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Il bilanciamento in potenza: la sent. n. 105 del 2024 e la faticosa realizzazione della tutela ambientale
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Pubbl. Gio, 8 Mag 2025
Sottoposto a PEER REVIEW

Il bilanciamento in potenza: la sent. n. 105 del 2024 e la faticosa realizzazione della tutela ambientale

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Antonio Gusmai
Professore AssociatoUniversità degli Studi di Bari



Il testo riproduce l’intervento al Convegno “Fondata sull’ambiente: il bilanciamento dopo la revisione costituzionale”, tenutosi il 12 febbraio scorso presso la Biblioteca Casa de Cervantes del Reale Collegio di Spagna, a Bologna. L’iniziativa ha rappresentato il primo dei tre appuntamenti previsti nell’ambito del PRIN PNRR 2022 “Founded on the environment: a new constitutional pact and its implementation”, al quale chi scrive partecipa in qualità di Associated Principal Investigator per l’Unità di ricerca dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”. Il progetto coinvolge, tra gli altri, il prof. Andrea Morrone (Principal Investigator) e la prof.ssa Anna Papa, responsabile dell’Unità afferente all’Università degli Studi di Napoli “Parthenope”.


ENG

Balancing in Potential: Judgment No. 105 of 2024 and the Struggles in Achieving Environmental Protection

This contribution builds upon the presentation delivered at the conference “Founded on the Environment: Balancing after the Constitutional Reform”, held on February 12 at the Casa de Cervantes Library, within the Royal College of Spain in Bologna. The event marked the first of three meetings planned within the framework of the PRIN PNRR 2022 project entitled “Founded on the Environment: a New Constitutional Pact and Its Implementation”, in which the author is involved as Associated Principal Investigator for the Research Unit of the University of Bari “Aldo Moro”. Among the project’s key participants are Professor Andrea Morrone (Principal Investigator) and Professor Anna Papa, coordinator of the Research Unit based at the University of Naples “Parthenope”.

Sommario: 1. In limine; 2. Nodi essenziali della vicenda Priolo;3. L’ambiguità decisionale della Consulta; 3.1. La rinuncia al bilanciamento;3.2. Il bilanciamento pro-futuro; 4. Alcune coordinate eurounitarie; 5. Valori “tiranni” e garanzie costituzionali.

1. In limine

Le considerazioni che seguono compendiano il testo della relazione presentata in occasione del Convegno “Fondata sull’ambiente: il bilanciamento dopo la revisione costituzionale”, svoltosi a Bologna il 12 febbraio scorso[1].

Al centro della discussione, in perfetta assonanza con il titolo dell’incontro, sono finiti alcuni dei principali sviluppi dell’argomentazione costituzionale relativa al bene «ambiente», negli ultimi anni implementata dall’interpretazione dei nuovi parametri introdotti nel testo della Carta repubblicana dalla legge costituzionale n. 1 del 2022. Novella, quest’ultima, che ha (ri)acceso il dibattito dottrinale sulla portata del “valore” «ambiente», dal legislatore intanto promosso, oltre che a principio fondamentale, a “limite” invalicabile da opporre all’esercizio dannoso delle attività economiche nell’«interesse delle generazioni» presenti e future (Bifulco R., 2022).

Seguendo l’ordine di esposizione congressuale, la riflessione che qui si approfondisce si articola in tre parti strettamente interconnesse.

L’abbrivio lo si prenderà muovendo da un assunto di carattere – per così dire – psichico-normativo, che è il seguente. La decisione n. 105 del 2024, con cui il giudice delle leggi affronta, per la prima volta dopo la revisione degli artt. 9 e 41 Cost., questioni attinenti al diritto costituzionale dell’ambiente, sembra infatti potersi apprezzare a patto che la si riconosca affetta da una sorta di disturbo bipolare. E questo non tanto perché, come pure si è detto, si tratta di «una lunga sentenza che si conclude con un dispositivo sorprendentemente ridotto, rispetto al quale le ampie escursioni sull’importanza della riforma costituzionale del 2022 […] non svolgono alcuna reale funzione argomentativa» (Bin R., 2024). Come si vedrà, i sintomi che lasciano presagire la presenza di tale “patologia dell’umore” sono piuttosto rinvenibili nella lettura combinata di due fondamentali punti della parte motiva della decisione. La Consulta, infatti, se dapprima tiene perentoriamente ad affermare di voler decidere della esclusiva «sostenibilità costituzionale» della normativa sub iudice (Considerato in diritto 3.2), con ciò in parte “deprimendo” le sue stesse attribuzioni costituzionali altre volte invece esaltate (si pensi al bilanciamento Ilva, sent. n. 85 del 2013); qualche periodo dopo, tentando avvedutamente di proiettare nel futuro una più complessa realtà socio-politica dai tratti compulsivo-antropocentrici (Carducci M., 2024), prefigura “euforicamente” la possibilità di un futuro bilanciamento tra beni e interessi costituzionali potenzialmente dirompente, in grado financo di poter modellare il tradizionale esercizio della rappresentanza politica all’interno dello Stato (Considerato in diritto 5.1.2.).

Il secondo aspetto che si è scelto di mettere in rilievo attiene, invece, alla funzionalità della pronuncia Priolo nel contesto del diritto eurounitario. Un’operazione, questa, che necessariamente sposta l’attenzione su alcuni passaggi argomentativi più tecnici della sentenza (specie relativi alla valenza dell’AIA), ma che al contempo offre l’opportunità di comprendere fattivamente l’importanza dell’utilizzo della tecnica dell’«interpretazione intercostituzionale» (Gusmai A., 2014), specie in contenziosi che attengono a materie che non si lasciano efficacemente governare dalle sole legislazioni statali (su tutte, proprio l’ambiente, entro cui pure convergono le questioni climatiche).

