Pubbl. Ven, 2 Mag 2025
Gli equilibri tra poteri costituzionali nel procedimento penale per i reati ministeriali
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Francesco Gasbarra

L’articolo analizza il procedimento penale per i reati ministeriali alla luce della Legge Costituzionale n. 1/1989, che ha trasferito la competenza alla magistratura ordinaria. Esamina il ruolo del Tribunale dei ministri, l’autorizzazione parlamentare a procedere e confronta il sistema attuale con quello previgente e con altri ordinamenti, evidenziando il delicato equilibrio tra potere giudiziario e politico.

Sommario: 1.Premessa, 2. I reati ministeriali ed il relativo procedimento, 2.1 I reati ministeriali, 2.2 Il procedimento - le indagini preliminari, 2.3 Il procedimento - l’autorizzazione del Parlamento, 2.4 Il procedimento - il dibattimento, 3. Un primo confronto - il procedimento penare per i reati ministeriali ante 1987, 3.1 Il procedimento previgente: struttura e criticità,3.2 Principali differenze con l’attuale procedimento, 3.3 L’abuso di potere da parte del Parlamento e la spinta referendaria, 3.4 L’equilibrio attuale tra Poteri, 4. Un secondo confronto - la comparazione con gli altri Ordinamenti, 5. Conclusioni.
1. Premessa
Al fine di comprendere gli equilibri tra i poteri costituzionali nel procedimento penale relativo ai reati ministeriali occorrerà, anzitutto, definire in cosa consistano i suddetti e quale sia applicata per questi. A chiare il concetto di reato ministeriale è la Carta costituzionale, nello specifico l’articolo 96. A normare la procedura, relativa a detti reati, è, in vero, la Legge Costituzionale n. 1 del 16 gennaio 1989, con la quale è stata sottratta giurisdizione, alla Corte costituzionale, affidandola alla giurisdizione ordinaria.
2. I reati ministeriali ed il relativo procedimento
2.1 I reati ministeriali
Come è stato anticipato, l’articolo 96 della Costituzione inquadra i reati ministeriali ed in tal senso è stabilito che: “Il Presidente del Consiglio dei ministri ed i ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale”.
Da questo si evince, dunque, che i reati ministeriali siano, più che una particolare categoria di reati, una vera e propria qualificazione giuridica, assunta dai reati “comuni” quando vengono compiuti da una persona alla quale è stato riconosciuto lo status di membro apicale dell’Esecutivo, in abuso del potere conferito da tale carica.
Valido potrebbe essere un parallelismo tra questi reati ed i reati propri, essendo la caratteristica essenziale di questa categoria di illeciti il fatto che, appunto, il fatto che siano compiuti da una persona avente un particolare status; nonostante tale parallelismo, è possibile rilevare plurime differenze tra i reati propri ed i reati ministeriali. I reati propri sono fattispecie autonome ovvero fattispecie aggravate dalla posizione sociale che il fautore, di tale condotta, riveste. I reati ministeriali non prevedono, invece, un’autonoma cornice edittale, non incidendo la sussumibilità della condotta ad un reato ministeriale sulla pena comminata dal Codice, ma solamente sulla procedura applicata.
Pur non essendo prevista un’autonoma cornice edittale, la Legge costituzionale n.1/1989 prevede un’aggravante ad effetto comune propria dei i reati commessi da un Ministro nei soli casi di “presenza di circostanze che rivelino la eccezionale gravità del reato”[1]. Appare, dunque, evidente come il nostro Ordinamento non faccia distinzioni, almeno per quanto attiene alla pena astrattamente irrogabile, se a commettere un illecito è, o non è, un membro dell’Esecutivo. Come anzidetto tale distinzione si basa, esclusivamente, sulla gravità del fatto illecito commesso.
Difatti, il procedimento che di seguito si rappresenta, ha lo scopo di impedire l’ingerenza del Potere giuridico sul Potere esecutivo e, di vagliare con attenzione la possibilità che l’azione giudiziaria non abbia un fine prettamente politico. Il Ministro, così come il Presiedente del Consiglio de Ministri, dunque, imputato per un reato con tale qualifica sarà posto, al pari del privato cittadino, sotto la giurisdizione della Magistratura ordinaria.
