Pubbl. Mar, 19 Set 2023
Il giudice come coautore del diritto
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Silvia Bergamin
Il presente elaborato si interroga sulla possibilità per il giudice di integrare e modificare il contenuto della legge per rendere Giustizia in alcuni casi specifici, esplorando l´evoluzione del ruolo del giudice, confrontando i sistemi di common law e di civil law, ed esaminando l´approccio del sistema giuridico italiano. Diversi casi significativi, come i casi Englaro e DJ Fabo, dimostrano come i giudici, in quanto ”guardiani” dei diritti costituzionali, possano assumere un ruolo attivo nel garantire la Giustizia.
The judge as co-author of the law
This paper questions the possibility for the judge to supplement and modify the content of the law in order to render justice in certain specific cases. The historical perception of judges as mere instruments of the sovereign has evolved, exploring the evolution of the role of the judge, comparing common law and civil law systems, and examines the approach of the Italian legal system. Several significant cases, such as the Englaro and DJ Fabo cases, demonstrate how judges, as ”guardians” of constitutional rights, can take an active role in ensuring justice.Sommario: 1. Introduzione; 2. Il giudice come “romanziere del diritto”?; 3. Il giudice romanziere alberga nei sistemi di Common law o di Civil law?; 4. Il giudice romanziere all’opera in Italia; 5. Conclusione.
1. Introduzione
La presente trattazione intende principiare con l’analisi di una questione centrale all’interno del mondo giuridico ovvero: «Il giudice, nel caso concreto, può arrivare a integrare e modificare il contenuto della legge per rendere giustizia?». La risposta non può dirsi di certo scontata. Infatti, la figura del giudice per tutto l’Ottocento è stata concepita come mera Bouche de la loi, ovvero lo strumento nelle mani del sovrano attraverso cui era possibile dare applicazione a quanto previsto dal sistema legislativo, considerato completo e chiaro.[1]
Ad oggi, una simile concezione sembrerebbe non essere più attuale ed accettabile visti i cambiamenti che si sono verificati nella cultura giudiziaria e nel contesto sociale odierno. Più nel dettaglio, nell’attuale stato di diritto, la legge ha assunto sempre più spesso una forma generale ed astratta che lascia quindi molto più spazio alla riflessione del giudice. In aggiunta a quanto già menzionato, va sottolineato che il declino della qualità delle disposizioni è un fenomeno sempre più evidente e ciò non solo implica un generale allentamento delle norme, ma ha anche il pericoloso effetto di minare la fiducia dei cittadini nel sistema giudiziario nel suo complesso.
Conseguentemente, si verifica una situazione in cui il giudice non viene solamente sollecitato ad agire con maggiore ampiezza di interpretazione, ma viene quasi "costretto" a farlo per evitare che situazioni di manifesta e profonda ingiustizia permangano irrisolte generando gravi situazioni di palese iniquità.[2]
L’interprete sembra quindi avere il compito di porre in essere una operazione di bilanciamento tra i diversi valori e principi generali contenuti nell’ordinamento, basandosi su questi per la decisione nel caso concreto.
È possibile quindi osservare che «Il potere giudiziario oggi non è più il potere muto e nullo del diciannovesimo secolo».[3]
Ad ogni modo, a questa domanda si cercherà di rispondere compiutamente ed approfonditamente nel prosieguo della trattazione grazie anche all’ausilio di contributi estrapolati da alcuni lavori realizzati da grandi professionisti tra cui: Marta Cartabia, Pino Pardolesi, Paolo Grossi, Luciano Violante – sul piano nazionale –, Ronald Dworkin ed H.L.A. Hart – sul piano internazionale.
Appare corretto però fin da subito precisare che tale elaborato non ha la presunzione di essere una trattazione esaustiva del tema, ma solo una riflessione che potrebbe fornire alcuni spunti per una considerazione (e meditazione) molto più ampia su tale argomento che risulta essere sempre attuale e di estrema importanza.
Per ragioni di sistematicità e chiarezza, il testo sarà suddiviso in tre capitoli, intimamente connessi tra di loro. Il primo ha lo scopo di analizzare la figura del giudice nella sua generalità per (cercare di) arrivare a rispondere alla questione proposta all' inizio di questo lavoro, ovvero se il giudice, qualora sia necessario rendere giustizia nel caso concerto, possa arrivare ad esercitare una funzione suppletiva rispetto al Legislatore inerte.
Doveroso è precisare che in questo elaborato quando si farà riferimento alla figura del giudice si prenderanno in considerazioni le più alte corti nazionali ed internazionali (per esempio, la Corte Costituzionale oppure la Suprema Corte americana).
Si partirà da una breve analisi dell’evoluzione storica della figura del giudice, concentrandosi poi sul rapporto tra il diritto e la morale cercando di comprendere quale sia l’effettivo (ed auspicabile) ruolo del giudice, e a quali limiti egli è soggetto.
L’obiettivo del secondo capitolo sarà quello di comprendere se la conclusione raggiunta nella sezione precedente sia maggiormente assimilabile-riscontrabile nei sistemi di Common law o di Civil law, e se nel corso della storia si siano verificati dei cambiamenti nell’assetto dei due macro-ordinamenti.
A tal fine, si cercherà di tratteggiare le caratteristiche principali dei due ordinamenti per poi vedere se il c.d. “giudice romanziere” possa operare concretamente all’interno degli stessi.