Non da ultimo, a finire sotto la lente d’ingrandimento saranno alcuni profili che connotano la tecnica del bilanciamento. In particolare, dopo aver brevemente rievocato le dottrine dei «valori» e aver sottolineato l’impropria dipendenza della giurisprudenza costituzionale da tali teorie (Gusmai A., 2015), si tenterà di dimostrare un ulteriore assunto: quello dell’artificiosità del bilanciamento in materia ambientale. In realtà il discorso è molto più ampio ed involge tutti i diritti “valoriali” (Schmitt C., 2008), ossia quei diritti che esprimono «visioni del mondo» e trasformano «il valore e ciò che ha valore» in «un surrogato positivistico del “metafisico”» (Heidegger M., 1968). Ma qui, anche solo per ragioni di tempo e di spazio, ci si limiterà ad osservare il fenomeno limitatamente al valore «ambiente», di fatto sempre pretermesso agli interessi di natura economica, anche quando, come nel tempo presente, sarebbe forse auspicabile che venisse chiamato a “tiranneggiare” in funzione precauzionale.

2. Nodi essenziali della vicenda Priolo

Un’analisi consapevole delle criticità ermeneutiche impone, in via preliminare, una sintetica ricostruzione della vicenda processuale e l’individuazione delle questioni rilevanti nel giudizio di costituzionalità.

Oggetto della pronuncia è una disposizione di attuazione del codice di procedura penale – l’art. 104-bis, comma 1-bis.1, quinto periodo – introdotta dal decreto-legge n. 2 del 2023, recante “Misure urgenti per impianti di interesse strategico nazionale”. Tale previsione normativa, inserita nell’alveo della disciplina delineata dal cosiddetto decreto Ilva per il riconoscimento dell’«interesse strategico nazionale», attribuisce all’autorità giudiziaria e al potere esecutivo un ruolo distinto nell’equilibrio tra esigenze di continuità produttiva e tutela degli interessi pubblici primari. Concepita in funzione della vicenda riguardante il polo petrolchimico di Priolo, la disposizione all’esame della Corte costituzionale riflette la logica di un intervento normativo eccezionale e contestualizzato; ciononostante, come chiarisce la stessa Consulta, pur essendo strettamente connessa alla specifica «vicenda giudiziaria che ne ha rappresentato l’occasio, la disposizione censurata non costituisce una legge-provvedimento, ma detta una disciplina generale e astratta», suscettibile di applicazione «a una pluralità indeterminata di casi analoghi» (Considerato in diritto 3.2). Essa si colloca nel più ampio quadro normativo relativo all’amministrazione dei beni sottoposti a sequestro o a confisca nell’ambito del procedimento penale, riferendosi, in particolare, a stabilimenti industriali qualificati come di «interesse strategico nazionale» (ai sensi del suddetto decreto Ilva), nonché a quegli «impianti o infrastrutture» funzionali ad assicurarne la continuità produttiva (in questo il decreto Priolo ha lo scopo di completare la precedente regolamentazione predisposta per il caso tarantino).

Cosicché, la normativa generale è oggetto di impugnazione per aver conferito alle autorità di governo il potere di adottare misure finalizzate a determinare il bilanciamento degli interessi nel caso concreto (ai sensi del d.P.C.M. del 12 settembre 2023), precludendo qualsiasi diversa valutazione da parte dell’autorità giudiziaria. Una sorta di «delega di bilanciamento in concreto» (Scaccia G., 1998) che il legislatore sembra rivolgere a sé stesso, verrebbe da dire. Tuttavia, essa non prevede l’obbligo di corredare tali provvedimenti amministrativi delle necessarie garanzie, sia in termini di contenuto che di procedimento. Sotto tale angolazione, la Corte ha dichiarato l’infondatezza della questione – un esito che gli esponenti del governo hanno naturalmente salutato con favore – ritenendo costituzionalmente legittimo che l’Esecutivo possa adottare misure ritenute idonee alla specifica situazione aziendale, purché esse tengano conto anche del bilanciamento già operato dal giudice sulla base degli elementi istruttori da lui raccolti.

L’adozione di tali provvedimenti determina, pertanto, un effetto vincolante per l’autorità giudiziaria, impedendole di assumere iniziative ulteriori: un eventuale diniego alla prosecuzione dell’attività da parte del giudice – nonostante l’intervento governativo – diviene dunque impugnabile dinanzi al Tribunale di Roma, ai sensi dell’art. 104-bis, comma 1-bis.2 delle norme di attuazione del codice di procedura penale. La Corte evidenzia come tale previsione, «nella logica – invero, non proprio cristallina – del legislatore», si configuri quale «“freno di emergenza”» attraverso il quale il Governo assicura il rispetto delle proprie determinazioni, che si impongono in via cogente all’autorità giudiziaria (Considerato in diritto n. 4.3).

Questo il punctum crucis attorno al quale si articolano le eccezioni di incostituzionalità sollevate dal giudice rimettente: la concentrazione, in capo alle autorità di governo, di un potere che si sovrappone alle determinazioni dell’autorità giudiziaria, la quale ha disposto il sequestro impeditivo degli impianti. Potere che, come rileva il giudice a quo, di fatto viene esercitato in assenza di «concrete misure gestionali adottabili al fine di mitigare il rischio per la salute e per l’ambiente derivante dall’immissione di reflui industriali in un depuratore privo di un sistema di pretrattamento e di un sistema di convogliamento delle emissioni diffuse» (cfr. Ritenuto in fatto n. 1.4 della sentenza ).

3. L’ambiguità decisionale della Consulta

La sentenza si caratterizza per una struttura argomentativa suscettibile di una duplice interpretazione, come evidenziato sin dalle battute iniziali (Vivoli G., 2024). È questo un primo, decisivo, aspetto che sembra rivelare le non poche difficoltà avvertite dal giudice delle leggi al cospetto di una Costituzione revisionata in senso ecologico, in potenza chiamata a ristrutturare il complessivo impianto delle libertà economiche (ex art. 41 Cost.). Di qui i primi – comprensibili – “scompensi umorali” nel fronteggiare questioni di legittimità costituzionale che investono la “struttura” della società, essendo i giudici di fatto chiamati a pronunciarsi su provvedimenti governativi dal forte impatto politico-economico.