Questo, ovviamente, non esclude che un Ministro possa, invece, essere imputato per un "reato proprio" riferibile a un'altra qualifica che egli indubbiamente possiede, come, ad esempio, quella di pubblico ufficiale
2.2 il procedimento - le indagini preliminari
Le prime differenze rilevabili tra la procedura penale applicata in via ordinaria e quella prevista per i c.d. reati ministeriali attengono proprio alla fase delle indagini preliminari. Nello specifico, il dominus della fase delle indagini preliminari, per questa particolare forma di illeciti, non è un pubblico ministero, come previsto nel codice di rito, bensì il c.d. “tribunale dei ministri”. Con tale sintagma si intende il collegio, composto da tre giudici, chiamati a gestire proprio tale fase ed a decidere se vi sia o meno l’opportunità di proseguire, esercitando l’azione penale, in via del tutto similare a quanto è chiamato a fare un pubblico ministero, nell’ esercizio della sua funzione, nella procedura penale come prevista dal Codice.
È, infatti, la citata Legge costituzionale adindicare, che il Procuratore della Repubblica, nonostante sia la figura incaricata di ricevere i referti, i rapporti, e le denunce concernenti tali reati, debba inviarli “omessa ogni indagine”[2] al collegio preposto, avendo, dunque, l’espresso divieto di compiere qualsivoglia azione investigativa.
Tale collegio, istituito presso ogni tribunale del capoluogo di distretto di corte d’appello, è composto da 6 membri, tre effettivi e tre supplenti, sorteggiati tra i giudici di tutto il distretto, aventi almeno un’anzianità di cinque anni nella qualifica di giudice di tribunale.
Il tribunale dei ministri, così composto, ricevuta la notizia di reato dal Procuratore della Repubblica, è chiamato a condurre le indagini e a decidere se vi siano elementi sufficienti per deferire il procedimento al Parlamento al fine di ottenere la successiva autorizzazione. In caso contrario, se il collegio ritiene di non avere sufficienti elementi per esercitare l’azione penale, procederà con l’archiviazione, salvo che il Procuratore, prima di tale decisione, non ritenga vi sia la necessità di richiedere chiarimenti circa i motivi di tale archiviazione ovvero che siano svolte indagini suppletive.
Proprio in relazione a tale fase è stato sollevato, dalla Dottrina, un dubbio circa la possibilità che, tribunale una volta svolte le indagini aggiuntive richieste, il Procuratore possa ordinare nuove indagini alla luce degli sviluppi emersi. La risposta, a tale dubbio, non è univoca poiché tale situazione non si è mai concretizzata e, dunque, non esistono precedenti giurisprudenziali a cui fare riferimento. Appare evidentemente preferibile l’opinione secondo cui, il potere del Procuratore della Repubblica, non possa essere limitato dal fatto che lo abbia già esercitato. In tal senso, sarebbe possibile tracciare una similitudine tra questo ed il diritto di veto del Presidente della Repubblica, che può essere esercitato una sola volta, salvo che la legge, sottoposta a tale potere, non subisca ulteriori modifiche. È proprio l'assenza di modifiche apportate alla legge riapprovata dal Parlamento ad impedire l’esercizio del veto. Analogamente, non vi sono ragioni per escludere che il Procuratore della Repubblica possa chiedere ulteriori indagini, qualora da quelle precedentemente svolte, siano emersi nuovi elementi. Non ci sarebbe, altrimenti, motivo di considerare che egli possa disporre la prosecuzione del procedimento a sua discrezione.
Da tutto quanto anzidetto, appaiono già piuttosto evidenti le prime differenze tra la procedura “ordinaria” e quella prevista per i reati ministeriali. Oltre l’ormai ovvia differenza circa la figura che è chiamata a gestire l’indagine, ossia non un membro della magistratura inquirente ma, in vero, membri della magistratura giudicante, è possibile evidenziare ulteriori, plurime, distinzioni. Anzitutto ad essere adito non è un singolo, bensì un collegio. Costituendo questo un unicum nel nostro Ordinamento. Di norma, infatti, per tutta la durata delle indagini preliminari, qualunque sia il reato per cui si proceda, i poteri sono accentrati nelle mani di un singolo magistrato: il pubblico ministero ovvero il giudice delle indagini preliminari, quando adito.
Tutto questo a garanzia della qualità, ma soprattutto dell’imparzialità delle indagini.
2.3 Il procedimento - l’autorizzazione del Parlamento
Adempiuta l’appena descritta fase preliminare, ove il tribunale dei ministri ritenga che il procedimento debba proseguire, si apre una nuova fase: quella dell’autorizzazione del Parlamento o, meglio, della sola camera di appartenenza del ministro indagato, ove il ministro indagato è membro del Parlamento, ovvero del Senato ove non lo fosse.
