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Pubbl. Lun, 20 Nov 2023

Rapporti tra mafiosità e religione cattolica: un intreccio complesso

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Roberto Colucciello
Laurea in GiurisprudenzaUniversità degli Studi di Foggia



Il rapporto, soprattutto passato, tra mafiosità e religione cattolica, ha suscitato negli studiosi notevole interesse, soprattutto dal punto di vista sociologico. In particolare, le consorterie mafiose hanno attinto dal cattolicesimo riti e simboli ed hanno interpretato gli stessi ovviamente quasi come una giustificazione, o meglio legittimazione, per le condotte criminali di cui si sono macchiate. Al di là dei riti e simboli, in passato è emersa anche una sorta di “non belligeranza” se non addirittura convergenze per ragioni di carattere politico, come la lotta all’ideologia comunista; la mafia si può dire che sia apparsa alla Chiesa come un sicuro e forte baluardo contro l’avanzata del comunismo e di altre ideologie ritenute ostili allo spirito cristiano.


ENG

Relationships between the mafia and the Catholic religion: a complex intertwining

The relationship, especially in the past, between the mafia and the Catholic religion, has aroused considerable interest among scholars, especially from a sociological point of view. In particular, the mafia cliques have drawn rites and symbols from Catholicism and have obviously interpreted them almost as a justification, or rather legitimation, for the criminal conduct of which they have been guilty. Beyond rites and symbols, in the past a sort of ”non-belligerence” has also emerged, if not even convergences for political reasons, such as the fight against communist ideology; the mafia can be said to have appeared to the Church as a safe and strong bulwark against the advance of communism and other ideologies considered hostile to the Christian spirit.

Sommario: 1. Cenni storici; 2. Riti e simbolismi; 3. Le feste religiose come rappresentazioni rituali; 4. L'evoluzione della figura di Dio nelle consorterie criminali: verso un Dio dei mafiosi?; 5. Aspetti comparatistici: riti e simbolismi in Messico e in Russia; 6. Conclusioni.

1. Cenni storici

Apparentemente sembra a dir poco paradossale, quasi rasenta l’inverosimile, la possibilità che tra mafiosità e religione, nel caso di specie religione cattolica, possa intercorrere un qualsivoglia rapporto, o per lo meno possano esserci punti in comune.

Un’analisi storica più approfondita però ha mostrato tutta una serie di situazioni, volute e non, nelle quali questi due mondi, così lontani per ideali e finalità, abbiano invece finito per avere orbite intersecanti.

Se si pensa alla Chiesa come depositaria, predicatrice e testimone dei più profondi insegnamenti contenuti nel Vangelo, è evidente che essa dovrebbe sempre condannare il pensiero mafioso.

La mafia, da parte sua, non contrastava il culto e le devozioni tradizionali, e di contro il clero non esprimeva riprovazione morale, in nome del vangelo, almeno in pubblico, per il sistema di controllo mafioso della società[1].

Nella descrizione della cornice storica, Chiesa e mafia si ritrovano alleate, laddove la Chiesa trova difficoltà nel comprendere fino in fondo il processo di modernizzazione che si sta verificando all’ interno della società.

Nel corso del tempo si è quindi assistito ad una Chiesa che, a partire dal secondo dopoguerra, rimane incapace di cogliere le istanze religiose del popolo, e la paura della modernità porta alla chiusura delle comunità parrocchiali e all’indifferenza della vita civile e politica.

In tale contesto storico, preti e laici cattolici si preoccupano maggiormente degli aspetti ideologici della fede, piuttosto che dei reali processi di trasformazione della società.

Tutto ciò ha portato ad una sorta di abbraccio mortale con mafia, le cui conseguenze non sono state valutate con attenzione, probabilmente per superficialità da un lato, e per una sorta di sottovalutazione del pericolo dall’altro.

Anche da un punto di vista strettamente politico, in un particolare momento storico, la mafia si può dire che sia apparsa alla Chiesa (è anche questo un processo apologetico) come un sicuro e forte baluardo contro l’avanzata del comunismo e di altre ideologie ritenute ostili allo spirito cristiano, percepite come molto più pericolose rispetto al potere mafioso, ritenuto più affidabile e rassicurante perché intriso di religiosità e di rispetto per i riti e per la tradizione[2].

Ed è in questo clima di contorta spiritualità, fortemente radicata nei paesi meridionali, che matura e accresce quello scollamento tra la fede e la vita di cui la mentalità mafiosa si ciba.

Alla base, c’è la ricorrente tentazione di ridurre il cristianesimo ad una forma di pseudo-sacralità che rimanda ad un senso del divino in cui da un lato la divinità è concepita in termini impersonali, dall'altro l'individualità del credente è chiamata ad inabissarsi fino a perdersi in essa[3].

La mafia ha bisogno di un’ideologia poiché ne è priva, un’ideologia forte capace di creare consenso, di muovere le masse, un ideologia di facciata che la renda un organizzazione degna del sostegno della gente.

Nell’ambito della dottrina si parla di apologetica mafiosa[4], con riferimento alla mafia siciliana, ma ben estensibile alle consorterie criminali delle altre regioni meridionali, che si basa su diversi elementi, tra cui la vera e propria genesi della mafia, consistente in  un’associazione nata a difesa dei più deboli (la contrapposizione debole/forte, minoranza/maggioranza appare decisiva); la mafia si presenta come strumento di ordine, capace di assicurare benessere; la sua difesa, dunque, appare del tutto giustificabile.

Ancora, nei momenti storici più delicati, al termine di guerre e di congiunture economiche particolarmente sfavorevoli, le condizioni di vita di una larga parte della popolazione erano molto difficili e disagiate: la miseria, la promiscuità, le malattie finivano per alimentare un forte degrado sociale e morale; contro questo degrado e contro la diffusa conflittualità che esso generava, la mafia è stata considerata un utile baluardo perché dove la giustizia mancava, o veniva amministrata in maniera inadeguata, l’intervento dell’autorità mafiosa era, invece, certo e implacabile[5].

