ISCRIVITI (leggi qui)
Pubbl. Mer, 1 Nov 2023
Sottoposto a PEER REVIEW

La giustizia riparativa in Italia: idee, formanti, ricezione legislativa

Modifica pagina

Francesco D´amato
Magistrato in TirocinioUniversità degli Studi di Salerno



Il presente lavoro si propone di analizzare, nei limiti di spazio consentiti, l’evoluzione della nozione di “restorative justice”, le sue origini continentali, gli sforzi di ricerca della dottrina per l’elaborazione di una definizione dogmatica del fenomeno.


ENG

La giustizia riparativa in Italia: idee, formanti, ricezione legislativa

Il presente lavoro si propone di analizzare, nei limiti di spazio consentiti, l’evoluzione della nozione di “restorative justice”, le sue origini continentali, gli sforzi di ricerca della dottrina per l’elaborazione di una definizione dogmatica del fenomeno.

Sommario: 1. Origini frastagliate del modello riparativo e suo nucleo comune; 2. Nozione di restorative justice; 3. Il legislatore adotta il paradigma dialogico; 5. Le conseguenze sulla teoria della pena.

1. Origini frastagliate del modello riparativo e suo nucleo comune

Rispondere al quesito «cosa sia, oggi, la giustizia riparativa» è, se si ha riguardo al contesto italiano, impresa abbastanza semplice. Infatti, il d. lgs. n. 150 del 2022, più comunemente conosciuto con l’appellativo di «Riforma Cartabia», ha introdotto nell’ordinamento penale una «disciplina organica della giustizia riparativa». Essa consta di 65 articoli, tutti topograficamente collocati al di fuori del codice penale e di procedura penale: si tratta di un complesso normativo ricco di definizioni che hanno l’ambizioso obiettivo di precisare e chiarire una serie di concetti afferenti la giustizia riparativa, al fine di rispettare i canoni di tassatività, sufficiente determinatezza e prevedibilità, che la Costituzione, all’art. 25, e la CEDU, all’art. 7, impongono nella matière pénale. Tali nozioni non erano, invero, state oggetto di assoluta condivisione né in dottrina né in giurisprudenza né nelle carte internazionali ed europee.

Per comprendere, allora, le scelte dogmatiche operate dal legislatore italiano nel perseguimento del suo sforzo chiarificatore, è necessario ripercorrere brevemente gli orientamenti che la dottrina, più di altri attori del mondo giuridico, ha elaborato in materia prima della riforma stessa.

Quando ci si approccia, in ambito accademico, alla restorative justice, per individuarne una definizione o semplicemente tratteggiarne un quadro d’insieme, si è costretti ad ammettere che la letteratura nazionale, europea ed internazionale è particolarmente ampia ([1]). Già prima della riforma, per quanto riguarda il contesto nazionale, si è autorevolmente scritto che «non c’è saggio, articolo, convegno o relazione di ambito penalistico in cui ormai non si parli di giustizia riparativa»([2]), forse perché, come è stato altresì osservato, «la giustizia riparativa è la novità politico-criminale più importante degli ultimi lustri, a livello internazionale, sul terreno della prassi e della teoria della pena». ([3]) Si tratta, pertanto, di un argomento, da alcuni definito come «corrente di pensiero»[4],  da altri come «un fenomeno»[5], indubbiamente di vasta portata sul piano non soltanto giuridico, ma anche sociale e culturale. Le matrici della giustizia riparativa vanno, infatti, rinvenute in vari ambiti delle scienze umane: dall’antropologia alla filosofia, dalla vittimologia alla più ampia criminologia, dalla teologia al femminismo, dalla letteratura alla psicoanalisi, sino a giungere al diritto propriamente inteso come «diritto positivo».

La giustizia riparativa, meglio conosciuta con l’anglicismo restorative justice, troverebbe la sua origine in un’innovativa pratica di risoluzione del conflitto penale, posta in essere nel Nord America, agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso ([6]). Si ritiene, infatti, che la prima esperienza in tal senso sia quella fatta a Kitchener, cittadina della provincia canadese dell’Ontario, nella quale un funzionario del Probation Office, con il sostegno del coordinatore del Volontariato per i servizi sociali appartenente al movimento religioso anabattista dei mennoniti ([7]), propose al giudice misure correttive alternative per due ragazzi che avevano danneggiato alcune abitazioni ed automobili sotto l’effetto di sostanze alcoliche. Gli imputati erano stati riconosciuti colpevoli nel maggio del 1974 a seguito di loro confessione. Gli operatori sociali proposero all’autorità giudicante di far incontrare i giovani con i proprietari degli immobili danneggiati; negli incontri i rei avrebbero pagato la somma di risarcimento stabilita in sede di processo e conseguita con il proprio lavoro, mentre le vittime avrebbero potuto chiedere ai giovani conto e ragione degli atti devianti compiuti. L’esperimento fu preso in considerazione nell’ambito della sentenza di condanna, che fu assistita da un risarcimento del danno nella somma quantificata consensualmente dalla maggior parte dei soggetti coinvolti([8]).

Sebbene non possa negarsi che il processo americano si sia, per primo, servito della mediazione penale, studi più approfonditi hanno portato gli esperti a ripercorrere a ritroso l’evoluzione del diritto nei vari ambiti culturali ed antropologici ([9]) per verificare se le idee di fondo della giustizia riparativa fossero da ricercarsi in altri luoghi ed, in particolare, nella tradizione delle più antiche civiltà occidentali.

E’ così emersa una delle matrici della giustizia riparativa, cioè l’antropologia. Dando un fugace sguardo al mondo antico, si è evidenziato che poiché la distinzione tra diritto pubblico e privato non era netta ([10]), spesso la punizione risentiva della finalità riparativa. Infatti, tra le pratiche più diffuse nell’antichità atte a consentire al responsabile di sottrarsi alla vendetta privata o alla pena statale, vi è spesso il pagamento di un prezzo per il delitto commesso, che è forma di riparazione ritenuta accettabile dalle parti in causa ([11])

Restringendo l’analisi al diritto greco[12], tale riparazione, ad esempio, è, in modo implicito, presentata come operante in un passo delle Coefore eschilee ([13]). Poteva essere previsto, altresì, lo svolgimento di lavori come atto di compensazione di crimini anche efferati, ancorché commessi in stato di alterazione mentale: le dodici fatiche di Eracle, ad esempio, come racconta il mitografo Apollodoro nella sua Biblioteca, furono all’eroe ordinate dalla Pizia per espiare lo sterminio della propria prole perpetrato nello stato di follia ingeneratogli da Era, folle di gelosia ([14]). Sul piano più strettamente processuale, poi, interessante è l’analisi di un istituto ateniese denominato prodikasiai ([15]), espressione tradotta con il sintagma sedute preliminari: esse si inserivano in una fase precedente al processo per omicidio, cioè quella che si svolgeva prima di arrivare all’udienza davanti agli Efeti e consistevano in tre incontri che avevano luogo davanti all’Arconte re, al quale le parti si dovevano presentare per intraprendere il processo per omicidio. Sulla funzione di queste tre inchieste si è interrogata la dottrina e, nonostante l’incertezza di alcuni ([16]), altri chiaramente asseriscono che si trattasse di un istituto mirante a «favorire ed incoraggiare» una «volontaria composizione», in quanto proprio per l’omicidio «rimaneva nella disponibilità dei privati la sua persecuzione, accordare il perdono al reo o accontentarsi del risarcimento da questi proposto» ([17]). Si trattava, in altri termini, di una mediazione ante litteram.

Cercando di riassumere, si può affermare che la giustizia antica è principalmente collegata alla creazione o al ripristino dell’equilibrio sociale, piuttosto che (solo) finalizzata all’applicazione della legge. L’armonia non si ottiene quando la legge abbia determinato un vincitore o un perdente, ma quando tutte le parti sono riconciliate l’una con l’altra. Per questo è necessario riconoscere che una lite tra contendenti può influenzare in un senso o in un altro la comunità.

Venendo, invece, ad epoche più recenti, la ricerca antropologica di società moderne ha contribuito alla riscoperta delle modalità di gestione dei conflitti delle comunità semplici([18]) . Tra le tante, pare opportuno ricordare la forma di mediazione (moot) in uso nella comunità di Kpelle o la mediazione coreana o il metodo Barotse, tutte pratiche accomunate da «informalità, quasi legalità e supplementarietà rispetto al diritto penale». Nel panorama europeo, è di nuovo la Grecia ad offrirci un esempio di risoluzione del conflitto con tali caratteristiche: la psychedelphosyne o «fratellanza dell’anima» era una consuetudine maniota che è stata efficacemente descritta da Felmor ([19]). In definitiva, le ricerche antropologico-giuridiche incentrate sull’amministrazione della giustizia «del quotidiano» propria delle cd. società semplici offrono le coordinate essenziali di un modello di soluzione dei conflitti dalle seguenti caratteristiche ([20]).

Un’altra matrice della giustizia riparativa è stata rinvenuta dalla dottrina nella teologia([21]) e, più specificamente, nel Cristianesimo([22]), tutte di origine occidentale. Secondo Mannozzi e Lodigiani, infatti, è nella tradizione veterotestamentaria della rîb che la mediazione trova uno dei suoi formanti più antichi ([23]). Nella Bibbia, poi, la giustizia riparativa sembra avere particolare rilievo e più sistematica applicazione. Infatti, pima che il perdono di Dio potesse essere assicurato attraverso l’offerta sacrificale, la riconciliazione doveva essere raggiunta con la parte lesa mediante la restituzione. Tale logica è presente anche nell’ammaestramento evangelico, che così assurge a matrice cristiana della restorative justice ([24]).

Come ha acutamente osservato Federico Reggio, le istanze di natura cristiana aprono la strada alla ricerca di un sistema penale nel quale, al posto dell’afflizione, siano contemplati anche la «riparazione, la riconciliazione ed il perdono: elementi sinora erroneamente trascurati, nell’egemonia di un modello di giustizia dominato dall’alternativa fra retribuzione e trattamento penitenziario». Ciò che affiora è «l’invito a pensare a modelli di giustizia più attenti alla persona come singolo e come soggetto in relazione»([25]).

L’intera giustizia riparativa e l’idea relazionale che è alla base della stessa, poi, presuppongono l’esistenza di un binomio tra vittima e reo. Infatti, è proprio da un rinnovato ruolo della vittima nel reato che si è dipanata, nel contesto europeo ed internazionale, un’ embrionale positivizzazione del paradigma riparativo nelle Carte internazionali, nelle Risoluzioni, nelle Raccomandazioni, nelle Direttive e nella giurisprudenza sovranazionali[26]. Se, infatti, è innegabile che il reato involga il mondo pubblicistico dello Stato e della comunità, turbando la pace sociale e rompendo il contratto sociale di hobbesiana memoria, spesso, nella più intima manifestazione del crimine, emerge la flebile voce di chi ha subito il reato, una voce che veniva ascoltata nel mondo antico, ma che sembra sia stata nei nostri tempi troppo spesso ignorata. Ebbene, la vittimologia ha l’ambizioso compito di ascoltare questa voce per trasformarla in un’istanza di protezione ed espressione della vittima, mentre la giustizia riparativa, nell’obiettivo di recuperare la relazione tra le persone coinvolte nel fatto criminoso, si prodiga a trovare gli strumenti (non soltanto penalistici) per far emergere quella voce. Non a caso, «la riparazione alle vittime è il cuore pulsante della restorative justice» ([27]).