È vero, nella vicenda Ilva (sent. n. 85 del 2013) la Consulta aveva trovato una (discutibile) sintesi al processo dialettico che si instaura tra diritti economici (lavoro e impresa) e diritti fondamentali (ambiente salubre). È stata infatti realizzata, in quella occasione, un’operazione di bilanciamento c.d. «definitorio» (o «categoriale» che dir si voglia, ossia una ponderazione non già meramente valevole «caso per caso»), in cui si è enucleata una regola decisoria – quella della prevalenza dell’«interesse strategico nazionale» su tutti gli altri diritti – «che offr[e] soluzioni riproducibili per tutti i casi analoghi di conflitto tra due [o più] principi che si ripresenteranno in futuro, quantomeno nei casi “centrali” e paradigmatici» (Pino G., 2006). Ma in quel momento storico la Corte ha agito in assenza di espresse gerarchie normative, oggi imposte dal combinato disposto dei nuovi artt. 9 e 41 Cost., da intendersi quale vero e proprio katechon costituzionale a usbergo di provvedimenti normativi insensibili alle problematiche in senso lato ambientali.

Comprendere in che modo il giudice delle leggi si è, per così dire, divincolato, è questione su cui adesso occorre brevemente concentrare l’attenzione.

3.1 La rinuncia al bilanciamento

Il Considerato in diritto n. 3.2 offre una prima e significativa prospettiva ermeneutica. In particolare, si sostiene quanto segue: «È dunque sulla sostenibilità costituzionale di questa disciplina generale e astratta alla luce dei parametri evocati dall’ordinanza di rimessione – e non già sulla correttezza del bilanciamento effettuato dal Governo, attraverso le misure prescritte dal d.interm. 12 settembre 2023, nello specifico caso oggetto del procedimento a quo – che questa Corte è, oggi, chiamata a pronunciarsi».

Che cosa tale inciso possa significare all’interno dell’economia della decisione non è difficile da intuire. Con un perentorio self-restraint, la Corte afferma che la questione sottoposta al suo giudizio riguarda esclusivamente la «sostenibilità costituzionale» della disciplina generale e astratta di cui all'art. 104-bis, comma 1-bis.1, delle Norme di attuazione del codice di procedura penale, escludendo invece dal proprio scrutinio la «correttezza del bilanciamento effettuato dal Governo» attraverso il decreto interministeriale 12 settembre 2023. Trattasi, con ogni evidenza, di una posizione contenitiva – recte: rinunciataria – in punto di bilanciamento, che sembra avere il precipuo fine di limitare il proprio controllo di costituzionalità a una valutazione meramente formale del disposto normativo. Con ciò, quindi, evitando di verificare se, in concreto, esso effettivamente legittimi un “sostenibile” bilanciamento tra diritti costituzionali contrapposti. Un approccio che appare non poco problematico, dacché la disciplina in esame permette la prosecuzione delle attività produttive di impianti di interesse strategico nazionale anche in presenza di conclamate criticità ambientali.

Il meccanismo delineato dall’art. 104-bis, comma 1-bis.1, stabilisce invero che il giudice debba autorizzare la prosecuzione dell’attività industriale se, nell’ambito della procedura amministrativa di riconoscimento dell’interesse strategico nazionale, sono state adottate misure ritenute idonee a bilanciare le esigenze di continuità produttiva con la tutela ambientale e della salute pubblica. Misure che, nel caso concreto oggetto del procedimento a quo, sono appunto contenute nel decreto interministeriale del 12 settembre 2023. Tuttavia, la Corte si dichiara incapace di valutare se tale bilanciamento sia reale o semplicemente apparente, assumendo un atteggiamento passivo rispetto alle scelte dell’Esecutivo. Il giudice delle leggi, qui, sembra comportarsi come se gli art. 9 e 41 Cost. non esistessero, lasciando intendere che il bilanciamento tra ambiente e attività economiche sia interamente rimesso alla discrezionalità di una maggioranza politica.

Di qui la prima manifestazione – “depressiva” – di bipolarismo giuridico. In queste considerazioni preliminari, che inevitabilmente poi condizionano l’intero andamento della pronuncia, la Consulta sembra abdicare alla propria funzione di garante dell’equilibrio tra principi costituzionali, subendo passivamente le decisioni dell’Esecutivo. Con ciò, per giunta, pregiudicando la stessa coerenza logico-sistematica della ratio decidendi. Quando infatti, poco oltre, si premura di attribuire alla tutela ambientale la valenza di un principio architettonico di sistema, a tratti quasi «rifondativo» del Patto repubblicano (Morrone A., 2022), le sue considerazioni appaiono del tutto disconnesse dall’intero contesto argomentativo proiettato alla decisione. Pronuncia “additiva” che, è appena il caso di rammentarlo, si chiude con la (esclusiva) dichiarazione di incostituzionalità del quinto periodo del comma 1-bis.1 del D. lgs. n. 271 del 1989, nella parte in cui non prevede che le misure indicate possano essere applicate solo per un periodo di tempo non superiore a trentasei mesi.

Ambivalenza, questa, che non solo “sospende” il rafforzamento della protezione ambientale introdotto dalla riforma degli artt. 9 e 41 Cost., ma che di fatto sembra lasciare il bilanciamento dei diritti costituzionali operare in una sorta di zona grigia, in cui la discrezionalità politico-amministrativa sembra nettamente prevalere sul controllo giurisdizionale di costituzionalità. Come se la primaria tutela della vita e della salute umana, nonché dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi potesse di fatto valere alla stregua di un astratto assetto normativo principiale da attuare soltanto in sede legislativa, senza alcuna concreta ripercussione nei giudizi di legittimità costituzionale.

