come potere amministrativo autoritativo e si applicano i limiti tradizionali del diritto amministrativo e della separazione dei poteri. Nel secondo caso, si tratta di un potere esercitato nell’ambito di un rapporto contrattuale privatistico, dove il giudice è chiamato a garantire la legittimità del potere disciplinare come in qualsiasi altro rapporto di lavoro, sia pure con le peculiarità proprie del datore pubblico.

Tali aspetti hanno notevole rilevanza pratica, oltreché teorica.

La proporzionalità della sanzione disciplinare nel pubblico impiego non contrattualizzato, infatti, deve essere valutata in base all'incidenza che la condotta illecita può aver prodotto nei confronti dell’istituzione pubblica per la quale il dipendente presta impiego, mentre la proporzionalità della sanzione nel rapporto di lavoro pubblico privatizzato deve essere orientata sul sinallagma contrattuale.

Il dipendente, nel primo caso, non è parte contrattuale paritaria, ma soggetto a un vincolo pubblicistico: la sua condotta va commisurata agli obblighi di servizio derivanti dalla funzione esercitata. Lo ha evidenziato recentemente il Consiglio di Stato, con sentenza n. 2379/2025, secondo cui il giudice amministrativo non può valutare autonomamente la proporzionalità della sanzione, ma può solo verificarne la manifesta irragionevolezza, poiché spetta all'amministrazione valutare se e quanto la condotta pregiudichi l’interesse pubblico e l’immagine dell’istituzione​. In questo senso, la proporzionalità è funzionale alla tutela dell’interesse pubblico e istituzionale, e non all’equilibrio contrattuale tra le parti.

Nel pubblico impiego contrattualizzato, viceversa, la proporzionalità è valutata dal giudice del lavoro secondo un criterio tipico del diritto privato, cioè in relazione al sinallagma funzionale del rapporto e alla tenuta fiduciaria tra datore e dipendente, pur tenendo conto, come previsto dall’art. 63, co. 2-bis d.lgs. 165/2001, dello “specifico interesse pubblico violato”.

Il potere disciplinare della P.A., pur ispirato da finalità pubbliche, si esercita come potere contrattuale, e il giudice può valutare l’eccessività della sanzione solo parametrandola alla violazione degli obblighi contrattuali. Lo ha chiarito la Suprema Corte (cfr. Cassazione, Sez. Lav., n. 10236/2023), precisando che la rideterminazione della sanzione non è un’ingerenza nel merito amministrativo, ma uno strumento per ripristinare l’equilibrio contrattuale e la corretta fiducia nel rapporto tra le parti.

La diversa configurazione influisce sul comportamento richiesto ai dipendenti pubblici e può giustificare una diversa sanzione disciplinare per lo stesso fatto, a seconda che l’autore della condotta sia soggetto al regime privatizzato o meno e, ancor più, se si tratti di un dipendente privato.

È, infatti, noto che il dipendente di datore di lavoro privato non è sanzionabile se la sua condotta, anche laddove criminosa, non incida sul sinallagma che regge il rapporto di lavoro[14]. Maggiore, in questo ambito, è il rigore che può adottarsi nel valutare la condotta del pubblico dipendente privatizzato, per il quale condotte extralavorative penalmente rilevanti non sono automaticamente causa di licenziamento (se si escludono quelle espressamente previste dalla legge e nella specie dal d.lgs. 165/2001), ma lo possono essere se determinano un grave contrasto con i valori della funzione o un’irrimediabile lesione del vincolo fiduciario, anche qualora non abbiano inciso direttamente sull’attività lavorativa.

La proporzionalità disciplinare in questi casi è funzionalizzata alla coerenza tra condotta e funzione (es. educativa, rappresentativa, tecnica) e non alla mera commissione del reato.

Pertanto, ad esempio, una condanna per maltrattamenti in famiglia o calunnia può anche essere ritenuta non incidente sul sinallagma contrattuale, se non si riflette negativamente sull’idoneità del dipendente a svolgere le proprie mansioni o sulla fiducia dell’amministrazione rispetto alla sua condotta lavorativa.

Nel pubblico impiego non privatizzato, la logica è significativamente diversa, poiché il lavoratore personifica istituzionalmente la funzione pubblica, ed è soggetto a un dovere di condotta anche extra lavorativa, che tuteli il prestigio dell’istituzione, la credibilità dell’apparato amministrativo, la fiducia dei cittadini nella serietà dell’azione pubblica (si pensi ai magistrati o alle forze dell’ordine)[15].

In questo ambito, una condanna per un reato commesso nella sfera privata, come ad esempio i maltrattamenti in famiglia, può assumere rilievo disciplinare per il solo fatto di essere incompatibile con il decoro, l’onore o la moralità richiesti dalla funzione esercitata. Questo vale a fortiori per reati contro l’amministrazione della giustizia (es. calunnia), poiché possono minare la percezione di affidabilità e integrità del funzionario pubblico.

5. L'addebito nel procedimento disciplinare nel settore pubblico e privato: un confronto alla luce della giurisprudenza

La formulazione dell’addebito nell’ambito del procedimento disciplinare rappresenta un tema di grande rilevanza tanto nel settore pubblico quanto in quello privato. Sebbene entrambi i contesti siano regolati da norme che mirano a garantire la legittimità e la proporzionalità delle sanzioni, le differenze nella gestione del potere disciplinare sono notevoli.

Il principio di immutabilità della contestazione disciplinare, secondo cui il datore non può modificare i fatti contestati nel corso del procedimento, ex art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, si presta a essere reinterpretato alla luce della natura differenziata del potere disciplinare nei tre modelli lavorativi: privato, pubblico privatizzato e pubblico non privatizzato.

