Pubbl. Ven, 5 Lug 2024
Le sanzioni disciplinari nel pubblico impiego: guida alla disciplina, evoluzione storica e aspetti teorici
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Alessandro Bofisè
Il rapporto di pubblico impiego è una disciplina in continua evoluzione che necessita di continui approfondimenti e aggiornamenti al fine di consentire, alle parti coinvolte, la piena conoscenza dei diritti e dei doveri connessi al rapporto di lavoro, come tutelarli e farli valere. Questo studio si propone di fornire una guida completa, che sia utile tanto ai lavoratori per una adeguata conoscenza degli elementi generali del pubblico impiego, dei diritti e dei doveri ad esso connessi, quanto al datore di lavoro, sul quale, ricordiamo, grava il potere/dovere disciplinare, potere che deve, necessariamente, essere esercitato con l’assoluta consapevolezza e padronanza degli strumenti messi a disposizione dall’ordinamento.
Disciplinary Sanctions in Public Employment: guide to discipline, historical evolution, and theoretical aspects
The public employment relationship is a constantly evolving discipline that requires continuous in-depth study and updates to allow the parties involved full knowledge of the rights and duties connected to the employment relationship, how to protect them, and assert them. This study aims to provide a comprehensive guide, useful both to workers for an adequate understanding of the general elements of public employment, the rights and duties connected to it, and to the employer, on whom, the disciplinary power/duty rests, a power that must necessarily be exercised with absolute awareness and mastery of the tools provided by the legal system.Sommario: 1. Cenni introduttivi; 2. Nozione di pubblico impiego; 3. Evoluzione storica; 4. Fonti del rapporto di pubblico impiego; 5. obblighi derivanti dal rapporto di lavoro; 6. Diritti dei lavoratori; 7. Il procedimento disciplinare; 7.1. Dal rimprovero verbale o scritto alla multa pari a 4 ore di retribuzione; 7.2. Sospensione da servizio e retribuzione fino a un massimo di 10 giorni; 7.3. Sospensione da servizio e retribuzione da 11 giorni fino al massimo di 6 mesi; 8. Il licenziamento; 9. Il licenziamento per scarso rendimento; Conclusioni.
1. Cenni introduttivi
L’instaurazione di un rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione trova espressa regolamentazione nel D. Lgs. 30 marzo 2001 n. 165, contenente le “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”.
Tale provvedimento costituisce, tutt’oggi, un pilastro fondamentale per la regolamentazione della materia, seppur con il susseguirsi di molteplici interventi di riforma.
Tra questi è doveroso citare il D. Lgs. n. 75 del 25 maggio 2017[i], c.d. Riforma del pubblico impiego, il quale ha avuto il merito di introdurre rilevanti modifiche e integrazioni al procedimento disciplinare di cui al Titolo IV del D. Lgs. n. 165 del 30 marzo 2001, rubricato “Rapporto di lavoro”[ii].
La ratio ispiratrice della novella si scorge nella volontà del legislatore di rendere più attuale il procedimento disciplinare nei confronti dei pubblici dipendenti, necessità, quest’ultima, resa impellente da alcune condotte dei dipendenti, considerate illegittime e che si sono registrate negli ultimi anni con frequenza sempre maggiore.
Il dilagare di tali condotte, quindi, ha indotto il sorgere di procedimenti disciplinari più rigorosi, anche tramite una semplificazione e snellimento dell’iter procedimentale: si è cercato, in particolare, di incrementare la competenza disciplinare dell’apparato amministrativo, al fine di scongiurare il pericolo di azioni disciplinari potenzialmente annullabili per semplici vizi formali.
Molto sentita è stata anche l’esigenza di fronteggiare il malcontento dell’opinione pubblica che, dinanzi a casi resi noti alla cronaca come i cosiddetti “furbetti del cartellino”, reclamavano interventi mirati a un sistema disciplinare e sanzionatorio più aspro ed efficiente.
Proprio tale ultima circostanza non poteva essere trascurata, dovendosi preservare il prestigio della pubblica amministrazione e di tutti i dipendenti pubblici che prestano il proprio servizio in modo efficiente, etico e corretto.
Si è ritenuto, in definitiva, che un procedimento disciplinare più efficiente, consenta una migliore regolazione dell’azione nella Pubblica Amministrazione con un conseguente miglioramento, in termini generali, del livello della Pubblica Amministrazione, oltre che ad un più efficiente contrasto al fenomeno dell’assenteismo e scarsa produttività[iii].
2. Nozione di pubblico impiego
Il rapporto di pubblico impiego è definito dalla dottrina più tradizionale come il rapporto di lavoro alle dipendenze di una Pubblica Amministrazione, al quale si accede tramite un concorso pubblico. L’art. 98 Cost., poi, afferma che, chi accede a un pubblico impiego è un servitore dello Stato, nel senso che deve essere considerato, a tutti gli effetti, al servizio della Nazione.
Il rapporto che si instaura, dunque, è di natura subordinata (nel senso che è un lavoro di tipo dipendente), strettamente personale (incentrato, cioè, sulle abilità tecniche e intellettive del dipendente e dal vincolo fiduciario riposto sullo stesso dalla Pubblica Amministrazione), bilaterale e a prestazioni corrispettive (da tale rapporto derivano oneri a carico di entrambe le parti, ovvero, diritti e doveri sia per il dipendente che per la P.A.), volontario (la determinazione del lavoratore di vincolarsi alla P.A dev’essere manifestata dal dipendente all’inizio e durante il rapporto di impiego, proprio come dev’essere espressa la volontà dell’Amministrazione Pubblica cui appartiene)[iv].