Ci si potrebbe chiedere il perché di tutto questo. Una prima, scontata, risposta potrebbe essere quella che, in tal modo la Corte tenti di evitare facili accuse di “politicità” del suo operato, in aperto contrasto con la volontà espressa dal Legislatore. Ma una prospettazione di questo tipo non sembra convincere del tutto e apre, piuttosto, la strada a considerazioni che investono un’altra grande questione di teoria costituzionale (di cui si dirà meglio verso la fine). Quella dell’opportunità di continuare a ragionare e decidere controversie ricorrendo alla categoria dei «valori», attività che di fatto sembra avere il precipuo fine di trasformare i giudizi di bilanciamento in una sofisticata operazione di sostanziale mascheramento di gerarchie valoriali (per tali prospettive, su tutti, Baldassarre A., 1993).

Di tali condizioni la Corte pare essere ormai consapevole, specie in materia ambientale. E, naturalmente, si trova nella difficoltà di utilizzare la tecnica del bilanciamento senza riuscire a dissimulare le scelte valoriali di fondo determinate da ragioni metagiuridiche. Come si accennava, invero, sono le influenze dei rapporti di forza che si impongono attraverso i valori a stabilire quali di essi debba prevalere. Si badi, prevalenza che nei casi in cui a collidere sono beni e interessi aventi una forte rilevanza economico-politico-sociale (su tutti, ambiente/salute vs economia/lavoro), può imporsi non soltanto per il caso concreto (che riguarda situazioni giuridiche), ma tiranneggiare per un orizzonte temporale di medio-lungo corso (in linea con la natura aggressiva dei valori). Per ciò che qui rileva, la dimostrazione di quanto detto è data, nelle società rette da un capitalismo spinto, dalla costante prevalenza delle attività produttive su beni fondamentali della vita come la salute e la preservazione degli equilibri ecosistemici. Ragione per cui la Consulta, sembra potersi sostenere, specie dopo le critiche a cui si è esposta nel bilanciamento contenuto nel giudizio Ilva (sent. n. 85 del 2013), nel caso Priolo sceglie di lasciare che la ponderazione valoriale degli interessi (necessariamente sbilanciata sui valori dominanti) si confonda con la responsabilità che grava sugli organi di indirizzo politico. Un’opzione, questa, che, come si vedrà più avanti, sembra andare in senso diametralmente opposto agli ultimi orientamenti della Corte EDU. Giurisdizione anch’essa di rilievo costituzionale, ma che di certo è posta al di fuori delle dinamiche ordinamentali che si generano all’interno delle architetture democratico-rappresentative degli Stati, in cui invece sono chiamati ad operare i giudici delle leggi.

3.2 Il bilanciamento pro-futuro

Qualora il testo costituzionale non fosse stato oggetto di modifiche in materia ambientale, è verosimile ritenere che le motivazioni della sentenza Priolo non avrebbero conosciuto ulteriori sviluppi di rilievo, giacché il “bilanciamento categoriale” delineato nella decisione Ilva avrebbe continuato a fungere da precedente strutturante per il giudizio in esame. Tuttavia, i nuovi artt. 9 e 41 Cost. hanno imposto ai giudici delle leggi ulteriori sviluppi argomentativi, come anticipato veri e propri “slanci euforici” tutti condensati entro il perimetro di una sola e isolata parte motiva, il Considerato in diritto n. 5.1.2. Vediamo da vicino di che cosa si tratta, anche in considerazione del fatto che in dottrina v’è chi ha ravvisato nella novella costituzionale finanche «una riconfigurazione dello Stato costituzionale in senso ecologico» (Giorgini Pignatiello G., 2024).

La prima osservazione della Consulta riguarda un «rilevante profilo di distinzione tra le questioni odierne e quelle esaminate con la sentenza n. 85/2013»: il «mutamento, nel frattempo intervenuto, nella stessa formulazione dei parametri costituzionali sulla base dei quali deve essere condotto lo scrutinio di questa Corte». La dichiarazione sembra quasi avere il tenore di una premessa ad un ragionamento giuridico di straordinaria innovatività. Nel fronteggiare le questioni relative alle implicazioni dell’entrata in vigore della legge cost. n. 1 del 2022 vengono, infatti, in prima battuta richiamati i più importanti avanzamenti pretori che essa stessa ha gemmato in materia ambientale, nel delineare lo «status costituzionale dell’ambiente» (Amirante D., 2012). In particolare, sono richiamate le celebri sentt. n. 210 e 641 del 1987, oltre che la più recente sent. n. 126 del 2016, con cui la Corte ha già riconosciuto l’esistenza di un «diritto fondamentale della persona ed interesse fondamentale della collettività» alla salvaguardia dell’ambiente, precisando tutta una serie di situazioni che si tramutano in «valori che in sostanza la Costituzione prevede e garantisce».

Le aspettative non vengono astrattamente deluse. Subito dopo segue immediatamente una “fiammata” dalla portata trans-epocale, visto che la sua gittata «si estende anche […] agli interessi delle future generazioni: e dunque di persone ancora non venute ad esistenza, ma nei cui confronti le generazioni attuali hanno un preciso dovere di preservare le condizioni perché esse pure possano godere di un patrimonio ambientale il più possibile integro, e le cui varie matrici restino caratterizzate dalla ricchezza e diversità che lo connotano» (in argomento, Bifulco R. – D’Aloia A., 2008). In una prospettiva che sembra fare propri gli assunti del «principio di non regressione» (su cui, cfr. Prieur M., 2012), il giudice delle leggi appare invero voler profondamente incidere – senza dirlo apertamente – sulla stessa portata degli artt. 1 e 67 della Carta repubblicana. Stabilendo, infatti, che la «riforma del 2022 consacra direttamente nel testo della Costituzione il mandato di tutela dell’ambiente […]; e vincola, così, esplicitamente, tutte le pubbliche autorità ad attivarsi in vista della sua efficace difesa», cos’altro può voler dire se non che la rappresentanza politica (di tutti i livelli) dovrà per il futuro ritenersi vincolata ai principi dell’ecologismo nell’esercizio della sua attività tesa al raggiungimento del pubblico interesse?