Nel settore privato, il potere disciplinare è un’espressione della libertà di iniziativa economica ex art. 41 Cost. ed è esercitato dal datore quale parte contrattuale. La contestazione rappresenta l’atto introduttivo di una procedura a garanzia dell’equilibrio contrattuale e del diritto di difesa: l’immutabilità è, pertanto, un presidio necessario contro ogni arbitrio datoriale, fondato sul principio di correttezza e buona fede nell’ambito del sinallagma contrattuale.

Nel pubblico impiego contrattualizzato, la logica è simile ma non identica. La P.A., pur perseguendo fini pubblici, agisce come datore privato: il procedimento disciplinare non è autoritativo, ma rientra nell’ambito del diritto del lavoro. L’art. 7 dello Statuo dei Lavoratori si applica integralmente. Come chiarito dalla Cassazione con la sentenza n. 10236/2023, l’Amministrazione non è organo super partes, ma controparte contrattuale: l’immutabilità della contestazione è, dunque, espressione della parità delle parti nel procedimento e limite al potere unilaterale datoriale.

Nel pubblico impiego non contrattualizzato, invece, l’Amministrazione agisce in forza di un potere pubblicistico e autoritativo; la discrezionalità risulta sensibilmente più ampia, e gli organi competenti, come il Consiglio Superiore della Magistratura o le Commissioni disciplinari militari, esercitano il potere disciplinare non solo con riferimento alla condotta lavorativa, ma anche in relazione alla tutela del prestigio istituzionale e dell’imparzialità. Il procedimento disciplinare è, quindi, maggiormente proiettato verso la tutela dell’interesse pubblico e dell’integrità dell’istituzione.

Qui, l’immutabilità della contestazione non ha semplicemente natura contrattuale, ma rappresenta una garanzia funzionale alla legalità dell’azione amministrativa, alla necessità di garantire l’integrità delle funzioni pubbliche e l’indipendenza delle istituzioni. La giurisprudenza[16] sovente chiarisce che il controllo giurisdizionale è limitato alla legittimità della decisione e non al merito, che invece rientra nel margine di discrezionalità assegnato all’amministrazione.

La contestazione degli addebiti, nell'ambito di un procedimento disciplinare, è considerata idonea alla finalità per cui è preordinata quando, attraverso specifici riferimenti a un'azione o omissione, l'interessato venga messo in grado di individuare il fatto imputatogli. Mentre nessuna norma prescrive di precisare, nell'atto di contestazione degli addebiti, la tipologia esatta e immutabile dei fatti contestati all'incolpato[17].

Il parallelismo tra i diversi regimi del rapporto di impiego mostra come il contraddittorio e l’immutabilità della contestazione siano sempre pilastri comuni, pur declinati con modalità differenti in ragione delle specificità normative.

Nel contesto privatistico, il contraddittorio giustifica il potere sanzionatorio datoriale, compensando la mancanza di terzietà del datore di lavoro. Ciò che avviene anche nel settore pubblico privatizzato, nel quale la valutazione va però parametrata perseguimento dell’interesse pubblico cui tende l’Ufficio pubblico coinvolto. Nel contesto pubblicistico non privatizzato, il contraddittorio è, invece, strumento volto a garantire la trasparenza e la correttezza amministrativa, nel settore in cui opera il lavoratore, più che a riequilibrare il sinallagma contrattuale.

I diversi interessi che il datore di lavoro, pubblico o privato, tende a tutelare emergono soprattutto dalla giurisprudenza che si è espressa in merito all'efficacia riflessa di una condanna penale sul rapporto di lavoro, per fatti estranei all’attività lavorativa. In tale tematica la giurisprudenza ha, infatti, elaborato criteri distinti che riflettono le finalità sottese ai tre modelli.

Nel settore privato[18] le condotte extralavorative assumono rilievo disciplinare se e nella misura in cui siano incompatibili con la permanenza del vincolo fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore. Non è necessaria la connessione funzionale con le mansioni svolte, ma occorre che il comportamento sia oggettivamente e soggettivamente idoneo a compromettere la futura affidabilità del lavoratore. Il fondamento del licenziamento per condotta extralavorativa nel privato è nella preservazione del rapporto di fiducia, e non certo nell’interesse pubblico. Pertanto, ogni giudizio di legittimità si gioca sulla prova concreta dell’incompatibilità tra condotta e prosecuzione del rapporto, non sulla sola gravità del fatto o sul disvalore sociale dello stesso.

Quest’ultimo aspetto assume, invece, rilievo nel pubblico impiego, dove la rilevanza disciplinare delle condotte extralavorative si valuta tenendo conto non solo del vincolo fiduciario, ma anche e soprattutto dello specifico interesse pubblico violato. La sentenza della Cassazione n. 28976/2022 ribadisce che «costituisce dovere afferente alla funzione docente anche quello di evitare comportamenti extralavorativi che si manifestino attraverso la commissione di reati e che, qualora diffusamente noti, si pongano in contrasto con il dovere [...] di contribuire alla formazione umana della personalità dei giovani»​.

La Corte ha sottolineato che, nel settore pubblico, l’interesse tutelato non è solo quello interno al rapporto bilaterale, ma è anche l’interesse dell’amministrazione e dell’utenza a che la funzione pubblica venga esercitata da soggetti moralmente e funzionalmente adeguati. La condotta extralavorativa, se in palese contrasto con i valori della funzione (es. educazione, legalità, imparzialità), può giustificare la sanzione anche senza connessione con le mansioni esercitate.

Il diverso ruolo del datore pubblico e privato è confermato anche sul piano procedurale: l’art. 129 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale prevede l’obbligo di informativa all’amministrazione pubblica dell’avvenuto esercizio dell’azione penale nei confronti di un dipendente pubblico. Nessuna disposizione analoga è prevista per il datore privato. Questo dimostra che l’ordinamento riconosce alla P.A. un ruolo di garanzia istituzionale, che impone di valutare anche condotte extralavorative in chiave di interesse pubblico e non solo secondo la logica privatistica del vincolo fiduciario.