In definitiva, volendo fornire una definizione più moderna e permeante del concetto di pubblico impiego, potremmo definire tale quel rapporto di lavoro in cui una persona fisica mette volontariamente la propria attività al servizio dello Stato o di altro un ente pubblico non economico, in modo continuativo e dietro corresponsione della retribuzione.
Per quanto riguarda, invece, la nozione di amministrazione pubblica, si rende proficuo, al riguardo, richiamare in tale sede un’emblematica pronuncia del Consiglio di Stato, secondo la quale, la nozione di ente pubblico risulta dinamica, funzionale e cangiante.
Essa, infatti, è dinamica, (nel senso che uno stesso soggetto giuridico può essere riconosciuto prima come ente pubblico e, successivamente, vedersi sottratto tale qualifica; è cangiante (nel senso che, in un dato momento storico, uno stesso soggetto può esser considerato ente pubblico con rifermento solo a determinate attività e a taluni istituti; è funzionale (nel senso che l’ente pubblico potrà realmente essere considerato tale solo ove venga in evidenza la sua specifica attitudine pubblicistica)[v].
Una simile qualificazione funzionale dell’ente pubblico, ha permesso alla giurisprudenza di valicare la definizione di soggetto giuridico pubblico utilizzata dalla legge e ha reso possibile definire ente pubblico quel soggetto giuridico che svolge una particolare funzione pubblicistica, ovvero, che persegue un interesse pubblico che le è stato conferito dalla legge[vi].
Purtuttavia, è bene precisare che il concetto di amministrazione pubblica dev’essere inteso in senso lato, in quanto, tale locuzione comprende: le amministrazioni statali (compresi istituti, scuole e le istituzioni educative); le aziende e le amministrazioni autonome dello Stato; le Regioni; le Città Metropolitane e gli altri Enti di Area Vasta; i Comuni, le Comunità Montane (compresi i consorzi e le associazioni); le università; gli IACP (Istituti autonomi case popolari); le Camere di commercio (comprese le associazioni di settore); gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali; le aziende del Servizio sanitario nazionale; l'ARAN (Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni); le Agenzie.
3. Evoluzione storica
A partire dagli anni novanta il rapporto di pubblico impiego ha subito un processo di privatizzazione realizzato, prevalentemente, tramite una serie di interventi normativi, quali le due leggi delega (L. 23 ottobre 1992, n. 421 e L. 15 marzo 1997, n. 59 c.d. legge Bassanini), il D. Lgs. n. 29 del 3 febbraio 1993; il D. Lgs. n. 396 del 4 novembre 1997; il D. Lgs. n. 80 del 31 marzo 1998; e il D. Lgs. n. 387 del 29 ottobre 1998[vii].
Il susseguirsi di molteplici provvedimenti legislativi che hanno riformato il D. Lgs. n. 29 del 3 febbraio 1993, ha reso necessaria l’elaborazione di un testo che mettesse ordine alla copiosa disciplina sul pubblico impiego. A tal fine, è stato emanato il Testo Unico sul pubblico impiego di cui al D. Lgs. n. 165 del 30 marzo 2001, “norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”, che costituisce, ad oggi, il testo di riferimento in materia di impiego pubblico.
Il testo è così strutturato: Titolo I (artt. 1-9) racchiude i principi che hanno ispirato la riforma, le fonti, i rapporti di lavoro disciplinati dal diritto pubblico, l’organizzazione e la dotazione organica degli uffici, la formazione, la gestione e controllo del costo del lavoro, la partecipazione sindacale. Titolo II (artt.10-12): la disciplina afferente alla trasparenza dell’azione amministrativa; la dirigenza e il principio di separazione tra politica e amministrazione, attribuzioni, responsabilità, modi di accesso al ruolo; la mobilità (comprende sia il passaggio ad amministrazioni diverse che il caso di esuberi di personale), e i modi di reclutamento del personale. Titolo III (artt.40-50): dedicato alla contrattazione collettiva e alla rappresentanza sindacale. Titolo IV (artt. 51-57): contiene le norme che, insieme a quelle del Codice Civile e alle leggi speciali, regolamentano il rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti (mansioni, incompatibilità, cumulo di impieghi, sanzioni disciplinari). Titolo V (artt. 58-61): disciplina il controllo e la razionalizzazione della spesa per i dipendenti pubblici. Titolo VI (artt. 63-66): in materia di giurisdizione (devoluta alla competenza del giudice ordinario) e le norme di raccordo necessarie per l’applicazione del rito del lavoro di cui all’ articolo 410 e seguenti c.p.c. (contenzioso del pubblico impiego). Titolo VII (artt. 67-73): norme di chiusura del provvedimento.
Per effetto della riforma di cui al D. Lgs. n. 165 del 30 marzo 2001, è stata introdotta una disciplina orientata alla valorizzazione dei principi di onestà, imparzialità e trasparenza, quali criteri informatori dell’azione della Pubblica Amministrazione[viii].
Ne è conseguito un assetto normativo della materia molto simile a quello del rapporto di lavoro privato di impresa, finalizzato a garantire una maggiore efficienza, efficacia, produttività e razionalizzazione del costo del lavoro anche nel pubblico impiego[ix].