Secondo alcuni studiosi, un contributo alla elaborazione della giustizia riparativa sarebbe altresì pervenuto dall’etica femminista della cura ([28]) .Poiché la Restorative justice propone una giustizia che attenui la componente autoritativa e punitiva a favore di una più partecipativa ed inclusiva, decisiva sarebbe stata, in tal senso, la prospettiva relazionale femminile che, contrapponendosi all’etica del dominio di stampo maschile, pone al suo centro la ricerca di relazioni armoniche tra i singoli componenti della società.

L’idea, invece, che nella riparazione sia compreso anche il recupero della relazione tra il reo e la vittima, nonché il suo reinserimento nella comunità, che viene, quindi, ad avere un ruolo attivo e responsabilizzato nelle pratiche riparative, sarebbe stata influenzata dalla Peacemaking Criminology di Quinney e Pepinsky([29]).

Inoltre, nell’ambito del movimento law as literature and literature as law([30]), per il contesto italiano, va segnalato l’importantissimo contributo che la letteratura europea ha dato nell’enucleazione dei fondamenti che sono alla base della giustizia riparativa([31]). Colpisce, in particolare, la relazione che sussisterebbe tra il mondo dantesco e la restorative justice. La Divina Commedia cela una convivenza del modello retributivo con quello riparativo: il primo sarebbe proprio dell’Inferno([32]), il secondo del Purgatorio. La condanna ‘retributiva’ infernale è eterna e disumana, è vissuta al buio, senza alcun sostegno. Diversa è la ‘pena’ del Purgatorio che è «espiazione»: si tratta di una ‘condanna a tempo’, che avviene in una relazione di ‘comunione’ tra le anime purganti. «Con questi/ altri rimendo qui la vita ria»([33]): le parole dell’invidiosa Sapia sanno ben descrivere lo spirito della giustizia riparativa. Se la parola ‘rimendo’ viene letta nel senso che le sembra più proprio di ‘rammendo’ o ‘ricucio’, ecco che allora la funzione della pena «divina» non si atteggia a quella di «cancellare la colpa come se non fosse stata commessa», ma diviene quella più nobile di «ricucire uno strappo», «risanare una ferita»([34]).

Ultime matrici della restorative justive sono da considerarsi  la cd. prospettiva abolizionista e la crisi del diritto. Probabilmente, la filosofia abolizionista rappresenta, addirittura, la causa scatenante dell’emersione della prospettiva riparativa. La vittimologia, il femminismo ed il comunitarismo, invero, sono più propriamente “istanze” la cui origine va ricercata nella «crisi di credibilità del sistema sanzionatorio classico» sia sotto il profilo della effettività della pena sia sotto il profilo dell’adeguatezza della pena rispetto agli scopi che la legittimano ([35]).  

L’abolizionismo è una dottrina che tende a caratterizzare come “creazione artificiale” tutto ciò che è “penalmente protetto, ove quanto penalmente protetto appartiene solo al diritto, perché dallo stesso artificialmente creato”. ([36]) Su questa base, gli abolizionisti auspicano «la fine dell’epoca caratterizzata dalla pena detentiva».([37]) Tra le varie tesi, due([38]), in particolare, avrebbero profondamente inciso sull’ elaborazione della restorative justice: quella di Niels Christie e quella di Hermen Bianchi, membro della cd. ‘Scuola di Utrecht’; quest’ultimo avrebbe influenzato Howard Zehr, da molti ritenuto il padre della giustizia riparativa[39].

Pur se tenuta largamente in considerazione da i sostenitori della giustizia riparativa, la matrice abolizionista non si spinge mai, nelle elaborazioni della restorative justice a dubitare del diritto penale moderno. E’ bene precisare, però, che mentre l’abolizionismo, in un certo senso, si nutre della crisi del diritto, la giustizia riparativa prova a farvi fronte, tentando di porre al centro la persona reo o la persona vittima e di adeguare ad essa le sue multiformi esigenze. In definitiva, la via tracciata dall’abolizionismo penale muove dal reale all’ ideale, auspicando, in chiave più utopica che di fattibilità concreta, l’abbandono di un modello di giustizia, che, come nell’etica sofistica, è pura apparenza([40]).

Oltre alle matrici, spinge, in modo deciso, verso un’origine occidentale dell’idea di una pena come riparazione, la storia del lessema restorative justice. Invero, se da una superficiale analisi ben si può desumere che la coppia restorative justice trovi la sua origine nella common law e, più specificamente, nel panorama americano, il concetto che v’è dietro il lessema avrebbe già trovato spazio, oltre che sul piano antropologico, anche nella letteratura scientifica, qualche decennio prima in Europa ([41]).

Un «abbozzo di giustizia riparativa» sarebbe addirittura stato tratteggiato, agli inizio del ‘900, da un italiano, Gregoraci([42]), nell’opera Della riparazione del danno nella funzione punitiva. Egli, nel 1903, utilizzò i termini «riconciliazione» e «reintegrazione», per indicare la riparazione alla quale veniva riconosciuta la capacità di evitare o contenere lo «stigma» criminale e di promuovere la dignità del cittadino in vista della sua «riaccoglienza» nella comunità.([43])

Un ventennio dopo di lui, nel 1922, Giorgio Del Vecchio, nella sua prolusione per l’inaugurazione dell’anno accademico nella Regia Università di Roma, delineò le linee basilari del «paradigma» riparativo. Tali idee confluirono in un saggio, denominato «La Giustizia»([44]) che fu via via arricchito e tradotto in varie lingue, tra cui anche l’inglese, così spiegandosi, poi, perché le sue idee fossero confluite nel saggio di Schrey e Walz «The Biblical Doctrine of Justice and Law»([45]).

In particolare il filosofo italiano utilizzò per primo l’endiadi «giustizia riparatrice» in alternativa a quella di giustizia penale e tratteggiò anche i fondamenti di quella che verrà denominata, come false friend ([46]), restorative justice. Egli è stato tra i primi a vedere nella riparazione uno spiraglio per il superamento della ‘disonorevole’ crudeltà della sanzione penale, auspicandone l’utilizzo solo in casi di stretta necessità. Addirittura Del Vecchio mostra di rifiutare l’idea di una riparazione declinabile sempre e soltanto in forma pecuniaria, aprendo all’introduzione di ipotesi di riparazione simbolica ([47]).

Nell’ambito della filosofia della pena, d’altra parte, l’ipotesi riparatoria aveva ancor prima suscitato l’interesse del giovane Hegel, il quale, pur non mettendo in discussione la necessità della risposta punitiva, ne rivelava la sua inutilità[48]. Più recenti, invece, sono le prospettazioni filosofico-giuridiche di Francesco Cavalla che, nel suo saggio Pena come riparazione già si chiedeva come far fronte al rifiuto del reo a ricomporre la ferita con la vittima in un ipotetico ordinamento orientato alla ricomposizione di «una traumatica interruzione di rapporti sociali» ([49]).

2. Nozione di restorative justice

Gli elementi finora presi in considerazione già descrivono i connotati dello spirito della restorative justice. Di questo spirito è opportuno dare conto delle varie sintetiche definizioni, almeno sul piano dottrinario, sì da comprendere con quale di esse il legislatore si è posto in continuità.

Alcuni per non correre il rischio di semplificare un concetto molto ampio e profondo, hanno preferito tratteggiare la giustizia riparativa in negativo.([50])

La prof.ssa Mazzucato, ad esempio, ammettendo amaramente che «ormai in Italia, “giustizia riparativa” è l’etichetta con cui si nominano i lavori di pubblica utilità, il lavoro penitenziario gratuito all’esterno, qualsiasi prescrizione di “volontariato sociale” impartita da un giudice penale e finanche la messa alla prova»[51], chiarisce che giustizia riparativa non è lavoro socialmente utile. Howard Zehr aggiunge che giustizia riparativa non è neppure ‘principalmente perdono e riconciliazione’, non è (solo) mediazione, non è pensata esclusivamente e primariamente per ridurre il recidivismo, non è una pratica in particolare o un progetto, non è la giustizia delle offese bagatellari o degli incensurati, non è una panacea o un rimpiazzo dello status quo, non è un’alternativa all’impostazione retributiva([52]). La giustizia riparativa non è una mappa ma i suoi principi possono essere considerati come una bussola che punta in una direzione([53]).

Gli obiettivi della giustizia riparativa sono quelli di proporre il conflitto secondo un’impostazione relazionale, ma non solo: ponendo al centro la persona, la giustizia riparativa si occupa anche di restaurare il vissuto della vittima per la quale la comunità deve prevedere gli strumenti necessari per permetterle di superare il ‘trauma’ subito con se stessa e con gli altri. Ed infatti, a tal proposito, si riconoscono definizioni incentrate sulla vittima.

Ad esempio, secondo Van Ness e Heetderks Strong, la restorative justice promotes healing([54]) , cerca, cioè, di «curare» il male arrecato dal reo alla vittima e/o alla comunità([55]).

Tuttavia, il ripristino della relazione richiede un impegno attivo della comunità che, per evitare che venga nuovamente turbata la pace sociale, prova a ‘rieducare’ il reo. Ecco, dunque, che si spiegano le definizioni di restorative justice incentrate sulla comunità. La comunità può essere, alternativamente o cumulativamente, considerata vittima o danneggiato, mero destinatario degli interventi riparativi e/o attore sociale. Da questo punto di vista, fondamentale appare la prospettiva di Mc Cold, secondo cui la giustizia riparativa è una pratica che coinvolge il ricorso al controllo locale. La risposta che può dare la comunità si indirizza a tutte le vittime sia primarie che secondarie e alle singole comunità di appartenenza della vittima e del reo([56]). Sulla stessa scia, ma con una maggiore valorizzazione del momento ‘solidaristico’, si pongono Burnside e Baker i quali parlano, non a torto, di «relational justice».([57])

Nella giustizia riparativa, come si è evinto già dalla storia del termine e dalle riflessioni di Gregoraci e Del Vecchio, rilevano anche i contenuti e le modalità della riparazione che non è banalmente ‘risarcimento’ del danno, ma è anche restituzione, mediazione, circle, dialogo, azioni simboliche: è un percorso interiore ed esteriore tra vittima e reo.

Seguendo, poi, una partizione relativa al momento concretamente ristorativo, il problema della nozione di restorative justice sembra scindersi in tre concezioni fondamentali: l’encounter conception, la reparative conception e la transformative conception[58]. La dottrina prevalente si domanda, in altre parole, se la riparazione debba essere un momento non solo essenziale, ma addirittura prodromico alla ‘ristorazione’ globalmente intesa.