6. Il principio di immutabilità della contestazione nella giurisprudenza recente

Pur se i principi sin qui evidenziati appaiano astrattamente pacifici, nel concreto non trovano sempre facile applicazione, perché l’illecito disciplinare deve comunque essere valutato in concreto. E, invero, la recente sentenza della Suprema Corte, n. 1998/2025, nell’ambito del rapporto di lavoro privato, ha ritenuto corretta la contestazione disciplinare, che conteneva le indicazioni sufficienti a individuare il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque violazioni dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 cod. civ.

Nel concreto la questione ha avuto ad oggetto la scorretta tenuta delle scritture contabili da parte di un dirigente, essendo emersa una perdita della società del tutto inattesa e di abnorme ammontare, e come tale incompatibile con i dati sulla base dei quali erano stati formati i bilanci degli anni passati. Nella contestazione disciplinare si denunciano non solo l'alterazione dei dati contabili, ma anche la responsabilità della correttezza di tali dati per un soggetto che assume il ruolo di Dirigente Amministrativo.

La sentenza della Corte di Cassazione n. 1998/2025 ha, quindi, ritenuto corretta la contestazione disciplinare perché idonea a rappresentare il fatto lesivo e, quindi, l’inadempimento della prestazione che la dipendente avrebbe dovuto rendere[19].

La questione circa l’immutabilità della contestazione si è posta all'attenzione dell'interprete perché solo in giudizio la società ha contestato la manipolazione della voce "Acquisti Materia Prime", del conto ricavi e la sopravvalutazione del valore magazzino prodotti finiti (preforme) nei bilanci successivi al 2011.

La Corte di Cassazione ha ritenuto legittimi tali addebiti, nonostante successivi, perché compatibili con quelli contenuti nella contestazione disciplinare originaria. Sono state ritenuti, in sostanza, circostanze confermative o esplicative che non alteravano la consistenza storica dell’addebito disciplinare (cfr. Cass. n. 6012/2009, Cass. n. 7851/2019).

La pronuncia mostra come non venga in rilievo l’elemento soggettivo della condotta, quanto piuttosto l’obbligo di risultato cui è tenuto il lavoratore nell’espletamento della propria prestazione, che in questo caso si sarebbe dovuta tradurre nella corretta tenuta delle scritture contabili.

La parte datoriale può, dunque, pretendere che i dati predetti siano corretti, a prescindere dal dolo o dalla colpa manifestati dal lavoratore (elemento questo che può incidere sulla parametrazione della sanzione), poiché in entrambi i casi si tratterebbe di inadempimento contrattuale, che, ai sensi degli artt. 1176, 1218 e 1225 c.c., non dipende dal comportamento soggettivo (doloso o colposo) delle parti, bensì dalla diligenza mostrata dal debitore. Il lavoratore, atteso l’addebito, è chiamato a dimostrare la propria irresponsabilità per l’erroneità del dato, circostanza che implica di fornire i dettagli della propria diligenza.

7. L'incidenza dell'esito del procedimento penale nel giudizio disciplinare, attraverso l'esame di due sentenze di merito

La questione dell'immutabilità della contestazione è stata esaminata da due sentenze del Tribunale di Palermo, le quali offrono un'interessante prospettiva per valutare una medesima vicenda sotto angolazioni diverse.

Ciò risulta significativo poiché entrambe le pronunce riguardano dipendenti dello stesso ufficio pubblico. Entrambi in servizio presso l’ufficio del personale di un Ente pubblico, i lavoratori hanno subito un procedimento disciplinare per aver erogato e percepito, per anni, emolumenti non dovuti. Il suddetto procedimento disciplinare è stato sospeso per la contemporanea pendenza del corrispondente procedimento penale, il quale veniva definito con proscioglimento in sede di udienza preliminare, con la formula perché i fatti non costituiscono reato. Il Giudice penale, in particolare, ha escluso il dolo, ritenendo che la vicenda fosse frutto di involontari errori di trascrizione.

Riattivato il procedimento disciplinare, dove inizialmente era stato contestato il dolo, non è stato modificato l’addebito, sicché i lavoratori hanno richiamato le difese a suo tempo già profuse, confortati dalla sentenza di proscioglimento. Tuttavia, in sede di irrogazione della sanzione, l'Ente, preso atto del proscioglimento, ha applicato la massima sanzione conservativa prevista, rimproverando un comportamento colposo e negligente ai lavoratori, per non aver impedito le indebite erogazioni.

Impugnato il provvedimento sanzionatorio, i lavoratori hanno contestato tali circostanze in giudizio, facendo leva sulla sentenza di proscioglimento e rilevando l’illegittimità della sanzione, perché frutto di mutamento dei fatti contestati in sede di addebito. In buona sostanza, i lavoratori hanno sostenuto di non essersi potuti difendere dalla contestazione colposa, non essendo mai stata rimproverata una loro negligenza, bensì di essersi potuti difendere soltanto dall’accusa di aver fraudolentemente e quindi dolosamente sottratto denaro, accusa che – come emerso in sede penale – si era rivelata infondata.