La dimensione personalistica e l’antistatalismo, sapientemente alimentato e sovradimensionato nell’immagine pubblica del sodalizio mafioso, appaiono per quello che sono: un ulteriore terreno di convergenza tra l’azione della Chiesa e le tecniche di consenso adoperate dalle organizzazioni mafiose[6].

2. Riti e simbolismi

La mafia, sin dalla sua origine, ha sempre attinto a ciò che di più oscuro e ambiguo si nasconde nelle pieghe del cristianesimo affiorando nell'enfasi posta sul culto dei Santi e della Madonna, a scapito della centralità della figura del Cristo Salvatore; nella moltiplicazione e nella gelosa appropriazione, da parte di singole comunità territoriali, delle diverse forme devozionali, a scapito della cattolicità della Chiesa e della sua fede; nell’antropomorfismo per cui il Dio trascendente viene identificato con un potere arbitrario a scapito di un reale impegno salvifico da parte del credente.

Nelle regioni meridionali la visione del sacro impersonale e fatalista, ereditata della Magna Grecia, ha condizionato profondamente la religiosità popolare, con il proliferarsi di un monoteismo dichiarato che maschera un politeismo sostanziale, in cui le singole persone della Trinità o dei santi vengono considerate cifre equipollenti di una sorta di (heideggeriano) abisso senza fondo, anonimo, inconosciuto e inconoscibile[7].

Il corredo di elementi simbolici e ritualistici che caratterizzano le iniziazioni mafiose, siano esse Cosa nostra, la Camorra, la ’Ndrangheta, la Sacra Corona unita, oppure consorterie mafiose straniere come in Messico e in Russia,  manifesta dotazioni, logiche e sintassi pressoché identiche[8].

E benché i documenti informativi evidenzino procedure di affiliazione spesso dissimili tra loro per durata, riferimenti ideologici e livelli di formalismo, tali differenze non sono reputabili antitetiche a una lettura unitaria del fenomeno che ne rubrichi i significati sotto un medesimo schema di interpretazione antropologica.

Ciò in quanto, la forma strutturale che soggiace ai protocolli di affiliazione permane identica ovunque, così come identici sono i valori che li sottendono.

Seppur con una ritualità più sobria e misurata rispetto a un recente passato, in Sicilia, così come in Calabria o in Campania, la dimensione terrena resta la componente dominante di molte feste e processioni religiose; ad essa viene spesso ancora oggi affidata la legittimazione simbolica dell’ordine sociale della comunità.

Un ordine che non più tardi di vent’anni fa veniva rappresentato ancora dalla presenza, più o meno appariscente, dei capi carismatici delle organizzazioni mafiose al seguito dei labari, delle urne e delle statue dei santi, portate in processione dai devoti delle congregazioni.

Era proprio dalle manifestazioni pubbliche di culto che i notabili del paese, tra cui gli uomini d’onore, traevano forza e legittimazione per l’esercizio del loro ruolo di potere[9].

Analizzando l’aspetto del giuramento, emerge come la sacralizzazione dello spazio, oltre alla formula verbale pronunciata dal maestro di iniziazione, è garantita dall’evocazione di figure mitologiche o religiose che, a seconda dei contesti o dei gradi di iniziazione previsti dall’organizzazione mafiosa, possono essere, a mero titolo di esempio, l’arcangelo Michele così come la Madonna del soccorso[10].

Il cerimoniale dell’iniziazione mafiosa, alla luce del cospicuo materiale documentario che include monografie, saggi storici e sociologici, dispositivi di sentenze, ordinanze di custodia e resoconti giornalistici, consta principalmente di elementi costitutivi pressochè comuni, ossia una sorta di recita di formule verbali pronunciate da colui il quale procede alla iniziazione, il cosiddetto Maestro per intenderci, e dal postulante mediante il frequente ricorso a un linguaggio criptico, un giuramento solenne di adesione ai valori e alle norme di comportamento della società, la presenza del fuoco, simbolo di purificazione e di rinnovamento, dalla punciuta di un dito della mano destra da cui viene fatta sgorgare una goccia di sangue, versata su un’immaginetta votiva che viene poi bruciata nel palmo della mano del nuovo associato, a cui, inoltre, sarebbe fatto carico di pronunciare una breve formula promissoria[11].

Recentemente, grazie alle rivelazioni di collaboratori di giustizia, anche in un’organizzazione mafiosa che sembrava impenetrabile e granitica, tanto da non far registrare nessuna forma di pentimento negli associati, se non negli ultimissimi anni, quale quella foggiana, la cosiddetta Società, è venuta alla luce una formula di giuramento chiamata favella, una sorta di filastrocca che qualsivoglia aspirante malavitoso recita davanti al proprio padrino, che per l’occasione indossa un medaglione quale simbolo del più alto in grado, la cosiddetta settima carica di Santa Elisabetta, durante il rituale di affiliazione[12].

L’aspetto particolare di tale rito consiste nel passaggio di sigarette e nel festeggiare ad ogni scatto di carriera.

Sempre nell’ambito della mafia foggiana, altri pentiti indicavano riti di iniziazione già a partire dagli anni ’90, in particolare, aspetto maggiormente cruento e significativo della ferocia di detta consorteria, sui bambini di 6-7 anni che, all’insaputa delle madri, venivano sottoposti ad un vero e proprio battesimo criminale a mezzo di una formula da recitare con la quale giuravano fedeltà eterna all’organizzazione di riferimento, non prima di bere il sangue fatto sgorgare dall’avambraccio destro  il componente della commissione che lo introduce nell’organizzazione criminale[13].

L’importanza di questi richiami alla sacralità del rito, risultano essere molto ricorrenti negli studi di sociologia e antropologia[14].

L’utilizzo di scenari e di simbolismi iniziatici nelle cerimonie di affiliazione mafiosa, se da una parte mirano a ratificare, formalizzare, suggellare un passaggio che muta radicalmente lo status ontologico del neofita, dall’altra rispondono al bisogno di istituire vincoli interpersonali in grado di assicurare la piena solidarietà tra gli affiliati, che finiscono con il diventare un consesso di similes e di pares vincolati da un giuramento per nessuna ragione derogabile.