Nonostante questo possa destare l’impressione che sia il Parlamento, dotato di discrezionalità, ad autorizzare la prosecuzione del procedimento così non è. Tralasciando, nella presente sede, la complessa diatriba dottrinale sulla reale natura dell’istituto conosciuto come “autorizzazione a procedere”, il potere Parlamento, e conseguentemente anche la discrezionalità del Parlamento, circa tale autorizzazione è estremamente limitato. Il Parlamento potrà negare l’autorizzazione solo nei casi in cui “l'inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell'esercizio della funzione di Governo”[3].
Si leggano in tal senso i lavori preparatori alla Legge numero 1 del 1989, dai quali si rileva che: “Qualora ricorrano una o ambedue le ipotesi, la Camera ha la facoltà di negare l’ulteriore procedimento penale nei confronti del ministro o dell’ex ministro. E devo far rilevare che, pur trattandosi naturalmente di una decisione chiaramente discrezionale, è proprio questo il compito della Camera nello spirito della proposta di legge.”[4].
Chiarita la natura giuridica del potere riconosciuto al Parlamento come “autorizzazione a procedere”, è possibile tornare alla disamina della procedura applicata. Il Parlamento, prima ancora di votare sull’autorizzazione a procedere, investe la Giunta competente per le autorizzazioni, secondo il regolamento della Camera, dell’analisi degli elementi forniti dal tribunale dei ministri. Consultati tali elementi e, ove lo ritenga necessario, ovvero le stesse lo richiedano, la giunta può sentire le parti. Compiute tali operazioni la giunta riferisce alla Camera dita con una relazione scritta. Volendo compiere un parallelismo con il procedimento ordinario, questa è da considerarsi la fase di conclusione delle indagini preliminari, durante la quale l’indagato potrà accedere al fascicolo e formulare le proprie difese.
A conclusione della presente fase, la Camera sarà chiamata a votare e sarà necessario il voto della maggioranza assoluta dei membri per negare l’autorizzazione a procedere.
Anche in questa scelta il Legislatore manifesta la volontà di rendere tale voto un qualcosa di diverso da un’autorizzazione, invertendone la logica. Invero, se si trattasse di un effettivo potere autorizzativo, il procedimento non potrebbe proseguire se non dopo aver ottenuto tale assenzo; invece, nel caso in esame, per i reati ex art. 96 Cost., il procedimento prosegue, a meno che non ne venga impedita la prosecuzione con una votazione favorevole di, almeno, la metà più uno dei membri effettivi della Camera.
Nel caso in cui la Camera adita dovesse votare a favore della prosecuzione del procedimento, ovvero non nel caso in cui raggiunga il quorum, il procedimento proseguirà secondo il procedimento ordinario, diversamente il fascicolo sarà archiviato.
2.4 Il procedimento - il dibattimento
A seguito dell’autorizzazione del Parlamento, gli atti sono rimessi al Collegio affinché “continui il procedimento secondo le norme vigenti”[5]. Tale laconico rinvio, del tutto generico, appare formulato al fine di permettere al Legislatore ordinario di normare la restante parte del procedimento. Questo similmente a quanto accadeva prima del 1987, ove le funzioni del pubblico ministero erano demandate ad una commissione inquirente, sia in fase di indagini che di dibattimento, disciplinata da una legge ordinaria. Mai stata emanata una legge che perseguisse tale scopo e, dunque, il rinvio non potrà che riferirsi al procedimento penale ordinario, giacché l’articolo 96 della Costituzione, in ogni caso, riporta che “Il Presidente del Consiglio dei Ministri ed i Ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria”[6].
Per tale ragione, si può supporre che gli atti vengano rimessi al tribunale dei ministri solo affinché questi li traduca immediatamente alla Procura della Repubblica competente, così che il Pubblico ministero possa decidere circa l’espletamento dell’azione penale.
Il procedimento, da tale fase in poi, proseguirà nelle forme del procedimento ordinario e, dunque, non sarà più utile proseguire con la presente disamina.
3. Un primo confronto - il procedimento penare per i reati ministeriali ante 1987
Definito quale sia l'attuale procedimento penale applicato ai reati ministeriali, appare opportuno compiere un primo confronto con la procedura previgente, in vigore prima del referendum del 1987. Da un'analisi comparativa è possibile, infatti, evidenziare con maggiore chiarezza cosa abbia spinto il Legislatore ad adottare la Legge Costituzionale n. 1 del 1989 e di comprendere quali siano equilibri di potere che da questi ne sono scaturiti.