Infine, nella terza parte, si fornirà un approccio più pratico avvalendosi di alcuni casi, che hanno avuto una forte risonanza pubblica, per concretizzare la riflessione sviluppata nel corso dell’elaborato.
2. Il giudice come “romanziere del diritto”?
Per rispondere in maniera corretta ed incisiva a questo quesito occorre innanzitutto tratteggiare la concezione di “giudice” che ha caratterizzato i secoli precedenti a quello attuale. Si parlava di un giudice come applicatore del dettato legislativo senza possibilità alcuna di sindacare il contenuto della legge. Per moltissimo tempo, con il termine “legge” si intendeva il comando del sovrano, e questo faceva in modo che vi fosse una coincidenza totale tra il concetto in esame e quello di “diritto”.[4]
Idea questa che nasce con l’illuminismo giuridico, ma che trova una ancora più forte manifestazione ed enunciazione nell’Ottocento con il formalismo giuridico e col suo massimo esponente Hans Kelsen. Secondo l’appena citata corrente di pensiero il compito degli interpreti è quello di concentrarsi e guardare alla forma della legge e mai al suo contenuto.[5]
Ebbene, a seguito della fine della Seconda guerra mondiale e di tutte le vicende ad essa connesse, si sollevò la necessità di rivedere questa visione del diritto. Si sentiva, infatti, il bisogno che il giurista non rimanesse più nella sua “torre d’avorio” bensì vi era la necessità che quest’ultimo si calasse nella concretezza della realtà volgendo la propria attenzione anche al contenuto della legge.
Tra i tanti sostenitori di tale idea, si inserisce la figura di Riccardo Orestano.[6] Questo autore si interroga sui cambiamenti introdotti dal formalismo giuridico consistenti in una estrema attenzione al dato formale a scapito della “sostanza” della legge. Nella prospettiva dell’autore, la conseguenza più grave è deresponsabilizzare il giurista facendo si che il sindacato sul contenuto della legge sia esterno, ossia in mano al fattore politico, senza che la scientia juris possa intervenire – si comprende agevolmente il rischio di una simile impostazione.
Dunque, legge e diritto, da questo momento in avanti, non coincidevano più in modo assoluto, in quanto la forza assoluta della lex perde slancio dovendosi bilanciare con principi e valori che risultano essere immanenti alla società.
Emerge a questo punto un nuovo protagonista, ovvero il giudice come “guardiano” dei diritti dei singoli individui contro gli arbitri del potere. Questa nuova idea di organizzazione del sistema giuridico ha di recente avuto grandi sostenitori sia sul piano nazionale sia internazionale.
Al riguardo pare necessario ricordare una figura che rappresenta la corrente del neocostituzionalismo e che ci offre importanti “lenti da vista” per analizzare il ruolo del giudice, ovvero Ronald Dworkin.[7] Si può sostenere che la sua riflessione rappresentò uno spartiacque per la filosofia del diritto, invero diede una alternativa alle correnti classiche del giuspositivismo e del giusnaturalismo.
L’eterna domanda, circa la separabilità tra jus e morale, torna centrale per riaprire un dialogo costruttivo sul tema. A tal riguardo, l’autore statunitense ritiene non solo che il diritto e la morale siano “connessi”, bensì che tra di loro vi sia un intimo legame, forte ed inscindibile: la forza della carica valoriale pervade il mondo dello jus impedendo una loro separazione.[8]
Dworkin, inoltre, critica fortemente le posizioni del formalismo giuridico, asserendo che la validità di una norma non dipende dalla sua forma, ma dal suo contenuto. Per sostenere questa inseparabilità, l’autore richiama la distinzione tra principi e regole, ossia i primi guidano e pongono paletti invalicabili alle seconde: principles cannot be trumped by rules.[9]
I principi non sono paragonabili alle regole, né sul piano strutturale né su quello del significato. Sostiene l’autore che solo i primi possono essere oggetto di un bilanciamento all’interno delle corti, al contrario di una regola. Questo perché alcuni principi (per esempio, la vita, e la salute) assumono una connotazione assoluta, ovvero vengono resi indisponibili alla volontà del Legislatore.
In altri termini, sono ineliminabili e sottratti a qualsiasi tipologia di erosione. Tuttavia, essi si possono bilanciare ed il risultato di questo contemperamento è la norma specifica, il cui contenuto varierà a seconda del contesto socio-politico-storico di riferimento. Infatti, non è insolita la possibilità che in una certa fase storica prevalga un principio sull’altro, e poi, a distanza di anni, primeggi esattamente l’opposto.
La figura che più di tutte ha subito l’influenza delle riflessioni sul tema del rapporto tra il diritto e la morale è quella del giudice: da mero applicatore della legge, a giudice che adatta la norma al caso tramite una “attività ermeneutica creativa”.[10]
Prendendo in considerazione la realtà italiana, la Magistratura nel corso del Novecento è passata da una posizione di subalternità, rispetto al potere politico, ad una di “parità” – o comunque con un ruolo indipendente e autonomo.