Tuttavia il ricorso a scenari e simbolismi iniziatici svolge anche un’altra importante funzione nell’ottica dell’ideologia mafiosa: ossia quella di creare una identità forte dove la distinzione tra sé e il gruppo è impossibile da concepirsi; dove l’interesse collettivo, della famiglia, deve prevalere su quello del sé; dove il senso del noi deve assumere il sopravvento su quello dell’io[15].

Ancora negli ultimissimi anni i riti e le devozioni religiose incrociano, in maniera persistente e diffusa, le storie degli uomini e delle donne dell’universo mafioso.

3. Le feste religiose come rappresentazioni rituali

Gli altari che si trovano frequentemente nei nascondigli dei mafiosi e la palese religiosità mostrata da i boss mafiosi in occasioni sia private che pubbliche sono solo alcuni dei numerosi esempi di rapporto tra mafia e religione.

Un esempio eclatante del rapporto ambiguo tra clero e mafie è rappresentato dal caso di un frate carmelitano, Mario Frittita, tratto in arresto con l’accusa di favoreggiamento del boss Pietro Aglieri.

Frittitta non ha mai negato d’aver frequentato per un certo periodo il covo di Aglieri, derivando da questo comportamento l’accusa di averne favorito la latitanza; il frate si è giustificato adducendo come ci fosse la necessità degli uomini di chiesa di interloquire con le persone e soprattutto con i boss di mafia, proprio per favorirne la purificazione.

Più che la vicenda giudiziaria e la motivazione del Frate molti studiosi hanno eccepito come il problema fosse rappresentato dall’aver trasmesso all’opinione pubblica un messaggio errato di vicinanza e comprensione verso il capomafia[16].

Queste istanze rappresentano diversi aspetti, ad esempio, di quella che possiamo definire essere la dimensione religiosa della mafia siciliana, ma non solo, sfaccettature che sono altrettanto correlate tra loro in quanto profondamente diverse, rendendo così complesso, se non impossibile, analizzare questo fenomeno quale un insieme omogeneo[17].

Basandosi principalmente sulle teorie socio-antropologiche dei rituali e delle rappresentazioni religiose, per guardare al ruolo notevole che la mafia suona nelle feste religiose locali è doveroso adottare un approccio interdisciplinare.

Alcuni studiosi hanno iniziato ad avvicinarsi all’argomento da un punto di vista socio-antropologico, nel tentativo di identificare gli elementi che hanno ha permesso a uomini e donne mafiosi di adottare contemporaneamente valori di fede e mafiosi la morale e le ragioni dell'acquiescenza, più marcata nel passato e meno nel presente, della Chiesa al fenomeno[18].

Per questo motivo, i dati esistenti sulla partecipazione della mafia alle feste religiose fornisce un insieme unico di preziose informazioni sulla sfera culturale di una società segreta che molto raramente ha offerto opportunità per una vista dall'interno.

Nello specifico, pratiche rituali come queste offrono un eccellente contesto in cui farlo esplorare fino a che punto il comportamento religioso performativo e il linguaggio utilizzati dai leader mafiosi le occasioni pubbliche influenzano la loro identità e autorità.

Questo approccio può aiutare a spiegare la capacità dei leader mafiosi di farlo acquisire l'obbedienza e la fedeltà degli affiliati ai livelli inferiori, nonché comprendere il ruolo che le pratiche rituali religiose svolgono in relazione alla capacità fondamentale della mafia di creare coesione sociale a livello strutturale e realizzare una sorta di legittimazione con la società esterna.

Portare la statua del santo festeggiato durante la processione locale, ad esempio, costituisce un privilegio che gli appartenenti alle cosche mafiose hanno da sempre.

La pratica di portare la statua per rendere omaggio davanti alla casa della mafia locale boss continua ad essere effettuata anche in tempi più recenti: a mero titolo di esempio, un verbale della polizia descrive, passo dopo passo, l'itinerario del fercolo (la pedana su cui viene portata in processione la statua del santo) nella processione religiosa del Santissimo Crocifisso a Campobello di Mazara nei pressi di Trapani nel settembre 2006[19].

In Calabria, invece, a mero titolo di esempio, i momenti di aggregazione intorno ai riti della tradizione sono stati e vengono ancora oggi utilizzati come strumenti funzionali al consolidamento dei legami sociali e dell’identità dei gruppi locali, al rispetto di gerarchie segrete e di rapporti di forza non dichiarati; per gli appartenenti al sodalizio mafioso, la processione è diventata spesso il momento e il luogo dove è possibile ostentare la potenza individuale e familiare[20].

E poiché la potenza si esprime anche attraverso la capacità di spesa e la disponibilità economica, capita che in alcuni paesi della Calabria, durante la processione di Pasqua, in cui vengono portate a spalla le statue del Cristo e della Vergine, il privilegio di slacciare il nodo del manto nero della Madonna al momento dell’incontro col Cristo Risorto venga affidato solo dietro corresponsione di esorbitanti somme di denaro.

Tale condotta, come statuito da recentissima giurisprudenza di legittimità[21], integra gli estremi del reato di turbamento di funzioni religiose del culto di una confessione religiosa di cui al 405 c.p., la cosiddetta turbatio sacrorum, essendo la processione, in particolare, una pratica tutelata dalla norma avendo la finalità di esaltare il sentimento religioso e di rendere omaggio alla divinità anche al di fuori delle mura della chiesa.

L’inchino dinanzi alle abitazioni dei boss rappresenta un vero e proprio turbamento alla funzione religiosa, quale la processione, in particolare sotto il profilo della strumentalizzazione della funzione stesa scopi nettamente contrari al sentimento religioso.

Questi casi evidenziano allo stesso tempo due fattori teoricamente contrastanti, ma alle volte, purtroppo coincidenti: la regolarità della partecipazione mafiosa alle processioni religiose, e l'importante ruolo della Chiesa nel garantire la continuità di queste pratiche rituali.

