Una giustizia e dunque un diritto forse più umano
Modifica pagina
Cecilia De Luca
Il rapporto tra il sistema penale e la giustizia riparativa, piuttosto che essere definito come “di opposizione”, va concepito secondo una prospettiva di “complementarità” e di “interdipendenza funzionale”.
A justice and therefore a law, perhaps more human
The relationship between the penal system and restorative justice, rather than being defined as ”opposition”, must be conceived according to a perspective of ”complementarity" and "functional interdependence".Sommario: 1. Premessa: excursus storico sulla “giustizia” come valore fondamentale senza definizione; 2. La giustizia riparativa: l’origine del “nomen”; 3. La giustizia riparativa come metodologia della formazione; 4. Conclusioni.
Abstract (italiano): Il rapporto tra il sistema penale e la giustizia riparativa, piuttosto che essere definito come “di opposizione”, va concepito secondo una prospettiva di “complementarità” e di “interdipendenza funzionale”: il primo motivo, di ordine logico-normativo, è dato dalla caratteristica essenziale per cui i percorsi di giustizia riparativa devono avere carattere necessariamente volontario per esigenze di garanzia e di rispetto della libertà della persona, per evitare di aumentare lo squilibrio di potere tra le parti e per scongiurare il rischio di seconda vittimizzazione; il secondo, di ordine contenutistico-strutturale, vede la giustizia riparativa come un “metodo di gestione” dei conflitti sviluppato sulla base di una memoria antropologica, di un’ispirazione filosofica e di una componente giuridica che hanno operato verso una convergenza di risultati: la formalizzazione di modalità dialogiche di conflict handling incentrate sulla mediazione, sulla riparazione, sul riconoscimento della dignità delle parti in conflitto, e, inoltre, come “fine”, ossia strumento elaborato al crocevia di antropologia, filosofia, diritti umani, perché le finalità ultime della giustizia riparativa sono il prendersi cura della sofferenza delle vittime, la promozione del recupero individuale del reo e l’avviare percorsi di ricostituzione dei legami sociali.
Il senso della giustizia riparativa sembra, proprio, questo: muovere dalle norme penali, valorizzate nella loro essenza di precetti a tutela della comunità e dell’individuo, per cercare di rispondere al reato con strumenti diversi da sanzioni pur sempre strutturalmente afflittive anche quando sono orientate alle rieducazione, e cioè con modalità compatibili con l’intera Costituzione, socialmente costruttive, individualmente più dignitose, maggiormente rispettose dei bisogni delle vittime e perciò eticamente superiori rispetto alla pena tradizionalmente intesa.
Come scrive Tzvetan Todorov, l’obiettivo della giustizia riparativa “non è proteggere un ordine impersonale ma mettere in grado i perpetratori e le vittime di vivere fianco a fianco. Essa cerca non di punire ma di riparare relazioni che non avrebbero mai dovuto essere interrotte”.
Abstract (inglese): The relationship between the penal system and restorative justice, rather than being defined as "opposition", must be conceived according to a perspective of "complementarity" and "functional interdependence": the first reason, of a logical order-regulatory, is given by the essential characteristic for which the paths of restorative justice must necessarily be voluntary in order to guarantee and respect the freedom of the person, to avoid increasing the imbalance of power between the parties and to avoid the risk of second victimization; the second, of a content-structural order, sees restorative justice as a "management method" conflicts developed on the basis of an anthropological memory, a philosophical inspiration and a juridical component that have worked towards a convergence of results: the formalization of dialogical modes of conflict handling focused on mediation, on reparation, on the recognition of the dignity of the parties to the conflict, and, moreover, as an "end", that is, an instrument developed at the crossroads of anthropology, philosophy and human rights, because the ultimate aims of restorative justice are to take care of the suffering of the victims, the promotion of the individual recovery of the offender and the start of paths to rebuild social ties.
The sense of restorative justice seems, precisely, this: moving from the penal norms, valued in their essence of precepts to protect the community and the individual, to try to respond to the crime with instruments other than sanctions that are still structurally distressing even when they are oriented to re-education, that is, in ways compatible with the entire Constitution, socially constructive, individually more dignified, more respectful of the needs of victims and therefore ethically superior to the punishment traditionally intended.
As Tzvetan Todorov writes, the goal of restorative justice "it is not to protect an impersonal order but to enable perpetrators and victims to live side by side. It seeks not to punish but to repair relationships that should never have been interrupted".
1. Premessa: excursus storico sulla “giustizia” come valore fondamentale senza definizione
L’idea di giustizia e l’aspirazione ad essa accompagna l’uomo sin dalle origini.
La “giustizia somma” e “piena” è propria del trascendente: la “giustizia vera” è quella di Dio, e, dunque, la “giustizia divina” diventa termine di riferimento per la realizzazione di quella terrena.
La giustizia diventa così valore di orientamento, di ricerca e di realizzazione, ma anche ideale di speranza ed aspirazione laddove ne venga percepita l’assenza[1].
La giustizia è esperienza umana fondante la persona e le relazioni personali e sociali: è fonte ed al contempo metro di valutazione dei comportamenti umani nelle relazioni tra persone[2].
La “giustizia” è invocata dalle parti in conflitto o da chi ha subito un’ “ingiustizia”, e giusta ed ingiusta viene valutata anche l’opera dei giudici che applicano la legge.
La giustizia è assimilata alla legge ma al contempo se ne distingue diventandone termine di riferimento comparazione: anche le leggi sono valutate giuste o ingiuste. Lo stesso diritto, come insieme di leggi e norme e di applicazioni giudiziali, per essere referenziale, apprezzato e credibile deve essere permeato dei valori della giustizia.
Ed il rapporto tra il diritto e la giustizia caratterizza l’elaborazione e l’applicazione dei due concetti.
Già i tratti caratteristici, da un lato la concretezza del diritto e delle sentenze e dall’altro l’idealità della giustizia, rendono lo scarto e la diversità e ne segnano anche la inevitabile contiguità e reciprocità[3].
Il concetto di “giustizia” tuttavia, nonostante la fondamentale rilevanza, la plurima e variegata significanza ed applicazione, ha in “sé una insanabile contraddizione”: “manca una definizione riconosciuta di ciò che è giusto e di ciò che è ingiusto. L’intera storia dell’umanità è una lotta per affermare concezioni della giustizia diverse e perfino antitetiche, “vere” solo per coloro che le professano. Per lo più si è venuti a questo: che giusto è ciò che corrisponde alla propria visione della vita in società – la giustizia, si dice, sta necessariamente in una relazione sociale – ingiusto ciò che la contraddice. Così però la giustizia rinuncia alla sua autonomia e si perde negli ideali o nelle ideologie o nelle utopie. Si riduce a un artificio retorico per valorizzare questa o quella visione politica: la giustizia proletaria, la giustizia etnica, o volskisch del nazismo, la giustizia borghese, ecc., ciascuna presentata come giustizia autentica, alternativa alle altrui contraffazioni della giustizia…Dietro l’appello ai valori più elevati ed universali è facile che si celi la più spietata lotta per il potere, il più materiale degli interessi. Quanto più puri e sublimi sono quei valori tanto più terribili sono gli eccessi che giustificano”[4].