Lo spartiacque tra questi due momenti potrebbe essere individuato nell’entrata in vigore della Costituzione e la contemporanea affermazione di uno stato di diritto. Afferma Luciano Violante, ex magistrato e politico italiano, che «Il magistrato, prima che applicatore, diventa controllore della correttezza costituzionale delle leggi».[11]
Dunque, dalla metà del 1900 principia una stagione in cui il giudice è sempre più protagonista nel sistema giuridico e, almeno parzialmente, si pone in opposizione rispetto al volere del Legislatore. Utile a tal proposito la metafora offertaci da Maurizio Fioravanti, il quale ha immaginato tale mutamento col passaggio da una “linea retta ad un triangolo”: nel primo caso, il giudice non riusciva ad entrare direttamente in relazione con il dettato costituzionale, in quanto si frapponeva il Legislatore; nella seconda ipotesi, invece, abbiamo la figura di un triangolo con al vertice la Costituzione, ed ai suoi lati il Legislatore ed il giudice che concorrono nella sua interpretazione, concretizzazione ed innovazione.[12]
Pertanto, il giudice ci appare sempre più come un “guardiano” del rispetto dei diritti presenti in Costituzione, potendo lui anche porsi in contrasto con il Legislatore in certi casi e a determinate condizioni.[13]
La ragione è che a causa della sempre più frequente inerzia del parlamento e della maggiore complessità del contesto storico-sociale, il giudice è chiamato a proteggere “diritti costituzionali accertati, ma non tutelati”.[14]
In altri termini, un individuo rischia di avere un diritto, ma di non poterlo effettivamente esercitare. La giurisprudenza ha più volte preso posizione sul punto. Nello specifico, la Corte costituzionale ha affermato in varie pronunce che, in caso di un vulnus nella tutela di un diritto costituzionalmente garantito, spetterà al giudice intervenire per porre rimedio alle lacune normative nelle singole fattispecie.[15]
Ovviamente non potrà “inventare” la soluzione, invero sarà vincolato da una rete di valori e principi fondamentali desunti dalla lettura della carta costituzionale. Sul punto, illuminanti le intuizioni di Paolo Grossi il quale alla parola “invenzione” conferisce una valenza particolare, non assimilabile a quella di uso comune, bensì identificabile con il verbo latino invenire e il sostantivo inventio, ovvero cercare per trovare qualcosa.
Simili le considerazioni dell’autore italiano a quelle di Dworkin, il quale sostiene che il giudice legge la realtà sociale-valoriale di una comunità cercando di “riconoscere i diritti” e non di “crearli” dal nulla. In tal senso, utile la metafora del giudice come “autore di una novella” in cui egli deve cercare di rispettare le tradizioni ed il sentimento di un popolo nella enucleazione e rilevazione di un principio di diritto.[16]
Tuttavia, di fronte a questa ricostruzione, molti autori ed esperti del diritto si sono opposti. Una delle ragioni principali è che la scelta di accettare un simile ampliamento del ruolo del giudice, nella redazione ed interpretazione del testo normativo, porta con sé il rischio di abbandonare l’obiettivo di avere un apparato di norme chiaro, completo ed onnicomprensivo. In questa prospettiva critica, agli occhi dei cittadini, verrebbe meno la certezza del diritto, ovvero si creerebbe così una grande imprevedibilità all’interno del sistema ed una insicurezza circa la risoluzione di eventuali controversie giudiziarie.
La tutela stessa dei diritti dipenderebbe dall’interpretazione del singolo magistrato nel caso concreto.[17] Si può affermare, in questa prospettiva, una (quasi) “tirannia della magistratura” dovuta all’incertezza del sistema giuridico – il principio della certezza del diritto sarebbe decisamente depotenziato.[18]
Questo pensiero si espone ad una critica decisiva: i giudici chiamati eventualmente ad intervenire in casi di gravi iniquità o di vulnus dell’ordinamento sarebbero solamente quelli delle più alte corti, ed in tal modo questo rischio paventato sarebbe decisamente ridimensionato. In ogni caso, anche laddove tale libertà fosse concessa ai giudici delle corti inferiori, non vi sarebbe per questi una libertà totale nel momento in cui si accingerebbero alla risoluzione di un caso concreto e ad esse sarebbero legati.
Questo perché nei sistemi di Common law opera il concetto di precedente vincolante che impedisce ad un giudice di decidere arbitrariamente un caso. Invece, nei sistemi di Civil law, il valore del precedente non risulta essere positivizzato, come nel primo caso, ma esiste ed è presente, pur non godendo della medesima vincolatività.[19]
Proseguendo con tale linea di pensiero, appare quindi corretto affermare che il giudice nel decidere, laddove riscontri una situazione non tutelata in modo esaustivo dal Legislatore (o proprio ignorata), detenga un certo grado di discrezionalità nella risoluzione della controversia, anche se non priva di limiti.
Egli, infatti, dovrà ispirarsi al tessuto valoriale della societas di riferimento cercando di rimanere ad essa conforme. Ed in ogni caso, tale potere è anche guidato dal fondamentale concetto di equità. Questo criterio nasce con Aristotele, il quale, nell’Etica Nicomachea, afferma che è necessario per stemperare gli inevitabili rigori – e quindi le ingiustizie – che la legge astratta potrebbe produrre nei singoli casi.