Non è questa la sede più opportuna per discutere del principio del libero mandato né, tantomeno, per affrontare le molteplici cause che hanno generato numerosi cortocircuiti nel funzionamento delle democrazie rappresentative degli Stati costituzionali del tempo presente. Servirebbero ben altri spazi da dedicare a tali complessissime questioni, peraltro strettamente legate all’esercizio di poteri privati (Carducci M., 2024).

Tuttavia, l’utilizzo da parte della Corte di un termine ben preciso, quello di «mandato», non può esimerci da una puntuale annotazione. Salvo che non si voglia ritenere “improprio” l’uso di tale espressione da parte dei giudici (e chi scrive lo esclude del tutto), per questa parte la sentenza sembra potersi leggere in un senso assai propositivo. Mentre, come visto, per il caso concreto (la vicenda Priolo) la Consulta sceglie di non bilanciare alcunché e si affida ai suoi precedenti (su tutti, il caso Ilva), per il futuro sembra invece agire in senso nient’affatto “depressivo”: crea quantomeno le fondamenta di quello che ben potremmo definire un bilanciamento “in potenza”, anch’esso di natura definitoria/categoriale, avvertendo che nelle prossime ponderazioni tra diritti e principi costituzionali gli interessi ambientali ben potrebbero avere la meglio su quelli economici (Carducci M., op. ult. cit., 2).

Niente di più illusorio, verrebbe da dire, in un momento storico in cui gli stessi Stati europei sembrano ormai orientare le proprie economie verso una riconversione delle attività produttive di “mali” (più che di beni) tra i più devastanti per gli esseri viventi e i loro ecosistemi: la produzione di armamenti per fronteggiare supposte «guerr[e] giust[e]». Situazioni oltremodo tragiche, in cui proprio «la teoria dei valori festeggia i suoi autentici trionfi» (Schmitt C., cit., 64).

Di qui l’altro aspetto patologico della pronuncia, ossia la componente “euforica” di quello che si è voluto definire, attraverso una suggestiva immagine tratta dal sapere psichiatrico, disturbo decisorio-bipolare. Un’euforia che ben avrebbe potuto tramutarsi in qualcosa di concreto e fattivamente dirimente, se solo la Corte non avesse rinviato una così importante operazione di bilanciamento a data da destinarsi.

4. Alcune coordinate eurounitarie

Il tema del “bilanciamento ambientale” trascende i limiti angusti delle perimetrazioni normative statali. È, infatti, la natura intrinsecamente trasversale dell’ambiente – quale “non-materia” per antonomasia (D’Atena A., 2013) – a imporre un approccio che superi i confini dei singoli ordinamenti nazionali (Salvemini L., 2019). Occorre pertanto valutare l’effettiva portata della decisione n. 105 del 2024, anche «attraverso il prisma degli obblighi europei e internazionali in materia» (Considerato in diritto n. 5.1.2).

Se si procede in tal senso, si apprende che alcune delle remore – recte: autolimitazioni – mostrate dalla Corte costituzionale italiana nel prestare ossequio alla volontà del legislatore statale appaiono oltremodo eccessive. Quantomeno, si ritiene, se si ha particolare riguardo a due importanti pronunciamenti, quasi coevi, delle Corti sovrannazionali: il primo, di poco successivo alla decisione Priolo, emesso dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea trattando dei c.d. “decreti salva Ilva” (CGUE, Grande Sezione, 25 giugno 2024, Causa C-626/22); l’altro, per certi aspetti ancora più dirompente in termini di teoria costituzionale, pronunciato un paio di mesi prima dalla Corte EDU nel celebre caso “climatico” Verein KlimaSeniorinnen (Corte EDU, 9 aprile 2024, Verein KlimaSeniorinnen Schweiz e al. c. Svizzera).

Con la prima pronuncia, il giudice lussemburghese sostanzialmente invalida la normativa nazionale che disciplina la gestione straordinaria dell’Ilva per contrasto con la direttiva 2010/75/UE relativa alle emissioni industriali. In particolare, per quel che qui maggiormente rileva, la decisione stabilisce che i numerosi rinvii concessi dallo Stato per l’attuazione delle misure di risanamento dello stabilimento tarantino risultano incompatibili con le prioritarie esigenze di tutela della salute e dell’ambiente, rispetto alle quali anche gli interessi occupazionali ed economici debbono retrocedere. La motivazione di fondo è assai pregnante: non si possono sacrificare beni fondamentali sull’altare di schemi normativi che, attraverso ripetuti provvedimenti governativi straordinari di autorizzazione alla continuità aziendale, abbinati a revisioni delle Autorizzazioni Integrate Ambientali (AIA), vadano di fatto a compromettere sine die la vita dell’uomo e degli ecosistemi (CGUE, Causa C-626/22, cit., § 132). In pratica, sembra dunque voler dire la Grande Sezione, a non essere più consentite sono tutte quelle operazioni di bilanciamento (a partire da quello propinato dalla sent. n. 85 del 2013) che nei fatti sortiscono l’effetto di sospendere l’applicazione dei diritti ecologici. Situazioni giuridiche, queste ultime, che lo stesso diritto eurounitario pretende siano invece assicurate all’interno degli ordinamenti costituzionali, anche attraverso l’interpretazione di documenti normativi che «si integrano, completandosi reciprocamente» (Corte cost., sent. n. 388 del 1999). È questa l’essenza di quella che, in altre occasioni, si è definita «interpretazione inter-costituzionale» (Gusmai A., 2015, 65 ss.), ossia un’attività ermeneutica tesa alla migliore tutela dei diritti e delle libertà fondamentali in un’ottica di superamento delle limitate prospettive tipiche del «nazionalismo o patriottismo costituzionale» (Ruggeri A., 2013). In fondo, precisa ancora la Corte, le «norme stabilite dalla direttiva costituiscono […] la concretizzazione degli obblighi dell’Unione in materia di protezione dell’ambiente e della salute umana derivanti, segnatamente, dall’art. 191, paragrafi 1 e 2, TFUE» (CGUE, Causa C-626/22, cit., § 70).