Tanto è che il più antico principio di giustizia dei giureconsulti romani del Digesto, attribuito ad Ulpiano “unicuique suum” ossia “dare e riconoscere a ciascuno il suo” “è una scatola vuota ed essendo vuota ognuno di noi la può riempire come gli pare[5] (…) è formula tautologica e vuota, che appunto perché lascia indeterminato ciò che è decisivo, la nozione di suum, può facilmente essere fatta propria da chiunque: il superuomo nietzschiano, come l’apostolo della fratellanza umana, il combattente per il comunismo universale, come il fautore della libertà dello stato di natura o il fanatico dello stato razzista”[6].
E paradossalmente, proprio “jedem das seine” ossia “a ciascuno il suo” era la scritta posta sull’ingresso del lager di Buchenwald.
La giustizia, pertanto, reca il rischio di strumentalizzazioni, di essere trasformata in ideologia o strumento del potere ed il diritto, da essa staccato, uno specchio delle idee dominanti[7].
È il potere, spesso, a definire la giustizia attraverso leggi, ad “imporne” il significato, ed a perseguire ciò che gli è contrario perché ingiusto: il terrore Giacobino, dopo la Rivoluzione Francese, nel 1794, vara la c.d. legge di Pratile sul tribunale rivoluzionario che giustificò la ghigliottina per gli accusati, privandoli del diritto di difesa e del ricorso in appello, per il trionfo della repubblica e della sua giustizia; il regime hitleriano poté fregiarsi del titolo di stato di diritto e di giustizia; le leggi Razziali del 1938 varate in Italia sotto il Governo di Mussolini, che vietavano ogni diritto agli ebrei e loro discendenti, erano considerate strumento di giustizia sociale ed applicate dai tribunali italiani.
La giustizia ed il diritto ed i rapporti tra loro e con la vita degli uomini sono temi eterni che attraversano i tempi e la storia.
Nell’Antica Grecia le regole del vivere in società, cui oggi diamo il nome di diritto, non erano dotate di specificità ed autonomia, ma erano la risultante dei principi culturali e sociali derivanti dai miti e dagli eroi omerici, dalle credenze religiose e dagli oracoli, dalle opere letterarie e dei filosofi, dai legislatori delle Polis, dalle tragedie dei drammaturghi e dalle loro rappresentazioni che costituivano forte elemento ideale ed educativo dei cittadini. E ciò costituiva il sentimento etico della polis il nomos distinto dal concetto di giustizia, dike[8]. Nomos e dike[9], diritto e giustizia, sono temi portanti dei poemi e delle tragedie greche che avevano un grande rilievo nella vita sociale e nell’elaborazione culturale greca insieme agli insegnamenti dei filosofi.
Il sostrato storico del V secolo a.C., con la fioritura e massima compiutezza della democrazia greca e l’espansione ad altri popoli e culture della civiltà greca, aveva suscitato molte evoluzioni nel campo della giustizia: dalla consuetudine alla legge scritta, dall’abbandono della legge della vendetta alla regolamentazione delle liti affidate ai tribunali. Le riflessioni connesse riguardavano il rapporto tra giustizia e legge, la contrapposizione tra eternità e assolutezza delle leggi divine, e relatività e mutevolezza delle leggi della polis, le influenze delle ingiustizie private sulle vicende sociali e collettive[10].
A titolo di esempio, Esiodo, avendo patito esperienza di ingiustizia dal fratello, che subordinando i giudici, avevano ottenuto una porzione di eredità superiore, in Le opere e i giorni invoca Giove per la violenza subita e “crea” Dike figlia di Giove e Themis, che siede accanto al padre e lo informa delle azioni malvagie degli uomini affinché provveda a punirle. Ciò perché l’azione singola ingiusta incide sul benessere dell’intera collettività: sulla giustizia si fonda la società umana se in corrispondenza ed in collegamento con l’ordine divino.
L’obbedienza alla legge diviene la più alta forma di virtù.
Per quanto concerne i filosofi della scuola di Mileto inseriscono la “giustizia” nell’interpretazione della natura e del cosmo[11].
Per Anassimandro la “giustizia” è l’eterno ordine che regola l’universo evitando il caos.
Per Parmenide ed Eraclito, filosofi dell’essere o del suo divenire, sviluppano in concreto il concetto della giustizia quale supremo principio dell’Universo. Al riguardo Eraclito afferma, proprio per l’essenziale rilevanza, che per le leggi il popolo deve combattere per le mura della città.
La “giustizia” è la chiave di spiegazione dei fenomeni naturali ed è criterio che equilibra anche gli elementi del corpo regolandone l’armonia e la misura e ne permette la salute, secondo Ippocrate.
La legge – nomos – ed il concetto di isonomia – uguaglianza di fronte alla legge di tutti i cittadini erano concetti fondanti e condivisi.
Il Nomos è il collegamento tra bia, forza sregolata, violenza, costrizione, e dike, figlia di Themis e Giove, giustizia, forza regolatrice: nel passo di Pindaro “nomos il sovrano di tutti, sia mortali sia immortali, trasforma in giustizia la violenza più forte con mano inesorabile (…)”[12].
Per Platone, ancora, la “giustizia” è virtù umana, perfezione dell’uomo, il cui fine è la conoscenza del bene.
La giustizia è la vera natura, norma ideale, dell’uomo: la “giustizia primaria”.
La “giustizia secondaria” invece di manifesta nella vita sociale dello Stato.
Platone, all’epoca dell’estremo soggettivismo e di dissoluzione, ristabilisce l’idea che la “giustizia” sia espressione della norma ideale e di natura e trasferisce il concetto di giustizia dalle relazioni sociali ed esterne all’interno dell’uomo: la giustizia è la legge innata nell’animo umano. E proprio l’armonia e la salute delle parti dell’anima per Platone è la giustizia, al pari dell’armonia degli elementi del corpo, la c.d. “salute” di Ippocrate[13].
Per Aristotele la giustizia è virtù totale o perfetta che tutte le altre ispira; viceversa l’ingiustizia è vizio totale.
Aristotele distingue la “giustizia” in più specie: la “giustizia distributiva” applica la ripartizione di onori e beni in ragione adeguata o proporzionata al merito; la “giustizia correttiva o sinallagmatica” regola i rapporti scambievoli e misura impersonalmente i beni o i meriti; applica il principio di proporzione ai rapporti involontari che nascono dal delitto. La giustizia correttiva si può estrinsecare: in “giustizia commutativa”, nei rapporti di scambio, ma anche di “giustizia giudiziaria” nei rapporti da delitto, che applica ai rei la pena per riequilibrare l’ordine turbato ed il torto subito dalla vittima, con la medesima regola dei rapporti privati[14].
Per quanto riguarda la giustizia “romana”, proseguendo l’excursus, l’elaborazione Romana del diritto poggiava sul sostrato dei temi filosofici, logici e matematici greci circa nomos e dike.
La civiltà romana, il percorso di elaborazione iniziato nel V secolo a.C. e culminato con la codificazione giustinianea nel VI sec. d. C., crea il diritto[15].
Il diritto diviene scienza autosufficiente: un vero e proprio sapere fondato su definizioni e principi, regole, connessioni e conseguenze, oggetto di studio e di applicazione da parte di specialisti appunto giuristi. Ed il diritto si arricchisce autonomamente e continuamente nel tempo con l’applicazione ai rapporti umani e con le decisioni giudiziali. E la concreta applicazione del diritto consente di regolare i rapporti collettivi e tra individui costituisce la “giustizia”: la dea Iustitia affermava lo ius quando l’ago, examen, della bilancia era verticale, retto, rectum, o perfettamente retto, derectum. I concetti di giustizia e diritto sono unificati.