La prima sentenza espressasi sul tema è stata quella del Tribunale di Palermo n. 220/2022, che ha rilevato la violazione del principio di immutabilità della contestazione. Il Tribunale ha premesso che la divergenza tra i fatti posti a base della contestazione iniziale e quelli che sorreggono il provvedimento disciplinare può dar luogo all’illegittimità della sanzione solo nel caso in cui tale divergenza comporti in concreto una violazione del diritto di difesa del lavoratore (cfr. Cassazione civile, sez. lav., 09/05/2018, n. 11159). Più precisamente il Tribunale ha precisato che «in tema di licenziamento disciplinare, il principio di immutabilità della contestazione attiene al complesso degli elementi materiali connessi all'azione del dipendente e può dirsi violato solo ove venga adottato un provvedimento sanzionatorio che presupponga circostanze di fatto nuove o diverse rispetto a quelle contestate, così da determinare una concreta menomazione del diritto di difesa dell'incolpato, e non quando il datore di lavoro proceda a un diverso apprezzamento o a una diversa qualificazione del medesimo fatto, come accade nell'ipotesi di modifica dell'elemento soggettivo dell'illecito (Cassazione civile, sez. lav., 15/06/2020, n. 11540)».

Nel concreto, e partendo da tali premesse, i giudici di merito evidenziano che, con le contestazioni disciplinari addebitate al ricorrente, si erano attribuite a questo condotte appropriative e fraudolente poste in essere – quale promotore e organizzatore (cfr. capi di imputazione) – anche nel suo interesse (duplicazioni di voci stipendiali, illeciti anticipi di tfr, modifiche di dati atti a consentire un illegittimo accesso a trattamenti pensionistici), mentre con il provvedimento disciplinare era stata punita una condotta totalmente diversa, non solo nell’elemento soggettivo (colpa, anziché dolo), ma anche nei suoi connotati materiali.

Accertata, quindi, la diversità del fatto addebitato, il Giudice ha annullato la sanzione.

La seconda sentenza del medesimo Tribunale è di segno opposto alla prima. La premessa richiama parimenti gli stessi principi e la stessa giurisprudenza che riconoscono l’esigenza di non violare il diritto di difesa del lavoratore (cfr. Cassazione civile, sez. lav., 09/05/2018, n. 11159 e Cassazione civile, sez. lav., 15/06/2020, n. 11540), ma nella motivazione si afferma che, nonostante la diversità dell’elemento soggettivo, i fatti sono sempre gli stessi (indebite erogazioni stipendiali), talché non è stato ravvisato un significativo vuoto fra le condotte contestate e quelle per le quali il ricorrente è stato effettivamente sanzionato.

Il Tribunale ha in questo caso ritenuto che, nonostante fosse stato modificato l’elemento soggettivo della condotta (da dolo a colpa), il fatto è rimasto il medesimo, sicché è il dipendente a doverne rispondere, e ciò a prescindere dal profilo soggettivo della responsabilità. Il datore di lavoro ha in pratica contestato al dipendente l’erroneità delle buste paga alla cui formulazione ed emissione egli ha concorso. Il dipendente, pertanto, era chiamato a spiegare il susseguirsi degli eventi, e quindi a dimostrare o addurre fatti idonei a escludere un suo coinvolgimento - attivo o omissivo - sull’evento lesivo e quindi la propria irresponsabilità.

In tale ottica, pertanto, il datore di lavoro ha esposto la contestazione, rappresentando il fatto inteso come il risultato che esso ha percepito. La mansione assegnata al lavoratore avrebbe dovuto comportare un risultato tangibile, ovvero la corretta formulazione dei cedolini di pagamento. Questo è il fatto contestato, ovvero il complesso degli elementi materiali connessi all'azione (od omissione) del dipendente, talché non sarebbe stato adottato un provvedimento sanzionatorio sulla base di circostanze di fatto nuove o diverse rispetto a quelle contestate (ciò seguendo i principi espressi da Cass. Sez. L, Sentenza n. 11540 del 15/06/2020)[20].

Anche tale prospettiva segue un ragionevole criterio logico, pur addivenendo a risultati opposti a quelli cui è pervenuta la precedente sentenza del medesimo Tribunale.

8. La comune chiave di letture e il coordinamento dei principi espressi nelle sentenze in tema di immutabilità della contestazione

Le due pronunce del Tribunale di Palermo esaminate giungono a soluzioni opposte pur muovendo da una medesima matrice giurisprudenziale (in particolare, Cass. civ., sez. lav., 15 giugno 2020, n. 11540), che distingue correttamente tra mutamento del fatto storico e mutamento della sua qualificazione giuridica. A conferma della duttilità di tale criterio ermeneutico, la giurisprudenza ha chiarito che «nell'apprezzare la sussistenza del requisito della specificità della contestazione, il giudice di merito deve verificare, al di fuori di schemi rigidi e prestabiliti, se la contestazione offre le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati, tenuto conto del loro contesto, e verificare altresì se la mancata precisazione di alcuni elementi abbia determinato un’insuperabile incertezza tale da pregiudicare in concreto il diritto di difesa» (Cass. civ., sez. lav., 20 marzo 2018, n. 6889).

Ne discende che la legittimità o meno del mutamento dell’addebito disciplinare non può essere ricondotta a parametri astratti, né risolta esclusivamente in base al cambio dell’elemento soggettivo (dolo/colpa). È invece necessario verificare, nel caso concreto, se vi sia stata una lesione effettiva del diritto di difesa del lavoratore, considerato nella sua posizione soggettiva e nel ruolo ricoperto. L’immutabilità della contestazione non va, quindi, intesa come rigido ancoraggio a ogni formulazione originaria, bensì come limite sostanziale alla modificazione dell’addebito, laddove essa implichi una trasformazione tale da alterare i termini della difesa già articolata o precluderne l’effettività.

Questa prospettiva emerge chiaramente proprio nel confronto tra le due decisioni palermitane: nella prima pronuncia esaminata, la sentenza n. 220/2022, il lavoratore era il responsabile dell’ufficio, indicato come promotore e organizzatore di una condotta fraudolenta. L’addebito aveva un tenore fortemente penalizzante sotto il profilo soggettivo, descrivendo una dettagliata condotta illecita. In questo caso, la successiva riqualificazione in termini di mera negligenza non è stata percepita come un semplice mutamento soggettivo, ma come una trasformazione sostanziale del nucleo fattuale contestato, tale da compromettere il diritto di difesa, giustificando dunque l’accoglimento del ricorso.