Per effetto del menzionato processo di privatizzazione, il rapporto di pubblico impiego ha origine contrattuale, in quanto l’accesso al lavoro deve avvenire necessariamente per mezzo di una procedura concorsuale[x], ed è regolato dal Codice Civile e dalle leggi sul rapporto di lavoro privato d’impresa[xi], fatta eccezione per la diversa disciplina prevista dal D. Lgs. 165/2001, al quale viene attribuito espressamente il carattere di fonte imperativa e, in quanto tale, non suscettibile di essere derogata, in nessun modo, dalla contrattazione collettiva.
Il riconoscimento della natura privatistica del pubblico impiego, però, ha comportato alcune conseguenze: la pubblica amministrazione ha perso il suo ruolo tradizionalmente autoritativo, in quanto assimilata ai datori di lavoro privati; il codice civile, le leggi in materia di rapporto di lavoro privato e la contrattazione collettiva vengono collocati tra le fonti del pubblico impiego; il dipendente pubblico individua nel contratto di diritto privato, la fonte che regola il proprio rapporto di lavoro; sono attribuiti al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, i contenziosi afferenti ai rapporti di pubblico impiego (art. 63 D. Lgs. n. 165/2001), sottraendoli, per l’effetto, alla giurisdizione del giudice amministrativo; mentre, rimangono devolute alla giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo le controversie in materie di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti nelle pubbliche amministrazioni.
Il processo di privatizzazione del pubblico impiego, tuttavia, non ha coinvolto la totalità dei dipendenti pubblici: vi sono, infatti, alcune categorie che ne sono rimaste escluse[xii].
L'elenco è tassativo e riguarda: magistrati ordinari amministrativi e contabili; avvocati e procuratori dello Stato; personale della carriera diplomatica e prefettizia; dipendenti delle autorità amministrative indipendenti e degli enti pubblici che svolgono attività nell'ambito di alcune materie (funzione creditizia, borsa, mercato dei valori mobiliari); professori e ricercatori universitari.
Con il D. Lgs. n. 75 del 25 maggio 2017, recante “Modifiche e integrazioni al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, sono stati trattati numerosi aspetti del pubblico impiego, quali, ad esempio, le modalità di reclutamento del personale, la responsabilità disciplinare, l’iter di svolgimento dei concorsi, flessibilità e disabilità, assenza per malattia e la valutazione dei dipendenti.
4. Fonti del rapporto di pubblico impiego
Il legislatore, con l'articolo 2, comma 2, del D. Lgs. n. 165/2001, ha voluto introdurre una riforma strutturale della disciplina del rapporto di pubblico impiego, la quale, tuttavia, si applica al solo personale privatizzato, senza riguardare anche il rapporto di lavoro dei dipendenti in regime di diritto pubblico[xiii].
Il rapporto di pubblico impiego privatizzato è regolato dal diritto comune e dalla contrattazione collettiva.
In particolare, l’art. 33, comma l, del D. Lgs. n. 150/2009, che integra l’art. 2, comma 2 del d. lgs. n. 165/2001, pone il principio generale in forza del quale, nei rapporti di lavoro dei pubblici dipendenti trovano applicazione le disposizioni contenute nel codice civile (capo I, titolo II, libro V) e le leggi sul rapporto di lavoro privato d’impresa, fatta eccezione per la diversa disciplina prevista dal D. Lgs. 165/2001, alla quale viene attribuito espressamente il carattere di fonte imperativa e, in quanto tale, non suscettibile di essere derogata, in nessun modo, dalla contrattazione collettiva[xiv].
Possiamo affermare, pertanto, che il rapporto di lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione si costituisce con le stesse modalità previste per il rapporto di lavoro con un datore di lavoro privato: la pubblica amministrazione, infatti, non esercita più un potere pubblico, bensì, un’autonomia negoziale.
Il principio dell’autonomia negoziale viene applicato anche alla gestione dell’intero rapporto di lavoro e gli atti che modificano o estinguono il rapporto (come nel caso del trasferimento) non sono più disposti con provvedimenti amministrativi, bensì, come disposto dell’art. 5 D. Lgs. n. 165/2001, da atti di natura negoziale.
Nonostante il pubblico impiego non trovi una disciplina organica e completa, alcuni interessanti spunti sono rinvenibili nella Carta Costituzionale. Tra essi ricordiamo: il principio dell’accesso ai pubblici uffici in condizioni di eguaglianza (art. 51 Cost.); il dovere di adempiere con onore alle pubbliche funzioni e di porsi al servizio esclusivo della Nazione (artt. 54 e 98 Cost.); la riserva di legge inerente all’organizzazione dei pubblici uffici e il principio di buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.); formazione, retribuzione e tutela delle donne e dei minori lavoratori (artt. 35, 36 e 37 Cost.); la responsabilità diretta dei dipendenti pubblici, il diritto di sciopero e gli altri diritti sindacali (artt. 28, 29 e 40 Cost.).
Sulla scorta delle citate disposizioni, è possibile ricavare quelli che sono gli elementi essenziali del pubblico impiego, ovvero: l’accesso mediante concorso; la natura pubblica dell’ente; la correlazione con i fini istituzionali dell’ente; la subordinazione con inserimento nell’organizzazione amministrativa dell’ente; la continuità; l’esclusività; la retribuzione predeterminata.
5. Obblighi derivanti dal rapporto di lavoro
L’assunzione presso le pubbliche amministrazioni deve avviene con contratto individuale di lavoro (art. 35 D.Lgs. n. 165/2001), pertanto, il rapporto di pubblico impiego si costituisce con le stesse modalità previste per l’instaurazione del rapporto di lavoro con un datore privato.