La codificazione di Giustiniano con il Corpus Juris Civilis, 533 d.C., raccoglie, unisce, ordina a sistema tutta la legislazione stratificatasi nel corso dei secoli risultante dall’applicazione giudiziale e dalle opere dei giuristi affinché non ne fosse escluso nulla e, con il valore e l’efficacia derivante dall’imprimatur imperiale, restasse opera duratura.
La Iustitia nel Codex, riprendendo la formula di Cicerone, “est constans et perpetua voluntas suum unicuique tribuendi”[16], la costante e perpetua volontà di attribuire a ciascuno il suo diritto; e si fa riferimento chiaramente all’autorità, voluntas, che ne garantisce l’attuazione.
“1. I precetti del diritto sono questi: vivere onestamente, honeste vivere, non nuocere ad altri, alterum non laedere, attribuire a ciascuno il suo, suum cuique tribuere.
2. La giurisprudenza è la conoscenza delle cose divine e umane, la scienza del giusto e dell’ingiusto.”.[17]
Il diritto romano della codificazione giustinianea è un vero e proprio sistema coerente, unitario ed organico elaborato teoricamente ma sempre definito e rivisto nella funzionalità da una giurisprudenza pratica e concreta; e tale elaborazione unitaria a seguito la trasformazione, anch’essa regolamentata, della città di Roma ed Impero universale che necessitava di un’architettura giuridica stabile e coerente.
Gli istituti del diritto Romano giustinianeo penetrarono culturalmente l’età di mezzo in ragione di compiutezza ed organicità; ne costituirono una fonte sussidiaria essenziale cui far riferimento in ogni momento in ragione delle peculiarità e specificità del diritto comune. Cosicché l’elaborazione della scienza giuridica fondata sugli istituti del diritto romano conviveva con consuetudini e statuti e regolamenti comunali e dei vari ordinamenti autonomi[18].
Il diritto romano si è tramandato sino a noi, influenzato dal Cristianesimo, dall’umanesimo e dal rinascimento[19].
“La cifra essenziale che contraddistingue la modernità giuridica: statualità del diritto; la giuridicità vincolata alla statualità, lo Stato quale unico soggetto storico in grado di trasformare in giuridica una vaga regola sociale; il diritto si manifesta unicamente nella voce dello Stato, cioè nella legge, la quale – se non formalmente l’unica fonte – lo è sostanzialmente perché al vertice di una gerarchia invalicabile; il vecchio pluralismo giuridico prende sempre più campo nella civiltà del massimo liberalismo economico; scienza giuridica e operosità dei giudici vengono espunte dal processo creativo del diritto, ridotte a un ruolo ancillare del legislatore, mentre la loro interpretazione – vecchio motore propulsivo dell’esperienza medievale – viene contratta e minimizzata al non-ruolo esegesi, ossia di ripetizione piatta e servile della volontà che il legislatore ha rivelato e racchiuso in una legge.”[20].
Nell’ “epoca moderna” circa l’origine, l’essenza e la ragione del diritto – il nomos – e della sua vincolatività per i cittadini si sono affermate tre diverse visioni riconducibili al “diritto naturale”, al “diritto consuetudinario”, alla “legge positiva”.
Il diritto naturale, o di natura, è considerato dalla corrente di pensiero definita “giusnaturalismo”, un riferimento certo ed inalterabile rispetto alla mutevolezza delle leggi: “La invocazione ripetuta variegata ma consonante al diritto naturale si concreta nell’evocazione di un diritto superiore che funge pur nella sua enorme versatilità e vaghezza a criterio di misura e quindi di validità per un diritto positivo concretissimo nella specificità dei suoi comandi e dei suoi testi normativi ma ripugnante una coscienza collettiva ispirata a comune ragionevolezza[21]. Le miserie del diritto positivo – ridotto spesso a specchio di fanatismi razzistici religiosi dei nazionalismi politici di tirano e ripugnanti o nel migliore dei casi di legislazioni miope o partigiani – spingono a guardare più in alto a un livello superiore che sopravanzi particolarismi in cui si servono valori che la coscienza collettiva avverte e di cui ha nutrito la vicenda storica. Un livello superiore di giuridicità che è diritto ma in cui si riesce a non separare essere e dover essere giuridicità formale e giustizia che le correnti positivistiche avevano irrimediabilmente diviso”[22].
Il diritto consuetudinario è il diritto spontaneo, senza alcuna legislazione, che nasce dalla c.d. consuetudine al ripetersi dei comportamenti ed alla comune opinione circa la validità degli stessi fondata sulla fiducia e/o necessità del rispetto da parte di tutti. La vigenza è vincolatività del diritto consuetudinario è fondato sulla spontanea, tacita e concorde accettazione da parte dei cittadini[23].
Il diritto positivo si fonda sulla legge positiva – “ius in civitatem positum” ossia “il diritto vigente in un determinato ordinamento” di cui il positivismo giuridico è l’elaborazione teorica – afferma che al di fuori della legge scritta non v’è diritto[24].
La “religione giudaico-cristiana” ha la “giustizia” ed il “diritto” tra i contenuti fondamentali; pressoché sterminati sono i riferimenti testuali e dottrinali a tali temi.
Peraltro come per tutte le religioni, ad iniziare dal valore riconosciuto ad ogni persona chiamata a inseguire gli insegnamenti di Dio, sono ausilio all’uomo per la ricerca di Dio.
Nell’Ebraismo “giusto” è il principale attributo di Dio[25]; e “giusti” sono gli uomini che ne seguono le leggi ed i precetti. La giustizia di Dio è la corrispondenza al patto stretto con il suo popolo. È giusto chi rispetta ed è in armonia con la legge e con il suo spirito ed è Dio solo che giudica se l’uomo è giusto.
Nel Cristianesimo si ritrova la “giustizia” presso Dio[26] ed essa è attributo di Dio.
Nel “discorso” della montagna[27] due sono i riferimenti alla “giustizia”: “beati quelli che hanno fame di sete e di giustizia”, “beati i perseguitati per la giustizia”.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica inserisce la giustizia nelle virtù cardinali: la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza[28].
E la “giustizia” ha un posto privilegiato: l’art. 1805 cita il libro della Sapienza: “ Se uno ama la giustizia, le virtù sono il frutto delle sue fatiche. Essa insegna infatti la temperanza e la prudenza, la giustizia e la fortezza delle quali nulla è più utile all’uomo nella vita” (Sap. 8,7).
“La giustizia è la virtù morale che consiste nella costante e ferma volontà di dare a Dio e al prossimo ciò che è loro dovuto. La giustizia verso Dio è chiamata “virtù di religione”. La giustizia verso gli uomini dispone di rispettare i diritti di ciascuno e a stabilire nelle relazioni umane l’armonia che promuove l’equità nei confronti delle persone e del bene comune. L’uomo giusto, di cui spesso si fa parola nel Libri Sacri, si distingue per l’abituale dirittura dei propri pensieri e per la rettitudine della propria condotta verso il prossimo.
“Non tratterai con parzialità il povero, né userai preferenze verso il potente; ma giudicherai il tuo prossimo con giustizia” (Lv. 19.15). Voi, padroni, date ai vostri servi ciò che è giusto ed equo, sapendo che anche voi avete un padrone in cielo” (Col. 4,1).[29]”.
Anche i padri della Chiesa hanno approfondito i concetti di diritto e di giustizia: basti pensare a S. Ambrogio, per il quale la “giustizia” è feconda generatrice delle altre virtù; a San Tommaso, per il quale è preclarissima virtù perché più delle altre è vicina alla ragione e comprende non solo le azioni che l’uomo compie in sé stesso ma anche quelle verso gli altri.