In senso difforme, invece, paiono volgere le argomentazioni della Consulta nel caso Priolo. Non solo, infatti, la Corte ritiene che il provvedimento di riesame dell’AIA, come ha già avuto modo di esplicitare nella sentenza Ilva, rappresenti un «punto di equilibrio» in grado di rendere lecita la prosecuzione dell’attività economica (inquinante) delle imprese, nello spazio temporale massimo di 36 mesi (ripetutamente disatteso). Ma, ed è quel che lascia maggiormente perplessi, fa salva la disposizione censurata dal giudice a quo nonostante essa rinvii ad un procedimento meno rigoroso (non fondato sull’AIA riesaminata), basato su un’autorizzazione che proviene direttamente dal Governo nazionale. Con l’effetto, quindi, di privare indefinitamente l’autorità giudiziaria di ogni potere di valutazione sull’adeguatezza di generiche misure di bilanciamento sulla base di una presunta «interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata» (sent. n. 105 del 2024, Considerato in diritto n. 5.4). Orientata, come si desume chiaramente dalla motivazione, ai principi che essa stessa ha stabilito in precedenza nel “bilanciamento Ilva”, dal giudice lussemburghese ritenuto inadeguato in quanto non conforme al parametro unitario degli artt. 35 e 37 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CGUE, Causa C-626/22, cit., § 71-72).

Un ulteriore accenno, poi, non può non esser fatto ad un importante orientamento ermeneutico della Corte di Strasburgo – peraltro noto alla Consulta (cfr. Considerato in diritto n. 5.3.2) – con cui il tema del bilanciamento ambientale del prossimo futuro sarà chiamato a fare i conti. Si tratta di una pronuncia di grande rilievo per il diritto costituzionale, con cui i giudici hanno affrontato nel merito la questione della deducibilità dagli articoli 2 (diritto alla vita) e 8 (diritto al rispetto alla vita privata e familiare) della CEDU di un obbligo positivo di contenuto climatico gravante sugli Stati (Corte EDU, 9 aprile 2024, Verein KlimaSeniorinnen, cit.).

La Corte, è appena il caso di rammentare, ha da tempo riconosciuto che l’art. 2 CEDU impone agli Stati un obbligo positivo di protezione dell’individuo nei confronti di condotte private che espongano la sua vita a un «rischio reale e immediato» (real and immediate risk), come accade, ad esempio, nel caso di attività industriali suscettibili di incidere gravemente sull’integrità fisica delle persone (casi Ilva e Priolo, docet). Allo stesso modo, con riguardo all’art. 8 CEDU, la giurisprudenza consolidata della Corte ha più volte affermato l’obbligo per gli Stati di assicurare una tutela effettiva contro le minacce alla vita privata e familiare, purché tali minacce si traducano in una «interferenza effettiva» (actual interference) nell’esercizio dei diritti garantiti e presentino un livello di gravità apprezzabile. In entrambe le fattispecie – tanto ove sia in gioco la tutela del diritto alla vita, quanto quando venga in rilievo la protezione della vita privata e familiare – i principi elaborati si mostrano, sul piano sostanziale, largamente convergenti, richiedendo agli Stati, da un lato, l’adozione di un assetto legislativo e amministrativo capace di prevenire e contrastare efficacemente le minacce ai diritti tutelati e, dall’altro, l’effettività della repressione e della sanzione di ogni loro violazione (Corte EDU, 20 settembre 2008, Budayeva c. Russia, § 132).

Per ciò che qui interessa, nella sentenza KlimaSeniorinnen è interessante notare come il riconoscimento di un obbligo positivo in materia climatica venga affrontato in relazione al «principio delle separazione dei poteri». E tanto, dacché l’affermazione di un obbligo di tal tipo di fatto riduce (se non elimina) lo spazio della scelta politica spettante agli Stati, per giunta imponendo alle Corti la verifica dell’adempimento di quella che diviene una vera e propria obbligazione di risultato (Gallarati F., 2024).

L’esito del ragionamento della Corte Edu sembra porsi a una distanza siderale dalle argomentazioni del giudice delle leggi contenute nella sentenza Priolo. Mentre quest’ultima, infatti, come visto, si “accomoda” sul «bilanciamento effettuato dal Governo», i giudici di Strasburgo, nel riconoscere che di fronte a questioni complesse come quelle ambientali i legislatori nazionali debbono avere un ruolo di primaria responsabilità, aggiungono: se la discrezionalità del legislatore incide sui diritti della Convenzione, non si prospetta più «soltanto una questione di politica, ma anche una questione di diritto che incide sull’interpretazione e sull’applicazione della Convenzione» (Corte EDU, KlimaSeniorinnen, cit., § 450). E tanto, perché «la democrazia non può essere ridotta alla volontà della maggioranza degli elettori e dei rappresentanti eletti, senza tener conto dei requisiti dello Stato di diritto (rule of law). Il compito dei tribunali nazionali e della Corte è quindi complementare a questi processi democratici. Il compito del potere giudiziario (judiciary) è quello di garantire la necessaria supervisione del rispetto dei requisiti legali» (Ivi, § 412).