Diversa la prospettiva nella sentenza n. 1716/2023: pur trattandosi di un dipendente dello stesso ufficio e coinvolto nella medesima vicenda, questi rivestiva mansioni operative e l’addebito originario risultava formulato in termini meno pregnanti quanto a responsabilità diretta. Il lavoratore non era indicato come promotore o ideatore della condotta illecita, bensì come esecutore materiale delle buste paga. In questo contesto, la riconduzione della sua condotta da dolosa a colposa non ha modificato in modo significativo il quadro fattuale, e il Tribunale ha ritenuto che il lavoratore fosse comunque posto in condizione di difendersi efficacemente sin dalla prima contestazione.

In definitiva, le due decisioni dimostrano che il giudizio sull’immutabilità della contestazione non può prescindere da una valutazione concreta e individualizzata della posizione del lavoratore, delle modalità con cui l’addebito è stato formulato, e dell’eventuale interferenza tra procedimento penale e disciplinare. Anche all’interno di una medesima vicenda, in uno stesso ufficio, le posizioni soggettive, e le diverse mansioni possono giustificare soluzioni opposte, proprio perché diverse sono le implicazioni difensive, le possibilità di reazione offerte al lavoratore e il tipo di prestazione che lo stesso è chiamato a rendere, circostanze tutte che possono far mutare la percezione dei fatti. È in questo spazio, sempre tangibile e mai astratto, che il principio di immutabilità trova la propria funzione garantista, dove il giudice è chiamato a verificare, secondo propria percezione e proprio apprezzamento, i fatti concretamente avvenuti.

9. Il coordinamento tra immutabilità della contestazione e proporzionalità della risposta sanzionatoria

Nel pubblico impiego contrattualizzato, la valutazione della proporzionalità della sanzione disciplinare non si esaurisce in un giudizio sull’adeguatezza tra fatto e misura, ma si intreccia con la funzione pubblica svolta dal lavoratore e con il disvalore soggettivo della condotta. Come stabilito dall’art. 63, co. 2-bis, del d.lgs. n. 165/2001, il giudice del lavoro può sostituirsi all’amministrazione nella determinazione della sanzione solo ove questa risulti sproporzionata, tenendo conto dello “specifico interesse pubblico violato”.

Tale interesse si manifesta, tra l’altro, nel livello di affidabilità, correttezza e integrità richiesto dal ruolo ricoperto dal dipendente. Ecco perché una condotta dolosa, avente connotazioni fraudolente o appropriative, è valutata con maggiore severità rispetto a una colposa, che attiene pur sempre a un inadempimento, ma non investe la sfera dell'affidabilità etica del lavoratore.

Nel caso concreto analizzato dalle due sentenze del Tribunale di Palermo, i fatti contestati ai lavoratori erano formalmente analoghi, ma differivano quanto alle responsabilità funzionali dei dipendenti.

Nella sentenza n. 220/2022, l’addebito descriveva una condotta dolosa, organizzata e finalizzata all’arricchimento anche personale, attribuita al responsabile di struttura: una figura apicale, cui è normalmente richiesto un più elevato grado di affidabilità. La successiva assoluzione penale, che ha escluso il dolo, ha radicalmente modificato la percezione della condotta, imponendo una riqualificazione sostanziale dell’addebito e, con essa, una rivalutazione del disvalore disciplinare, tale da incidere sul giudizio di proporzionalità. Il Tribunale, coerentemente a ciò, ha rilevato che l’immutabilità non poteva essere invocata per cristallizzare una rappresentazione dei fatti ormai superata e quindi incompatibile con il diritto di difesa.

I fatti inizialmente rappresentati, sotto il profilo dell’interesse pubblico violato, avrebbero inciso notevolmente, perché il reato astrattamente configurabile sarebbe stato talmente grave da nuocere al Pubblico ufficio e verosimilmente recidere il rapporto di lavoro ex art. 55quater lett. f) d.lgs. n. 165/2001. Il ruolo di responsabile effettivamente rivestito e il ruolo di promotore della condotta attribuita hanno fatto percepire come completamente diversa la condotta inizialmente contestata da quella poi sanzionata.

Nella sentenza n. 1716/2023, invece, il dipendente rivestiva un ruolo privo di responsabilità organizzativa, e la contestazione, pur inizialmente dolosa, non faceva riferimento a una condotta di ideazione o promozione della condotta illecita. In questo contesto, il passaggio da dolo a colpa non ha determinato uno stravolgimento del quadro materiale, ma una rimodulazione interna del disvalore, coerente con il tipo di obbligazioni inadempiute (corretta compilazione delle buste paga). Il Tribunale ha, dunque, valorizzato la permanenza del fatto materiale e ha ritenuto che la modifica dell’elemento soggettivo non pregiudicasse il diritto di difesa.

Questo raffronto evidenzia come, nel pubblico impiego contrattualizzato, il disvalore della condotta soggettiva rilevi non solo per la misura della sanzione, ma anche per la legittimità del procedimento stesso, ove esso muti profondamente nel suo oggetto in conseguenza della rivalutazione soggettiva del fatto. Se la condotta inizialmente contestata è ritenuta dolosa e il lavoratore ha costruito la propria difesa su tale piano, l’Amministrazione non può mantenere inalterato l’addebito qualora emerga – anche dalla sentenza penale – una lettura diversa della condotta, perché in tal caso si modificherebbero anche i presupposti logici della proporzionalità e si verrebbe a configurare un nuovo nucleo fattuale, non più conforme alla contestazione originaria.