La “giustizia” e il diritto sono sempre finalizzati a costituire un sistema regolatore dell’umana convivenza; sono e tracciano confini e freni ma costituiscono anche fonte di cooperazione tra individui, sono strumento di rispetto reciproco e di convivenza tra diversi.
I valori della “giustizia” in rapporto alle leggi, sovraordinati alle leggi o alle consuetudini o quali derivazioni delle stesse o alle stesse coincidenti, sono un elemento di riferimento costante e universale che si ritrova in ogni civiltà ed esperienza di giustizia. E diversi possono essere i collegamenti tra giustizia e legge.
La “giustizia” si “confonde” con la giuridicità e con il diritto e la legge.
Tuttavia, l’idea di “giustizia” non si esaurisce con le leggi. Negli ordinamenti moderni lo scarto e la distanza tra la giustizia e la legge positiva emerge da molti elementi: la legge può contrastare con norme superiori dell’ordinamento. Le legge è passibile, pur essendo valida ed efficace, di essere assoggettata a valutazione rispetto a valori esterni: la conformità ai “valori” e ai “principi” dell’ordinamento e della Costituzione. La Corte Costituzionale, giudice delle leggi, valuta se la legge è contraria ai valori della Costituzione: ciò conferma che la legge positiva non è onnipotente ed ha già qualcosa di esterno e superiore a cui deve conformarsi, anche se anche la Costituzione è ius positum.
Inoltre, la legge è passibile di disubbidienza da parte dei cittadini, che la ritengono ingiusta.
La “giustizia” reca in sé un elemento di trascendenza rispetto alle norme positive percepito dalla coscienza umana che è il paradigma “ideale” con il quale raffrontare ogni norma o contenuto di essa, che consente alla coscienza umana di valutare tutto ciò che di giusto o ingiusto è stabilito dal diritto.
Per concludere, la “giustizia” è lo scopo ed anche il criterio di valutazione intrinseco di ogni legge e di ogni amministrazione della giustizia ad opera dei giudici ma anche – in generale – di ogni scelta o attività riguardante la persona umana[30].
“La giustizia che è concessa agli esseri umani è una ricerca, un andar cercando, lungo strade piene di pericoli. Dunque, non si tratta di un abbaglio o di un miraggio, ma di un aspetto della humana condicio.”[31].
“Forse possiamo dire che la giustizia è un’esigenza che postula un’esperienza personale: l’esperienza, per l’appunto, della giustizia o meglio dell’aspirazione alla giustizia che nasce dall’esperienza dell’ingiustizia e dal dolore che ne deriva.”[32].
L’impossibilità di definire il contenuto condiviso ed universale del concetto di “giustizia” che possa accomunare tutti i profili di approccio – filosofico, religioso, antropologico e sociale – tuttavia non impedisce di analizzare le forme e modalità in cui si manifesta in concreto la giustizia e può essere coniugata in rapporto al diritto.
La giustizia risulta manifestarsi o assumere significati ed essere considerata: come conformità a Dio o all’Essere trascendente, o alle leggi divine o alla natura ed ai principi etici universali; come insieme di valori trascendenti ed ideali fondanti la vita o come scopo di ogni legge ma anche come criterio valutativo di ogni legge o applicazione della legge; come diritto o come legge positiva, derivante dalla volontà del legislatore sia esso sovrano o tiranno, o democrazia, ecc.; come applicazione del giudice della legge al conflitto reale e concreto[33].
Il concetto di giustizia può applicarsi alle più varie e complesse situazioni della vita e pervade ogni aspetto esistenziale e si prolunga in tutte le dimensioni ed espressioni del diritto, della legge, del giudizio e si estende fino a toccare i diritti universali e fondamentali della persona umana e dei popoli.
Nella manifestazione pratica si hanno i concetti di: “giustizia distributiva”, ossia l’equa distribuzione delle risorse comuni e dei vantaggi tra le persone. I criteri di ripartizione e distribuzione variano in ragione dei riferimenti etici e principi giuridici; “giustizia prima o primitiva regola” e protegge una serie di valori fondamentali della persona condivisi, accettati e riconosciuti dalla societas, prevede la violazione e la pena conseguente; “giustizia c.d. secondaria”, la quale si attiva quando c’è la trasgressione e quindi reagisce ad una iniuria o iniustitia: la giustizia reagisce alla rottura dell’equilibrio preesistente e dato tra individui sia tra loro che nei rapporti sociali, nel civile e nel penale, affinché si ritorni alla situazione preesistente[34].
Nell’ambito di tale classe di colgono ulteriori specificazioni.
Quella della “giustizia retributiva”, per la quale al male commesso si applica il male della pena, al bene il bene del premio o del vantaggio. La pena si applica al delitto: la retribuzione del male con il male tipica del taglione o della vendetta è la forma più appariscente della giustizia[35].
Quella della “giustizia riconciliativa o restaurativa o riparativa”, la c.d. “restorative justice”, la quale ricostruisce i rapporti e le conseguenze della violazione e del conflitto con la partecipazione diretta delle parti, in particolare della vittima, per riparare le conseguenze del reato che ha generato danni alle persone e la crisi del rapporto personale o sociale tra le persone coinvolte.
3. La giustizia riparativa: l’origine del “nomen”
Ci si è chiesti se, pur circolando prevalentemente in lingua inglese, la “restorative justice” abbia origini anglosassoni o non sia piuttosto, anche, il precipitato di una traduzione giuridica, di una sapienza tramandata da una tradizione immemorabile di leggi espressa dai paesi di civil law.
La ricerca dell’origine del termine “restorative justice” sembra essere condotta quasi esclusivamente nel contesto del dibattito giuridico anglosassone.
Si tratta di ricostruirne, in questa sede, le cadenze essenziali.
Nella letteratura anglo-americana si è pressoché concordi[36] nel ritenere che sia stato Howard Zehr[37] ad utilizzare per primo il termine restorative justice[38], dando compiutamente alla giustizia riparativa una compiuta elaborazione teorica.
In un saggio del 2003, Laura Mirsky[39], scavando più indietro nel tempo rispetto agli scritti di Zehr, dove l’uso documentato del termine risale al 1985, ma sempre restando nell’area giuridico-culturale anglosassone, indica come all’origine del termine restorative justice si collochi il saggio di Albert Eglash del 1977: Beyond Restitution: Creative Restitution[40].
Tuttavia, Eglash cita alcuni passi dal libro di Schrey e Walz, The Biblical Doctrine of Justice and Law, in cui gli Autori utilizzando l’endiadi restorative justice.
Considerato che “giustizia che cura” è tra le definizioni più accreditate della moderna restorative justice[41], la nascita dell’idea di giustizia riparativa sembra trovarsi proprio nella Biblical Doctrine di Schrey e Walz, citata da Eglash nella traduzione di Whitehouse.
L’edizione originale del libro è dunque non già in lingua inglese, bensì in tedesco. L’originale tedesco contiene il termine heilende Gerechtigkeit, lessema che pur non essendo immediatamente traducibile come restorative justice, riesce tuttavia a descriverne il nucleo della giustizia riparativa stessa[42]: “Heilen” è un verbo che viene utilizzato in un registro linguistico alto e possiede un’accezione morale, spirituale, persino mistica, ed indica oltre che la guarigione di per sé stessa, un “percorso di guarigione”, una giustizia che risana, cioè una forma equipollente, che ripara, al dolore, al torto, alla solitudine, in generale, all’offesa subita.