Tutti argomenti, questi, che se da una parte sembrano invitare i legislatori nazionali a non estromettere dai programmi politici misure in grado di fronteggiare efficacemente l’inquinamento ambientale e il cambiamento climatico antropogenico, dall’altra appaiono esortare le Corti (comuni e costituzionali) a svolgere un effettivo ruolo di garanzia nei confronti di un sistema di legalità ormai fattosi «inter-costituzionale».

5. Valori “tiranni” e garanzie costituzionali

Come si è accennato verso la fine delle note introduttive riprendendo le acute riflessioni di Heidegger e Schmitt, le dottrine dei valori hanno determinato «un regno della validità ideale» (Schmitt C., cit., 50), una Punkt-Ethik che colloca il discorso giuridico in un «sistema di […] puro prospettivismo» in cui ogni «punto di vista» ha l’ambizione di trasformarsi in un «punto di attacco» che «svela la potenziale aggressività immanente a ogni posizione di valori» (Ivi, 59). Quando di mezzo vi è «la concreta attuazione del valore», puntualizza lo studioso di Plettenberg, irrimediabilmente «le illusioni neutralistiche cadono». Per «struttura tetico-ponente», ogni valore non può fare a meno di ambire alla «tirannia» e, sul piano normativo, a condurre i soggetti che ne sono portatori ad un relativismo assolutizzante che ha come esito «un fanatismo della giustizia» (Ivi, 56-61).

Un tale stato delle cose non appare in modo esplicito, specie in una «società multipla» (pluralistica) ove «sono gli interessi di gruppo a proporsi come valori, convertendo categorie giuridiche essenziali in valori di posizione (Stellenwerten) di un sistema di valori a loro adeguato». Non a caso, nota ancora Schmitt, è con l’entrata in vigore della Costituzione di Weimar (1919) che la «dottrina costituzionale» fa propri gli argomenti dei “valoristi”. E, soprattutto, è soltanto dopo il secondo conflitto mondiale che i tribunali hanno iniziato – senza mai smettere – a fondare «in larga misura le loro decisioni su punti di vista ispirati a una filosofia dei valori» (Schmitt C., cit., 15-16).

La latenza della tirannia dei valori, che carsicamente ancora oggi innerva gran parte degli ordinamenti costituzionali riconducibili alle democrazie liberali, sembra dunque essere una sorta di necessità storica affermatasi nel secolo XX. Ed infatti, seguendo la prospettazione schmittiana, attraverso la «conversione in valori» delle «categorie giuridiche» si ottiene un risultato assai congeniale alla risoluzione dei conflitti negli ordinamenti pluralistici. Si rende «commensurabile l’incommensurabile», ossia si rendono «confrontabili e suscettibili di compromesso, tanto che se ne potrebbe calcolare una quota nella distribuzione del prodotto sociale», le principali ragioni che conducono allo scontro ogni tipo di società complessa: «beni, scopi, ideali» e financo «interessi del tutto privi di relazioni» (Ivi, 19).

Non serve un particolare sforzo dell’intelletto per avvedersi di quanto, un discorso del genere, contenga in sintesi le questioni di fondo che giustificano il ricorso all’odierno «bilanciamento». Tecnica germogliata nella cultura giuridica statunitense nell’alveo dell’influenza esercitata dal realismo giuridico, rivelatasi utilissima anche negli ordinamenti europei della seconda metà del Novecento per gestire società sempre più votate al capitalismo e proiettate verso orizzonti nichilistici (Aleinikoff T.A., 1987).

In un certo senso, dunque, quantomeno in Europa, sembrano essere le riflessioni schmittiane sulla portata dei valori a disvelare quella che è la struttura portante delle tecniche di bilanciamento. È invero Schmitt ad intuire che è il ricorso ai valori a rendere possibili dinamiche compromissorie tra beni e interessi continuamente soggetti a trasvalutazione. Esattamente come avviene nella «sfera originaria […] del concetto di valore», ossia «nel campo dell’economia», anche i diritti e i principi costituzionali divengono così vittime di logiche mercatorie, potendosi quantitativamente soppesare sul piatto della “bilancia” (Alexy R., 2005). È sin dalle origini, infatti, che «ogni utilizzo del termine valore viene comunque ricondotto, consapevolmente o meno, all’ambito economico da due opposti punti di vista: dal capitalismo e – in termini polemici, ma non meno efficaci – dal socialismo anticapitalista» (Schmitt C., cit., 19-24). Confronto/scontro che ancora oggi sembra innervare la dialettica dei «punti di vista» prospettati da neoliberisti e ambientalisti, parti impegnate a difendere beni-valori di per sé inconciliabili, come sinora hanno dimostrato le concrete (e fallimentari) realizzazioni politiche delle dottrine dello sviluppo economico «sostenibile» (Robinson  N., 2014).

Con queste caustiche riflessioni, Carl Schmitt sembra aver dunque dimostrato la generale inconsistenza delle operazioni di bilanciamento tra valori. Non foss’altro dacché esse generano gerarchie valoriali che nulla hanno a che fare con la dimensione giuridico-normativa. I «valori e le teorie dei valori non sono in grado di creare legittimità; possono appunto sempre e solo valorizzare» (Schmitt C., cit., 32-33) i più disparati interessi, lasciando in definitiva che predomini sempre il più “tiranno” entro una cornice ordinamentale capace di adombrarne l’aggressività (Zagrebelsky G., 2009).

In altri termini, pluralismo politico e giudizi valoriali restano due elementi che instaurano un rapporto dialettico affatto infelice. In queste ipotesi, infatti, ciò che sembra potersi inverare sono decisioni che interiorizzano non già bilanciamenti fra diritti, ma gerarchie variabili di valori ideologico-politici volta a volta definite dai rapporti di forza nei contesti storici di riferimento. Qui, il diritto, appare smarrire la sua funzione ordinatrice, la Costituzione sembra dismettere la sua superiorità gerarchica. Con la conseguenza che ogni giudizio di bilanciamento tende ad assumere un esito scontato: incorpora il valore “tiranno”, lo rimodella attraverso l’argomentazione giuridica (che ne dissimula l’aggressività) e, attraverso la motivazione della sentenza, trasforma la decisione in una sorta di adattatore giuridico permanente degli interessi dominanti (ancora una volta, casi Ilva e Priolo, docet).