3.1 Il procedimento previgente: struttura e criticità
Il procedimento penale applicato ai reati ministeriali, prima della riforma, seguiva una dinamica profondamente diversa da quella attuale. La Procura della Repubblica, ricevuta una notizia di reato ai sensi dell'art. 96 Cost., non avendo il potere di istruire il procedimento autonomamente, deferiva la questione al Parlamento. Quest'ultimo, tramite una specifica commissione detta "commissione inquirente", aveva il compito di esaminare la questione e riferire al Parlamento in seduta comune. Sulla base della relazione prodotta, il Parlamento decideva se procedere con la messa in stato di accusa del ministro indagato.
Nel caso in cui si decideva per la prosecuzione del procedimento, l'eventuale giudizio non veniva affidato alla magistratura ordinaria, bensì alla Corte costituzionale in composizione allargata. Le funzioni di pubblico ministero non erano svolte da magistrati della Procura, ma da uno, o più, commissari nominati dallo stesso Parlamento in seduta comune. Tale assetto procedurale delineava un sistema in cui il potere legislativo esercitava un controllo pressoché totale sull’intero iter processuale.
3.2 Principali differenze con l’attuale procedimento
Con l'entrata in vigore della riforma del 1989, il sistema è stato radicalmente trasformato. Le differenze principali tra il vecchio e il nuovo procedimento possono essere così sintetizzate:
- Il ruolo dell’organo inquirente
- Prima della riforma: L’attività di indagine era affidata ad una commissione parlamentare. Tale organo, pur avendo il compito di svolgere un'istruttoria, non era indipendente, in quanto composto da parlamentari la cui selezione avveniva in modo da riflettere le proporzioni tra i gruppi politici presenti in Parlamento. Ciò significava che il partito di maggioranza, che con ogni probabilità aveva tra i suoi membri la totalità, o quasi, dell’Esecutivo, esprimendo la maggioranza anche nella commissione, poteva influenzarne le decisioni, con il prodursi di evidenti conflitti di interesse.
- Dopo la riforma: Le indagini preliminari sono condotte dalla magistratura ordinaria, senza interferenze dirette da parte del potere politico, così da evitare il verificarsi di detti conflitti. La decisione sull’archiviazione o sulla prosecuzione del procedimento è affidata ai magistrati, i quali operano, o quantomeno dovrebbero operare, secondo criteri giuridici e non politici.
- La funzione decisionale del Parlamento
- Prima della riforma: Il Parlamento votava sulla messa in stato di accusa del ministro ovvero sulla possibilità di avviare il processo. Affinché il procedimento potesse proseguire, era necessaria una maggioranza assoluta di voti favorevoli.
- Dopo la riforma: Il Parlamento non vota più per l’inizio del procedimento, ma sull’eventuale interruzione dello stesso. Affinché il Parlamento possa fermare il processo, è ora necessaria una maggioranza assoluta, rendendo così più complesso il blocco arbitrario di un'azione giudiziaria. Sarà di conseguenza, il Parlamento ad assumersi una responsabilità politica esplicita nel momento in cui decide di impedire la prosecuzione del procedimento.
- L'organo giudicante
- Prima della riforma: Il giudizio era affidato alla Corte costituzionale in composizione allargata. Ai 15 membri ordinari della Corte di cui, giova ribadirlo, solo 5 sono espressione della Magistratura, si aggiungevano ulteriori 16 membri nominati direttamente dal Parlamento in seduta comune, determinando questo, inevitabilmente, che oltre metà del collegio giudicante fosse composto da individui espressione della maggioranza politica del momento.
- Dopo la riforma: La competenza è passata alla magistratura ordinaria, e così il giudizio è affidato al tribunale ordinario, scelto in base alla competenza territoriale. Il ministro, ovvero l’ex ministro è stato, nella fase dibattimentale, del tutto parificato al cittadino ordinario.
3.3 L’abuso di potere da parte del Parlamento e la spinta referendaria
Questa situazione di squilibrio a favore del potere legislativo si è protratta fino al 1987, momento in cui i cittadini sono stati chiamati ad esprimersi tramite referendum. Con l’85,04% di voti favorevoli, il corpo elettorale ha abrogato la legge n. 170 del 10 maggio 1978, che regolava il funzionamento della commissione inquirente. La prefata norma era l’unica, tra quelle che disciplinavano il previgente procedimento penale per i reati ministeriali, a non assurgere al rango di norma costituzionale e, dunque, era l’unica che era possibile abrogare attraverso un referendum. Si è trattato dunque, più che un referendum abrogativo in sé per sé, di un’occasione per l’elettorato di esprimere un parere sulla disciplina di tutto il procedimento. Il segnale dato dal risultato del referendum: l’opinione pubblica ha inteso censurare il comportamento del Parlamento nella gestione dei reati ministeriali, essendo questo ritenuto non imparziale e funzionale alla protezione della classe politica.