In concreto, l’opera di traduzione che ha portato Whitehouse ad introdurre il termine restorative justice è in realtà un’opera di adattamento, una resa linguistica della tematica allo stato del dibattito anglosassone, la quale ha richiesto non già una mera traduzione letterale – non ravvisabile tra i termini heilende Gerechtigkeit e restorative justice – bensì un filtro linguistico-culturale, ad ulteriore riprova della permeabilità tra lingua e cultura, in questo caso giuridica, etica, teologica.
Vi è, tuttavia, un ulteriore dato da considerare: due anni prima dell’uscita del saggio di Schrey e Walz “The Biblial doctrine of Justice and Law”, nella letteratura anglosassone in tema di giustizia circolavano ampiamente le idee di un filosofo italiano, Giorgio del Vecchio, in virtù della traduzione in numerose lingue straniere dell’opera “La Giustizia” e della pubblicazione di diversi articoli in lingua inglese”, nella letteratura anglosassone in tema di giustizia circolavano ampiamente le idee di un filosofo italiano, Giorgio del Vecchio, in virtù della traduzione in numerose lingue straniere dell’opera “La Giustizia” e della pubblicazione di diversi articoli in lingua inglese[43].
Dunque, il pensiero di Del Vecchio, assieme alle sue aperture interessantissime, innovative e al loro tempo di avanguardia in tema di giustizia riparativa, era potenzialmente conoscibile sia da Schrey e Walz, sia da Whitehouse.
Proprio Del Vecchio, nel capitolo XI de “La Giustizia”, dedicato alla “Nozione formale ed esigenza assoluta della giustizia”, utilizza il termine “giustizia riparatrice” in alternativa a quello di “giustizia penale”: un’attenta lettura de “La Giustizia” conduce ad un’interpretazione dalla quale si evince come nell’opera del citato autore vi siano le componenti essenziali di una visione di giustizia “autenticamente riparativa” e, dunque, della restorative justice moderna.
4. La giustizia riparativa come metodologia della formazione
Lasciando ad altra sede, e ad altra “voce”, l’analisi dei problemi definitori, di natura diversa, che la “giustizia riparativa” pone, ciò che, qui, interessa è proprio il profilo attinente alla “formazione” alla “giustizia riparativa”, sul quale la stessa Direttiva 2012/29/UE, al considerando 61, e all’art. 25, pone l’accento: relativamente a quest’ultimo, vengono distinti quattro piani, a seconda dei destinatari e del ruolo da essi svolto nell’interazione con le vittime del reato, aventi, i primi, la cifra comune dell’unicità dell’obiettivo, quello del trattamento delle vittime in maniera rispettosa, professionale e non discriminatoria[44].
Essi sono i “funzionari”, quali gli agenti di polizia e il personale giudiziario, la “magistratura”, l’ “avvocatura”, e sotto il profilo della formazione del personale che lavora presso le associazioni a tutela delle vittime, i “mediatori”.
Nel promuovere la formazione rispetto a tutti e quattro i target individuati dalla Direttiva, occorre partire dall’assunto che la giustizia riparativa e il suo principale strumento applicativo, la mediazione, sono da considerare “complementari” e non alternativi o, addirittura, concorrenziali al sistema penale-processuale. La complementarietà è presupposto teorico anche del ricorso alla mediazione come tecnica di diversion, laddove i risultati della mediazione debbono potere essere processualizzabili[45].
Si rende, pertanto, necessario illustrare, brevemente, le ragioni sottese alla necessità di una formazione universitaria del giurista prima di affrontare il profilo della formazione dei magistrati, degli avvocati e dei mediatori.
Tra le “ragioni giuridiche” vanno annoverati il rilievo che la giustizia riparativa ha nelle fonti sovranazionali e la ricezione che di dette fonti è stata fatta nel diritto interno.
Per quanto concerne le “ragioni giusfilosofiche”, il diritto, come già è stata anticipato, deve essere giustificato filosoficamente a partire da opzioni valoriali che attengono alla concezione della giustizia[46]. Per argomentare siffatta affermazione è necessario ricordare la summenzionata differenza tra “giustizia” e “diritto”: la giustizia riparativa pone al centro del conflitto la ratio della tutela della norma penale, relativizzandola principalmente alle necessità della vittima e non già, unicamente, ai “bisogni di pena”, del reo, ma soprattutto estromettendo dalla gestione del conflitto la logica della contesa e della vendetta[47].
Venendo alle “ragioni culturali”, è di immediata evidenza, soprattutto in una dimensione comparatistica, come la giustizia riparativa tenda ad informare di sé settori diversi della vita associata e a porsi quale motore di un cambiamento culturale percepibile a più livelli: la comunità diventa “attore” di dinamiche riparative o di crime-control; riparazione, premi, incentivi morali vengono studiati come metodi atti a condizionare comportamenti di “gruppi” organizzati; la pubblica Amministrazione accoglie modelli comportamentali di conciliazione nei rapporti tra autorità e individuo.
L’obiettivo, in altri termini, è quello di garantire alla giustizia riparativa un’autonomia scientifica affinché possa apportare un contributo fondamentale alla formazione completa e globalizzata del giurista poiché consente di riportare l’attenzione su un concetto di giustizia visto nella sua integralità giuridico-filosofica, senza che vengano fatte indebite riduzione della giustizia al diritto, del diritto alla legge e della legge alla sovrana volontà dello Stato, o della maggioranza[48].
Diversi percorsi interdisciplinari possono essere avviati in un corso di giustizia riparativa.
Sinteticamente, la giustizia riparativa è destinata ad incrociare una serie di questioni tipicamente penali e processuali: rispetto al diritto penale sostanziale, lavorare sulla giustizia riparativa significa riportare l’attenzione sia sulla tipicità del reato che sul senso della pena; rispetto al diritto processuale penale, giustizia riparativa e mediazione impongono di confrontarsi con i temi dell’ammissione della colpevolezza, delle garanzie dell’interrogatorio, delle modalità di valutazione della c.d. tenuità del fatto e della riparazione a fini estintivi e con i profili problematici dei meccanismi sospensivi del processo.
Dato che la giustizia riparativa muove dalla centralità della vittima e dall’idea di riparazione, sia come teoresi, sia come téchne, richiede una dialettica costante con le scienze criminologiche: essenziale è l’osmosi scientifica con la vittimologia, che spazia da una ricostruzione tipologica delle vittime a un approfondimento del loro ruolo nella genesi del crimine. Altrettanto importante è restituire centralità alla riflessione sulla dimensione del danno per collegare ad esso il senso della riparazione, materiale o simbolica[49].
Nella didattica della giustizia riparativa l’apporto dell’antropologia giuridica è significativo, includendo lo studio dei modelli di giustizia fondati su componenti compensativo-satisfattorie.
La “giustizia” abbisogna anche di un’apertura alla riflessione “filosofico-antropologica”, la quale implica il riconoscimento che l’azione di reato segna la totalità della persona, sia essa reo o vittima[50], come singolo e nelle relazioni sociali: il concetto di giustizia esige ancoraggi assiologici legati alla dignità, al riconoscimento dell’altro come persona, alla percezione della socialità come prossimità e responsabilità[51] e perciò richiede una adeguata precomprensione di dati squisitamente antropologici.