Secondo alcuni, infatti, - questa è l’encounter conception -, la restorative justice consiste nel porre in essere ‘pratiche democratiche’ quali la mediazione, anche in assenza di un accordo riparatorio.

Di diverso avviso, sono i sostenitori della reparative conception, secondo cui la risposta riparatoria alla lesione è momento essenziale in quanto prodromico al dialogo: anche in assenza di quest’ultimo il fine riparativo sarebbe raggiunto. Con un tono più ambizioso, infine, la transformative conception si spinge fino ad individuare il fine della giustizia riparativa in quello di «transform the way in which we understand ourselves and relate to others in our every day lives».[59]

Sul solco di tali posizioni e distinzioni, c’è anche chi sostiene che la restorative justice debba abbandonare la pretesa di universalità del diritto penale, per divenire giustizia del caso concreto([60]) proprio perché tale giustizia la s’incontra quando la sanzione, definita per accordo, risulta quella che il trasgressore e la vittima vogliono ([61]).

Non mancano, poi, definizioni olistiche tendenti alla ricerca di una sintesi delle molteplici chiavi di lettura della restorative justice.([62])

In tal senso, degna di nota è certamente quella di Zehr, il quale efficacemente sostiene che «restorative justice is a process to involve, to the extent possible, those who have a stake in a specific offense to collectively identify and address harms, needs and obligations in order to heal and put things as right as possible» ([63]).

Tra le definizioni olistiche pare si possa collocare anche quella di un autore italiano. Infatti, un’autorevolissima posizione dottrinale, rifiutando ogni forma di classificazione, ha ammesso che la riparazione possa essere prestazionale e/o relazionale[64], nel senso che entrambe le componenti possono essere presenti insieme o separatamente, ma nessuna delle due è prevalente sull’altra.

A chi scrive, però, pare maggiormente condivisibile la tesi di chi ([65]) ritiene che, per quanto sia giusto valorizzare il momento riparativo, - che costituisce l’aspetto più importante per la persona offesa -, tale riparazione, magari esclusivamente monetaria, non sarebbe sufficiente se non coniugata o preceduta da un percorso che accompagni il ‘reo’ a riconoscere le sue responsabilità ed a prendere coscienza del misfatto compiuto e dei danni arrecati. Solo così, invero, la giustizia riparativa non tradirebbe il suo aspetto antropocentrico e relazionale.

Un elemento irrinunciabile di tutte le posizioni finora analizzate sarebbe, infatti, rappresentato dal dialogo. Se si dà un veloce sguardo al campo semantico, ci si accorge che non a caso si usano spesso i termini «incontro», «relazione», «riconciliazione». Senza il dialogo non si potrebbero raggiungere tali obiettivi.

La giustizia riparativa è, quindi, sulle orme di una giustizia dialogica, quella che «interviene perché la dimensione del dialogo intersoggettivo è stata violata»([66]) e si pone, pertanto, «l’obiettivo di elaborare i conflitti nascenti dal crimine secondo una prospettiva dialogica volta ad aprire canali di comunicazione tra autore e vittima del reato» ([67]).

Dunque, ‘se il cuore pulsante della giustizia riparativa è la vittima’, l’anima che fa battere quel cuore è costituita dal desiderio di un rinnovato antropocentrismo.([68]) Da questo punto di vista, forse inconsciamente, un’altra matrice della giustizia riparativa può ritrovarsi nell’esistenzialismo, che, nella persona di Kierkegaard, ferocemente «rompe»([69]) con l’ottica organicistica hegeliana. Se la concezione retributiva risente dell’elaborazione Kantiana ed Hegeliana([70]), nonché dei loro seguaci ed allievi, tutti convinti, in un modo o nell’altro, della assoluta centralità dello Stato nella protezione della comunità e nella persecuzione del crimine, allora è lecito pensare che la giustizia riparativa voglia dare risposta, più che all’inefficienza del diritto penale, primariamente all’esigenza di recupero dell’ «uomo», che non sarà più costretto a ritirarsi nel «fienile» o, peggio, a sparire del tutto tra i gangli del processo e delle sbarre ([71]). Anche per questo motivo, la giustizia riparativa riposa le sue radici su una matrice abolizionista soft:  i sostenitori della restorative justice non aderiscono alla proposta di voler distruggere il diritto penale, piuttosto hanno l’aspirazione di renderlo più confacente all’uomo.

In tale solco di idee, anche per la storia del lessema restorative justice, appare suggestiva e condivisibile la proposta di Marinetta Cannito, per la quale la traduzione italiana che meglio renderebbe il concetto di ‘restorative justice’ sarebbe Giustizia Rigenerativa. Il concetto di rigenerazione evidenzia, infatti, quanto la ‘ferita’ causata dal reato richieda, per comporsi, una complessa attività che vada oltre la mera corresponsione di un risarcimento monetario del danno([72]). Non a caso, la legge 15 Agosto n.895 (Loi Taubira) del 2014, ha inserito , tra le disposizioni del codice di procedura penale francese, un nuovo titolo denominato De la Justice “restautive”, il cui unico articolo garantisce in ogni stato e grado del procedimento l’offerta di una misura di giustizia riparativa alla vittima ed all’autore del reato che abbia riconosciuto il fatto.

3. Il legislatore adotta il paradigma dialogico

Il legislatore italiano, con il d. lgs. n. 150 del 2022, sembra aver optato per un concetto di giustizia riparativa in cui il dialogo è elemento indefettibile.

L’intervento legislativo si pone a valle dell’obbligo europeo di recepire la cd. direttiva vittime n. 2012/29/UE, per la cui mancata attuazione l’Italia ha rischiato una procedura di infrazione[73]. Tale direttiva, a sua volta, raccoglie anni di elaborazione della dottrina e del diritto internazionali in materia di giustizia riparativa. In particolare, basti qui citare i Basic principles on the use of restorative justice programmes in criminal matters ([74]), poi confluito nell’ Handbook on Restorative justice programmes[75], entrambi elaborati dall’ONU.

Come le altre carte internazionali, anche la direttiva 2012/29 assume una prospettiva vittimologica:  la sua vera innovazione consiste nell’obbligo degli Stati membri di assicurare alla vittima i «servizi di giustizia riparativa»([76]). Esclusivamente in questa angolatura, oltre ad ampliare la portata del termine «vittima»([77]), la direttiva definisce la giustizia riparativa in base alle sue prassi, in modo pressoché identico alla Raccomandazione n°R (99)19 «sulla mediazione in materia penale»([78]).

La relazione illustrativa ministeriale[79] dichiara che il legislatore ha affinato e preso spunto dalla Direttiva 2012/29/UE del 2012, dalla Raccomandazione del Consiglio d’Europa CM/Rec (2018)8 adottata dal Comitato dei Ministri il 3 ottobre 2018, dai Principi base sull’uso dei programmi di giustizia riparativa in ambito penale, elaborati dalle Nazioni Unite nel 2002 e dall’ Handbook.

La definizione di “giustizia riparativa” adottata dal legislatore[80], al pari di quella proposta dall’art. 2 della Direttiva citata[81], sembra molto simile a quella contenuta nei Basic Principles dell’ONU[82], perché sono tutte incentrate sulle prassi: essa è infatti descritta alla luce delle pratiche che la connotano e non nella sua dimensione ontologica[83].

Nonostante le somiglianze, però, balza subito all’occhio che il legislatore italiano ha prestato maggiore attenzione al principio di presunzione di innocenza ed ha qualificato l’ “offender” come parte “presunta” offesa[84]. In tal modo, si è subito voluto fugare il dubbio di legittimità che la dottrina aveva sollevato[85] rispetto al principio di presunzione di innocenza ex art. 27 comma 2 Cost.

Invero, con l’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa, sembra che il legislatore abbia inteso perseguire un obiettivo ben più ambizioso del semplice recepimento della direttiva. La prospettiva interna non è, infatti, vittimologica, ma fortemente organica e teleologica, capace, cioè, di influire sulla funzione della pena.

Centrale è, allora, l’impronta sistematica che la disciplina speciale mostra di avere. La nozione di giustizia riparativa deve essere letta congiuntamente a quella di “esito riparativo” contenuta nella lettera e) dell’art. 42[86], che, a sua volta, è collegata agli artt. 54, 56 e 57 del “decreto Cartabia”.

In particolare, l’art. 56 stabilisce che l’esito riparativo può essere “simbolico” o “materiale”, mentre l’art. 54 chiarisce che i programmi di giustizia riparativa comprendono la mediazione, il “dialogo riparativo” ed ogni altro programma “dialogico” guidato da mediatori, svolto nell’interesse della vittima del reato e della persona indicata come autore dell’offesa.

 Parallelamente, l’art. 56 specifica che l’esito simbolico «può comprendere dichiarazioni o scuse formali, impegni comportamentali anche pubblici o rivolti alla comunità, accordi relativi alla frequentazione di persone o luoghi», mentre «l’esito materiale può comprendere il risarcimento del danno, le restituzioni, l’adoperarsi per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato o evitare che lo stesso sia portato a conseguenze ulteriori».

Un primo elemento degno di considerazione attiene agli outcomes riparativi che, secondo la relazione ministeriale, sarebbero non tassativi[87], nonostante l’art. 56, comma 1 sia costruito sulla congiunzione disgiuntiva «o». Il carattere aperto dell’esito riparatorio è, infatti, desumibile sia dal tenore dell’art. 56 che propone un elenco senza avverbi “escludenti”[88], sia dal riferimento all’idoneità dell’accordo che scaturisce dall’incontro a significare l’avvenuto riconoscimento reciproco e la possibilità di ricostruire la relazione tra i partecipanti, sia, infine, dal fatto che la tecnica di tipizzazione è basata su esemplificazioni concrete che non avrebbero mai potuto esaurire tutti gli esiti possibili.

Di conseguenza, è possibile immaginare che un esito riparativo possa essere “simbolico” e “materiale” al tempo stesso, come peraltro la stessa relazione ministeriale sostiene in un obiter[89]. Se, dunque, la “riparazione dell’offesa” era nozione già nota alla dottrina penalistica, nuova e più ricca è, quindi, la specifica incurvatura data dal programma di restorative justice alle condotte di riparazione[90].

Un secondo dato è di stampo più generale ed attiene invece alla funzione delle norme: l’utilizzo, all’art. 54, della parola “dialogo” e, subito appresso, dell’aggettivo “dialogico” non sarebbe casuale, ma anzi costituirebbe manifestazione della mens legis di optare per un’impostazione dialogica della giustizia riparativa. Se si considera, infatti, che anche nella mediazione non può prescindersi dal dialogo, non sarà praticabile alcun programma di giustizia in cui il dialogo è assente.

Quel che il legislatore sembra volere evidenziare, dunque, è la tipica vocazione “relazionale” della giustizia riparativa: non a caso, anche la definizione di “giustizia riparativa” di cui all’art. 42 ruota attorno ai lemmi “accordo”, “riparazione dell’offesa”, “riconoscimento reciproco” e “relazione”. Più specificamente, da una lettura sistematica degli artt. 42, 54, 56 e 57 del “decreto Cartabia” sembra evincersi che il legislatore abbia optato per l’encounter conception.