3.4 L’equilibrio attuale tra Poteri
L’attuale sistema, delineato dalla Legge Costituzionale n. 1 del 1989, è dunque il risultato di un compromesso tra la volontà di garantire l'indipendenza dell’azione dell’Esecutivo e la necessità che, a giudicare sui reati compiuti dai ministri, non fossero proprio i membri della loro stessa forza politica.
Il timore, che il Legislatore del 1989 aveva nei confronti di possibili ingerenze della Magistratura, è evidente. Si legga, in tal senso, la relazione sulla Legge costituzionale n.1 del 1989 nella quali si evince che: “Il Parlamento non si troverà più di fronte a casi istituiti da un giudice, rispetto ai quali l’esperienza ci dimostra l’esistenza di numerosissime ipotesi di assoluta infondatezza”[7].
Altrettanto evidente, in tal senso, è la peculiare modalità di selezione dell’organo inquirente, quale il tribunale dei ministri. Tale collegio è composto da magistrati, scelti a sorte, da tutto il distretto di Corte di appello, con un’anzianità minima. Orbene, questa modalità di selezione, con ogni evidenza, non è utile a selezionare le persone più idonee o competenti, giacché in tal senso, quantomeno, sarebbero stati scelti solo magistrati con la qualifica di magistrati d’appello; bensì, ed al più, garantisce l’imparzialità degli stessi. Non parrà, infatti, strano che questo collegio è l’unico, nel nostro Ordinamento, a non essere composto dal Presidente del tribunale, di concerto con il Consiglio superiore della Magistratura.
La rilevanza di tale elemento emerge chiaramente anche dai lavori preparatori alla Legge costituzionale n. 1 del 1989, nei quali è stato più volte oggetto di discussione in Aula, tanto che lo stesso relatore ne ha sottolineato con forza l’importanza con espressioni quali: “Onorevole Mellini, si procede mediante sorteggio, quindi, non si possono conoscere i nomi!”[8]. Ovvero, ancora: “è stata formulata l’ipotesi dell’istituzione di un organo speciale, secondo sistemi adottati in altri paesi, composto non di soli magistrati, con garanzie evidenti di non politicizzazione”[9].
Tutto questo è a sottolineare come, almeno nelle intenzioni, il contrappeso al Potere legislativo, almeno per quanto attiene alla procedura penale per i reati ministeriali, non doveva essere effettivamente il Potere giudiziario, bensì singoli giudici.
Appare con tutta evidenza come l’attuale equilibrio tra i poteri dello Stato delinei una configurazione piuttosto asimmetrica: la Magistratura ordinaria detiene un controllo pressoché esclusivo sull’intera fase delle indagini preliminari e del dibattimento processuale. Al Parlamento, invece, è attribuito un ruolo marginale e limitato, esercitato attraverso lo strumento dell’autorizzazione a procedere, previsto come garanzia costituzionale per determinate cariche pubbliche. Tale potere autorizzativo, tuttavia, non rappresenta un’autentica funzione di controllo di merito, bensì un momento di verifica formale della sussistenza di esigenze istituzionali che giustifichino o meno la prosecuzione dell’azione penale.
Il contrappeso di tale assetto si rinviene nella responsabilità politica che i rappresentanti parlamentari assumono nei confronti del corpo elettorale. Oggi, infatti, ogni forza politica che intenda bloccare o rallentare un procedimento penale in corso, è chiamata a prendere una posizione chiara, esplicita e pubblicamente motivata, esponendosi inevitabilmente al giudizio dell’opinione pubblica. Diversamente, senza una netta assunzione di responsabilità, sarebbe oggettivamente impossibile raggiungere la soglia della maggioranza assoluta richiesta per deliberare l’autorizzazione a procedere.
In questo contesto, l’elettorato viene messo in condizione di valutare consapevolmente le scelte dei partiti politici grazie alla trasparenza garantita dalla relazione redatta dal Tribunale dei Ministri. Trattandosi di un organo composto da magistrati ordinari, è lecito presumere che tale relazione sia improntata a criteri di imparzialità, tecnicità e oggettività. Pertanto, laddove le forze di maggioranza decidano di impedire l’azione della giustizia senza una valida giustificazione, il corpo elettorale potrà reagire nelle sedi opportune, sanzionando politicamente tali decisioni attraverso il voto. In definitiva, si delinea un sistema in cui la giurisdizione è sovrana sul piano processuale, mentre il potere politico è chiamato a rispondere delle proprie scelte davanti ai cittadini, in un delicato equilibrio tra autonomia della magistratura e responsabilità democratica.