Nondimeno, l’assoluzione in sede penale, soprattutto con la formula «perché il fatto non costituisce reato», può rendere ammissibile una rivalutazione dell’elemento soggettivo della condotta contestata, anche nella fase di irrogazione della sanzione. Tuttavia, ciò è possibile solo a condizione che l’addebito iniziale sia formulato in modo tale da risultare compatibile con lo schema dell’inadempimento contrattuale, anche a prescindere dalla sua illiceità penale o dalla qualificazione dolosa dell’azione.

Diversamente, qualora la descrizione dell’addebito sia strutturata in termini tali da presupporre in via esclusiva la sussistenza di un dolo — per esempio nel caso in cui si parli di “appropriazione indebita”, “frodi” o “comportamenti fraudolenti” — l’esclusione della rilevanza penale in sede giudiziaria rischia di disarticolare il nucleo stesso della condotta contestata, rendendolo ontologicamente diverso. In questi casi, il venir meno della dimensione penale del fatto non si traduce in una mera riqualificazione soggettiva (da dolo a colpa), ma fa emergere un fatto disciplinarmente diverso, incompatibile con la rappresentazione originaria.

10. Conclusioni.

Alla luce di quanto sin qui evidenziato, può formularsi, dunque, una regola generale: quando l’addebito originario è idoneo a descrivere un inadempimento disciplinarmente rilevante anche in assenza di dolo o di rilevanza penale, non è necessaria una rinnovazione della contestazione disciplinare; qualora, invece, l’evoluzione del procedimento penale riveli una vicenda sostanzialmente diversa e non riconducibile, nemmeno per implicito, alla fattispecie descritta nell’addebito, la pubblica amministrazione sarà tenuta a procedere a una nuova e distinta contestazione, nel rispetto del diritto di difesa e del principio di immodificabilità dell’addebito.


Note e riferimenti bibliografici

[1] S. RIZZATO, «Molestie alle colleghe di lavoro: quando la contestazione disciplinare è specifica?», Nuova Giurisprudenza civile commentata 9/2018 p. 1255

[2] Corte Cost. 29/30 novembre 1982 n. 204/1982: «l'art. 7 comma primo ha sancito il principio fondamentale, per il quale chi è perseguito per una infrazione, deve essere posto in grado di conoscere l'infrazione stessa e la sanzione. L'art. 7 commi secondo e terzo, poi, raccoglie il ben noto sviluppo - ad un tempo socio-politico e giuridico formale - che ha indotto ad esigere come essenziale presupposto delle sanzioni disciplinari lo svolgersi di un procedimento, di quella forma cioè di produzione dell'atto che rinviene il suo marchio distintivo nel rispetto della regola del contraddittorio: audiatur lo si ripete et altera pars. Rispetto che tanto più e dovuto per quanto competente ad irrogare la sanzione è (non già - come avviene nel processo giurisdizionale - il giudice per tradizione e per legge «super partes», ma) la una pars»

[3] Cfr. art. 51 comma 2 D.lvo n. 165/2001: «La legge 20 maggio 1970, n.300, e successive modificazioni ed integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti».

[4] In tal senso cfr. Cass. civ., Sez. lavoro, Ordinanza, 03/08/2022, n. 24122, secondo cui: «Nell'impiego pubblico contrattualizzato, gli atti di gestione del rapporto, in quanto espressione dei poteri propri del datore di lavoro privato, hanno natura privatistica, con la conseguenza che il rispetto dell'obbligo di motivazione imposto dalla legge o dalla contrattazione collettiva va parametrato, da un lato, alla natura dell'atto ed agli effetti che esso produce, dall'altro, ai principi di correttezza e buona fede ai quali, nello svolgimento del rapporto di lavoro, è obbligato ad attenersi il datore di lavoro pubblico, senza che trovi applicazione l'art. 3 della l. n. 241 del 1990 che disciplina la motivazione degli atti amministrativi» (…) In altri termini la motivazione dell'atto espressione di un potere privato si atteggia diversamente a seconda della funzione dell'atto del quale si discute sicché, ad esempio, se in tema di conferimento di incarico si è ritenuta necessaria una valutazione comparativa degli aspiranti alla nomina (Cass. n. 6485/2021), in relazione agli atti risolutivi del rapporto è stato ritenuto sufficiente il mero richiamo al presupposto di fatto che la risoluzione giustifica (Cass. n. 7704/2003 in tema di destituzione e Cass. n. 758/2006 in relazione al licenziamento disciplinare)».

[5] Cfr. fra le tante Cass. civ., Sez. lavoro, 13/05/2004, n. 9141, secondo la quale «Né l'art. 36 della Costituzione - che si limita a porre il principio della retribuzione sufficiente e proporzionata all'attività svolta, - né il successivo art. 41 - che garantisce la libertà di iniziativa economica privata nei limiti posti dalla legge a tutela della sicurezza, della libertà e della dignità umana - possono individuarsi, pur dopo la pronunzia della sentenza interpretativa di rigetto n. 103 del 1989 della Corte costituzionale, come precetti idonei a fondare un principio di comparazione soggettiva, in base al quale ai lavoratori dipendenti che svolgano identiche mansioni debba attribuirsi la stessa retribuzione o il medesimo inquadramento; mentre i principi di correttezza e di buona fede- di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. - non creano obbligazioni autonome in capo al datore di lavoro, bensì rilevano o come modalità di generico comportamento delle parti ai fini della concreta realizzazione delle rispettive posizioni di diritti ed obblighi, oppure come comportamento dovuto in relazione a specifici obblighi di prestazione, laddove il datore di lavoro, nell'esplicazione del suo potere di autonomia contrattuale, agisce in piena libertà, senza alcun vincolo, neppure generico, nei confronti della generalità dei dipendenti». Nello stesso senso, in precedenza, Cass. civ., Sez. Unite, 29/05/1993, n. 6030.

[6] A. VALLEBONA, Istituzioni di diritto del lavoro, Padova 2008, p. 286.