Lo sforzo prestazionale non è infatti sufficiente a raggiungere l’esito riparativo perché se non è preceduto dall’incontro con la vittima, esso è avulso dal programma riparativo e potrà, al più, rilevare ad altri fini. Al contrario, lo sforzo relazionale, sempre necessario, può anche scaturire in un esito simbolico.

Sono, così, fugati i dubbi di costituzionalità della restorative justice che parte della dottrina sollevava per il contrasto della “pecuniarizzazione”[91] del diritto penale con l’art. 3 Cost.: è evidente, invero, che, nella nuova legge, il denaro non è l’unico mezzo per rimediare ai propri errori; anzi, il denaro non è un mezzo sufficiente se non è accompagnato dalla spinta “relazionale”.

4. Le conseguenze sulla teoria della pena

L’effetto di una tale scelta sulla teoria della pena è dirompente: ne è diretto segnale il novellato art. 62 c.p. che, nel prevedere la nuova attenuante ristorativa o relazionale[92], consente un diffalco della pena per un “mero” esito simbolico purché il reo abbia partecipato al programma dialogico di giustizia riparativa.

In una prospettiva sistematica, poi, è da notare come, a seguito della riforma, sia possibile operare una netta distinzione tra rimedi risarcitori, ormai del tutto avulsi dalla nozione di giustizia riparativa adottata dal legislatore, e rimedi ristorativi.

In realtà, attenta dottrina, già prima dell’entrata in vigore della riforma, asseriva che la giustizia ripartiva in Italia era assente, soprattutto nel mondo della giustizia degli adulti. Prima dell’intervento organico della Cartabia, il quadro sembrava essere dominato da una forte schizofrenia legislativa che si muoveva tra istanze deflattive([93]), logiche ‘premiali’ e riparative, il tutto sullo sfondo di esigenze, sempre presenti, di prevenzione([94]).

Di conseguenza, il dibattito sull’esistenza, nell’ordinamento interno, di rimedi afferenti alla filosofia della restorative justice è stato fortemente influenzato dall’assenza di una sua definizione.

Così, senza pretese di esaustività, istituti quali la messa alla prova, la particolare tenuità del fatto, le garanzie processuali della persona offesa ex art. 90bis ed il tentativo obbligatorio di conciliazione di cui all’art. 555 c.p.p. venivano ricondotti da alcuni alla giustizia riparativa senza riserve, mentre da altri a finalità deflattive o di sussidiarietà “processuale”, a seconda della visione di fondo: se la restorative justice veniva intesa in senso prestazionale, allora minori erano i dubbi; ma se, al contrario, veniva posto al centro il dialogo, nessun istituto era considerato davvero riparativo perché nessuno di essi prevedeva l’accesso alla mediazione ristorativa. Emblematico di questa distanza di posizioni è stato l’istituto dell’ estinzione del reato per condotte riparatorie ex art. 162ter c.p.: isolate voci[95] riconducevano la norma alla restorative justice mentre la dottrina maggioritaria[96] appariva già concorde per la tesi escludente perché nel procedimento di estinzione non v’era alcun obbligo di dialogo, e neppure di contatto, con la vittima. Né gli sforzi interpretativi di parte della dottrina per recuperare un sostrato ristorativo[97] sembrano aver colto nel segno.

Proprio per la prevalenza del dato dialogico, nel ‘microcosmo del giudice di pace’[98], invece, è stato da subito riconosciuto che istituti quali l’esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto (art. 34 d.lgs. 274/2000), l’estinzione del reato conseguente a condotte riparatore (art. 35 cit.) ed il tentativo obbligatorio di conciliazione (artt. 2 e 29 cit) costituissero un ‘laboratorio’([99]) dell’emersione, nell’ambito della risposta al reato, di un ‘principio riparatorio’([100]).

Per la stessa ragione, non si è mai dubitato che la mediazione penale minorile, la messa alla prova del minore, la particolare tenuità del fatto e l’inammissibilità, per la vittima, di esperire l’azione civile per la restituzione o il risarcimento del danno derivante da reato, tutti istituti contenuti nel D.P.R., 22/09/1988 n° 448, rappresentassero una forma di giustizia riparativa ante litteram. Ciò perché, nella giustizia minorile, si va oltre il basilare obiettivo dell’accertamento dei fatti. In questo campo, è necessario bilanciare due interessi. L’uno, quello volto a tutelare la personalità del minore, verrebbe leso se non si garantissero allo stesso forme peculiari di diversion, di modo che il processo, considerato per alcuni già pena([101]), venga evitato. L’altro, quello di carattere più spiccatamente preventivo, è volto a far sì che l’imputato minore prenda coscienza dell’offesa arrecata dalla commissione del reato([102]).

Meno dubbi aveva, inoltre, la dottrina([103]) nella riconduzione di alcuni istituti penitenziari alla restorative justice. D’altra parte, molteplici sono le norme della legge n. 345 del 26 luglio 1975, che si interessano di mettere in relazione la vittima, la comunità ed il reo: si pensi all’art. 47, laddove prevede non solo la possibilità di ricorrere alla mediazione, nell’ambito dell’affidamento in prova ai servizi sociali, ma anche che l’affidato si adoperi, su previsione del giudice, in favore della vittima; o, ancora, all’art. 21, in materia di lavoro esterno che va compiuto in favore della comunità e a sostegno delle famiglie delle vittime.

Per il (restante) panorama della giustizia degli adulti, si riconosceva l’importanza delle condotte riparatorie soprattutto nelle dinamiche commisurative. Basti ricordare che la riparazione ha un valore non marginale nell’ambito del diritto penale, per ammissione della stessa Corte Costituzionale([104]).

Una dimensione riparativa veniva rintracciata, per l’appunto, alla base delle circostanze attenuanti contemplate dall’art. 62 comma 6 c.p. ([105]). Vicina alla filosofia ristorativa pareva essere soprattutto l’attenuante soggettiva, prevista dalla seconda alinea della norma, secondo cui «l'essersi, prima del giudizio, adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato, attenui il reato». L’eliminazione del danno criminale a prescindere dal risarcimento,  infatti, già di per sé, attenua la pena. Tuttavia, da un lato, la giurisprudenza[106] è unanime nel ritenere che questa attenuante non sia applicabile ai reati contro il patrimonio, per i quali l’eliminazione del danno materiale è essenziale, dall’altro non è contemplato alcun “obbligo di relazionarsi” con la vittima per nessuna delle due attenuanti. Pertanto, in assenza di detto obbligo, anche questa norma veniva ritenuta distante dalla restorative justice[107].

A ben vedere, l’art. 62, n. 6, c.p., a seguito della riforma Cartabia, diviene, oggi, il vessillo dell’ accennata distinzione tra la giustizia riparativa – dialogica e la giustizia distributiva -prestazionale. Non essendo state abolite dal legislatore, le prime due attenuanti (quella “risarcitoria” e quella eliminatoria del danno criminale) ripercorrono la giustizia prestazionale, mentre l’attenuante “riparativa” si inserisce nel solco ristorativo. Poiché, infatti, l’attenuante ristorativa è concessa con il raggiungimento dell’esito simbolico o materiale, e quest’ultimo può comprendere il risarcimento del danno, le restituzioni (come accade nell’attenuante “risarcitoria-restitutoria”) o l’adoperarsi per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato o evitare che lo stesso sia portato a conseguenze ulteriori (come accade nell’attenuante volta all’eliminazione o all’attenuazione del cd. danno criminale), allora la vera differenza è insita nella presenza del «dialogo riparativo». Soltanto l’attenuante riparativa lo prescrive, mentre le prime due non lo impongono affatto.

Il risultato è che nel nostro ordinamento penale convivono più finalità della pena, ben testimoniate dalle varie norme che il tessuto legislativo prevede: l’elemento specializzante ai fini della riconduzione di un istituto alla giustizia riparativa è, pertanto, costituito dalla previsione del «dialogo riparativo».

Può, allora, affermarsi che mentre la messa alla prova, poiché il novellato art. 464bis c.p.p. include nel programma di trattamento programmi di giustizia riparativa, rientra nell’orbita della restorative justice, la particolare tenuità del fatto – anche nella sua versione riformata – e l’estinzione del reato per condotte riparatorie non si inscrivono nella giustizia riparativa, a meno che il giudice, attraverso un’interpretazione costituzionalmente orientata, non riesca ad inserire nel procedimento per la concessione di questi benefici un legame con la filosofia ristorativa.

Questa solo apparente “conclusione” sottende, però, una risposta ad un interrogativo ben più pregnante ovverossia se la riparazione possa costituire una delle finalità della pena; ed ancora, se la rieducazione possa conciliarsi con finalità esclusivamente deflattive senza tener conto affatto delle istanze retributive, preventive e riparative, oppure se, al contrario, tra una possibile interpretazione deflattiva ed una “ristorativa” debba essere preferita quest’ultima in virtù dei canoni costituzionale ed europeo.

Tali interrogativi sorgono, in effetti, spontanei a seguito dell’introduzione della nuova circostanza attenuante di cui al terzo periodo del n. 6 dell’art. 62 c.p. Infatti, nessuna norma internazionale od europea (benché meno la direttiva “vittime” del 2012) impone allo Stato di prevedere un’attenuazione della pena per la buona riuscita della pratica riparativa; e ciò non solo fuga ogni dubbio circa la discrezionalità del legislatore in materia, ma rafforza l’idea che la sua valorizzazione sia espressione di precise scelte di politica criminale capaci di incidere direttamente sullo statuto della pena.

Si tratta, però, di due quesiti ad amplissimo raggio che non possono essere risolti in poche battute. Può, in questa sede, solo accennarsi che già prima della riforma Cartabia, parte della dottrina discuteva sulla compatibilità della restorative justice con la rieducazione della pena, nonché sul rapporto che essa avesse con l’art. 27 Cost.

Nello specifico, le posizioni sembrano potersi dividere in tre linee di pensiero: c’è chi rifiuta ogni compatibilità con la Costituzione del modello ristorativo[108], chi contrappone tale modello a quello retributivo e riabilitativo([109]) e chi, al contrario, ritiene che «tale netta cesura non sia necessaria», perché gli strumenti della giustizia riparativa sarebbero stati «utilizzati in diversi contesti che nel complesso sono rimasti ancorati ai propri originari presupposti retributivi e/o riabilitativi»([110]). Altre voci[111] discorrono addirittura di «complementarità e interdipendenza funzionale» della restorative justice con la prevenzione per un argomento logico normativo, consistente, in buona sostanza, nella problematica del necessario consenso del reo alla sottoposizione del programma, e per un argomento contenutistico-strutturale, nel quale si sottolinea il problema della carenza di un corpus precettivo autonomo, alla cui luce applicare i metodi di soluzione dei conflitti su base dialogica. Altra autorevole dottrina, infine, auspica una modifica del codice penale per l’introduzione del delitto riparato[112].