Partecipando a queste vicende, la mafia mostra il suo sostegno all'ordine sociale tradizionale e la sua incarnazione dei valori comunitari.

Si può tranquillamente teorizzare che l'organizzazione mafiosa ha creato un'utile rappresentazione di un Dio antropomorfizzato; un Dio senza trascendenza, che rimane costretto nello schema utilitaristico del gruppo mafioso.

Nel nome di questo Dio, l'illecito diventa lecito, l'oppressione diventa giustizia e l'intimidazione diventa rispetto.

Se tutto questo è vero, allora non dovrebbe sorprendere se processioni religiose e l'organizzazione di feste in onore dei santi patroni sembrano diventare l'occasione per il culto della personalità dei mafiosi, seguendo un meccanismo di rispecchiamento che proietta la devozione religiosa sulla persona dell'uomo di rispetto, del boss mafioso[22].

Alla luce di queste considerazioni, è importante esplorare le dinamiche attraverso le quali l'estensione del potere mafioso nella sfera pubblica del sacro influenza l'identità individuale e collettiva del gruppo.

Diverse teorie socio-antropologiche[23] forniscono utili modelli di analisi per interpretare la partecipazione mafiosa al rituale festival e analizzare gli effetti di questi rituali sul pubblico, la comunità devota e grande.

Considerando la religione come qualcosa di eminentemente sociale, Emile Durkheim sosteneva che, attraverso i suoi riti, la religione funge da fonte di solidarietà, identificazione e coesione e fornisce occasioni alle persone per riunirsi e riaffermare le loro norme sociali[24]. Ed è proprio durante i rituali che gli uomini che si sentono uniti in parte da legami di sangue ma ancor più da comunità di interessi e di tradizioni, si riuniscono e prendono coscienza della loro unità morale.

In particolare, durante le azioni rituali i cosiddetti simboli dominanti (es. la statua o l'effigie del patrono santo) mettono le norme e i valori etici del gruppo sociale in stretto contatto con i forti stimoli emotivi[25].

In questa prospettiva, le celebrazioni in onore dei santi patroni locali nelle zone dove forti sono le organizzazioni mafiose, possono essere interpretate come un'occasione per la comunità di mantenere e riaffermare la sua vita collettiva, la narrazione storica, le emozioni condivise e le idee dominanti a intervalli periodici.

Allo stesso modo, la statua del santo patrono portata in processione attraverso le strade del paese, rappresentano l'oggetto sacro per la comunità allargata, il suo totem[26].

Questo oggetto cerimoniale può essere intrinsecamente sacro, ma acquisisce il suo status principalmente attraverso attività rituali.

Poiché questo totem rappresenta la comunità, i suoi valori e le sue norme, il culto del sacro diventa realtà il culto del gruppo sociale stesso.

In altre parole, i simboli religiosi rappresentano il gruppo e l'adorazione di questi simboli da parte del gruppo ne riproduce l'esistenza.

Numerosi studiosi hanno riconosciuto ed esplorato il rapporto tra religione e solidarietà di gruppo sottolineando, in particolare, l'importanza dello studio dei riti religiosi in azione e come modalità di comunicazione[27].

I rituali sono episodi di comunicazione culturale ripetuta e semplificata dove i partner diretti di un'interazione sociale, e coloro che la osservano, condividono una reciproca credenza nella validità descrittiva e prescrittiva dei contenuti simbolici delle comunicazioni e ne accettano l'autenticità e le intenzioni[28].

4. L’evoluzione della figura di Dio nelle consorterie criminali: verso un Dio dei mafiosi?

Secondo uno studio di natura sociologica e psicoanalitica, concernente per lo più ambienti cattolici meridionali, è venuta fuori una spiegazione sui generis dei rapporti tra mafiosità e religione cattolica, con effetti dirompenti in materia di analisi del rapporto poc’anzi menzionato[29].

In particolare, la corrispondenza tra la mafia e il credo religioso, lascerebbe intendere che la mafia possa rappresentare essa stessa un credo, dotata di riti, regole e una propria dottrina teologica.

Dalla religione cattolica, seguendo questo spunto, l’organizzazione mafiosa tenderebbe ad essere una vera e propria organizzazione ecclesiale parallela, mutuando l’organizzazione intesa nel senso gerarchico del termine, come ad esempio il capomafia che corrisponderebbe al Papa, così come il capo mandamento al Vescovo e così via, e i riti, come il battesimo che corrisponderebbe all’entrata nel sodalizio mafioso[30].

Secondo un interessante filone dottrinario, far parte integrante di una consorteria mafiosa equivarrebbe ad entrare in una nuova concezione di vita, in una nuova comunità di credenti[31], facendo rientrare i membri nell’alveo dell’idolatria, e codificando una sorta di cristianesimo etnico.

Proprio questo cristianesimo etnico rappresenterebbe la condizione ideale per il proliferare di un’ideologia mafiosa che permette alle consorterie di estendere la propria sfera di influenza oltre la cerchia degli adepti e col rischio di ottenere riconoscimento e benevolenza da parte di taluni rappresentanti del clero[32].

La percezione del proprio Dio corrisponde a quanto più somiglia a loro stessi, nel senso di comprendere la necessità di uccidere per una mera forma di giustizia, di commettere un delitto mafioso imposto da superiori necessità, a differenza di un delitto comune, commesso invece per meschini interessi, e che non ha nulla a che fare con il primo.

Una forma di religione, quindi, fatta ad immagine e somiglianza atta a giustificare le proprie esigenze criminali, le proprie nefandezze, solo per liberarsi del senso di colpa legato agli omicidi.

E’ necessario qualificare gli obiettivi dei loro omicidi quali responsabili di aver attentato all’onore qualificandoli come il marcio della società, per trasformarli in colpevoli e lavare la propria coscienza.

Per la mafia, priva di qualsivoglia giustificazione etica e culturale, la religione viene considerata l’unico apparato ideologico a cui appigliarsi, a misura dei propri peccati[33].