[7] «Le amministrazioni pubbliche garantiscono ai propri dipendenti di cui all'articolo 2, comma 2, parità di trattamento contrattuale e comunque trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi».

[8] AA.VV., Manuale del pubblico impiego privatizzato, a cura di Vito Tenore, EPC Editore, 2024 p. 365/368, dove viene evidenziato come l’art. 55-sexies d.lgs. n. 165/2001 codifichi il principio secondo cui determinati fatti (es. reiterata violazione di obblighi) comportano sanzioni disciplinari tipiche, prevedendo l’obbligo di avvio e conclusione del procedimento disciplinare, così come l’art. 13, comma 8, D.P.R. n. 62/2013 (Codice di comportamento dei dipendenti pubblici) prevede che «Il dirigente segnala tempestivamente all'ufficio competente i fatti disciplinarmente rilevanti di cui venga a conoscenza, anche su segnalazione di terzi», prevedendo un obbligo specifico di agire da parte della dirigenza, anche in caso di semplici notizie di condotta potenzialmente sanzionabile. L’ art. 8 della L. n. 190/2012 (Legge Anticorruzione) prevede, altresì, che «I dirigenti sono responsabili dell’omessa segnalazione di fatti illeciti disciplinarmente rilevanti; a tal fine, ciascun dirigente è tenuto a comunicare al superiore gerarchico le infrazioni di cui venga a conoscenza», mentre l’art. 13 del d.lgs. n. 150/2009 (c.d. Riforma Brunetta) prevede che il mancato esercizio dell’azione disciplinare da parte del dirigente possa costituire fonte di responsabilità dirigenziale, se determina danno erariale o compromette il corretto funzionamento dell’amministrazione.

[9] Cfr. Cassazione, Sez. Lavoro, n. 10236/2023 ove si legge che «è stata rimarcata l'esigenza di scongiurare il pericolo che, a fronte di condotte accertate e di sicuro rilievo disciplinare, il riscontrato difetto di proporzionalità si possa risolvere nell' impunità del dipendente che l’illecito ha commesso, impunità che contrasterebbe con la particolare connotazione che la responsabilità disciplinare assume nell' impiego pubblico contrattualizzato (sulla natura del potere disciplinare del datore di lavoro pubblico cfr. Cass. n. 14245/2019, Cass. n. 8722/2017, Cass. n. 17307/2016). Il Consiglio di Stato ha, quindi, osservato che il potere del giudice di rimodulare la sanzione non è estraneo all'ordinamento, non integra un inammissibile sconfinamento del potere giurisdizionale in quello dell'amministrazione, non lede in alcun modo il diritto di difesa del dipendente non "essendo ragionevole ipotizzare una minore tutela del dipendente nel procedimento giurisdizionale rispetto a quello disciplinare/amministrativo"»

[10] M. GENTILE, Il licenziamento illegittimo e la tutela reale nel lavoro pubblico in Azienditalia, Il Personale 7/2017 p. 407 ss

[11] Cfr. Cons. Stato, Sez. III, Sent., (data ud. 05/02/2025) 24/03/2025, n. 2379 «Occorre poi rilevare che, come la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha costantemente affermato, "la valutazione in ordine alla gravità dei fatti addebitati in relazione all'applicazione di una sanzione disciplinare, costituisce espressione di discrezionalità amministrativa che non è sindacabile in via generale dal giudice della legittimità, salvo che in ipotesi di eccesso di potere, nelle sue varie forme sintomatiche, quali l' illogicità e il travisamento dei fatti; spetta pertanto all'amministrazione, in sede di formazione del provvedimento sanzionatorio, stabilire il rapporto tra l' infrazione e il fatto di rilevanza disciplinare in base ad un apprezzamento di larga discrezionalità" (Cons. Stato, sez IV, 26 febbraio 2021, n. 1672; Cons. Stato, sez. IV, 27 luglio 2020 n. 4761; sez. IV, 18 settembre 2018 n. 5451; sez. VI, 20 aprile 2017, n. 1858; sez. III, 5 giugno 2015, n. 2791; sez. VI 16 aprile 2015 n. 1968; sez. III 20 marzo 2015 n. 1537)».

[12] Cfr. Corte di Cassazione, sentenza n. 3896 dell’11 febbraio 2019.

[13] Cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, sent. n. 2379/2025,

[14] Fra le tante pronunce sul tema, appare chiaro il principio secondo il quale «In tema di licenziamento per giusta causa, la condotta extralavorativa consistente nell'aver rivolto una minaccia grave a soggetti estranei al rapporto di lavoro rende legittima la misura espulsiva solo quando si rifletta sulla funzionalità del rapporto stesso e abbia compromesso le aspettative sul futuro puntuale adempimento della prestazione, dovendosi ritenere che una simile minaccia, a differenza di quella proferita nei confronti del datore di lavoro o in ambito lavorativo, non incida intrinsecamente sugli obblighi di collaborazione, fedeltà e subordinazione cui è tenuto il dipendente» (Cass. civ., Sez. lavoro, Ordinanza, 26/03/2019, n. 8390). Cfr. anche Cass. civ. sez. lav. n. 28368 del 15 ottobre 2021, secondo la quale «La condotta illecita extralavorativa è suscettibile di rilievo disciplinare poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall'ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o compromettere il rapporto fiduciario con lo stesso; tali condotte, ove connotate da caratteri di gravità, possono anche determinare l'irrogazione della sanzione espulsiva. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva reputato legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore - condannato, sia pure con sentenza non passata in giudicato, per produzione e detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti -, sul rilievo che tale contegno, presupponendo l'inevitabile contatto con ambienti criminali, pregiudicasse l'immagine dell'azienda, aggiudicataria di pubblici appalti». La condotta può quindi essere anche estranea al rapporto di lavoro, ma deve pur sempre essere idonea ad incidere negativamente sul vincolo fiduciario. Si veda, altresì, l’ordinanza n. 30558 del 27 novembre 2024 della sezione lavoro della Suprema Corte di cassazione, secondo la quale è stato ritenuto illegittimo il licenziamento di un dipendente che aveva diffamato la moglie di un collega mediante social network, trattandosi di fatto estraneo al sinallagma contrattuale.  Nell’ambito del pubblico impiego non privatizzato, si veda Cons. Stato, Sez. VII, Sentenza, 23/12/2024, n. 10323 secondo cui «Il comportamento del docente universitario sui social media, laddove faccia riferimento al proprio ruolo istituzionale, non è estraneo alla sfera d'influenza della responsabilità disciplinare dell'Ateneo. La spendita della propria qualità di docente in contesti pubblici può comportare riflessi sulla reputazione dell'Università, giustificando l'intervento disciplinare per salvaguardare l'immagine dell'ente».