4. Un secondo confronto - la comparazione con gli altri Ordinamenti
Sempre allo scopo di delineare con maggiore chiarezza l’equilibrio tra i tre poteri dello Stato – legislativo, esecutivo e giudiziario – risulta particolarmente utile effettuare una comparazione non soltanto con la disciplina italiana previgente, ma anche con quella attualmente vigente in altri ordinamenti democratici, sia europei che extraeuropei. In particolare, si prenderanno in considerazione i seguenti Stati: Francia[10], Paesi Bassi[11], Danimarca[12], Grecia[13], Slovenia[14], Polonia[15], Svezia, Stati Uniti, Regno unito, Spagna[16], Germania e Portogallo[17].
Per esigenze di sintesi e al fine di non appesantire eccessivamente l’analisi, la comparazione si concentrerà esclusivamente su quattro parametri fondamentali: l’organo inquirente competente per l’indagine nei confronti di membri dell’esecutivo; l’organo giudicante e la sua composizione, ove si tratti di un organo “speciale”; la presenza di eventuali filtri politici che condizionino l’avvio o la prosecuzione del procedimento; e, infine, l’esistenza o meno di immunità penale, totale o parziale, per i membri del governo.
Tra gli Stati sopra menzionati, risultano dotati di un filtro politico – ovvero di una forma di autorizzazione parlamentare o di valutazione da parte di un organo politico – le seguenti nazioni: Italia, Francia, Slovenia, Paesi Bassi, Grecia, Polonia, Danimarca e Stati Uniti. In questi ordinamenti, l’avvio o la prosecuzione del procedimento nei confronti di un membro dell’esecutivo richiede il consenso o l’intervento di un organo politico, generalmente il Parlamento o una sua commissione.
Una menzione a parte merita il caso degli Stati Uniti, in cui è necessario distinguere chiaramente tra la procedura di impeachment e il procedimento penale. L’impeachment ha una funzione prettamente politica e consiste nella rimozione del Presidente o di altri funzionari federali in caso di “alto tradimento, corruzione o altri gravi crimini e misfatti” (Art. II, § 4, Costituzione USA). Tuttavia, almeno per quanto riguarda il Presidente in carica, si ritiene – in base a consolidati pareri dell’Office of Legal Counsel – che egli goda di una sorta di immunità penale temporanea, non esplicitamente prevista dalla Costituzione, ma derivata dall’interpretazione del principio della separazione dei poteri. Pertanto, benché non vi sia una connessione formale tra l’impeachment e il processo penale, è evidente che, nella prassi, un procedimento penale nei confronti del Presidente può essere avviato solo dopo la sua rimozione o al termine del mandato.
Per quanto concerne l’organo inquirente, l’Italia si distingue come unico caso in cui esiste un vero e proprio organo separato di natura giudiziaria – il Tribunale dei Ministri – che sostituisce temporaneamente il pubblico ministero nelle indagini relative a reati ministeriali. In Francia, l’inchiesta è avviata dalla procura ordinaria, ma la fase successiva passa a una procedura speciale davanti alla Cour de Justice de la République. In Spagna e Germania, l’organo inquirente rimane la procura ordinaria, pur cambiando il tribunale competente per il giudizio. In Danimarca, l’inchiesta può essere preceduta dall’intervento di una commissione parlamentare che ha il compito di raccogliere gli elementi utili prima dell’avvio dell’azione penale. In Slovenia si distingue tra un accertamento preliminare di natura amministrativa, condotto dal Komisija za preprečevanje korupcije (KPK, Comitato anticorruzione), e l’indagine penale vera e propria svolta dal pubblico ministero. In Grecia e in Polonia, invece, il Parlamento istituisce una commissione d’inchiesta che conduce le indagini preliminari: al termine, questa può raccomandare al Parlamento di autorizzare la prosecuzione davanti al tribunale competente.