Religione e mafia hanno punti in comuni con l’interpretazione della morte; ad esempio, l’una per razionalizzarla, l’altra per giustificarla nel momento in cui la provoca e la attua.

In tal modo la mafia riesce a rendere inoffensivo il comandamento più difficile per giustificare il proprio operato: non uccidere[34].

Viene da chiedersi come sia stato possibile strumentalizzare siffatto comandamento e piegarlo alle atroci amenità poste in essere dalle organizzazioni mafiose.

Una chiave di lettura viene fornita dal Santino, sul presupposto di una comparazione tra organizzazione autoritaria e centralistica della Chiesa e il modello mafioso, in particolare dalla visione di una certa immagine di onnipotenza di Dio, e non invece della sofferenza di Cristo, a cui si associa un certo immaginario del mafioso come colui che può tutto, a spese di tutti e con potere assoluto, anche di uccidere[35].     

Ritornando alla concezione dottrinaria secondo la quale verrebbe teorizzato un vero e proprio Dio dei mafiosi, questi non rappresenterebbe il Cristo debole e in croce che pone l’altra guancia, ma tenderebbe ad essere somigliante ad una figura divina vendicativa, a tratti feroce, che punisce severamente e giustifica la morte laddove viene leso il codice d’onore e determinate regole insite all’organizzazione mafiosa, a cui si arriva non solo direttamente, ma anche a mezzo dell’intercessione dei Santi, soprattutto dei santi patroni durante le festività religiose[36].

Tornando per un attimo alla citazione evangelica del porgere l’altra guancia, quest’ultima viene addirittura interpretata da parte esponenti storici di spicco della criminalità organizzata del nostro paese, in maniera del tutto personale e sui generis, laddove è comunque lecito uccidere poiché il Vangelo non dice espressamente di non farlo[37].

5. Aspetti comparatistici: riti e simbolismi in Russia e in Messico

Nel cuore dell’universo semiotico della criminalità d’epoca sovietica, una delle più diffuse locuzioni fisse del gergo della mala letteralmente si biforca e si realizza con due esiti, di frequenza d’uso praticamente equivalente, di valenza del tutto opposta e, in qualsiasi chiave di lettura religiosa, antitetica[38].

Da un lato il bandito ammette l’autorità assoluta di un essere supremo, le si sottomette, può in teoria farci affidamento per sperare in un aiuto in contese e conflitti locali in cui arroghi maggiori diritti, ma ha piena consapevolezza che agli effetti ultimi l’onniveggenza gli varrà la dannazione.

Dall’altro lato il bandito avoca a sodale e complice l’essere supremo, che viene arruolato di diritto nella privilegiata, superiore accolita criminale, è sentito come vicino, intimo, e a tempo debito non lesinerà certo la beatitudine eterna in virtù di questa consanguineità.

Quello che è in realtà sotteso è il modello comportamentale e culturale in cui indefettibilmente si inscrive il criminale della Russia sovietica: un ribelle, irregolare, indocile alle norme in uno Stato in cui era normativizzato anche il più piccolo gesto quotidiano, che sceglie come via d’uscita un tuffo cieco, a capofitto, in un destino incerto, fosco, contraddittorio, ma generoso per certo in quanto a emozioni e adrenalina[39].

La fede nel fato, e in particolare nel proprio individuale fato, è uno dei tratti distintivi della visione del mondo insita nella cultura russa.

Quella criminale è una legge fondata sul nulla che tutto vuole abbracciare, vuole essere applicata nelle condizioni più idiosincratiche e improbabili e in qualche modo ci riesce, grazie all’energia vitale interamente profusa di chi la esercita.

E per funzionare, per articolarsi, sedimentarsi, accoglie e allude, specchia e riassembla frammenti di legge, iconografia, morale, tradizione cristiana.

Sono nella stragrande maggioranza puri segni, e secondo un paradigma essenziale della cultura russa sono segni del tutto svuotati del loro significato originario e rivestiti di uno nuovo, casuale o opposto[40].

Un esempio concreto, vieppiù fortemente rappresentativo, di questa sistematica contaminazione è certamente il rito del tatuaggio, che riveste in quella cultura criminale un’importanza difficilmente sopravvalutabile; vi sono ad esempio disegnati angeli con le fiaccole rovesciate, che riconducono sempre alla natura transitoria dell’esistenza.

Le cupole di una chiesa ortodossa indicano ciascuna un numero cospicuo e precisamente definito di anni trascorsi in carcere, il bambino tra le braccia della madre-madonna sta a significare che ha cominciato a rubare da piccolo, e la Madonna rappresenta naturalmente il carcere come vera madre.

La croce, tra le molteplici funzioni, può anche rappresentare una sorta di reale professione di fede, come quella tradizionale ortodossa associata all’aquila bicipite zarista.

Nell’ambito della criminalità messicana invece, dalla più antica a quella più moderna, è proprio il carattere devozionale sincretico a dare grandi elementi di originalità a questo tipo di esperienze, basti pensare ad alcune complesse rielaborazioni popolari che miscelano elementi liturgici e politici, del passato e del presente con la violenza armata, come la Morisma de Brachos, a Zacatecas[41]: una festa che mescola la lotta tra bene e male, legalità e illegalità, con elementi biblici e del teatro evangelizzatore coloniale, sotto forma di una rielaborazione della crociata e dello scontro tra mori e cristiani.

Le interpretazioni simboliche sono infinite, soprattutto passate, ma ben attualizzate e applicabili anche nel presente, e rimandano generalmente alla natura stessa della conquista, a forme di sopravvivenza nascoste e alla genesi del meticciato, chiamando in causa il potere di togliere e ridare la vita attraverso l’uso della violenza, secondo un tempo ciclico che rimanda ai calendari agricoli preispanici ma incorpora gli elementi iconici dell’evangelizzazione coloniale.