La tesi che, ad oggi, anche a seguito della novella legislativa[113], sembra essere prevalente è quella della “complementarità”: la restorative justice, infatti, «non brandisce la pretesa di svellere il tradizionale paradigma della giustizia punitiva, ma con esso si confronta in un dialogo teso a individuare punti e momenti di complementarità»([114]). Come ha scritto il prof. Bartoli, non vi è dubbio «che dal punto di vista strutturale e del concreto esito finale gli strumenti della giustizia riparativa siano alternativi alla punizione. (…) Tuttavia, se si esamina il rapporto che potrebbe intercorrere tra il sistema della giustizia riparativa e quello punitivo, ci si rende conto che esiste un’indiscussa affinità funzionale. — per così dire — “megafunzionale”, ma anche che essi devono necessariamente integrarsi» ([115]).

Torna, allora, la concezione polifunzionale della pena da sempre patrocinata dalla Corte costituzionale: la riparazione diviene una delle finalità cui tende la pena, purché essa non prevalga mai sulla rieducazione[116].

Tale riparazione può certamente da intendersi in senso “prestazionale”, come chiarito già da tempo dalla Corte costituzionale nella nota sentenza n. 183/2011, ma a seguito della riforma Cartabia, può comprendere anche il dato “relazionale - dialogico”. Il lemma “riparazione” si arricchisce così di nuovi significati, ma, sul piano ontologico, riparazione in senso oggettivo e riparazione in senso soggettivo (id est ristorazione) rimangono concetti distinti.

Se così stanno le premesse, allora, più che di giustizia riparativa prestazione e relazionale, dovrebbe discorrersi di finalità della pena prestazionale o relazionale[117]: la giustizia riparativa, infatti, così come intesa dal legislatore, è soltanto relazionale perché il dialogo è un elemento irrinunciabile per la concessione di qualsivoglia beneficio riparativo.

Se, dunque, una delle finalità della pena può essere quella ristorativa, spetta, però, al legislatore operare il bilanciamento con altre sue funzioni, sicché se un istituto nasce con una ratio preventiva o deflattiva non può essere piegato a finalità ristorative. Può, al più, soltanto scrutinarsi se quella finalità sia compatibile con la rieducazione, finis finorum invalicabile anche dal Parlamento.

Le riflessioni sulle differenze tra giustizia prestazione e relazionale paiono, quindi, porsi su un piano “megafunzionale”, che si intreccia con il principio di proporzionalità della pena[118]. La riparazione – prestazionale e/o relazionale – assume la funzione di graduare la risposta sanzionatoria al caso concreto ed alla persona del reo, secondo uno schema che, soltanto a tratti, si lega alla restorative justive.

Così, ad esempio, tenendo presente la totalità della riforma Cartabia, se il fatto è carente in concreto dell’offensività, esso, secondo un ormai consolidato orientamento[119], “non sussisterà”.

Se, invece, sarà tipico, antigiuridico e colpevole, ma tenue anche perché “riparato”, esso sarà non punibile ex art. 131- bis c.p.[120]. In tal caso, la riparazione deve essere intesa in senso oggettivo cioè di eliminazione delle conseguenze dannose anche durante il processo, così realizzandosi il cd. delitto riparato dove la condotta sopravvenuta di segno (–) compensa del tutto quella tipica di segno (+) sul piano dell’offesa[121].

Se il fatto tipico non sarà tenue, allora l’esito riparativo potrà estinguerlo ex art. 162ter c.p. qualora il reato sia procedibile a querela soggetta a remissione, oppure potrà attenuarlo ex art. 62 n. 6 c.p.

Ai fini della estinzione, la concezione di riparazione è oggettiva, mentre, ai fini della attenuazione del reato, il dialogo riparativo[122] può sicuramente avere un ruolo ai sensi della terza alinea dell’art. 62 n. 6 c.p., così come possono averlo il mero risarcimento o la mera eliminazione del danno criminale ai sensi delle prime due alinee dell’art. 62 n. 6 c.p.

Proprio guardando la riforma nell’ottica della proporzionalità della pena, che è declinazione dei principi rieducativo[123] e di uguaglianza anche nell’ottica europea e convenzionale, sarà possibile scrutinare la ragionevolezza della risposta sanzionatoria: in un sistema in cui v’è anche la restorative justice, v’è da chiedersi, invero, se sia giusto – secondo i parametri su evocati – che in alcuni casi, il risarcimento del danno possa estinguere il reato senza alcuno sforzo relazione dell’imputato, mentre lo sforzo relazionale – da solo -  è in grado soltanto di attenuare la pena.

Tra i vari interrogativi, però, una cosa è certa: la “riforma Cartabia” tocca il cuore del diritto penale sostanziale, ossia i principi di legalità, rieducazione e proporzionalità, e, dunque, «non è un programma di efficienza processuale che ispira questa trasformazione, ma di efficienza sanzionatoria»[124].


Note e riferimenti bibliografici

([1]) Il riferimento è, ex multis, a G. DARAIO, Il “principio riparativo” quale paradigma di gestione del conflitto generato dal reato: applicazioni e prospettive, in Diritto  penale e processo (da ora Dir. Pen. proc.),  (2013), 3, 356 e ss., il quale precisa, alla nota 7: «vasta è la letteratura sull’argomento, sicché diventa impossibile operare riferimenti senza incresciose omissioni».

([2]) C. MAZZUCATO, Ostacoli e «pietre di inciampo» nel cammino della giustizia riparativa in Italia, in AA. VV., Giustizia riparativa. Ricostruire legami, ricostruire persone, a cura di Mannozzi – Lodigiani, Bologna 2015.

([3])  M. DONINI, Il delitto riparato. Una disequazione che può trasformare il sistema sanzionatorio, in Giustizia riparativa. Ricostruire legami cit., ma anche, a titolo esemplificativo, J. MORINEAU, Lo spirito della mediazione, Milano 2003, G. MANNOZZI, Pena e riparazione: un binomio non irriducibile, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, a cura di E. Dolcini –C. E. Paliero, Milano 2006, vol. II, 1129 ss., C. MAZZUCATO, Mediazione e giustizia riparativa in ambito penale. Fondamenti teorici,implicazioni politico-criminali e profili giuridici, in Lo spazio della mediazione. Conflitto di diritti e confronto di interessi, a cura di G. COSI - M. A. FODDAI, Milano 2003, 151 ss., J. BRAITHWAITE, Principles of restorativejustice, in Restorative Justice and Criminal Justice: Competing or Reconcilable Paradigms?, a cura di A. Hirsch - J. Roberts - A. E. Bottoms - K. Roach – M. Schiff, Oxford, 2003, 1 ss., A. CERETTI, Mediazione penale e giustizia. In-contrare una norma, in Studi in ricordo di Giandomenico Pisapia, Criminologia, a cura di Ceretti, vol. III, Milano 2000, 713 ss., ID., Mediazione: una ricognizione filosofica, in La mediazione nel sistema penale minorile, a cura di L. Picotti, Padova1998,  19 ss., e precisa altresì che «la letteratura internazionale sul tema, da allora, è divenuta di difficile governabilità», G. TRAMONTANO – D. BARBA, La mediazione penale minorile: un percorso per la giustizia riparativa, Roma 2017, G. MANNOZZI – G. A. LODIGIANI, La giustizia riparativa. Formanti, parole e metodi,  Torino 2017, E. MATTEVI, Una giustizia più riparativa, mediazione e riparazione in materia penale, Collana della facoltà, Trento 2017

[4] F. REGGIO, Giustizia Dialogica. Luci e ombre della Restorative Justice, Milano 2010.

[5]G. MANNOZZI – G.A. LODIGIANI, Introduzione, in Giustizia riparativa. Ricostruire legami cit. e ID, Alla scoperta della giustizia riparativa. Un’indagine multidisciplinare, ibid.; in particolare Lodigiani precisa che «La giustizia riparativa è un fenomeno giusfilosofico, presente a livello internazionale che, sotto il profilo cronologico, «precede» e «segue» la giustizia penale modernamente intesa».

([6]) G. DARAIO, op. cit., p.359.

([8]) M. BOUCHARD, Breve storia (e filosofia) della giustizia riparativa, in Questione e Giustizia, 2/2015, p. 66. Per l’esperienza francese, spagnola e tedesca cfr. anche E. MATTEVI, Una giustizia cit., 181 e ss.

([9]) Vengono subito in mente le parole di B. VAN DER MAAT, Ancient practices for a New Justice, Peru, 2015, Introduction: «It is widely known that the idea of Restorative Justice has popped up in countries with an ancient aboriginal practice of Restorative Justice (Canada, New Zealand,... ). However, its roots actually seem to be much older than these practices.». Per una consapevolezza delle differenze (e complementarietà) tra il mondo attuale e quello passato, si consenta il rinvio anche a quest'altra riflessione dell’A.: «Of course, the context of these law-systems is quite different from much of our own world. The mere organization of society (with its classes and – above all – its slavery system) hardly corresponds to our reality. However, the principles on which justice was based can easily be imagined and even transposed to our society (as I hope to be able to demonstrate)».

([10]) Il riferimento è, tra i tanti, a E. STOLFI, Introduzione allo studio dei diritti greci, Torino, 2006, Capitolo VII.

([11]) Per un quadro indubbiamente più esaustivo cfr. R. MARTINI, Diritti greci, Bologna, 2011.

[12] Ulteriori spunti per una lettura “occidentalizzante” del fenomeno della restorative justice si colgono nell’antico Medio Oriente. Tra le più remote sue espressioni troviamo un decreto del re Enmetana di Lagash ([12]), che cancellò i debiti perché il popolo non poteva onorarli, ma anche nell’Egitto dei Faraoni ([12]), con la testimonianza del giudice Thotnakht-ànkh, secondo cui la giustizia era finalizzata a guarire le ferite inflitte alla comunità e al ripristino di Ma’at, per scacciare Ifset.

([13]) Oreste, infatti, giustificando l’atto cruento con cui ha ucciso la propria madre Clitennestra, invoca l’autorevolezza dell’oracolo di Delfi, che gli ha prescritto di vendicare il sangue col sangue. Egli, a questo proposito, dice: «Non ci tradirà il possente oracolo del Lossia (scil. Apollo), che ci imponeva di attraversare questa prova, numerose parole gridando, e annunciando al mio cuore ardente molte tempestose sciagure, se non avessi contraccambiato nel medesimo modo gli uccisori di mio padre, e ordinandomi di ucciderli, in un impeto di ferocia che non accetta compensi in denaro […]». In realtà, le Eumenidi di Euripide descrivono il passaggio importantissimo, dalla (in)giustizia “vendicativa” delle Erinni alla Dike del Tribunale dell’Aeropago di Atena, così sconfiggendo la cd. spirale del sangue, su cui v. U. CURI, Senza bilancia. La giustizia riparativa forgia una nuova immagine della giustizia, in Giustizia riparativa cit., 71.

([14]) APOLLODORO, Biblioteca, II 4 12.