Quanto all’organo giudicante, in Italia, Germania, Portogallo, Regno Unito, Slovenia e Stati Uniti, il processo si svolge davanti alla magistratura ordinaria. In Spagna e nei Paesi Bassi, invece, è la Corte Suprema ad avere competenza per giudicare i membri del governo. Diversamente, in Francia è competente la Cour de Justice de la République (CJR), un tribunale speciale composto da 15 membri: 3 magistrati di carriera e 12 parlamentari. In Danimarca è prevista la Rigsretten, ovvero l’Alta Corte del Regno, un tribunale speciale misto composto da 15 giudici della Corte suprema e 15 membri designati dal Parlamento. In Grecia, il giudizio avviene dinanzi a una corte speciale composta da 13 membri: 7 del Symvoulio tis Epikrateias (Consiglio di Stato) e 6 dell’Areios Pagos (Corte Suprema), scelti per sorteggio tra i magistrati più anziani. In Polonia, infine, opera il Trybunał Stanu, tribunale speciale composto da un presidente (che è il presidente della Corte suprema), due vicepresidenti e sedici membri eletti dal Sejm all’inizio di ogni legislatura (non necessariamente parlamentari).
In relazione al regime delle immunità, numerosi Stati prevedono una forma di protezione penale per i membri dell’esecutivo. Tra questi si annoverano: Italia, Francia, Grecia, Spagna, Slovenia, Finlandia, Danimarca, Paesi Bassi e Stati Uniti. In tutti questi ordinamenti, l’immunità è generalmente di tipo funzionale, ovvero limitata agli atti compiuti nell’esercizio delle proprie funzioni istituzionali. Per eventuali reati commessi al di fuori di tale ambito – cosiddetti reati extrafunzionali – il giudizio spetta alla magistratura ordinaria. Tuttavia, in diversi ordinamenti, tra cui l’Italia, è previsto un meccanismo di autorizzazione parlamentare anche per l’avvio di procedimenti per tali reati.
In conclusione, l’analisi comparativa rivela una varietà di modelli che riflettono differenti concezioni dell’equilibrio tra i poteri dello Stato. Alcuni ordinamenti, come quello italiano, polacco o danese, prevedono istituti specifici volti a proteggere l’autonomia del potere esecutivo, introducendo organi “terzi” o filtri politici nella fase inquirente o giudicante. Altri, come Germania o Regno Unito, si affidano pienamente alla magistratura ordinaria. In ogni caso, la tendenza comune sembra essere quella di bilanciare il principio della responsabilità dei ministri con le garanzie derivanti dalla funzione istituzionale ricoperta, nell’ottica di una tutela dell’interesse pubblico e del buon funzionamento delle istituzioni.
5. Conclusioni
Alla luce dell’approfondita analisi condotta sul procedimento penale relativo ai reati ministeriali, tanto nella sua evoluzione interna quanto nel confronto con gli ordinamenti esteri, è possibile giungere ad alcune considerazioni di sintesi capaci di evidenziare la portata costituzionale di questo delicatissimo segmento del diritto penale.
In primo luogo, emerge con chiarezza come il sistema delineato dalla Legge costituzionale n. 1 del 1989 rappresenti il risultato di un compromesso istituzionale che ha cercato di riequilibrare, a seguito della stagione referendaria del 1987, i rapporti tra potere legislativo, potere esecutivo e magistratura. Il sistema previgente, profondamente sbilanciato in favore del Parlamento e permeato da evidenti conflitti di interesse, è stato progressivamente sostituito da una struttura procedurale che, pur restando peculiare e separata rispetto alla procedura penale ordinaria, si inserisce saldamente nell’alveo della giurisdizione ordinaria.
Il cuore di tale riforma risiede nell’introduzione del Tribunale dei Ministri, un organo inquirente composto da magistrati togati, che ha il compito esclusivo di indagare sui reati commessi da membri dell’esecutivo nell’esercizio delle loro funzioni. Si tratta di un unicum nel panorama italiano: un organo collegiale e non monocratico, non espressione del potere esecutivo né sottoposto al controllo del pubblico ministero. La sua selezione tramite sorteggio, con criteri di anzianità e territorialità, risponde a una logica più orientata alla garanzia di imparzialità che non all’elevata competenza tecnica, segno evidente della volontà di preservare l’autonomia dell’indagine da pressioni interne o esterne. Questo elemento, spesso sottovalutato, è stato più volte valorizzato nei lavori preparatori della legge del 1989, in cui si sottolineava la necessità di istituire un filtro tecnico e imparziale, terzo sia rispetto al potere giudiziario sia rispetto a quello politico.