Non potendo risolvere astrattamente e a priori i problemi di iniquità nell’applicazione rigida della legge, il Legislatore delega al giudice tale compito, potendo lui “derogare” alla norma per rendere Giustizia nella fattispecie concreta. Nel nostro ordinamento, tuttavia, tale possibilità di intervento andrebbe allargata non solo ai casi di espressa (o implicita) delega, ma anche in tutti i casi in cui vi è un rischio di violazione di un diritto costituzionalmente protetto.
Dunque, alla luce delle considerazioni finora svolte, alla iniziale domanda prospettata, è possibile rispondere in modo affermativo ovvero: il giudice può arrivare a modificare-integrare la legge per rendere giustizia.
Nei successivi capitoli si cercherà di dare un approccio più concreto per rinforzare e sostenere questa tesi.
3. Il giudice romanziere alberga nei sistemi di Common law o di Civil law?
Per dare una risposta soddisfacente ad una simile domanda, occorre innanzitutto tratteggiare gli elementi fondanti dei due sistemi giuridici, con una precisazione: questi modelli difficilmente si manifesteranno nella loro purezza, poiché sarà inevitabile una qualche reciproca contaminazione. La ragione di tale affermazione è che nella società attuale, con il crescente sviluppo del fenomeno della globalizzazione, non è più possibile immaginare di vivere isolati come su di un’isola deserta.
La presente analisi principia dal sistema che più agevolmente pare aderire all’idea di un giudice “creatore” del diritto, ossia i sistemi di Common law.[20]
Questo modello ordinamentale trova una sua concretizzazione specialmente nell’area anglosassone e statunitense. Chiaramente non si può ignorare il fatto che vi siano delle peculiarità e differenze tra queste due realtà, ma, nonostante ciò, risulta ragionevole inquadrarle nella medesima macro-categoria, ovvero un ordinamento a “creazione giurisprudenziale”.
Giuseppe De Vergottini definisce il Common law come un diritto giudiziario.[21] Il giudice, in questo impianto ordinamentale-organizzativo, assume un ruolo fondamentale, al punto che possiamo riscontrare una prima dissomiglianza rispetto ai sistemi di Civil Law. Circa questo aspetto risulta emblematico il pensiero di Garcìa Pelayo, il quale sostiene che sono proprio i giudici attraverso i propri verdetti ad individuare i diritti delle persone.[22]
Quanto appena detto risulta vero sicuramente agli albori, ma solo una riflessione miope non coglierebbe che ad oggi questa diversità si è molto attenuata, soprattutto per quel che riguarda l’attività posta in essere dalle alte corti continentali. Importante anche il pensiero di H. J. Merryman.
L’autore sottolinea il valore dello stare decisis affermando che «Lo stare decisis può essere inteso sia come una regola giuridica vera e propria in virtù della quale i giudici sono tenuti a seguire i precedenti giudiziali, sia come un principio di policy (dettato, cioè, da ragioni di giustizia e di convenienza, privo però di uno specifico rilievo normativo), per cui casi simili dovrebbero essere decisi nello stesso modo».[23]
Riprendendo l'attenzione sulla considerazione riguardante la funzione del giudice all'interno dei sistemi di Common law, è rilevante osservare come il valore del precedente assuma un ruolo centrale. Di conseguenza, è essenziale acquisire una comprensione approfondita di come il giudice interagisca con questa dimensione.[24] In Inghilterra, U.S.A. e negli altri paesi di Common law, la norma e il principio per risolvere una controversia non si rinviene nella lex, bensì nella decisione presa in un caso precedente.
Il giudice qui osserva le somiglianze e le dissomiglianze tra il caso sottopostogli ed uno simile risolto precedentemente. Se identico o simile (nei suoi elementi giuridici rilevanti) il precedente assume un carattere vincolante (il c.d. stare decisis).[25] La ratio di un caso viene individuata dai giudici successivi e non da quello che emette la sentenza, e ciò consente anche di potersi discostare nella risoluzione di un caso laddove vi siano elementi sufficienti per decidere “altrimenti”.
In apparenza, niente di più lontano da quanto avviene nei sistemi di Civil law, in cui il giudice cerca prima di tutto la norma generale ed astratta capace di risolvere il caso concreto, e solo successivamente – ed eventualmente – andrà a ricercare precedenti giurisprudenziali per sostenere la propria argomentazione.
Occorre domandarsi se il c.d. “giudice romanziere” possa trovare spazio in un contesto di Common law. La risposta non può che essere affermativa. Invero, e per esempio, negli Stati Uniti si ammette in maniera generalizzata e pacifica che la Corte Suprema possa entrare in dialogo con la Costituzione: potrà individuare principi e diritti che magari sono risultati invisibili fino a quel momento storico, per poi darne una concreta applicazione.
Richiamando il primo capitolo, il giudice interpreta ed integra la Costituzione guardando al tessuto valoriale in cui esercita le sue funzioni. Dunque, il giudice non è un creatore ex novo del diritto, bensì un attento lettore ed interprete dei principi che fondano la societas.
Svolte queste brevi considerazioni sui sistemi di Common law, necessario domandarsi se il giudice romanziere possa aderire anche alle realtà di Civil law, e nello specifico a quella italiana. Lo scopo del presente elaborato sarà quindi quello di indagare se – anche all’interno dei sistemi giuridici europei – le decisioni delle alte corti (come quelle della Corte di cassazione) possano essere in qualche modo assimilabili, per struttura e vincolatività, alle decisioni negli ordinamenti di Common law.