([15]) R. MARTINI, op. cit. p. 97 e ss.

([16]) Idem

([17]) E. STOLFI, op. cit., ibidem.

([18]) I primi studi che hanno ipotizzato il ritorno a forme privatistiche di composizione del conflitto ovvero, più in generale, a paradigmi alternativi alla risposta penalistica – fondata sul binomio reato/sanzione- sono stati proprio quelli che hanno indagato il microcosmo delle comunità africane o centroamericane, in cui il percorso di mediazione e/o riparazione corre su binari paralleli rispetto al processo penale e alle sue regole codificate. Così G. MANNOZZI – G. A. LODIGIANI,  La giustizia riparativa, cit., 55.

([19]) P. L. FERMOR, Mani: Travels in thè Southern Peloponnese, Harper, New York, 1958, trad. it. Mani. Viaggimi Peloponneso, Milano, 2006, 123.

([22]) F. REGGIO, op. cit., 64 e ss. Così anche E. MATTEVI, Una giustizia cit., 14.

([23]) «L’Antico Testamento, in particolare la Legge, conosce due diverse procedure giudiziali da attuare nei confronti del colpevole: la mišhpāt (giudizio) che tende alla condanna del trasgressore e la rîb (lite bilaterale) che tende alla riconciliazione del colpevole con l’offeso. Il primo era caratterizzato da una procedura forense e marcatamente dibattimentale, fatta di accusa e difesa, che culminava nella sentenza di un terzo soggetto, in grado di assolvere o condannare. La rîb, invece, si configurava come un’azione giuridica di tipo familiare dove l’esito della controversia ed il ristabilimento della giustizia dipendevano solo dalle due parti in conflitto. In tale procedimento il clima familiare consentiva di arginare e superare lo stato di conflitto perché prevaleva il bene superiore del recupero della relazione interrotta più che la soddisfazione procurata alla vittima per il ristabilimento del diritto violato». Così, G. MANNOZZI – G. A. LODIGIANI,  La giustizia riparativa, cit., 50 e ss.

([24]) MATTEO 5, 23-24

([25]) F. REGGIO, op cit., p. 64 e ss.

[26] Una precisa elencazione delle fonti è contenuta in M. VENTUROLI, La vittima nel sistema penale. Dall’oblio al protagonismo?, Napoli, 2015, 9 e ss.

([27]) G. MANNOZZI – G. A. LODIGIANI,  La giustizia riparativa, cit., 9; M. BOUCHARD, Breve storia (e filosofia) della giustizia riparativa, in Questione e Giustizia, 2/2015, 67

([28]) G. MANNOZZI – G. A. LODIGIANI,  La giustizia riparativa, cit., 50 e ss.

([29]) H. E. PEPINSKY, Crime and Conflict: A Study of Law and Society, New York, 1976, passim.

([30]) Per una panoramica sul movimento statunitense, cfr. F. SERPICO, Lo sguardo dell’altro: il giudice nella letteratura ,in AA. VV., Il potere dei conflitti : testimonianze sulla storia della magistratura italiana, a cura di Abbamonte, 443 e ss

([31]) Un riferimento è ai tre imponenti volumi della collana AA.VV., Giustizia e letteratura a cura di Forti – Mazzucato, Milano 2017.

([32]) «Collocando l’inferno sotto la sovranità di Lucifero, l’angelo caduto, (…) Dante sembra assegnare a lui la responsabilità del tipo di giustizia ivi operante: tutto, naturalmente, dipende dagli imperscrutabili disegni di Dio, ma l'inferno intero porta l'impronta di Lucifero (…). Sua, dunque, è la giustizia sostanzialmente retributiva che lo governa; e poichè l'inferno è un mondo alla rovescia, che esiste solo come un calco negativo del purgatorio, un vuoto rispetto a un pieno (poiché malum est privatio boni), on sorprende che l'esercizio di questa giustizia sia retto da una logica paradossale, che si ritorce contro chi l'amministra, in una sorta di auto-cannibalismo.». Così P. FRARE, La giustizia nella «Commedia», in Giustizia e letteratura, cit., 176.

([33]) Pg, XIII 106-107.

([34]) P. FRARE, op. cit., 182.

([35]) G. DARAIO, op. cit. e bibliografia ivi richiamata, 358 e ss.

([36])F. Reggio, op. cit., 54 e ss e A. BARATTA, La frontiera della penalità nei sistemi di controllo sociale della II metà del XX secolo, in Dei delitti e delle pene, 1998, 15.

([37]) G. FORTI, L’immane concretezza, Milano, 2000, 229.

([38]) F. REGGIO, op. cit,  ma anche G. MANNOZZI – G. A. LODIGIANI, La giustizia riparativa. cit., 61 e ss.

([39]) G. MANNOZZI, Giustizia riparativa, Annali, in Enciclopedia del diritto de jure online, 2017

([40]) G. MANNOZZI – G. A. LODIGIANI,  La giustizia riparativa, cit., 65.

([41]) G. MANNOZZI – G. A. LODIGIANI, La giustizia riparativa, cit., 73 e ss. Fondamentale è lo studio di G. MANNOZZI, Traduzione e interpretazione giuridica nel multilinguismo europeo: il caso paradigmatico del termine “giustizia riparativa” e delle sue origini storico-giuridiche e linguistiche, in Rivista italiana diritto processuale  penale., 2015, 137 ss.

([42]) G. GREGORACI, Della riparazione del danno nella funzione punitiva, UTET, Torino, 1903.

([44]) G. DEL VECCHIO, La Giustizia, Roma, IV ed., Studium, Roma, 1951

([45])H. SCHREY – H. WALZ, The Biblical Doctrine of Justice and Law, World Council of Churches, London, 1955 (adattamento dal tedesco in inglese di W.A. Whitehouse)

([46]) Così G. MANNOZZI – G. A. LODIGIANI,  La giustizia riparativa, cit., 84.

([47]) «La riparazione compensatrice deve accostarsi il più possibile al proprio fine, ma mirando sopra tutto a un’equivalenza morale e salvando in ogni caso la ratio juris, nel significato più alto di questo termine: e perciò appagandosi anche di una soddisfazione parziale o indiretta, e financo, come accennammo, solo simbolica, quando altrimenti non sia possibile senza una nuova e forse più grave ingiustizia»

[48] «La punizione, inoltre, non porta alcun miglioramento poiché è solo un patire, un sentimento di impotenza di fronte ad un signore con il quale il colpevole nulla ha, e nulla vuole avere in comune; effetto della punizione può essere solo l’ostinazione, accanimento a contrastare un nemico da cui sarebbe veramente rovinoso essere oppressi perché con ciò l’uomo rinuncerebbe a se stesso» V. L. EUSEBI che cita G. HEGEL, Lo spirito del cristianesimo, in Scritti teologici giovanili, tr. it. di N. Vaccaro e E. Mirri, Napoli 1972, 394, nel suo Dibattiti sulle teorie della pena e “mediazione”, in  Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1997.

([49]) F. CAVALLA, Pena come riparazione, in  Pena e riparazione, a cura di Id e Todescan, Padova 2002, 96 e ss.

([50]) H. ZEHR – J. GOHAR, The Little book of Restorative Justice, disponibile a https://www.unicef.org/tdad/littlebookrjpakaf.pdf e C. MAZZUCATO, Ostacoli e «pietre di inciampo, cit. in Giustizia riparativa cit.

([51]) C. MAZZUCATO, Ostacoli e «pietre di inciampo, cit., in Giustizia riparativa, cit. Della medesima opinione è la Prof. Grazia Mannozzi. Cfr. Relazione integrale del Tavolo 13 (Giustizia riparativa, mediazione e tutela delle vittime del reato), p. 20, in https://www.giustizia.it/resources/cms/documents/sgep_tavolo13_relazione.pdf: «Come prima indicazione di metodo vi è, dunque, quella per una estrema cautela “nominalistica”: non sono da indicare/qualificare come strumenti di giustizia riparativa i lavori di pubblica utilità, il lavoro penitenziario gratuito all’esterno, le prescrizioni di volontariato sociale, perché si tratta di attività prescritte o imposte dal magistrato, che si iscrivono pur sempre in un’ottica retributiva o di coercizione».

([53]) H. ZEHR – J. GOHAR, op. cit., 9: «Restorative justice is not a map but the principles of restorative justice can be seen as a compass pointing a direction or reconciliation».

([54]) D. VAN NESS – K. HEETDERKS STRONG, Restoring justice, 1997, 32 e ss.

([55]) Più tardi, nel 2004, Van Ness sembra proporre una definizione più olistica, per sua stessa ammissione: «The most expansive category consists of justice-based definitions emphasizing the outcomes and/or values of restorative justice. A definition that combines the two (and that in terms of expansiveness lies somewhere between the two categories) is the following: Restorative justice is a theory of justice that emphasizes repairing the harm caused or revealed by criminal behaviour. It is best accomplished through inclusive and cooperative processes». Cfr. D. VAN NESS, AN OVERVIEW OF RESTORATIVE JUSTICE AROUND THE WORLD, in https://nacrj.org/index.php?option=com_easyfolderlistingpro&view=download&format=raw&data=eNptkE1rwzAMhv-K0WmDQZ2uXVf1VNhphw122bG4iZIYkjhITtox9t9cJ1wnKbvsYNCH30ev5DDL8FvwCaEMTUEMB8HNBsG3rlwiWTFJGDjXqKX2TCyrD5IY2EU_knkdJPqckkYxMAjxTJGphGBvrWpQ2d-EHcLpNNVS9jxLO9dOKPXCF9_Q15Kkni8mYwhZtrULganpXaxTZhEWUKnCG2.i3Rjh25n0kHj1dTCjNP-7NkcPQFSbWZD4DN4W5e3GdGfW9kciDWVu7vU-8RwS6xiXqi3LxQdfe653g4NGmddWMi9HldUud_j5P1b0qmJKN-QK6VxVC1ajRn1_7GX2r

([56]) Così traducono G. MANNOZZI – G. A. LODIGIANI,  La giustizia riparativa, cit., 93.

([57]) Essi scrivono in Relational Justice: Repairing the breach, a cura di Burnside – Baker, Winchester, 1994, 53 e ss: «One of the foundations of this new approach is to regard crime primarily as a breakdown in relationships; even in those cases where the offender does not personally know the victim, a relationship can be said to exist by virtue of their being citizens together, bound together by the rules governing social behavior. Crime is only secondly to be regarded as an offence against the state and its laws».

[58]E. MATTEVI, Una giustizia cit., 84 e ss. Per una più ampia disamina F. REGGIO, op. cit., parte seconda.

[59]G. JOHNSTONE – D.W. VAN NESS, The Meaning of Restorative Justice, in ID. (ed. by), Handbook of Restorative Justice, Cullompton, Willan Publishing 2007, 15.

([60]) U. CURI, op. cit in Giustizia riparativa, cit: «La giustizia riparativa deve muoversi in questa direzione, sostituendo all’astratta universalità della norma penale una specificazione caso per caso».