I pubblici dipendenti sono tenuti al rispetto degli obblighi contrattuali previsti dalla normativa di natura privatistica che disciplina il rapporto di lavoro, nonché ai doveri previsti dalla legge nei confronti dei datori di lavoro[xv].
In particolare, le fonti degli obblighi contrattuali per i dipendenti pubblici privatizzati sono rinvenibili prevalentemente nel contratto che si sottoscrive con la pubblica amministrazione al momento dell’instaurazione del rapporto di lavoro e che, a sua volta, richiama la contrattazione collettiva (CCNL), ma anche dalle norme previste dal Codice Civile in materia di rapporto di lavoro privato, fatta salva la diversa disciplina prevista dalle fonti imperative (D. Lgs. n. 165/2001 e le altre norme istitutive di doveri e sanzioni disciplinari)[xvi].
Gli obblighi di comportamento e i doveri del dipendente pubblico sono enucleati nel dettaglio dal CCNL[xvii], il quale riconosce particolare importanza all’impegno e alla responsabilità nell’espletamento delle proprie mansioni, nonché ai principi del buon andamento, del rispetto della legge e dell’interesse pubblico.
Il lavoratore, poi, dovrà comportarsi nel rispetto dei principi del rapporto di lavoro approfonditi dal codice di condotta, nonché nel rispetto dei doveri di comportamento previsti dal codice di comportamento dell’azienda di appartenenza.
La materia del pubblico impiego, poi, è retta da un dovere generico previsto dalla Costituzione di servire la Repubblica con impegno e responsabilità e di rispettare i principi di buon andamento e imparzialità dell'attività amministrativa (art. 97 Cost.), anteponendo il rispetto della legge e l'interesse pubblico agli interessi privati propri e altrui.
Il dipendente, altresì, dovrà comportarsi in modo tale da favorire l'instaurazione di rapporti di fiducia e collaborazione tra l'ente e i cittadini. Proprio in tale contesto, tenuto conto dell'esigenza di garantire la migliore qualità del servizio, il dipendente deve, in particolare:
a) collaborare con diligenza, osservando le norme del contratto collettivo nazionale, le disposizioni per l'esecuzione e la disciplina del lavoro impartite dall'ente anche in relazione alle norme vigenti in materia di sicurezza e di ambiente di lavoro;
b) rispettare il segreto d'ufficio nei casi e nei modi previsti dalle norme dell’ordinamento ai sensi dell'art. 24 della L. n. 241/1990;
c) non utilizzare per fini privati le informazioni di cui disponga per ragioni d'ufficio;
d) nei rapporti con il cittadino, fornire tutte le informazioni cui lo stesso abbia titolo, nel rispetto delle disposizioni in materia di trasparenza e di accesso all' attività amministrativa previste dalla L. n. 241/1990, dai regolamenti attuativi della stessa vigenti e dal D. Lgs. n. 33/2013 in materia di accesso civico, nonché osservare le disposizioni della stessa amministrazione in ordine al D.P.R. n. 445/2000 in tema di autocertificazione;
e) rispettare l'orario di lavoro, adempiere alle formalità previste per la rilevazione delle presenze e non assentarsi dal luogo di lavoro senza l'autorizzazione del dirigente;
e bis) rispettare gli obblighi contenuti al Titolo V – Lavoro a distanza;
f) durante l'orario di lavoro o durante l’effettuazione dell’attività lavorativa in modalità a distanza, mantenere nei rapporti interpersonali e con gli utenti, una condotta adeguata ai principi di correttezza ed astenersi da comportamenti lesivi della dignità della persona;
g) non attendere ad occupazioni estranee al servizio e ad attività che ritardino il recupero psico-fisico nel periodo di malattia od infortunio.
Una questione molto attuale è quella del dipendente pubblico che riceve un ordine illegittimo. In tale eventualità, i giudici di legittimità hanno affermato che, se il lavoratore ritiene che l’ordine sia palesemente illegittimo, dovrà farne rimostranza a chi l’ha impartito dichiarandone le ragioni; se l’ordine è rinnovato per iscritto ha il dovere di darvi esecuzione. Il dipendente, non deve, comunque, eseguire l’ordine quando l’atto sia vietato dalla legge penale o costituisca illecito amministrativo[xviii].
In particolare, la palese illegittimità dell’ordine rappresenterebbe, di per sé, un’ipotesi obiettiva di illegittimità dell’ordine, cioè, da intendere come veri e propri vizi di legittimità che, nella specie, rilevano come violazione dei principi di buona fede, correttezza, imparzialità e buon andamento.
6. Diritti dei lavoratori
Con l’instaurazione di un rapporto di pubblico impiego il lavoratore non assume solo obblighi ma anche diritti, i quali, a loro volta, possono essere distinti in diritti patrimoniali e diritti non patrimoniali.
Per quanto attiene ai diritti patrimoniali, essi riguardano gli aspetti economici della retribuzione e del trattamento di fine rapporto.
La retribuzione, secondo quanto previsto dal Codice Civile agli artt. 2094 e 2095, rappresenta la controprestazione in termini economici cui è obbligato il datore di lavoro, sia pubblico che privato, nei confronti del lavoratore che mette a disposizione del primo la propria attività lavorativa[xix].
In altri termini, la retribuzione può essere intesa come la prestazione periodica in denaro erogata dal datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti, come corrispettivo per il servizio reso: essa rappresenta il diritto patrimoniale più importante nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato.