Più nel dettaglio, l’obiettivo della continuazione del capitolo sarà quello di concentrarsi sulla realtà giuridica italiana e comprendere se il valore del precedente è in grado di rivestire un ruolo pari a quello riscontrato nei sistemi di Common Law.
Nel sistema italiano, la regola generale, stabilita dall’articolo 101, comma 2, della Costituzione, prevede che il giudice debba sottostare e sia vincolato solamente alla legge, e non alle decisioni delle altre corti.[26] Tuttavia, tale vincolo non impedisce al giudice (in potenza) di esercitare una certa funzione creativa nella interpretazione ed applicazione dello jus.
Procedendo con ordine e riportando l’attenzione sulla domanda cardine di quest’ultima riflessione, ovvero: quale sia il valore del precedente nel sistema italiano, risulta opportuno precisare che il giudice non potrà essere sanzionato per il non essersi conformato ad una precedente decisione indipendentemente dal grado della Corte che ha emesso la sentenza (vi è infatti chi sostiene che il precedente sia dotato di una mera “efficacia persuasiva”, o al più si è parlato di un “precedente influente”).[27]
Indubbiamente, infatti, non vi è una fonte normativa che imponga un simile vincolo, tuttavia è pacifico che alcune pronunce godano di una forte autorevolezza che può essere desunta da un complesso di fattori intrinseci ed estrinseci. Per elementi intrinseci si intende la “qualità” della motivazione in sentenza; mentre con fattori estrinseci si intende la collocazione del giudice nell’ordine giudiziario. [28]
Alla luce di quanto esposto: il giudice romanziere può esistere anche nei sistemi di Civil law? Rispondere a tale quesito non è cosa semplice ma è possibile ritenere che ciò sia possibile in quanto si avverte il bisogno di un intervento “creativo” della Magistratura per riconoscere e tutelare diritti “dimenticati” o volutamente ignorati dal fattore politico per riuscire a far fronte alle sfide della società in continua evoluzione.[29] Per sostenere questa tesi vedremo alcuni casi recenti che indicano una simile tendenza.
4. Il giudice romanziere all’opera in Italia
Un giudice che eserciti funzioni “creative” nell’ordinamento giuridico italiano può attrarre grandi critiche, ma una simile ipotesi non può più essere esclusa a priori senza aprire un dialogo sulla questione. Un certo dibattito, in alcuni ambiti, appare ad oggi urgente e non più rimandabile: tra i tanti, si segnalano quelli riguardanti la tematica del fine vita, e più in generale quelli legati alla libertà di autodeterminazione dell’individuo.
Motivo per cui, appare doveroso sviluppare una riflessione sul “come” il giudice possa intervenire per garantire la tutela di questi diritti costituzionali, laddove il Legislatore dimostri di essere indifferente ed inerte rispetto ai bisogni della società – o almeno di una sua parte. Un ruolo fondamentale in queste circostanze lo ha sicuramente il giudice, la cui sfida risulta essere quella di prendere in considerazione la questione valoriale, la quale non può più essere esclusa dal mondo del diritto, perciò, dobbiamo abbandonare il mantello della neutralità per riuscire a dare risposte “serie” alle problematiche del nuovo millennio.
Vi sono stati, negli ultimi anni, vicende emblematiche che hanno smosso le coscienze dei cittadini. Ci riferiamo, innanzitutto, al caso Englaro.[30] Questo caso può rappresentare un esempio di conflitto (potenziale) tra il potere giudiziario e quello Legislativo.[31] Tuttavia, i giudici non hanno creato ex novo una disciplina – come sostenuto dalla Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica –, bensì hanno svolto proprio quella attività di “romanziere” del diritto, ovvero hanno rilevato un principio immanente nella società, e ne hanno dato tutela.
Questa vicenda riassume in sé l’universo problematico riguardante lo scontro tra l’interesse dello Stato alla difesa della vita (aggiungerei, ad ogni prezzo) e l’interesse privato (o meglio, diritto soggettivo) all’autodeterminazione, e quindi a poter decidere liberamente della propria esistenza.
In questo contesto, è intervenuto il giudice schierandosi con il singolo, e ciò è proprio la manifestazione del suo ruolo di “guardiano” dei diritti costituzionali.[32]
Un altro importante caso che rappresenta uno scontro tra il potere dello Stato e quello della Magistratura, è quello di DJ Fabo. In questa vicenda, Marco Cappato si rese disponibile ad accompagnare Dj Fabo in Svizzera per porre fine alla sua vita. Tuttavia, il codice penale, almeno in potenza, inquadrava tale condotta tra gli estremi dell’articolo 580.[33] Il caso è giunto dinanzi alla Corte Costituzionale, la quale ha dovuto contemperare le ragioni del codice con quelle del c.d. “diritto a morire”: in un primo momento, ha ammonito il Legislatore invitandolo a prendere una posizione, ovvero a disciplinare la materia in modo coerente con “lo spirito sociale” – entro il 24 settembre 2019.