Tutto ciò riverbera naturalmente anche nella particolare rappresentazione della morte messicana con le sue allegorie e il suo potere evocativo che, a un atto tragico, contrappone sempre come unico valore rifondativo il senso della comunità.

Questo si perpetua, pubblicamente e privatamente, nelle celebrazioni dei rituali funerari nei giorni dei morti, nelle antorchas guadalupane, nei pellegrinaggi a cimiteri e santuari, nell’esibizione vitale come irrisione del macabro[42].

Proprio quando la morte ha ripreso a farsi presente nella società messicana, sconvolta dalla guerra al narcotraffico degli oltre centocinquantamila morti e trentamila desaparecidos in dieci anni (2007-2016), ecco che un culto alla figura della Parca, lo scheletro con la falce in una mano e il globo terracqueo nell’altra, è emerso prepotentemente, dopo essere vissuto nella semi-clandestinità per lo meno dall’epoca del dominio coloniale spagnolo sulla Nuova Spagna (gli attuali Messico e America centrale)[43].

Nella cultura criminale messicana, sicuramente uno dei simboli maggiormente presenti è quello della Santa Muerte, che si nutre di elementi della cosiddetta narco-cultura, cioè la cultura legata ai cartelli messicani della droga, ma anche di pratiche e tradizioni della cultura popolare messicana, cattolica e sincretica, meticcia e, a suo modo, sovversiva rispetto all’imposizione di culti e santi ufficiali[44].

La devozione alla Muerte santificata rappresenta ormai un fenomeno endemico, ormai parte integrante del folclore messicano attuale.

L’immagine scheletrica con la falce, la bilancia, il saio francescano e la sfera terracquea della tradizione occidentale invade senza tregua gli androni delle case, i bar e i patii, i negozi esoterici e i supermercati discount, le case di ringhiera e i condomini, le serie TV, la pelle di chi se la fa tatuare, il viso di chi cerca le maschere dell’ibrido catrina-Santa Muerte e la cultura pop in genere[45].

Diversi anni or sono, nell’estate del 2001 per la precisione, la Santa Muerte è uscita dalla clandestinità ed è tornata per le strade, sui mezzi pubblici e nei cortili delle case popolari con poster, altarini sono millecinquecento a Città del Messico secondo alcune stime processioni e rosari.

Sia le guardie che i ladri, i poliziotti e i membri della criminalità organizzata, la pregano per farsi coraggio, mentre altre categorie a rischio come le prostitute, i tassisti e i commercianti le chiedono protezione, perché lei è stata creata da Dio, è democratica perché si porta via tutti, ricchi e poveri, ed è tutta la mia vita[46].

Anche la Santa Muerte è entrata nella mitologia del narcotraffico, anche se il santo più in voga tra i narcos è Jesús Malverde: un bandito come Robin Hood, vissuto cent’anni fa a Culiacán, la Corleone del Messico.

L’idea della Santa Muerte protettrice dei delinquenti sorge nel 1989, quando secondo fonti giornalistiche viene rinvenuta una statua della Santa nel nascondiglio della banda delinquenziale nota come Narco-Satánicos (Narco-Satanici), nello stato del Tamaulipas, e si rinforza 1998 quando viene catturato il mozza orecchie, un famoso rapitore che aveva in casa una statua della Gran Falciatrice collocata davanti alla Madonna di Guadalupe, la massima icona religiosa messicana.

6. Conclusioni

Per dispiegare efficacemente questa loro peculiare competenza, atta al crimine inteso nella sua accezione omnicomprensiva, i mafiosi hanno bisogno di possedere e di mantenere un radicamento, una legittimazione, un’appartenenza alla cultura del luogo in cui si muovono che gli viene anche, e a volte in prevalenza, dalla partecipazione ai riti, alle cerimonie e più in generale dall’appartenenza visibile e riconosciuta alla chiesa.

Non a caso non si conoscono esempi di mafiosi atei o anticlericali, fatto salvo l’esempio particolarissimo di Matteo Messina Denaro, personaggio misterioso e per certi versi irripetibile, presentando caratteristiche assolutamente peculiari anche sotto diversi altri profili[47], e la cui possibile chiave di lettura potrebbe essere quella che egli stesso rappresenta un ponte di passaggio fra la vecchia mafia stragista e la nuova mafia affaristica, e perciò meno incline a legami con riti e simboli che si richiamano alla tradizione cattolica.

Attraverso l’uso di un linguaggio che evoca continuamente l’elemento spirituale[48], tramite la partecipazione attiva e visibile alle feste religiose, mediante l’assunzione di ruoli di rilievo nelle medesime feste e in tutti i riti religiosi (specie nel battesimo, che ancora oggi costruisce in larga parte del territorio meridionale vincoli anche più intensi e duraturi di quelli parentali[49]), i mafiosi perpetuano la legittimazione all’esercizio di posizioni di dominio all’interno della comunità locale, garantendosi quel rispetto che rappresenta l’altra faccia della paura che essi incutono ai consociati. In sostanza, i momenti di aggregazione intorno ai riti religiosi consentono ai mafiosi di consolidare i legami sociali ma anche di ostentare la potenza individuale e familiare, rinnovando in ultima analisi quella che Renate Siebert chiama la signoria territoriale[50].

Il ritardo con cui la Chiesa ha fatto ingresso nel campo dell’antimafia non può essere spiegato solo con le debolezze degli uomini che la rappresentavano nel Sud Italia, con la sottovalutazione della mafia, con i condizionamenti culturali che marchiavano la vita di regioni povere e arretrate come quelle meridionali; vi è alla base di questo ritardo certamente qualcosa di più profondo, qualcosa che si annida nella concezione escatologica del bene e del male, nei rapporti tra questo e quell’altro mondo, nella legittimazione di quel male minore che serve a evitare un male maggiore[51].

In particolare, nell’analisi viene in rilievo il sacramento della confessione[52]; si tratta, come evidenziano recenti ricerche sociologiche, di un sacramento in crisi, e che più di altri risente di quella individualizzazione della religiosità che scuote ogni tipo di appartenenza confessionale[53].