Un altro aspetto di rilievo è rappresentato dal meccanismo dell’autorizzazione a procedere parlamentare. Contrariamente a quanto potrebbe superficialmente apparire, tale meccanismo non è concepito come un potere pienamente discrezionale del Parlamento, bensì come uno strumento di garanzia eccezionale, da utilizzare solo laddove siano in gioco interessi costituzionalmente rilevanti o preminenti esigenze pubbliche. L’inversione logica introdotta dal legislatore – secondo la quale il procedimento prosegue automaticamente salvo deliberazione contraria del Parlamento con maggioranza assoluta – contribuisce a rendere questo filtro più trasparente, ma soprattutto politicamente oneroso per le forze parlamentari che intendano opporsi alla prosecuzione di un’indagine. In questo senso, si afferma un principio di responsabilità politica diretta nei confronti dell’elettorato.
L’esame comparativo con altri ordinamenti europei e anglosassoni ha altresì messo in luce la varietà di modelli esistenti: vi sono Paesi che, come la Germania o il Regno Unito, affidano integralmente il procedimento alla giurisdizione ordinaria, senza prevedere filtri politici; altri, come la Francia, la Grecia o la Danimarca, che fanno ricorso a tribunali speciali o commissioni miste; altri ancora, come l’Italia o la Polonia, che cercano soluzioni intermedie, combinando l’autonomia dell’autorità giudiziaria con un intervento limitato e condizionato del potere legislativo.
In questo contesto variegato, l’Italia si colloca in una posizione intermedia, ispirata da una logica di “fiducia vigilata”: si riconosce al potere giudiziario un ruolo centrale e tecnico, ma si mantiene un margine minimo di intervento politico, in funzione di salvaguardia delle prerogative dell’esecutivo e degli equilibri costituzionali. Tale configurazione, se da un lato può prestarsi ad abusi o a impasse politico-giudiziari, dall’altro rappresenta un tentativo, forse imperfetto ma coerente, di far convivere il principio della responsabilità penale individuale con l’esigenza di tutela dell’indipendenza delle istituzioni.
L’intera architettura del procedimento penale per i reati ministeriali testimonia, dunque, l’esistenza di un’area in cui diritto e politica si intersecano in maniera ineludibile. In questa zona di confine, l’obiettivo fondamentale non può essere l’eliminazione delle reciproche influenze, ma piuttosto la creazione di strutture e meccanismi in grado di rendere trasparenti, controllabili e responsabilizzanti tali interferenze. In definitiva, l’equilibrio tra i poteri dello Stato, in questo specifico ambito, si misura non tanto sulla base della separazione meccanica delle competenze, quanto sulla qualità delle garanzie poste a presidio del corretto esercizio delle rispettive funzioni.
Il procedimento penale nei confronti dei membri del Governo non deve essere né uno scudo assoluto né un’arma politica. Deve essere, invece, lo spazio istituzionale in cui si realizza pienamente il principio dello Stato di diritto: un luogo in cui anche i titolari del potere rispondono della legge, ma con le dovute cautele e garanzie, in ossequio al più alto principio dell’equilibrio tra libertà, giustizia e democrazia.
1] Legge Costituzionale n.1 del 1989, art. 4
[2] Art. 6 Legge Costituzionale n.1 del 1989
[3] Legge costituzionale n.1 del 1989, art. 9
[4] Atti parlamentari - Camera dei deputati X Legislatura - seduta del 4 marzo 1988 pag. 11554
[5] Legge costituzionale n.1 del 1989, art. 9, comma IV
[6] Cost. art. 96
[7] Atti parlamentari - Camera dei deputati X Legislatura - seduta del 4 marzo 1988 pag. 11553
[8] Atti parlamentari - Camera dei deputati X Legislatura - seduta del 4 marzo 1988 pag. 11557
[9] Atti parlamentari - Camera dei deputati X Legislatura - seduta del 4 marzo 1988 pag. 11557
[10] Si veda: Costituzione della V Repubblica Francese, art. 68-1, 68-2 e 68-3, Loi organique n° 93-1252 du 23 novembre 1993;
[11] Costituzione dei Paesi Bassi, art. 119;
[12] Grundloven (Costituzione), §16;
[13] Costituzione della Grecia, Art. 86; Νόμος 3126/2003 – «Ποινική ευθύνη των Υπουργών»
[14] Costituzione della Repubblica di Slovenia (art. 109 e 119);
[15] Costituzione della Repubblica di Polonia del 1997, art. 145: disciplina la responsabilità penale del Presidente della Repubblica; art. 156: disciplina la responsabilità penale dei membri del Consiglio dei ministri; art. 198–201: regolano il funzionamento del Tribunale di Stato (Trybunał Stanu)
[16] Si veda Constitución Española, art. 102; Ley Orgánica 6/1985, del Poder Judicial, art. 56 e ss;
[17] Constituição da República Portuguesa, art. 122 e 134;