A livello metodologico-didattico, per quanto concerne l’ “etica”, il diritto possiede, in comune con essa, il riferimento della “qualità morale” dell’esperienza umana[52]: l’etica, compresa l’ “etica filosofica”, pone a tema, tra i suoi elementi fondamentali, la coscienza umana e l’atto umano, quale espressione dell’impegno consapevole, libero e responsabile della persona, cifrata sinteticamente nella coscienza.
La didattica della giustizia riparativa passa anche per una rinnovata attenzione al “linguaggio giuridico”: il linguaggio della giustizia riparativa resta qualitativamente e lessicalmente diverso da quello del diritto penale, in primis poiché tali realtà normative hanno criteri di legittimazione differenti e, secondariamente, poiché esse ricorrono a strumenti operativi diversi, sebbene non necessariamente alternativi.
In altri termini, ad un linguaggio “intrinsecamente autoritario” e “funzionalmente impositivo” fa da contraltare un linguaggio “intrinsecamente empatico” e “funzionalmente cooperativo”.
Infine, la “letteratura” fornisce un’innegabile contributo rispetto a quello offerto dall’analisi dei casi giurisprudenziali, veicolati pur sempre da un linguaggio tecnico che riflette il vissuto delle parti attraverso la lente delle categorie giuridiche sostanziali-processuali.
La direttiva 2012/29/UE afferma esplicitamente l’importanza della formazione del mediatore: al mediatore sono richieste non solo, e non tanto, competenze specifiche, ma soprattutto abilità linguistico-relazionali e doti umane, entrambe essenziali quando si pratichi la mediazione secondo il modello umanistico.
L’unico documento di riferimento è la Raccomandazione R(99) 19 del Consiglio D’Europa, relativa alla qualificazione della figura del mediatore in ambito penale.
Accanto a questa, nel rapporto finale del Tavolo 13 degli “Stati generali dell’Esecuzione Penale” si afferma che il percorso formativo del mediatore debba prevedere: “una formazione teorico-pratica sulla giustizia riparativa e su tutti i suoi programmi”; “una formazione sui profili giuridico-istituzionali e criminologici della giustizia riparativa che consenta di acquisire elementi di diritto penale, di procedura penale, con particolare attenzione alla normativa internazionale e nazionale sulla giustizia riparativa e la mediazione, (…)”[53].
Per terminare la trattazione della tematica presente, la formazione dei magistrati e degli avvocati alla “giustizia riparativa” è essenziale: i primi sono chiamati a segnalare e a promuovere la fruibilità dei programmi di giustizia riparativa in goni stato e grado del procedimento e possono incoraggiare la collaborazione con i centri di giustizia riparativa pubblici e privati presenti sul territorio[54]; i secondi ricoprono un ruolo di estrema importanza, potendo veicolare informazione circa il ricorso ai programmi di giustizia riparativa prima, durante e dopo il processo.
5. Conclusioni
Come epilogo di questo excursus sullo sviluppo storico del concetto di “giustizia” – difficilmente definibile, circoscrivibile, ricondicubile a, forse troppo “chiuse” e “strette” categorie concettuali – sulle possibili origini del nomen, e sulle potenzialità dell’autonomia scientifico-didattica della “giustizia riparativa” nell’ambito degli studi giuridici e sull’importanza della formazione degli operatori del diritto, si vuole offrire, più che considerazioni conclusive, uno spazio di riflessione, a partire dalla considerazione che giustizia penale e giustizia riparativa guardano nella stessa direzione, ossia il reato, secondo ottiche differenziate, vedendo rispettivamente: la prima l’illecito, il processo, l’accertamento della verit, l’allocazione della responsabilità e la pena; la seconda, il conflitto, le possibilità di mediazione, il percorso di riconciliazione, la riparazione.
Si ricorda, ad ogni modo, che la “giustizia riparativa” abbandona ogni ottica di contrapposizione, perché si possa “agire in modo complementare alla giustizia, all’educazione, alle strutture sociali”[55].
Comprendere la giustizia riparativa e lo spirito di mediazione non significa solo conoscere una parte della legge, ma riflettere sul “rapporto con la legge” e sul come applicare la legge con “spirito di giustizia”[56].
La giustizia riparativa ricorda, per alcuni aspetti, il dono di aidos datto da Zeus agli uomini: “Che cosa importerebbe, in effetti, che si disponesse della legge, se non fosse garantito l’essenziale: una dispozione favorevole nei suoi confronti, una inclinazione alla civiltà, e una certa capacità di vita interiore, in una concezione che esige la stima di sé? Aidos riguarda dunque più che l’ “osservanza della regola per sé stessa”; esso appare associato alla giustizia, come principio di organizzazione dei rapporti tra gli uomini”[57].
Le parole di Ost colgono un argomento essenziale: la giustizia si pone come concettualizzazione della giustizia rispettosa del dato antropologico per declinarsi, attraverso la mediazione penale come “arte” per la cura del sé e la ricomposizione delle dinamiche di relazionalità sociale.
Insomma, pensare, dire e realizzare “giustizia” significa soprattutto consegnare all’uomo la consapevolezza della reciprocità espressa in relazione che hanno, come obiettivo minimo, il rispetto interpersonale e, come obiettivo più ampio, l’onesto riconoscimento della veridicità come bene comune. La “giustizia”, e in particolare la sua “concettualizzazione riparativa”, è un “bene pienamente relazionale”[58].
Quel “sapere essere” da recuperare al “saper fare”, di cui parla Jacqueline Morineau, è proprio un mettersi in gioco nel momento in cui si supera la lettura tecnicistica del diritto per entrare nella lettura filosofica della giustizia riparativa, dove le metodologie operative non smarriscono mai il raccordo con l’idea di giustizia da cui promanano, né perdono la loro origine antropologica e il costante riferimento alla persona.
Per concludere, formare alla giustizia riparativa è manifestazione rinnovata di quell’ “umanesimo”, di cui l’Italia custodisce un’eredità preziosa, espressa nelle arti e nelle scienze e superbamente raffigurata nella Scuola di Atene, opera di imperitura bellezza, omaggio a un sapere che non ha paura del sapere e neppure del dialogo tra le discipline, che non crea contrapposizioni ma ricerca l’armonia della conoscenza e che pone al centro del suo divenire le infinte possibilità dell’uomo[59].
[1] “Quando non v’è giudice sulla terra, non rimane che l’appello a Dio nel cielo”. LOCKE, Due trattati sul governo, a cura di L. PAREYSON, Utet, 2010, p. 243 richiama la figura di Jefte del libro biblico dei giudici cap. 11; P. LATTARI, La giustizia riparativa. Una giustizia “umanistica”. Una cultura dell’“incontro” per ogni conflitto.”, Key Editore, Milano, 2021, pg. 17 ss..