La retribuzione trova riconoscimento e ampia disciplina anche nella Costituzione, la quale, all’articolo 36, co. 1, afferma che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Dal richiamato dettato costituzionale si evince che la retribuzione non dev’essere solo proporzionata al lavoro svolto, ma dev’essere in grado di garantire al lavoratore e alla sua famiglia condizioni di vita dignitose.
Il Costituente ha voluto rilevare un rapporto di potenziale conflitto tra datori di lavoro e lavoratori, dove quest’ultimi rappresentano la parte debole del rapporto e, pertanto, si dovrà applicare la regola della «corrispettività», salvo alcuni casi specifici.
Il principio della «corrispettività» non troverà applicazione, ad esempio, durante le ferie o in caso di maternità o malattia: in tali circostanze il lavoratore, sebbene non esegue la prestazione di lavoro, percepirà comunque la retribuzione.
Tra i diritti non patrimoniali ricordiamo, invece:
- il diritto alla permanenza nel rapporto di lavoro (cioè, di non essere rimosso dal proprio ufficio se non nei casi previsti dalla legge o dai contratti collettivi);
- il diritto alla funzione (cioè, il diritto allo svolgimento delle mansioni inerenti alla propria qualifica);
- Il diritto al trasferimento[xx].
Ulteriori diritti di natura non patrimoniale che spettano al pubblico dipendente sono:
- il diritto alla progressione (cioè, i passaggi all’interno della stessa area dei dipendenti pubblici);
- il diritto al riposo (ferie, malattia, permessi, ecc.);
- il diritto alla riservatezza;
- il diritto alle pari opportunità;
- i diritti sindacali.
I commi 2 e 3 dell’art. 36 Cost., disciplinano la durata della giornata lavorativa, la quale deve essere stabilita dalla legge al fine di meglio tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore, nonché, il diritto al riposo del lavoratore, ovvero, il diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, senza potervi rinunciare, consentendo al dipendente il recupero delle forze e migliorarne il rendimento, riconoscendogli un adeguato tempo libero da dedicare a sé stesso e alla sua famiglia.
A tal fine, è opportune precisare che la legge e il CCNL di riferimento stabiliscono tutele specifiche, precisando che le ferie sono un diritto irrinunciabile, la cui mancata fruizione non dà luogo alla corresponsione di compensi sostitutivi, salvo quanto previsto dall’art. 28 co. 15 CCNL, secondo cui «all’atto della cessazione dal rapporto di lavoro, qualora le ferie spettanti a tale data non siano state fruite per esigenze di servizio, si procede al pagamento sostitutivo delle stesse sulla base del trattamento economico corrisposto».
7. Il procedimento disciplinare
Il lavoratore è tenuto ad osservare scrupolosamente gli obblighi di condotta contenuti nel CCNL e, in caso di inosservanza degli stessi, potrà essere sottoposto a un procedimento disciplinare, il quale dovrà sempre svolgersi in modo commisurato alla gravità dell’infrazione commessa.
La responsabilità disciplinare è quella forma di responsabilità, aggiuntiva rispetto a quella penale, civile e amministrativo-contabile, cui incorre il dipendente che commette delle infrazioni agli obblighi connessi al rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione[xxi].
Il potere disciplinare è una potestà riconosciuta dall’ordinamento al datore di lavoro che ha ad oggetto la legittimazione all’applicazione della sanzione al verificarsi della violazione di un comportamento giuridicamente dovuto che il datore di lavoro ha diritto di pretendere, se commissivo, o rispetto al quale sussiste un dovere di astensione da parte del lavoratore, se omissivo[xxii].
Autorevole dottrina ha messo in evidenza l’inadeguatezza del procedimento disciplinare a causa dell’inerzia dei soggetti apicali (nella specie i dirigenti) sui quali grava l’onere di effettuare le segnalazioni degli illeciti[xxiii].
Il potere di punire chi ha commesso fatti illeciti si esplica attraverso l'irrogazione di sanzioni disciplinari, le quali devono rispettare i principi di gradualità[xxiv] e proporzionalità[xxv] e devono, inoltre, tenere conto di elementi quali: l’intenzionalità, il grado di negligenza, l’imprudenza o imperizia, la rilevanza degli obblighi violati, la responsabilità connessa alla posizione di lavoro occupata dal dipendente, il grado di danno o pericolo causato all’azienda o all’utente, l’esistenza di circostanze aggravanti o attenuanti, il concorso nella violazione di più dipendenti in accordo fra di loro.
È bene osservare che, laddove un dipendente pubblico, con più azioni od omissioni collegate tra loro, abbia commesso più infrazioni ritualmente notificate con un unico procedimento, troverà applicazione la sanzione prescritta per la violazione più grave ove le varie infrazioni siano punite con sanzioni di diversa gravità.
Fermo restando le norme vigenti in materia di responsabilità civile, penale e amministrativo-contabile, nei rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione si applica l'art. 2106 c.c., il quale sanziona, in via disciplinare, le violazioni del dovere di diligenza (art. 2014 c.c.) e dell'obbligo di fedeltà (art. 2105 c.c.).
Spetta ai contratti collettivi, poi, determinare la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni, senza, però, poter istituire procedure di impugnazione dei provvedimenti disciplinari.
A seconda della gravità dell’infrazione posta in essere dal lavoratore, questi potrà andare incontro a specifiche sanzioni disciplinari, previste in ordine crescente di gravità, quali:
- Rimprovero verbale;
- Rimprovero scritto/censura;
- Multa di importo variabile fino ad un massimo di 4 ore di retribuzione;
- Sospensione dal lavoro e dalla retribuzione fino a dieci giorni;
- Sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da 11 giorni fino ad un massimo di sei mesi;
- Licenziamento con preavviso;
- Licenziamento senza preavviso.