Senza considerare adeguatamente queste voci dissonanti rispetto al magistero ufficiale e la conseguente ricchezza del dibattito ecclesiale, alcuni tra i critici più severi della Chiesa ritengono che la dottrina cattolica permetterebbe un accesso sin troppo agevole al conseguimento del perdono, dovendosi ritenere sufficiente a questi fini il pentimento del fedele espresso a una competente autorità religiosa[54].

Nessun obbligo di ravvedimento operoso dunque, nessun obbligo di espiare una condanna, ma semplicemente l’allontanamento fisico e morale dalla condotta errata e il dialogo interiore con Dio sarebbero le condizioni richieste per conseguire l’assoluzione religiosa.

Indubbiamente stiamo assistendo ad un progressivo incremento di uomini di Chiesa impegnati nella lotta contro la mafia, essa non è più un’entità sconosciuta, con il passare del tempo le tessere dal mosaico si sono composte e la vera essenza della mafia è stata svelata.

La Chiesa ha ora il compito di non abbassare la guardia poiché il fenomeno mafioso non è stato debellato, e l’impegno deve continuare in modo costante sia dentro che fuori dalla Chiesa, la gente deve sapere che esiste la possibilità di scegliere e arrendersi alla mafia non è l’unica soluzione.

Ma la Chiesa, pur avendo raggiunto una nuova e forte consapevolezza nei confronti della mafia, non è arrivata ad un cambiamento di rotta omogeneo, che coinvolga in toto i religiosi. Il rapporto tra queste due realtà assomiglia spesso ad un sistema di scatole cinesi senza fine, dove c’è sempre ancora qualcosa da scoprire.

Altre volte i loro rapporti sono simili ai binari della ferrovia, scorrono paralleli senza mai incontrarsi, ma per lo più sono simili ad un incrocio di strade dove gli interessi di una sono anche quelli dell’altra.

Negli ultimi anni, soprattutto con il pontificato di Jose Mario Bergoglio, sembra che le distanze tra la Chiesa e la mafia siano più marcate, come si evincerebbe nell’ambito dell’omelia della messa officiata nella spianata dell’area Ex Insud di Sibari il 21 giugno 2014, laddove espressamente il pontefice pronuncia la prima, vera, scomunica nei confronti degli aderenti alle consorterie mafiose[55].

Tale pronuncia rappresenta la censura più grave mai comminata dalla Chiesa cattolica nei confronti della mafia, ben più grave dell’appello alla conversione pronunciato da Giovanni Paolo II nella valle dei Templi di Agrigento nel lontano 1993, che rappresenta il primo vero affronto a muso duro e diretto della chiesa cattolica nei confronti della mafia, dopo decenni di prudenza e sottovalutazione del fenomeno mafioso[56].

La scomunica comminata da Papa Francesco contiene in sè la radicale opposizione tra il fenomeno mafioso rappresentato alla stregua di una espressione di una cultura di morte, e il Vangelo, rappresentativo, invece, della vita, e quindi palesa una sorta di inconciliabilità tra l’appartenenza alle consorterie mafiose e l’adesione alla fede cristiana[57].

A partire dalla scomunica testè menzionata, il Vaticano ha ufficializzato nel 2021 l’istituzione di una commissione ad hoc denominata Gruppo vaticano di lavoro sulla scomunica alle mafie, costituito da personalità di diversa estrazione ma con il comune denominatore del coinvolgimento nella lotta alla criminalità organizzata, con la finalità di elaborare proposte di riforma nell’ambito della pastorale, del catechismo e della legislazione canonica onde imprimere una decisa svolta dottrinale in grado di concretizzare lo stigma del fenomeno mafioso e produrre efficaci azioni di contrasto[58].


Note e riferimenti bibliografici

[1] Cfr. NARO C., Le difficoltà del discorso ecclesiale sulla mafia, in Chiesa nissena in cammino, inserto de «La voce di Campofranco», ottobre 1992, pag.73.

[2] Cfr. STANCANELLI B., La città marcia – racconto siciliano di potere e di mafia, Marsilio, Venezia, 2003.

[3] Cfr. SAVAGNONE G., La Chiesa di fronte alla mafia, pres. del Card. S. Pappalardo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1995, pag.138.

[4] Cfr. DINO A., La mafia devota. Chiesa, religione e Cosa Nostra, Palermo, 2008, op. cit. pag. 212.

[5] Cfr. DINO A., op. cit., pag. 213.

[6] Si segnalano, a proposito, le riflessioni di CHIAVACCI (2000), NARO (1994) e STABILE (1992, 1996) sulle radici storiche dell’antistatalismo della Chiesa e sulla diffusione nell’isola di forme di religiosità di tipo municipale, prive di solidarietà e di spirito comunitario.

[7] Cfr. SAVAGNONE G., La Chiesa di fronte alla mafia, pres.del Card. S. Pappalardo, Edizioni san paolo, Cinisello Balsamo, 1995, pag. 138.

[8] Cfr. CALIÒ T.-Ceci L., L’immaginario devoto tra mafie e antimafia, 2017, pag. 137.

[9] Cfr. DINO A., op. cit., pag. 13.

[10] Cfr. ELIADE M., La nascita mistica, Brescia 1974, pag. 14.

[11] Cfr. DINO A., La mafia devota. Chiesa, religione e Cosa Nostra, Palermo, 2008, pag. 45.

[12] Cfr. https://foggiatoday.it/cronaca/affiliazione-mafiosi-carcere-foggia-rivelazioni-patrizio-villani.html.

[13] Cfr. https://www.immediato.net/2022/06/26/mafia-foggiana-il-battesimo-criminale-dei-bambini-e-il-sangue-umano-bevuto-in-segno-di-omertà-i-riti-ereditati-da-camorra-e-ndrangheta/.

[14] Cfr. DINO A, op. cit., pag. 45.

[15] Cfr. CALIÒ T., CECI L., op. cit. pag. 141.

[16] Cfr. ESPOSITO A., Le Mafie e la Chiesa: analisi criminologica di un rapporto controverso, in www.iusinitinere.it, 2018.