Tuttavia, la “tenacia” del Parlamento, nel non voler esporsi in alcun modo su di un tema particolarmente sensibile agli occhi dell’opinione pubblica – col rischio di perdere voti elettorali – ha comportato il dovere della Consulta ad intervenire direttamente.[34] Ciò è avvenuto con il comunicato del 25 settembre 2019.[35]
I diritti costituzionali sono stati nuovamente garantiti dai giudici (non dal Legislatore), i quali si sono assunti grandi responsabilità riconoscendo, a certe condizioni, il diritto ad interrompere la propria esistenza. La vicenda si conclude con l’assoluzione di Marco Cappato da parte della Corte di Assise di Milano il 23 dicembre 2019, in quanto “il fatto non sussiste”, e ciò proprio in base ai criteri stabiliti dalla Consulta.
Il mancato intervento del Legislatore ha favorito una iniziativa popolare mediante il referendum abrogativo promosso nel 2021. Purtuttavia, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 50/2022, lo ha dichiarato inammissibile depositando le motivazioni il 2 marzo 2022.[36] In breve, se l'articolo 579 c.p. fosse stato abrogato attraverso questo strumento, si sarebbe creato un danno inaccettabile all'interno del nostro sistema legale, soprattutto per le persone vulnerabili che avrebbero perso una tutela adeguata.
Dunque, seguendo prospettiva tracciata dalla Corte, tale norma, pur ammettendo sue defezioni, svolgerebbe la funzione di cintura di sicurezza per certi soggetti fragili rispetto a determinate condotte. In altre parole, e con una modalità atipica, la Consulta ha intimato nuovamente al Parlamento di legiferare sul tema creando una disciplina equilibrata e coerente con i principi generali del sistema giuridico italiano ed europeo.
Considerando quanto espresso, risalta chiaramente come ancora una volta sia stata la magistratura a intervenire su una tematica di notevole sensibilità, optando per una specifica direzione anziché un'altra, e adottando decisioni che, in effetti, si sostituiscono a quelle che spetterebbero al legislatore.
Va riconosciuto che non mancano le continue sollecitazioni rivolte al legislatore affinché intervenga attraverso i canali tradizionali previsti nei sistemi di civil law per regolare tali questioni. Tuttavia, è interessante notare che queste richieste non si traducono semplicemente in un'inerzia da parte dei giudici nell'attesa, bensì nell'assunzione di un atteggiamento attivo e produttivo. Questo atteggiamento si sta sempre più avvicinando all'approccio adottato nei sistemi di common law.
In sostanza, la magistratura sta riempiendo il vuoto lasciato dal legislatore e sta contribuendo all'evoluzione delle norme giuridiche, anche in aree in cui spetta al legislatore stesso agire. Questo fenomeno riflette un cambiamento significativo nell'approccio alla creazione del diritto e sta portando ad un progressivo avvicinamento tra il sistema di civil law, che si basa sulla legislazione formale, e il sistema di common law, noto per la sua enfasi sul precedente giurisprudenziale.
5. Conclusione
L'analisi svolta nel presente testo ci ha permesso di esplorare il ruolo del giudice nella società giuridica attuale e il suo potenziale di agire come "romanziere del diritto". Partendo dalla concezione tradizionale del giudice come mero applicatore della legge, abbiamo osservato come nel corso del tempo questa figura abbia acquisito maggiore autonomia e indipendenza, diventando un "guardiano" dei diritti individuali contro l'inerzia del potere politico.
Nei sistemi di Common law, abbiamo visto come il giudice assuma un ruolo centrale, basato sulla forza del precedente vincolante, che gli consente di operare in modo più creativo nell'interpretazione e nell'applicazione del diritto. Nonostante una impostazione più incentrata sul dettato legislativo abbiamo constatato che anche nei sistemi di Civil law, come quello italiano, il giudice può esercitare una certa discrezionalità nel bilanciamento dei principi e valori costituzionali per garantire la tutela dei diritti fondamentali.
Inoltre, abbiamo esaminato due casi emblematici, quello di Eluana Englaro e di DJ Fabo, in cui il giudice è stato chiamato a intervenire in questioni delicate riguardanti il fine vita e la libertà di autodeterminazione individuale. In entrambi i casi, il giudice ha dimostrato di essere capace di adattare il diritto al contesto sociale in evoluzione e di garantire la tutela dei diritti costituzionali anche in assenza di una disciplina chiara da parte del Legislatore.
Dall'analisi condotta emerge la constatazione che il giudice possiede la facoltà di integrare e adattare la legislazione al fine di garantire equità, particolarmente quando si tratta di salvaguardare i diritti essenziali dei cittadini. Ciò nonostante, è essenziale evidenziare che tale potestà deve essere esercitata con attenzione, onde evitare un eccessivo grado di discrezionalità giudiziaria e per preservare la stabilità delle norme giuridiche.
In definitiva, il giudice romanziere rappresenta una figura importante nella moderna cultura giuridica, chiamata a bilanciare il rispetto delle leggi con l'esigenza di tutelare i diritti umani e adattare il diritto al mutare delle esigenze sociali. Questo equilibrio è essenziale per garantire un sistema giuridico giusto ed equo, in linea con i principi di uno stato di diritto.
[1] «I giudici della nazione sono soltanto, come abbiamo detto, la bocca che pronuncia le parole della legge: esseri inanimati, che non possono regolarne nè la forza, nè la severità». MONTESQUIEU, Spirito delle leggi, BUR, 1996, libro XI, cap.VI, 317. Per una prospettiva più recente sul punto, ma significativa, vedi L. VIOLANTE, L’evoluzione del ruolo giudiziario, pubblicato in Criminalia, 2015. L’autore segnala come la funzione della Magistratura sia cambiata dall’entrata in vigore della Costituzione: da “meccanico” del diritto a suo “co-autore”.