7.1 Dal rimprovero verbale o scritto alla multa pari a 4 ore di retribuzione
La sanzione disciplinare, dal minimo del rimprovero verbale o scritto al massimo della multa pari a 4 ore di retribuzione, si applica in modo graduale per:
- inosservanza delle disposizioni di servizio, anche in tema di assenze per malattia, nonché dell'orario di lavoro;
- condotta non conforme, nell’ambiente di lavoro, a principi di correttezza verso superiori o altri dipendenti o nei confronti degli utenti o terzi;
- negligenza nell'esecuzione dei compiti assegnati, nella cura dei locali e dei beni mobili o strumenti a lui affidati o sui quali, in relazione alle sue responsabilità, debba espletare attività di custodia o vigilanza;
- inosservanza degli obblighi in materia di prevenzione degli infortuni e di sicurezza sul lavoro ove non ne sia derivato danno o pregiudizio al servizio o agli interessi dell’Azienda o Ente o di terzi;
- rifiuto di assoggettarsi a visite personali disposte a tutela del patrimonio dell'Azienda;
- negligenza o insufficiente rendimento nell'assolvimento dei compiti assegnati;
- violazione di doveri ed obblighi di comportamento non ricompresi specificatamente nelle lettere precedenti, da cui sia derivato disservizio ovvero danno o pericolo all'Azienda o Ente, agli utenti o ai terzi.
Le somme riscosse dall’azienda per effetto dell’irrogazione delle sanzioni disciplinari verranno annotate nel bilancio aziendale e impiegate ad attività sociali a favore dei dipendenti.
7.2 Sospensione da servizio e retribuzione fino a un massimo di 10 giorni
La sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino a 10 giorni trova applicazione nei seguenti casi:
- recidiva di gravi comportamenti già elencati nel comma precedente;
- assenza ingiustificata dal servizio o arbitrario abbandono dello stesso; in questi casi, l'entità della sanzione è determinata in relazione alla durata dell'assenza o dell'abbandono del servizio, al disservizio che si è determinato, alla gravità della violazione dei doveri del dipendente, agli eventuali danni causati all'Azienda, agli utenti o ai terzi;
- ritardo ingiustificato, non superiore a 5 giorni, a trasferirsi nella sede assegnata dai superiori;
- svolgimento di attività che ritardano il recupero psico-fisico durante la malattia o l’infortunio;
- manifestazioni ingiuriose nei confronti dell'Azienda o Ente, salvo che siano espressione della libertà di pensiero;
- atti, comportamenti o molestie, lesivi della dignità della persona;
- atti o comportamenti aggressivi ostili e denigratori, nell’ambiente di lavoro, che assumono forme di violenza morale nei confronti di un altro dipendente, comportamenti minacciosi, ingiuriosi, calunniosi o diffamatori nei confronti di altri dipendenti o degli utenti o di terzi;
- violazione di doveri ed obblighi di comportamento non ricompresi specificatamente precedentemente da cui è comunque derivato un grave danno all’azienda o Ente e agli utenti o ai terzi.
7.3 Sospensione da servizio e retribuzione da 11 giorni fino al massimo di 6 mesi
- occultamento, da parte del responsabile della custodia, del controllo o della vigilanza, di fatti e circostanze relativi ad uso illecito, manomissione, distrazione o sottrazione di somme o beni di pertinenza dell’Azienda a lui affidati;
- atti, comportamenti o molestie a carattere sessuale dove non sussiste la gravità e la reiterazione;
- alterchi con vie di fatto (azioni di forza) negli ambienti di lavoro, anche con gli utenti;
- violazione di doveri ed obblighi di comportamento non ricompresi precedentemente, ma da cui sia derivato un grave danno all’Azienda, agli utenti o a terzi;
- fino a due assenze ingiustificate dal servizio in continuità con le giornate festive e di riposo settimanale;
- ingiustificate assenze collettive nei periodi in cui è necessario assicurare continuità nell’erogazione di servizi all’utenza.
8. Il licenziamento
Come anticipato, la sanzione del licenziamento è prevista nelle due forme: con o senza preavviso.