[15] Cfr. Cons. Stato, Sez. VII, Sentenza, 23/12/2024, n. 10323 citata nella nota precedente.

[16] In merito, per esemoio, alle forze armate: «La valutazione in ordine alla gravità dei fatti addebitati in relazione all'applicazione di una sanzione disciplinare, costituisce espressione di discrezionalità amministrativa che non è sindacabile in via generale dal giudice della legittimità, salvo che in ipotesi di eccesso di potere, nelle sue varie forme sintomatiche, quali l'illogicità e il travisamento dei fatti; spetta pertanto all'amministrazione, in sede di formazione del provvedimento sanzionatorio, stabilire il rapporto tra l'infrazione e il fatto di rilevanza disciplinare in base ad un apprezzamento di larga discrezionalità» (Cons. Stato, Sez. III, 24/03/2025, n. 2379)

[17] Cons. Stato, Sez. III, Sent., (data ud. 11/01/2018) 25/01/2018, n. 494: «la contestazione degli addebiti, in sede di procedimento disciplinare, è comunque idonea alla finalità per la quale è preordinata quando, mediante precisi riferimenti ad un'azione od omissione e con espressa dichiarazione che è effettuata a titolo di responsabilità disciplinare, consenta all'interessato l'esatta individuazione del fatto addebitatogli, al fine di garantirgli ogni possibile discolpa. Nessuna norma prescrive, infatti, di precisare, nell'atto della contestazione degli addebiti, la tipologia esatta ed immutabile dei fatti addebitati all'incolpato, essendo solo necessario e sufficiente individuare ed indicare il loro nucleo materiale con assoluta chiarezza, manifestando formalmente la precisa volontà dell'amministrazione di far derivare da essi un'eventuale responsabilità disciplinare. Pertanto è da riconoscere legittima la contestazione che faccia solo riferimento alla obiettività dei fatti punibili, senza alcuna qualificazione del nomen juris (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. VI, 30 ottobre 1993, n. 782; id., 5 dicembre 1992, n. 1002; Sez. V, 11 aprile 1991, n. 539)». Cfr. inoltre P. F. IOVINO, Il codice di disciplina della Polizia di Stato, Franco Angeli, 2022, p. 260.

[18] F. OLIVELLI, Ancora sul licenziamento disciplinare per mancanza di fiducia a seguito di condotta extralavorativa, in Giurisprudenza Italiana 1/2025 p. 134, dove viene commentata la sentenza Cassazione civile, Sez. lav., 20 febbraio 2024, n. 4502 secondo cui «Condotte costituenti reato possono integrare giusta causa di licenziamento anche se realizzate prima dell’instaurarsi del rapporto di lavoro, sebbene non si configurasse al tempo un obbligo di diligenza e/o di fedeltà ex artt. 2104 e 2105 c.c., purche´ sia stata pronunciata sentenza di condanna irrevocabile intervenuta a rapporto di lavoro in corso. Il giudice di merito, però, attraverso una verifica giurisdizionale da effettuarsi sia in astratto sia in concreto dovra` valutare la lesione o no del vincolo fiduciario che lega datore di lavoro e lavoratore»

[19] Si legge in particolare che «13. La gravata sentenza è in linea con tali principi di diritto e, con un accertamento di fatto, adeguatamente motivato e frutto di una plausibile interpretazione di atti di autonomia privata, ha ritenuto specifica la contestazione disciplinare precisando che il riferimento alla perdita emersa dai dati contabili relativi all'esercizio 2015, diramati dalla stessa A.A., e alla non giustificabilità di tale perdita se non sulla base di molteplici e gravi alterazioni dei dati contabili e ai bilanci della Società relativi all'anno in corso o agli anni passati, unitamente al riferimento alla responsabilità rivestita dalla A.A. in ordine alla corretta redazione tenuta delle scritture contabili quale Dirigente amministrativo, fosse sufficiente ad individuare i fatti oggetto dell'addebito, consistenti in un negligente espletamento della funzione dirigenziale, e a consentire alla lavoratrice di apprestare, sin dalla fase disciplinare, una idonea difesa. 14. Non è ravvisabile, pertanto, né un profilo di genericità della contestazione, essendo chiara la incolpazione addebitata (responsabilità, nella qualità di Dirigente amministrativo, nel controllo e nella verifica della correttezza di dati contabili peraltro già diramati) né la violazione del principio di immutabilità della contestazione disciplinare, essendo stati introdotti in giudizio allegazioni e documenti relativi ai fatti addebitati e confermativi degli stessi anche per ciò che riguardava gli effetti dannosi conseguenti al comportamento della Dirigente, valutabili sotto l'aspetto della gravità de comportamento posto in essere dalla lavoratrice».

[20] Si noti come l’impostazione è sovrapponibile a quella adottata dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 1998/2025 il cui testo è riportato nella nota 19.