È una mera illusione ritenere che un codice possa contenere l’intero jus al suo interno, invero il codice è una legge, ma oltre la lex esiste “qualcos’altro”. Come afferma anche E. KAUFMANN, in Die Gleichheit vor dem Gesetz, De Gruyter, ristampata nel 1975, «Lo Stato non crea diritto, lo Stato crea leggi, e Stato e leggi stanno sotto il diritto».
[2] Per una prima formulazione del concetto di aequitas, si veda ARISTOTELE nell’Etica Nicomachea (libro V).
Emblematico è anche quanto affermato da L. VIOLANTE, L’evoluzione del ruolo giudiziario, op. cit., 345: «Sul piano puramente tecnico un ruolo fondamentale gioca l’incertezza della legge, frutto del crescente disordine delle fonti, dell’esaurimento del ruolo nomo-filattico della Corte di cassazione, della cattiva qualità delle leggi, dell’intreccio crescente dei fattori nazionali con normativa e giurisprudenza europea».
[3] M. CARTABIA, The authority of the Judiciary, in Seminar in the occasion of the Solemn Hearing of the Court Strasbourg, 2018, 2.
[4]Al riguardo vedi quando detto da J. BODIN, Les six livres de la Republique, (1576). Tale autore pare anticipare di pochi anni Hobbes, ossia sembra tratteggiare la figura di un Leviatano, seppur “giovane”. Con l’espressione “Leviatano giovane” si intende che alcuni tratti e caratteristiche dei suoi poteri (poi compiutamente sviluppati da Hobbes) vengono già individuati da Bodin. Trova piena enucleazione l’idea di un sovrano assoluto conT. HOBBES, in Il Leviatano, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 2011.
[5] H. KELSEN, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, 2000. Immagina l’autore austriaco una costruzione piramidale con al suo vertice la grundnorm: l’unico compito del giurista è di verificare che la norma inferiore sia conforme a quella superiore, senza alcuna considerazione circa la Giustizia-morale della norma. Circa la correttezza e bontà del contenuto della legge se ne dovrà occupare il fattore politico – con tutti i rischi annessi. In termini simili, H.L.A. HART, in The concept of Law, 3° edizione, OUP, 2012, 78-99. L’autore sostiene l’esistenza di una Master rule (simile all’impianto piramidale kelseniano).
[6]Ricardo Orestano fu un giurista italiano nato a Palermo nel 1909 e morto a Roma nel 1988, professore universitario dal 1937, ha insegnato diritto romano a Roma.
[7]Ronald Dworkin (1931-2013) fu uno dei più influenti giuristi e filosofi tra il XX e il XXI secolo.
[8]Sul punto, vedi R. DWORKIN, Giustizia per i ricci, Feltrinelli, 2013. In questa opera l’autore sostiene che il diritto sia una ramificazione del concetto di morale politica.
[9 R. DWORKIN, in Taking Rights Seriously, Harvard University Press, 1977, p. 40.Risulta quindi da escludere fermamente che una regola vada a contemperarsi con un principio, questo in quanto le regole sono subalterne rispetto ai primi.
[10]Vedi L. VIOLANTE, in L’evoluzione del ruolo giudiziario, op. cit., 341-342.
[11] Ibidem, 343.
[12]M. FIORAVANTI, in Il legislatore e i giudici di fronte alla Costituzione, Quaderni costituzionali, Fascicolo 1, marzo 2016.
[13] Tale considerazione deriva anche da una particolare definizione di democrazia, ovvero – richiamando Dworkin – «Democracy does not mean only majority rule, but majority rule subject to those conditions that make majority rule fair». Vedi R. DWORKIN, ‘Hart’s Postscript and the Character of Political Philosophy’, n. 24, OJLS, 2004, 7. In sintesi, e a certe condizioni, la Magistratura diviene un potere contro-maggioritario capace di opporsi al parlamento e di tutelare le minoranze. Per degli esempi, vedi il capitolo del presente elaborato intitolato “Il giudice romanziere all’opera in Italia”.
[14]R. ROMBOLI, Il ruolo del giudice nella società che cambia, nel seminario tenutosi ad Agrigento il 17 e 18 settembre 2010, 8.
[15]Vedi Corte Cost. 5 febbraio 1998, n. 11, in Giur. cost., 1998, 53. Vedi Corte Cost. 26 settembre 1998, n. 347, in Giur. cost., 1998, 2632, con note di Celotto e di Lamarque.
[16] P. GROSSI, in L’invenzione del diritto, Laterza, 2017.
[17]Sul punto vedi quanto sostenuto da A. CADOPPI, in Il valore del precedente nel diritto penale, Giappichelli, 2015. L’autore intende in modo negativo una simile ipotesi. Pur lui riferendosi al sistema penale, si possono estendere le sue riflessioni anche all’ordinamento tout court.
[18] L. VIOLANTE, in L’evoluzione del ruolo giudiziario, op. cit., 345.