È licenziato con preavviso il lavoratore che:
- si assenta dal lavoro senza dare motivazioni né comunicazioni, per tre giorni (anche non continuativi) in un biennio o per sette giorni nell’arco di un decennio;
- rifiuta, senza giustificato motivo, il trasferimento ad un’altra sede, deciso dal datore;
- non riprende il servizio dopo essersi assentato dal lavoro, senza darne adeguata motivazione per più di quindici giorni;
- nell’arco di un biennio, in maniera continuativa, ha registrato scarso rendimento a lavoro o ha messo in atto un atteggiamento di negligenza, oppure non presenta più il requisito dell’idoneità psico-fisica. A tal proposito, in caso di sospetta inidoneità del dipendente, il lavoratore viene temporaneamente sospeso dal lavoro per permettere una visita medica adeguata che accerti lo stato reale di salute. Tuttavia, se il lavoratore si rifiuta di sottoporsi alle visite mediche per almeno due volte senza giustificato motivo si configura la possibilità del licenziamento senza preavviso;
- commette molestie sessuali nell’arco di un biennio;
- nell’arco del biennio e in maniera frequente, mette in atto delle condotte aggressive, offensive e di violenza verbale, fisica o psicologica che abbiano creato danni alla sfera fisica e/o emotiva di un collega o di un terzo (es. il mobbing);
- ha subìto, sul luogo di lavoro, durante lo svolgimento della sua attività o anche al di là della stessa, una condanna passata in giudicato, anche per reati non direttamente collegati o ricollegabili all’esercizio della sua attività lavorativa;
Il licenziamento senza preavviso ricorre nelle seguenti ipotesi:
- Per almeno tre volte ripetute nel corso di un biennio, ha perpetrato minacce, offese gravi, ingiurie e calunnie o messo in atto qualsiasi tipo di condotta ingiuriosa di un certo peso, nei confronti sia dei colleghi che di tutti i dipendenti dell’amministrazione, oltre che nei confronti del pubblico, come nel caso di uno sportello che riceve clientela per determinati servizi;
- Abbia dichiarato il falso al momento della sottoscrizione del contratto di lavoro o per progressioni di carriera;
- Abbia prodotto documentazione falsa o contraffatta successivamente o se il contratto di lavoro stesso è stato sottoscritto sulla base di una falsa documentazione;
- Abbia commesso verso terzi atti dolosi, anche se non rilevanti penalmente, comunque gravi da non poter permettere al dipendente di proseguire la propria attività;
- Abbia prodotto falsa attestazione della presenza sul luogo di lavoro (si veda la questione dei cd “furbetti del cartellino”) o abbia alterato il rilevamento della presenza in servizio in modo fraudolento o abbia prodotto un certificato medico falso o falsato, riportante uno stato di malattia inesistente;
- Abbia ricevuto una condanna penale definitiva (tale è una situazione in cui non è ammissibile alcuna impugnazione ordinaria contro la sentenza) a suo carico. Questo fa scattare non solo il licenziamento disciplinare senza preavviso immediato, ma l’immediata interruzione del rapporto di lavoro e la sanzione cd accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, che può essere temporanea o assoluta (vale a dire l’impossibilità di poter nuovamente ricoprire incarichi pubblici per un certo periodo o mai più);
9. Il licenziamento per scarso rendimento
Per completezza espositiva, si rende opportuno, infine, affrontare il caso del licenziamento imputabile allo scarso rendimento del dipendente. Si tratta di una ipotesi di recesso dal vincolo contrattuale che, sebbene non espressamente disciplinata dal legislatore, trova frequente attuazione nella prassi applicativa.
Si parla di scarso rendimento del lavoratore dipendente nel caso di prestazione lavorativa non corrispondente alle aspettative e alle esigenze del datore di lavoro. Com’è noto, il dipendente è tenuto ad eseguire la prestazione lavorativa secondo le disposizioni date dal datore e con la diligenza richiesta “dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale” così come statuito dall’art. 2104 c.c.
La citata norma fa esplicito riferimento sia a una diligenza qualificata, cioè, che varia a seconda del contenuto delle mansioni affidate al lavoratore e, pertanto, al diverso livello di difficoltà e responsabilità ad esso connesso, che all’interesse dell’impresa, cioè, alla necessità che la prestazione lavorativa sia resa in modo tale da tornare utile all’interesse oggettivamente perseguito dall’imprenditore.
Al riguardo, la giurisprudenza più costante riconduce la poor performance al giustificato motivo soggettivo, pertanto, nel caso in cui l’insufficiente rendimento del lavoratore sia a lui imputabile e la prestazione resa non soddisfi l’interesse del datore, il licenziamento si palesa legittimo.
Tale assunto è stato recentemente ribadito dalla Suprema Corte di Cassazione, la quale ha affermato che il recesso del datore di lavoro per scarso rendimento deve essere ricondotto nell’ambito dei licenziamenti per motivo soggettivo: esso costituisce un’ipotesi di recesso del datore di lavoro per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore.
Quindi, il licenziamento intimato al lavoratore per scarso rendimento è legittimo qualora sia provata una importante violazione della diligenza nell’espletamento della prestazione lavorativa a lui imputabile in conseguenza dell’enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, tenuto conto della media delle prestazioni degli altri subordinati ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione[xxvi].
10. Conclusioni
Il diritto del lavoro è una materia in continua evoluzione, ciò impone un costante lavoro di studio e, soprattutto, di aggiornamento giurisprudenziale al fine di consentire agli operatori del settore di acquisire le competenze necessarie a fronteggiare scenari mutevoli e imprevedibili.
Ciò lo si avverte ancor di più in fase di procedimento disciplinare e, in particolare, nella fase di valutazione dei parametri finalizzati ad accertare che l’esecuzione della prestazione lavorativa sia stata espletata con la diligenza e la professionalità richiesta, ovvero, proprie delle mansioni affidate al lavoratore.
Proprio in tale contesto, gioca un ruolo determinante l’attività di valutazione delle performance rese dal prestatore di lavoro, in quanto, qualora si dovesse rilevare l’inosservanza dei parametri menzionati per un apprezzabile lasso di tempo, ciò potrebbe costituire indice di una non esatta esecuzione della prestazione e indurre il datore a licenziare il lavoratore per inadempimento degli obblighi contrattuali.
Appare lapalissiano, in definitiva, che solo una scrupolosa e accurata attività di valutazione delle performance, consentirebbe al datore di lavoro di adottare le determinazioni più opportune, tutelandolo dai rischi giudiziali conseguenti a un possibile licenziamento illegittimo che lo esporrebbero al risarcimento del danno, al versamento delle indennità dovute, nonché alla reintegrazione qualora il licenziamento si riveli discriminatorio.