[2] Anche dei comportamenti dei governanti verso i cittadini. “Amate la giustizia voi che governate la Terra” è la scritta che compongono le anime dei giusti nel XVIII canto del Paradiso che dà l’avvio al libro biblico della Sapienza (1,1); P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[3] Sin dagli albori della civiltà la giustizia è sempre stata distinta dal diritto: sin dalla Grecia dike/giustizia è presso Zeus ed invece il nomos/diritto è presso gli uomini, passando per il pensiero ebraico/cristiano – si vedano il Salmo 84, 11-12 “(…) la verità germoglierà sulla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo”, il Salmo 32, 5 “Egli ama la giustizia ed il diritto”, Matteo 5,1 e 5,6 “se la vostra giustizia non supererà quella di scribi e farisei non entrerete nel regno dei cieli”; beati coloro che hanno fame e sete della giustizia” – giungendo sino ai nostri giorni. E tuttavia il rapporto di contiguità è anche sempre stato presente: “Piuttosto come le acque scorra il diritto e la giustizia come un torrente perenne” (Amos, 5, 24); P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[4] G. ZAGREBELSKY, La cattedra dei non credenti, Milano, 2015, pg. 1160; P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[5] G. ZAGREBELSKY, La virtù del dubbio, Bari, 2007, pg. 46; P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[6] G. ZAGREBELSKY, La cattedra dei non credenti, op. cit., pg. 1162-1163; P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[7] “Che cosa significano oggi alcune espressioni come democrazia, libertà, giustizia, unità? Sono state manipolate e deformate per utilizzarle come strumenti di dominio, come titoli vuoti di contenuto che possono servire per giustificare qualsiasi azione”. Fratelli tutti, Lettera Enciclica, Papa Francesco, n. 13, che al n. 210 aggiunge: “Lo spostamento della ragione morale ha per conseguenza che il diritto non può a una concezione fondamentale di giustizia, ma piuttosto diventa uno specchio delle idee dominanti”; P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[8] Cfr. G. ZAGREBELSKY, Il diritto allo specchio, XVIII prologo, Torino, 2018; M. BRETONE, M. TALAMANCA, Il Diritto in Grecia e a Roma, Roma-Bari, 2015; P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[9] Al riguardo si veda U. CURI, Il colore dell’inferno. La pena tra vendetta e giustizia, Torino, 2019. “Fin negli incunabuli della tradizione culturale dell’occidente, fra questi due concetti non si dà identità, ma radicale e irriducibile differenza. Si può anzi affermare che l’esistenza stessa del diritto è una prova dell’inesistenza della giustizia, nella sua assenza all’orizzonte dei rapporti umani. Non avremmo bisogno del diritto – né come gli studi di antropologia culturale hanno dimostrato in alcune formazioni sociali si aveva bisogno del diritto – se vi fosse giustizia”. (Pg. 97); P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
“Il termine principale più frequentemente ricorrente con il cuore nella Grecia Antica con cui è nominata la giustizia è dike. La parola deriva verosimilmente dal verbo deinkymi, che vuol dire indicare, mostrare, far vedere, e significa perciò l’atto mediante il quale si indica qualcosa, dunque con un mostrare, con un rendere visibile, sottraendo all’occultamento qualcosa che è comunque presente, anche se invisibile. Da questo punto di vista, già nella sua radice etimologica, dike è strettamente imparentata alla nozione di verità che ritroviamo in a-létheia. Come questa, anche dike presuppone che sussista una relazione fra un ambito nascosto – di cui dice léthe – il modo nel quale essa non si è ancora mostrata.”. (Pg. 79-80); P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
Nel famoso frammento di Anassimandro, contenente le prime parole noi pervenute della filosofia occidentale, l’espressione didonai diken “rendere giustizia” non sta ad indicare qualcosa che appartenga all’ambito umano, nemmeno ancora al piano dei rapporti giuridici fra gli uomini. (Pg. 83); P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
“Punizione, giustizia, tendono insomma a coincidere, ed entrambi si esprimono attraverso la formula del didonai diken che compare nel frammento di Anassimandro riferito alla nascita e alla distruzione degli enti”. (Pg. 88); P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
“Ogni azione, evento che determina un turbamento del cosmos, in quanto violazione dell’ordine, è espressione di adikia, deve essere considerato una forma di ingiustizia. In quanto tale, come meccanismo di decadimento della buona forma dell’ordine naturale e sociale, ogni atto di ingiustizia deve essere rimediato attraverso il didonai diken, il rendere giustizia all’ingiustizia”. (Pg. 89); P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
L’adikia esige una compensazione nel didonai diken affinché l’ordine di cui dice il cosmos possa essere ripristinato. Agire secondo giustizia implica inevitabilmente far seguire all’adikia la dike (…) di qui discende dunque da un lato la funzione di risanamento svolta dalla pena, e dall’altro la obbligatorietà della sanzione stessa”. (Pg. 89); P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
“Nomos la parola greca che designa la prima misurazione, da cui derivano tutti gli altri criteri di misura; la prima occupazione di terra con relativa divisione, ripartizione dello spazio; la suddivisione distribuzione originaria è nomos”. (Pg. 92); P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
Il nomos, la legge è espressione di una misura, di una razionalità divina. Solo in quanto è riflesso di quella divina la legge umana può vantare la sua legittimità (pg. 94); P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[10] P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[11] P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[12] PINDARO, fr. 152, BOWRA; si veda G. ZAGREBELSKY, Il diritto allo specchio, Prologo, Torino, 2018; P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[13] P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[14] P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[15] Cfr. A. SCHIAVONE, Ius, Torino, 2015, pg. 5; P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[16] Suum e jus suum è ciò che si addice a ciascuno nel rapporto giuridico che ha il carattere della bilateralità o corrispettività ed il riconoscimento dall’esperibilità giudiziaria riconosciuti dalla Res publica; P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[17] Digesto 1, 1, 10 pr. – 2 ULPIANUS, Libro primo: regularum; P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[18] Cfr. P. GROSSI, Prima lezione di diritto, Bari, 2003, pg. 50, e ss.; P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[19] Il Corpus è stato il diritto dell’Impero Romano d’Oriente: l’Ecloga, versione riassunta in greco del Corpus ad opera dell’imperatore Leone III Isaurico, 726-741 d.C., era applicata dai funzionari dell’Impero; P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
Nell’Impero Romano d’Occidente il Corpus fu applicato pressocché ovunque. Irnerio, nel XII secolo, giurista fondatore della scuola Bolognese, dà nuova vita al Corpus, adattandolo alla realtà dell’epoca con note a margine, le c.d. glossae. I glossatori, suoi allievi ne diffusero lo studio e la vigenza divenendo il fondamento del Diritto giustinianeo, Ius comune, sino alla modernità soppiantando il diritto feudale dei regni romano barbarici.
Solo con il Codex Napoleon del 1804 si ha una formale sostituzione ma i concetti fondamentali del diritto romano sono ancora patrimonio di comune applicazione del mondo; P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[20] P. GROSSI, Prima lezione di diritto, Bari, 2003, pg. 61; P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[21] P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[22] P. GROSSI, Prima lezione di diritto, op. cit., pg. 84-85, che peraltro continua: “Se in esse “giustizia significa il mantenimento di un ordinamento positivo mediante la sua coscienziosa applicazione” (KELSEN) l’ idea del diritto naturale di ogni legge naturale non incarna altro che un tentativo di soluzione forse ingenua illusorio all’eterno problema umano di un diritto giusto quasi un po’ ardito forse troppo ardito lanciato verso questa meta”; P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
Fatti salvi giuristi di ispirazione dichiaratamente cattolica, il giurista moderno ha sempre avuto una buona dose di pudore nel parlare di diritto (legge) naturale, probabilmente per quel certo Lezzo di metafisica che inevitabilmente comportava; in fondo, il ripetuto riferirsi alla natura dei fatti aveva anche il significato di rivestirlo per così dire di terrestrità e renderlo in tal modo più accettabile. (Pg. 85- 86). Ma restava un grande bisogno di valori cui ancorare le costruzioni giuridiche in un tempo, come quello di ieri e di oggi, quando le certezze statalisti che la legalistica dell’edificio liberal borghese hanno rivelato le loro fondazioni ideologiche hanno subito parecchie incrinature. A questo bisogno è corrisposto nel corso del 1900 quella manifestazione nuova e peculiare del diritto che è la Costituzione.” (Pg. 86).