[19] In Italia, la Suprema corte, a sezioni unite, svolge quella fondamentale funzione nomofilattica, ovvero cerca di dare “ordine al disordine” all’interno della giurisprudenza.
[20] In breve, il sistema di Common law non ha uno schema preimpostato, ma si basa sulla risoluzione di casi da parte dei giudici che rispecchiano le esigenze ed il sentimento sociale. Vedi J. M. MARTÌNEZ, Neocostituzionalismo e positivizzazione dei valori, 2011.
[21] Un simile diritto è costituito principalmente dal prodotto delle decisioni dei giudici nei singoli casi. Questi generano una rete di precedenti vincolanti per le corti, di qualsiasi grado, che si troveranno in un futuro a doversi pronunciare su un caso similare. Questo fenomeno può essere riassunto con il principio dello stare decisis. Vedi G. D. VERGOTTINI, in Diritto costituzionale comparato, Cedam, 2019, vol. I, 89.
[22] Vedi G. PELAYO, Derecho constitucional comparado, Alianza Editorial, 1999, 278..
[23] H. J. MERRYMAN, Common law (paesi di), III, Diritto degli Stati Uniti d’America, in Enc. Giur. Treccani, vol. VII, Roma, 1990.
[24] Vedi L. M. MARTÌNEZ, Neocostituzionalismo e positivizzazione dei valori, op. cit., 244. Inoltre, è doveroso subito svolgere una precisazione, ovvero che si attribuisce un diverso valore a tale principio, in base al sistema in cui si opera.
[25] Vincolante sarà la ratio decidenti, mentre non lo saranno i c.d. obiter dicta.
[26] Vi è da segnalare una delle eccezioni presenti nel nostro ordinamento. Per esempio, quella introdotta dall’articolo 384 c.p.c. «quando accoglie il ricorso, cassa la sentenza rinviando la causa ad altro giudice, il quale deve uniformarsi al principio di diritto e comunque a quanto statuito dalla Corte». Questa è una norma che impone al giudice di merito destinatario del rinvio di uniformarsi, pena la possibilità di vedersi impugnata la sentenza in Cassazione. Il vincolo è assoluto, salvo le ipotesi in cui emergano nuovi fattori determinanti.
[27] A. P. PISANI, Il precedente nella giurisprudenza, in rivista Il foro italiano, 2017. Dunque, si comprende già in questa fase come il valore del precedente nei due sistemi giuridici (Common e Civil law) sia diverso.
[28] P. CURZIO, Il giudice ed il precedente, pubblicato nella rivista Questione giustizia, vol. IV, 2018. Questa opera è compulsabile in https://www.questionegiustizia.it/rivista/articolo/il-giudice-ed-il-precedente_578.php. Per un approfondimento sul punto vedi P. VITTORIA, La motivazione della sentenza tra esigenze di celerità e giusto processo, in M. ACIERNO, P. CURZIO, A. GIUSTI, in rivista La Cassazione civile.
[29] Tra i principali sostenitori della tesi del ruolo creativo della magistratura si veda Luigi Ferrajoli, Paolo Barile e Francesco Carnelutti
[30] Eluana Englaro è stata una donna italiana che, a seguito di un incidente stradale, ha vissuto in stato vegetativo per diciassette anni, fino alla morte sopraggiunta a seguito dell'interruzione dei trattamenti medici. Il suo caso divenne una lunga vicenda giudiziaria tra la famiglia, sostenitrice dell'interruzione del trattamento, e la giustizia italiana.
[31] Vedi sentenza n. 334/2008 della Corte costituzionale in cui venne sollevato, da parte della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. La controversia sorse a seguito delle sentenze del 2007 e del 2008, rispettivamente della Cassazione e della Corte di appello di Milano. Ricorso poi ritenuto inammissibile ex. art. 37 della legge n. 87/1953.
[32] Riprendiamo il principio di diritto enunciato dalla sentenza della Cassazione, citata nella nota precedente. Affermano gli Ermellini che «ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario (fatta salva l’applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell’interesse del paziente), unicamente in presenza dei seguenti presupposti»: a) il primo è che lo stato vegetativo sia permanente e quindi irreversibile alla luce delle conoscenze medico-scientifiche; b) il secondo è che deve emergere in modo chiaro ed univoco la volontà del paziente di voler interrompere il trattamento medico – ciò anche interpretando i suoi convincimenti espressi nel corso della sua esistenza.
Importante, ai nostri fini, è segnalare che è il giudice a dover prendere questa decisione in presenza dei due presupposti indicati. In questa sede, si vede come l’inerzia e l’assenza del Legislatore siano stati superati dall’intervento dei giudici.
[33] Prevede la prima parte della norma che «Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l'altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima».
[34] «È veramente una vergogna che nessuno dei parlamentari abbia avuto il coraggio di mettere la propria faccia per una legge dedicata alle persone che soffrono e che non possono morire a casa propria, dovendo andare negli altri paesi per godere di una legge che dovrebbe esserci anche in Italia». Queste le parole di Fabiano Antoniani, conosciuto anche come Dj Fabo.
[35] Non si riconosce un diritto assoluto a morire, ma a determinate condizioni specifiche e tassative lo si potrà fare. Dice la Consulta: «La Corte ha ritenuto non punibile ai sensi dell’articolo 580 del Codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli».
[36] Si veda Corte Costituzionale, n. 50/2022.
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