([61]) M. FERREIRA MONTE, Diritto penale riparativo, in Criminalia, 2013, 29 ss.

([62]) La classificazione tra definizioni incentrate sulla vittima, sulla comunità, sui contenuti e sulle modalità ed olistiche è di G. MANNOZZI – G. A. LODIGIANI,  La giustizia riparativa, cit, 91 e ss.

([63]) H. ZEHR – J. GOHAR, op. cit., 40.

([64]) M. DONINI, Le due anime della riparazione come alternativa alla pena-castigo: riparazione prestazionale vs. riparazione interpersonale  - The two souls of reparation as an alternative to retributive punishment: performance-based repair vs. interpersonal reparation, in Cass. Pen., fasc.6, 1° giugno 2022, 2027

([65]) A titolo esemplificativo, cfr. Ceretti, Percorsi del riconoscimento: i rei, in La scelta della mediazione: itinerari ed esperienze a confronto, a cura di Foddai,  Milano, 2009, 79.

([66]) Lo riconoscono anche H. ZEHR – J. GOHAR, op. cit.: «Above all, restorative justice is an invitation to join in a dialogue so that we may support and learn from each other. It is a reminder that all of us are indeed interconnected.» (corsivo aggiunto). Della stessa opinione sembra essere R. BARTOLI, Il diritto penale tra vendetta e riparazione, in Rivista italiana diritto processuale penale, 2016, 96 ss., quando afferma che «soprattutto il diritto penale moderno potrebbe essere ancora più umano là dove si creassero spazi di dialogo tra autore e vittima (e la comunità relazionale in cui vivono) che al momento non esistono».

([67]) G. FIANDACA, Prima lezione di diritto penale, Bari 2017,  42

([68]) «Restorative justice is more focused on needs: the needs of victims, the need of communities, the needs of offenders.» H. ZEHR – J. GOHAR, op. cit., 16.

([69]) Il termine «rottura», secondo N. ABBAGNANO E G. FORNERO, sintetizza la posizione contestatrice del pastore verso il sistema hegeliano. Cfr. ID, La ricerca del pensiero, Torino, 2014, Vol. 3A.

([70]) S. MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teologica, Napoli 1992, passim.

([71]) Le parole di Soren Kierkegaard nel suo Diario sono ancora più esplicative: «Succede della maggioranza dei filosofi sistematici, riguardo ai loro sistemi, come di chi si costruisse un castello e poi se ne andasse a vivere in un fienile; per conto loro essi non vivono in quell'enorme costruzione sistematica. Ma nel campo dello spirito ciò costituisce un'obiezione capitale. Qui i pensieri, i pensieri di un uomo, debbono essere l'abitazione in  cui egli vive; altrimenti sono guai».

([72]) M. CANNITO, La giustizia rigenerativa: promessa e sfida per una trasformazione sociale, in Mediares, 9/2007, 169-197, passim.

[73] https://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/docnonleg/39034.htm

([74]) La Risoluzione 2000/14 del 27 luglio 2000, del Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite, in tema di Basic principles on the use of restorative justice programmes in criminal matters, è consultabile all’indirizzo: http://daccess-ods.un.org/ TMP/3889394.40250397.html. Essa ha assunto una forma definitiva con l’adozione della Risoluzione 2002/12 del 24 luglio 2002. L’interesse dell’ONU per la vittima del reato è, però, amplissima. Cfr. M. VENTUROLI, op. cit., 84 ss., che elenca tutte le Risoluzioni in materia.

[75]Criminal justice handbook series, elaborato da United nations office on drugs and crime, p. 103, consultabile in https://www.unodc.org/documents/justice-and-prison-reform/20-01146_Handbook_on_Restorative_Justice_Programmes.pdf .

([76]) Considerando 9 e art. 12.

([77]) L’art. 2 definisce per «vittima» «una persona fisica che ha subito un danno, anche fisico, mentale o emotivo, o perdite economiche che sono stati causati direttamente da un reato», contemplandovi anche la c.d. vittima indiretta (non specificamente contemplata, invece, dalla succitata Decisione Quadro), ovvero «il familiare di una persona la cui morte è stata causata direttamente da un reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona». Sul punto cfr. G. ROSSI, La direttiva 2012/29/ue: vittima e giustizia riparativa nell’ordinamento penitenziario, in Archivio penale,  2015, n. 2, ma anche G. MANNOZZI – G. A. LODIGIANI, La giustizia riparativa. cit., 14; E. MATTEVI, Una giustizia, cit., 27 e ss; M. VENTUROLI, op. cit., 99.

[79] V. Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150,  Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari, in Supplemento straordinario n. 5 alla GAZZETTA UFFICIALE Serie generale - n. 245 del 19/10/2022, consultabile in https://www.gazzettaufficiale.it/do/atto/serie_generale/caricaPdf?cdimg=22A0601800000010110001&dgu=2022-10-19&art.dataPubblicazioneGazzetta=2022-10-19&art.codiceRedazionale=22A06018&art.num=1&art.tiposerie=SG .

[80] art. 42 lett. a) d.lgs. 150 del 2022: «ogni programma che consente alla vittima del reato, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore».

[81] E’ proprio della RJ «qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all'autore del reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l'aiuto di un terzo imparziale» (art. 2, co. 1, d). Cfr. G. ROSSI, op. cit.

[82] «a restorative process is any process in which the victim and the offender and, where appropriate, any other individuals or community members affected by a crime participate together actively in the resolution of matters arising from the crime, generally with the help of a facilitator. Restorative processes may include mediation, conciliation, conferencing and sentencing circles».

[83]G. MANNOZZI – G. A. LODIGIANI, La giustizia riparativa. cit., 99.

[84] Più precisamente, l’art. 42, comma 1, lett. c.) D.L. vo. 150/2022 definisce l’offender come «persona indicata come autore dell’offesa» (corsivo aggiunto) e stabilisce che egli sia «1) la persona indicata come tale dalla vittima, anche prima della proposizione della querela; 2) la persona sottoposta alle indagini; 3) l’imputato; 4) la persona sottoposta a misura di sicurezza personale; 5) la persona condannata con pronuncia irrevocabile; 6) la persona nei cui confronti è stata emessa una sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere, per difetto della condizione di procedibilità, anche ai sensi dell’articolo 344- bis del codice di procedura penale, o per intervenuta causa estintiva del reato».

[85] Per una critica alla pena ristorativa, v. A. LORENZETTI, Giustizia riparativa e dinamiche costituzionali, Milano 2018

[86] «qualunque accordo, risultante dal programma di giustizia riparativa, volto alla riparazione dell’offesa e idoneo a rappresentare l’avvenuto riconoscimento reciproco e la possibilità di ricostruire la relazione tra i partecipanti».

[88] Ad esempio, si sarebbe dovuto pervenire a conclusioni diverse se il legislatore avesse previsto che l’esito potesse essere «esclusivamente» di un tipo.

[89] Non è chiaro se si tratti di un refuso, ma v. Relazione illustrativa al decreto legislativo cit., 534: «La nozione è da correlarsi strettamente con l’articolo 56, dove l’esito riparativo è tassativamente disciplinato come esito “simbolico” o “materiale” (o entrambi)».

[90]Ibidem, 534.

[91]A. RIZZO, Il risarcimento del danno come possibile risposta penale?, in Dir. pen. proc., 1997, 1171 ss.

[92] Questa è la definizione data da una voce in dottrina. Si permetta il rinvio a F. D’AMATO, La nuova circostanza di cui all’art. 62, n. 6, ultima parte c.p.:  l’aver l’imputato partecipato ad un programma di giustizia riparativa  conclusosi con esito positivo, in Rivista penale, n. 3/2023, Piacenza, 233 ss.

([93]) Lo sguardo è volto all’art. 131bis c.p.

([94]) Così, anche se con prospettive diverse, R. BARTOLI, La sospensione del procedimento con messa alla prova: una goccia deflattiva nel mare del sovraffollamento?, in Diritto penale processuale, 2014, 661 ss. e G. SPANGHER, Urge una riforma organica del sistema sanzionatorio, in Diritto penale processuale, 2015, 913 ss.

[95] D. FERRANTI, Giustizia riparativa e stalking: qualche riflessione a margine delle recenti polemiche (2017), in http://www.penalecontemporaneo.it, G. DE FALCO, de Falco, La nuova causa di estinzione del reato per effetto di condotte riparatorie di cui all'art. 162-ter c.p.: efficacia deflattiva reale o presunta? in Cassazione penale, fasc.12, 1 dicembre 2017, 4626b

[96] G. AMARELLI, La nuova causa estintiva per condotte riparatorie ex art. 162-ter c.p., in Studium iuris, 12/2017, 1419 e ss

([96]) C. GRANDI, L’estinzione del reato per condotte riparatorie. Profili di diritto sostanziale, 2017, in http://www.lalegislazionepenale.eu/wp-content/uploads/2017/11/C.-Grandi-commento-l.-103- 21017.pdf; C. PERINI, Condotte riparatorie ed estinzione del reato ex art. 162ter c.p.: deflazione senza Restorative Justice, in dir. pen. e proc. n. 10/2017, 1274 e ss, S. QUATTROCOLO, Condotte post factum ed estinzione del reato: il nuovo art. 162-ter c.p. conferma il terzo principio della dinamica?, in Indagini preliminari e giudizio di primo grado. Commento alla legge 23 giugno 2017, n. 103 (Procedura penale. Commenti 20),Torino 2018, 266 e ss; F. BELLAGAMBA, L’estinzione del reato per condotte riparatorie, in AA.VV., Le recenti riforme in materia penale. Dai decreti di depenalizzazione (d.lgs. n. 7 e n. 8/2016) alla legge "Orlando" (l. n. 103/2017) e relativi decreti attuativi (3 ottobre 2017), 83 e ss,  Addenda a G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, in https://www.zanichelli.it/download/media/y9gy/Fiandaca_addenda_legge_Orlando.pdf, Addenda a C. Fiore – S. Fiore, Diritto penale. Parte generale, in https://legacyshop.wki.it/documenti/addenda%20fiore_188305.pdf, M. RIVERDITI, Condotte riparatorie ed estinzione del reato (art. 162 ter c.p.): un primo sguardo d’insieme, in Giurisprudenza Italiana, ottobre 2017, 2227 e ss, R. G. MARUOTTI, La nuova causa di estinzione del reato per condotte riparatorie di cui all'art. 162 ter cp, in in http://www.questionegiustizia.it, 2017, D. POTETTI, Estinzione del reato per condotte riparatorie (art. 162-ter c.p.): profili procedurali, in Cassazione Penale, fasc.12, 2018, 4276 e ss. Per D. CARCAMO, Giustizia riparativa con uno sguardo alla nuova disciplina delle “condotte riparatorie”, in Cassazione Penale, fasc. 12, 1 dicembre 2018, 4038, l’intervento avrebbe entrambe le finalità deflattive e riparative.

[97] E. MATTEVI, Estinzione del reato per condotte riparatorie, in La riforma della giustizia penale. Commento alla legge 23 giugno 2017, n. 103, a cura di Scalfati e Del Tufo, Torino, 2017, 33 ss operava questo tentativo sottolineando la necessità del requisito, ai fini della estinzione, della “personalità” della riparazione.