[23] Si veda anche J. HABERMAS e J. RATZINGHER, Ragione e fede, in Dialogo, Venezia, 2005, pg. 75: al riguardo Ratzinger afferma l’arma spuntata costituita dal diritto naturale per la mancanza di vincolatività certa e precisa (cfr. G. ZAGREBELSKY, Il diritto allo specchio, op. cit., pg. 13); P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[24] Si veda J. AUSTIN, Delimitazione del campo di giurisprudenza, Bologna, 1995.
[25] Anche Dio è fedele a sé stesso ed applica la giustizia: nel brano Genesi 18,27, Abramo nella difesa per Sodoma afferma: “Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?”; P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[26] GIOVANNI 16,10; si veda P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[27] MATTEO 5,6 e 5,10; si veda P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[28] Art. 1805, Catechismo Chiesa Cattolica; si veda P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
Le quattro virtù cardinali hanno funzione “cardine”. Per questo sono dette “cardinali”; tutte le altre si raggruppano ad esse.
Le virtù umane acquisite mediante l’educazione, mediante atti deliberati e una perseveranza sempre rinnovata nello sforzo, sono purificate ed elevate dalla grazia divina. Con l’aiuto di Dio forgiano il carattere e rendono spontanea la pratica del bene. L’uomo virtuoso è felice di praticare le virtù – art. 1810 del Catechismo della chiesa cattolica; P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[29] Art. 1807, Catechismo chiesa cattolica; si veda P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[30] BENEDETTO XVI, Lettera Enciclica Deus caritas est, Roma, 2006, pg. 59, ove si afferma che: “La giustizia è lo scopo e quindi anche la misura intrinseca di ogni politica. La politica è più che una semplice tecnica per la definizione dei pubblici ordinamenti: la sua origine e il suo scopo si trovano appunto nella giustizia e questa è di natura etica.”; P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[31] G. ZAGREBELSKY, La virtù del dubbio, cit., pg. 45-46; P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[32] G. ZAGREBELSKY, La domanda di giustizia, cit., pg. 1167-1168; P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[33] P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[34] In diverse elaborazioni si afferma che la giustizia penale di irrogazione della pena è ai primordi dell’applicazione giudiziaria. Ma la violazione presuppone una regola e la pena cerca di riequilibrare ciò che la violazione ha rotto: l’equilibrio stabilito dalla regola.
[35] I riferimenti storici da cui peraltro deriva la denominazione sono: legge del taglione di Hammurabi, poi dell’Occhio per occhio ebraica – Levitico XXIV 17-20; Esodo XXI 23-25; Deuteronomio XIX 21; la legge delle XII tavole Romana; P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[36] M. TONRY (a cura di), The Oxford Handbook of Crime and Criminal Justice, Oxford University Press, Oxford, 2011, p. 221; T. GAVRIELDIES, Restorative Practices: From the Early Societies to the 1970s, in Internet Journal of Criminology, 2011, p. 2, disponibile a: http://www.internetjournalofcriminology.com/gavrielides_restorative_practices_ijc_november_2011.pdf; P. LATTARI, op cit., pg. 17 ss..
[37] H. ZEHR, Retributive Justice, Restorative justice, in New Perspectives on Crime and Justice, Occasional Paper, (4), 1985.
[38] H. ZEHR, Changing lenses. A New Focus in Crime and Justice, Herald Press, Scottsdale, 1990.
[39] L. MIRSKY, Albert Eglash and Creative Restitution: A Precursor to Restorative Justice, in Restorative Justice E Forum, disponibile a: www.restorativepractice.org.
[40] A. EGLASH, Beyond Restitution: Creative Restitution, in J. HUDSON-B. GALAWAY (a cura di), Restitution in Criminal Justice, D.C. Health and Company, Lexington, 1977, pp. 91-100.
[41] L’espressione “giustizia che cura” è adottata quale proposta definitoria della restorative justice da D.W. VAN NESS-K. HEETDERKS STRONG, Restoring Justice, Anderson, Cincinnati, 1997.
[42] Il termine restorative justice non ha ancora un equivalente nella lingua tedesca, pur potendo essere tradotto grosso modo con “Wiedergutmachende Gerechtigkeit”.
[43] Si veda, per esempio, G. DEL VECCHIO, Truth and Untruth in Morals and Law, in Iowa Law Rev., (39), 1953, pp. 17-62.
[44] G. MANNOZZI-G.A. LODIGLIANI, op. cit., pg. 324 ss..
[45] G. MANNOZZI-G.A. LODIGLIANI, op. cit., pg. 324 ss..
[46] L. LOMBARDI VALLAURI, Corso di filosofia del diritto, Cedam, Padova, 2012, p. 213 ss.; G. MANNOZZI-G.A. LODIGLIANI, op. cit., pg. 324 ss..
[47] G. MANNOZZI-G.A. LODIGLIANI, op. cit., pg. 324 ss..
[48] Si mutua l’espressione da C.M. MARTINI-G. ZAGREBELSKY, La domanda di giustizia, Einaudi, Torino, 2003, p. 20; G. MANNOZZI-G.A. LODIGLIANI, op. cit., pg. 324 ss..
[49] G. MANNOZZI-G.A. LODIGLIANI, op. cit., pg. 324 ss..
[50] Si veda L. EUSEBI, La risposta al reato e il ruolo della vittima, cit. p. 528; G. MANNOZZI-G.A. LODIGLIANI, op. cit., pg. 324 ss..
[51] Sulle ipotesi, peraltro rigettate dalla cultura giuridica occidentale, della responsabilità collettiva nell’ottica di un’ottimizzazione della riparazione si veda J. DIAMOND, Il mondo fino a ieri, Einaudi, Torino, 2013, p. 110; G. MANNOZZI-G.A. LODIGLIANI, op. cit., pg. 324 ss..
[52] Cfr. S. COTTA, Diritto e morale, in Ius Ecclesiae, 1990, pp. 419-432; G. MANNOZZI-G.A. LODIGLIANI, op. cit., pg. 324 ss..
[53] G. MANNOZZI-G.A. LODIGLIANI, op. cit., pg. 324 ss..
[54] Emblematico l’accordo di rete per l’applicazione della messa alla prova concluso il 28 aprile del 2016 dal Tribunale di Como con una serie di enti partner per promuovere il ricorso alle misure alternative e alla mediazione penale; G. MANNOZZI-G.A. LODIGLIANI, op. cit., pg. 324 ss..
[55] J. MORINEAU, Lo spirito della mediazione, Franco Angeli, Milano, 2003, p. 118; G. MANNOZZI-G.A. LODIGLIANI, op. cit., pg. 324 ss..
[56] J. DERRIDA, Forza di legge, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, p. 67; G. MANNOZZI-G.A. LODIGLIANI, op. cit., pg. 324 ss..
[57] F. OST., Mosé, Eschilo, Sofocle. All’origine dell’immaginario giuridico, il Mulino, Bologna, 2007, p. 37; G. MANNOZZI-G.A. LODIGLIANI, op. cit., pg. 324 ss..
[58] G. MANNOZZI-G.A. LODIGLIANI, op. cit., pg. 324 ss..
[59] G. MANNOZZI-G.A. LODIGLIANI, op. cit., pg. 324 ss.