[17] Cfr. MERLINO R., Sicilian Mafia, Patron Saints, and Religious Processions:The Consistent Face of an Ever Changing Criminal Organization, 2014, California Italian Studies.

[18] Cfr. DINO A., “For Christ’s Sake: Organized Crime and Religion,” in Organized Crime and the Challenge to Democracy, Londra, 2003, pagg. 161-74; sullo stesso argomento Principato T.- Dino A., Mafia donna: le vestali del sacro e dell'onore, Palermo, 1997.

[19] Cfr. MERLINO M., op cit., pag 119.

[20] Cfr. DINO A., op. cit. pag 19.

[21] Cfr. Cass. Pen., sez. III, n. 8762/2021.

[22] Cfr. DINO A, op. cit. pag. 35.

[23] Cfr. DURKHEIM E., The Elementary Forms of the Religious Life, trans. Carol Cosman, new ed. (Oxford: Oxford University Press, 2001 [1912]); sullo stesso argomento Turner V.W., The Forest of Symbols: Aspects of Ndembu Ritual, Ithaca: Cornell University Press, 1967.

[24] Cfr. DURKHEIM E., op. cit., pag. 11.

[25] Cfr. TURNER V.W., op. cit., pag. 30.

[26] Cfr. DURKHEIM E., op. cit., pag. 96.

[27] Cfr. RADCLIFFE-BROWN A., Structure and Function in Primitive Society, London: Cohen and West, 1952; sullo stesso argomento Douglas M., Purity and Danger: An Analysis of Concepts of Pollution and Taboo , London: Routledge & Kegan Paul, 1966.

[28] Cfr. ALEXANDER J., GIESEN B., MAST J.L., Social Performance: Symbolic Action, Cultural  Pragmatics, and Ritual Cambridge: Cambridge University Press, 2006, pag. 29.

[29] Cfr. SALES I., I preti e i mafiosi – Storia dei rapporti tra mafie e Chiesa cattolica, Rubettino, Soveria Mannelli, 2016, pag. 129 ss.

[30] Cfr. SALES I., op. cit., pag. 130.

[31] Cfr. CERUSO V., Religiosità mafiosa e cristianesimo etnico, Segno, n. 264/aprile 2005, pagg. 101-108.

[32] Cfr. SALES. I, op. cit. pag. 130.

[33] Cfr. DINO A., in M. Mareso, L. Pepino (a cura di) Nuovo dizionario di mafia e antimafia, Ega, Torino, 2008, pag. 467.

[34] Cfr. SALES I., op. cit., pag 132.

[35] Cfr. SANTINO U., in AA.VV., La Chiesa si lascia provocare, Palermo, 1995, pagg. 40-55.

[36] Cfr. BORZOMATI P., Chiesa e Società meridionale. Dalla Restaurazione al secondo dopoguerra, Studium, 1991, pag.106.

[37] Cfr. l'intervista di Enzo Biagi a Raffaele Cutolo nel 1986, By Maxi processo, Facebook.

[38] Cfr. CARAMITTI M., Il buon ladrone in salsa russa: gesti e riti che salvano l’anima, in L’immaginario devoto tra mafie e antimafia - Riti, culti e santi a cura di Tommaso Caliò e Lucia Ceci, 2017, pag. 311.

[39] Cfr. CARAMITTI M., op. cit. pag. 312.

[40] Cfr. CARAMITTI M., op. cit. pag. 317.

[41] Cfr. G. DE LA PEÑA, Morisma de Zacatecas, México 2001, J. Vértiz, A. Alfaro, Moros y Cristianos. Una batalla cósmica, México 2001.

[42] Cfr. C. LOMNITZ, La idea de la muerte en México, México 2005. Si vedano anche i percorsi fotografici di Lola Álvarez Bravo, Juan Rulfo o, più recentemente, Graciela Iturbide.

[43] Cfr. Cfr. CARAMITTI M., op. cit. pag. 346.

[44] Cfr. P.G. MICHALIK, The meaning of death: semiotic approach to analysis of syncretic processes in the cult of Santa Muerte, in «Semiotix», 15, 2009.

[45] Cfr. P. VALENZUELA ARÁMBURO, Santísima Muerte: Niña Blanca, Niña Bonita. El culto popular a la Santa Muerte, Messico 2013.

[46] Cfr. CARAMITTI M., op. cit. pag. 349.

[47] Cfr. MUNGO S. in Lettere a Svetonio, Nuovi equilibri, Viterbo, 2008.

[48] Cfr. CAVADI A., Il Dio dei mafiosi, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009.

[49] Cfr. BREGANTINI G.M., Annunciare, denunciare, rinunciare. Come declinarli ancora?, in AA. VV., È cosa nostra, Editoriale progetto 2000, Cosenza, 2007, pag. 104.

[50] Cfr. SIEBERT R., Donne di mafia. Affermazione di un soggetto pseudo-femminile, in http://www.stopndrangheta.it/file/stopndrangheta_1053.pdf, p. 11.

[51] Cfr. FIORITA N., Stato, Chiese e pluralismo confessionale Rivista telematica (www.statoechiese.it) n. 27/2012., pag. 7.

[52] Cfr. DINO A., op. cit. pag. 132.

[53] Cfr. GARELLI F., Religione all’italiana, il Mulino- Bologna, 2011, pag. 65.

[54] Cfr. SALES I., op. cit. pag. 147.

[55] Cfr. FATTORI G. in Il primo mandato di Sergio Mattarella - La prassi presidenziale tra continuità ed evoluzione, a cura di Paris D., in Ricerche giuridiche - Collettanee, Editoriale Scientifica, Napoli, 2022, pag. 366.

[56] Cfr. FATTORI G., op.cit., pag. 368.

[57] Cfr. FRANCESCO, Discorso del Santo Padre Francesco ai membri della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, Sala del Concistoro, 23 gennaio 2017.

[58] Cfr. FATTORI g., op. cit., pag. 370.