[i] “Modifiche e integrazioni al decreto legislativo n. 165 del 30 marzo 2001, ai sensi degli articoli 16, commi 1, lettera a), e 2, lettere b), c), d) ed e) e 17, comma 1, lettere a), c), e), f), g), h), l) m), n), o), q), r), s) e z), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”.
[ii] Recante “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”.
[iii] M. G. Militello, Etica comportamentale, procedimento disciplinare e sanzioni. L’homo novus nel pubblico impiego, in Il lavoro pubblico a vent’anni dalla scomparsa di Massimo D’Antona, Centre For The Study Of European Labour Law “Massimo D’Antona”, Bruno C. (a cura di), 2019, 192 ss.
[iv] P. Rausei, G. Ceneri, G. Rufo Clerici, L. Donninelli, Ispezioni del lavoro - diritto pubblico, Milano, 2021, pag. 199.
[v] Cons. St., Sez VI, sentenza n. 2660, 26 maggio 2015, in www.amministrazioneincammino.luiss.it.
[vi] E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, 2017, pag. 96, Giuffrè, Milano.
[vii] S. Cassese, Istituzioni di diritto amministrativo, Milano, 2004, pag. 125.
[viii] art. 1, D.lgs. 165/2001 “finalità”, in www.normattiva.it.
[ix] Parte della dottrina ha evidenziato che l’idea di assimilare le amministrazioni pubbliche alle imprese private sia la logica conseguenza dei risultati degli apparati pubblici, ai quali gli si contestava di operare secondo procedure disordinate e scarsamente produttive che comportano uno spreco delle risorse.
[x] L'ultimo comma dell’art. 97 Cost. L'art. 97 Cost. pone il principio generale secondo il quale al pubblico impiego si accede attraverso la procedura concorsuale, in quanto unico strumento idoneo a garantire l'imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione.
[xi] S. Cassese, Istituzioni di diritto amministrativo, Milano, 2004, pag. 128.
[xii] Una buona parte dei pubblici dipendenti, indicati in modo tassativo dall’art. 3, D.lgs. n. 165/2001, ad oggi, risulta esclusa dal processo di privatizzazione.
[xiii] con riferimento al personale pubblico non privatizzato vedi il secondo periodo del comma 1, articolo 1 del Dlgs n. 150 del 2009: “Fermo quanto previsto dall'articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, recano altresì norme di raccordo per armonizzare con la nuova disciplina i procedimenti negoziali, di contrattazione e di concertazione di cui all'articolo 112 del decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967, n. 18, e ai decreti legislativi 12 maggio 1995, n. 195, 19 maggio 2000, n. 139, 13 ottobre 2005, n. 217, e 15 febbraio 2006, n. 63”.
[xiv] In realtà, l’imperatività delle disposizioni di legge, ove non disapplicate, sussisteva anche prima del citato intervento legislativo, in quanto, l’art. 2, comma 2, del d. lgs. n. 29/1993 assoggettava i rapporti di lavoro e, quindi, anche la contrattazione, al regime privatistico, seppur con l’eccezione dei limiti da esso previsti.
[xv] T. Martinez, Diritto Costituzionale Esame per i corsi universitari di base, Milano, 2011, pag. 78.
[xvi] P. Lattari, Il diritto sindacale del pubblico impiego privatizzato, Roma, 2023, pag. 67-74.
[xvii] le disposizioni contenute nel CCNL, nel sistema gerarchico delle fonti, sono subordinate a quelle legislative ma ad esse equiparate da un punto di vista processuale, la cui violazione può costituire motivo di censura.
[xviii] Cassazione, sentenza n. 31086 del 30 novembre 2008, in www.laleggepertutti.it.
[xix] V. Cuzzola, A. Timpano, La Retribuzione Nel Pubblico Impiego. Italia: Halley, 2005. pag. 9.
[xx] S. Cacciotti, Diritto amministrativo. Italia: Alpha Test, 2008. pag. 72.
[xxi] P. Virga, La responsabilità disciplinare, in Atti del XLIV, convegno di studi di scienza dell’amministrazione, Milano, 1999, 308.
[xxii] R. Nobile, La natura giuridica della responsabilità e del potere disciplinare. Annotazioni minimali, in La Gazzetta degli Enti Locali 17/06/2016.
[xxiii] V. Tenore, Gli illeciti disciplinari nel pubblico impiego nella giurisprudenza del G.O. e nei referti della Corte dei Conti, Epc Libri, 2007.
[xxiv] l’art. 2106 c.c., nel riconoscere il potere disciplinare, prescrive unicamente il criterio della gradualità, alla stregua del quale, le sanzioni disciplinari devono essere applicate secondo la gravità dell’infrazione.
[xxv] In giurisprudenza si è consolidato il principio secondo il quale la sanzione disciplinare dev’essere proporzionata alla gravità del fatto addebitato ed accertato a carico del lavoratore, tenendo conto di tutte le circostanze di fatto, soggettive ed oggettive, che hanno caratterizzato la condotta contestata (Cass. N. 22236 del 23 ottobre 2007; Cass. N. 2252 del 27 febbraio 1995).
[xxvi] Cass. N. 17602 del 21 giugno 2021, in www.soluzionilavoro.it/; Cass. N. 31487 del 05 dicembre 2018, in www.lavorosi.it; Cass. N. 26676 del 10 novembre 2017, in www.lavorosi.it.