[98] A. SCALFATI, Premessa, in Il giudice di pace. Un nuovo modello di giustizia penale, Padova, 2001, XIII ss.

([99]) L’espressione è presa in prestito da G. FIANDACA, La giustizia minorile come laboratorio sperimentale di innovazioni estensibili al diritto penale comune, 2001, in Id., Il diritto penale tra legge e giudice, Padova, 2002, 152 e ss.

Ma vedi anche T. PADOVANI, Premesse introduttive alla giurisdizione penale di pace, in Il giudice di pace nella giurisdizione penale, a cura di Giostra – Illuminati, Torino, 2001, IX.

([100]) M. BOUCHARD, La competenza. La riforma delle sanzioni. La mediazione (presiede F. Petrelli), in Giustizia e Costituzione, 1997, n. 3-4, 29. L’obiettivo del d.lgs, dichiarato nella Relazione([100]), è quello di dar vita ad un diritto penale più ‘leggero’, dal ‘volto mite’. Il che sembra essere stato raggiunto, quantomeno nell’impostazione astratta, attraverso la scomparsa della sanzione della reclusione in carcere, sostituita dall’innovativa presenza di sanzioni paradetentive (il lavoro di pubblica utilità e la permanenza domiciliare nei fine settimana), nonché dalla preminenza della sanzione pecuniaria, prevista in via esclusiva e comunque sempre alternativa alle sanzioni del primo tipo. Peraltro, il ricorso alla reclusione in carcere avviene solo agli estremi del modello, laddove non ci dovesse essere il rispetto degli obblighi connessi alle sanzioni minori, così configurandosi un delitto di competenza del tribunale (in composizione monocratica). Proprio in ragione di questo microsistema sanzionatorio – la cui esistenza è stata riconosciuta anche dalla Corte Costituzionale- , al giudice di pace non è possibile applicare la sospensione condizionale della pena (art. 60). Né sono applicabili i riti alternativi o speciali (come il patteggiamento), perché ritenuti inconciliabili con la “natura compositiva” della giurisdizione del giudice di pace. Il ricorso al patteggiamento frusterebbe, infatti, le esigenze della vittima. Mentre il ricorso alla sospensione condizionale «avrebbe significato trasformare il giudice di pace in un autentico buffone», che prima si impegna nella conciliazione e poi «pronuncia una condanna a pena intrinsecamente modesta, e per giunta non eseguita». Inoltre, si dubita che il reo, che abbia deciso di non conciliare, sia meritevole del beneficio. Allora, il filo comune di tali scelte legislative, che conducono alla creazione di un diritto penale mite, ma effettivo, alla prevalenza dell’umanità sulla deflazione, non può che essere quello imposto dall’art. 2: la conciliazione. L’art. 2, comma 2 diviene, così, «il principio operativo su cui si regge tutta l’impalcatura» che, solo in termini di extrema ratio, sfocerà nell’applicazione di una sanzione.

([101]) «La pena è già nel solo giudizio ed il procedimento penale è già pena». Così, A. DALIA- M. FERRAIOLI, Manuale di procedura penale, 925

([102]) V. PATANE’, Percorsi di giustizia riparativa nel sistema penale italiano, in AA.VV., Vittime di reato e sistema penale, a cura di Bargis M., Belluta H., Amalfitano C, 2017 563

([103]) Per un quadro completo del mondo penitenziario dopo la direttiva vittime, cfr. G. ROSSI, op. cit.

([104]) Sent. n. 183/2011. e n. 74/2016 Cfr. anche D. PULITANO’, Minacciare e punire , in La pena, ancora: tra attualità e tradizione. Studi in onore di Emilio Dolcini, a cura di Paliero - Viganò - Basile – Gatta, Milano, 2018 (II tomi), 22. Nel dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 62-bis c.p. nella parte in cui stabilisce che, ai fini dell’applicazione del primo comma dello stesso articolo, non si possa tenere conto della condotta del reo susseguente al reato, la Consulta ha chiarito che «escludere che possa assumere rilevanza, ai fini delle attenuanti generiche, una condotta, successiva al reato, indicativa di una positiva evoluzione in atto della personalità del condannato significa anche porsi in contrasto con l’art. 27, terzo comma, Cost.».

[106] Cass. pen., sez. III, 2 aprile 2014, n. 31841; Cass. pen., sez. I, 27 maggio 2010, n. 27542; Cass. pen., sez.I, 6 aprile 2005, n. 17637; Cass. pen., sez.VI, 10 ottobre 2003, n. 4304; Cass. pen., sez. I, 12 maggio 1997, n. 3306

[107] G. MANNOZZI – G. A. LODIGIANI, La giustizia riparativa, cit.

[108] A. LORENZETTI, Giustizia riparativa cit.

([109]) M. PAVARINI, Il “grottesco” della penologia contemporanea, in Diritto penale minimo, a cura di Curi – Palombarini, Roma 2002, 291; C. BRUTTI – R. BRUTTI, Sul testo di Giovanni Rossi, in ID., Mediazione, conciliazione e riparazione, Torino 1999, 68;  S. VEZZADINI, La vittima di reato tra negazione e riconoscimento, Bologna, 2006, 150 e ss.

([110]) E. MATTEVI, Una giustizia cit., ibidem

[111] G. MANNOZZI – G. A. LODIGIANI, La giustizia riparativa, cit., 368 e ss

[112] M. DONINI, Il delitto riparato. Una disequazione che può trasformare il sistema sanzionatorio, in Giustizia riparativa. Ricostruire legami cit., ma anche ID, Per una concezione post-riparatoria della pena, in Rivista italiana di  diritto processuale penale, 2013, 1162 ss.

[113] V., dopo la riforma, l’opinione di C. CONTI, Addenda al Manuale di procedura penale XXIII ed., Milano, 2022, secondo cui «Sebbene la giustizia riparativa – in quanto strumento di diversion – rientri tra i procedimenti speciali che comportano una deflazione giudiziaria, la funzione principale della stessa è estranea a esigenze di economia processuale. Essa mira piuttosto ad affiancare al sistema punitivo tradizionale uno alternativo, fondato sulla (ri)costruzione di un legame tra vittima e autore del reato. È proprio la “complementarità” a caratterizzare la disciplina italiana. Non si tratta di una giustizia alternativa a quella tradizionale e neppure sussidiaria, ma di un percorso parallelo, giustificabile alla luce del modello risocializzante indicato dall’art. 27 Cost.».

([114]) F. PALAZZO, Giustizia riparativa e giustizia punitiva, in Giustizia riparativa. Ricostruire legami cit., 68.

([115]) R. BARTOLI, Il diritto penale cit., 96 e ss.

[116] L’orientamento secondo cui è necessario che la rieducazione non venga mai sacrificata è frutto di un revirement della Consulta operato con la sentenza n. 306 del 1993. Ma già prima, la sentenza n. 313 del 1990 riconosceva che la rieducazione è un principio forte ed irrinunciabile che, «lungi  dal rappresentare   una   mera   generica   tendenza   riferita  al  solo trattamento, indica invece proprio una delle  qualità  essenziali  e generali  che  caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l'accompagnano da quando nasce, nell'astratta  previsione  normativa, fino  a  quando  in concreto si estingue». V., più diffusamente, G. FIANDACA, Prima lezione, cit., capitolo I.

[117] Magistrale è, sul punto, M. DONINI, Le due anime cit., p. 2027

[118]  V. F. D’AMATO, op. cit.

[119]«I beni giuridici e la loro offesa costituiscono la chiave per una interpretazione teleologica dei fatti che renda visibile la specifica offesa già contenuta nel tipo legale del fatto. Sul piano ermeneutico viene così superato lo stacco tra tipicità ed offensività. I singoli tipi di reato vanno ricostruiti in conformità al principio di offensività, sicché tra i molteplici significati eventualmente compatibili con la lettera della legge si dovrà operare una scelta con l’aiuto del criterio del bene giuridico, considerando fuori del tipo di fatto incriminato i comportamenti non offensivi dell’interesse protetto. In breve, è proprio il parametro valutativo di offensività che consente di individuare gli elementi fattuali dotati di tipicità; e di dare contenuto tangibile alle espressioni vaghe che spesso compaiono nelle formule legali» (Cass. pen., sez .un., 25 febbraio 2016, n. 13681).

[120] «Il fatto particolarmente lieve, cui fa riferimento l'art. 131-bis cod. pen., è comunque un fatto offensivo, che costituisce reato e che il legislatore preferisce non punire, sia per affermare la natura di extrema ratio della pena e agevolare la "rieducazione del condannato", sia per contenere il gravoso carico di contenzioso penale gravante sulla giurisdizione. Ne consegue che il fatto non è punibile non perché inoffensivo, ma perché il legislatore, pur in presenza di un fatto tipico, antigiuridico e colpevole, ritiene che sia inopportuno punirlo, ove ricorrano le condizioni indicate nella richiamata disposizione normativa» (Cass., pen. sez. un., 27 gennaio 2022, n. 18891).

[121] Sotto tale profilo, non appare del tutto condivisibile quanto sostenuto nella Relazione ministeriale. Se, come è stato ivi scritto, «una condotta post delittuosa non potrà» mai «di per sé rendere tenue un’offesa che tale non è ma potrà essere valorizzata» solo «per valutare/confermare la tenuità di un’offesa che già appare tale», allora non si comprende l’utilità della novella per aggiunta. Si pensi alla repressione dei reati edilizi: poiché il fulcro dell’indagine della condotta susseguente si sposta dall’abitualità del comportamento all’offensività del fatto storico, l’autodemolizione dell’immobile abusivo non potrà più essere ignorata  anche se intervenuta in corso di giudizio, purché effettuata prima di ricevere l’ordine dell’autorità amministrativa. 

[122] Ciò appare coerente con il neo art. 129-bis, comma 1, c.p.p., secondo cui «in ogni stato e grado del procedimento l’autorità giudiziaria può disporre, anche d’ufficio, l’invio dell’imputato e della vittima del reato di cui all’articolo 42, comma 1, lett. b), del decreto legislativo attuativo della legge 27 settembre 2021, n. 134, al Centro per la giustizia riparativa di riferimento, per l’avvio di un programma di giustizia riparativa».

[123] Corte cost., sentenza n. 104 del 1968: « l'"individualizzazione" della pena, in modo da tenere conto dell'effettiva entità e delle specifiche esigenze dei singoli casi, si pone come naturale attuazione e sviluppo di principi costituzionali, tanto di ordine generale (principio d'uguaglianza) quanto attinenti direttamente alla materia penale. Lo stesso principio di "legalità delle pene", sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost., dà forma ad un sistema che trae contenuti ed orientamenti da altri principi sostanziali - come quelli indicati dall'art. 27, primo e terzo comma, Cost. - ed in cui "l'attuazione di una riparatrice giustizia distributiva esige la differenziazione più che l'uniformità"».