Resta da capire come poterne uscire, visto che la stessa critica schmittiana alle filosofie dei valori non sembra offrire convincenti soluzioni a riguardo. O, per meglio dire, si limita in conclusione a ritenere che «è compito del legislatore e delle leggi da lui decretate stabilire la mediazione tramite regole misurabili e applicabili e impedire il terrore dell’attuazione immediata e automatica dei valori». Compito, per stessa ammissione di Schmitt, «difficile» da realizzare all’interno degli «odierni Stati industriali altamente sviluppati», visto che, se «il legislatore fallisce non c’è nessuno che possa sostituirlo». Altri poteri dell’ordinamento, come ad esempio quello giudiziario, sono infatti da egli tutti considerati «dei tappabuchi che cadono più o meno rapidamente vittime del loro ingrato ruolo» (Schmitt C., cit., 67-68).

È questa un’analisi non poco sconfortante, in materia ambientale tutt’oggi non priva di aderenze alla realtà storica, visto che sono soprattutto i giudici (comuni e costituzionali) a fare costante ricorso alla categoria dei valori (già Corte cost., sent. n. 617 del 1987, Considerato in diritto 4.2, definiva l’ambiente un «valore assoluto costituzionalmente garantito alla collettività»).

Tuttavia, in soccorso possono soggiungere diverse soluzioni che investono il giudizio di costituzionalità delle leggi, su tutte quelle orientate a stabilire criteri di «regolarità» provenienti da un altro gigante del pensiero giuridico moderno: Hans Kelsen. Non è questo il luogo per potersi adeguatamente intrattenere sulla complessità del pensiero del massimo teorico della democrazia e delle garanzie giurisdizionali. Cionondimeno, in questa sede, sembra opportuno fare cenno ad almeno due direttrici del pensiero kelseniano, entrambe interrelate, in grado di poter consapevolmente orientare i futuri interpreti della Carta fondamentale, specie adesso che la tutela ambiente è assurta a rango di principio fondamentale. La prima afferisce al concetto di «costituzione in senso lato», «che incontriamo allorquando le costituzioni moderne contengono non solo regole sugli organi e il procedimento legislativo ma altresì un elenco di diritti fondamentali». In queste ipotesi, ormai caratterizzanti tutte le moderne Carte costituzionali, non ci si imbatte in alcun sistema di valori. Piuttosto, precisa Kelsen, «la costituzione traccia principi, direttive e limiti al contenuto delle leggi future» (Kelsen H., 1981, 153).

Al cospetto di tali documenti costituzionali, quale potrebbe dunque essere l’indicazione offerta alle Corti dal giurista praghese per giudicare dell’eventuale «incostituzionalità materiale delle leggi» (Ivi, 154) in materia ambientale? La soluzione potrebbe essere quella di riscoprire (e adeguare alla contemporaneità) un altro concetto chiave della dottrina kelseniana, quello di «stufenbau». La «garanzia della costituzione», infatti, non può che essere assicurata da una «struttura gerarchica dell’ordinamento» (Ivi, 152). Struttura che, peraltro, non si limita a creare gerarchie normative (non valoriali) esclusivamente «dal punto di vista del primato del diritto interno», ma che sia anche in grado di far propria l’«idea della superiorità del diritto internazionale ai vari ordinamenti statali» (Ivi, 159).

In definitiva, sembra forse essere questa la matrice guida dalla quale ripartire: l’emancipazione dalle dottrine metagiuridiche della Costituzione attraverso una più puntuale riorganizzazione delle gerarchie normative all’interno del sistema ordinamentale. Soluzione destinata ad influire sulle stesse dinamiche della giustizia costituzionale, dacché tesa a restituire alla Carta fondamentale la sua primigenia funzione di condizionamento del prodotto dell’attività politica non conforme ai crismi della legalità (inter)costituzionale. Legalità che, con tutta evidenza, non può, pena la sua ineffettività, non essere retta da una stretta gerarchia di principi supremi non bilanciabili, il cui compito resta quello di riorientare le sempre possibili volontà difformi dei legislatori entro l’alveo della costituzionalità. Tra questi super-principi, un posto preminente sembra spettare al principio ambientalista. Da porsi, oggi anche sul piano formale ex artt. 9 e 41 Cost., quale fondamento di tutti i diritti e di tutte le libertà – a cominciare da quelle economiche – riconosciute dalla Costituzione repubblicana.

Del resto, è da tempo che la dottrina più accreditata ritiene che sia proprio l’art. 41, comma 2, una delle poche «eccezioni» indicate nella Costituzione in cui è presente l’«indicazione dei ‘pesi’» che debbono avere i principi nelle operazioni di bilanciamento. Nello stabilire, sin dalle origini, che la libertà d’impresa economica «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana», non è forse delineata una gerarchia principiale? (Zagrebelsky G., 2008, 284).

Difficile dubitarne. E, che piaccia o meno, «ambiente» e «salute» oggi la completano.


Note e riferimenti bibliografici

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[1] L’incontro, svoltosi nella Biblioteca Casa de Cervantes ubicata presso il Reale Collegio di Spagna, rappresenta il primo Convegno (dei tre previsti) svoltosi nell’ambito del PRIN PNRR 2022 “Founded on the environment: a new constitutional pact and its implementation”, a cui lo scrivente partecipa in qualità di Associated Principal Investigator UNIBA Research Unit. Altri soggetti coinvolti nel Progetto di ricerca sono il prof. Andrea Morrone (P.I.) e la prof.ssa Anna Papa (coordinatrice dell’Unità afferente all’Università degli Studi di Napoli “Parthenope”).