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Pubbl. Sab, 22 Lug 2023
Sottoposto a PEER REVIEW

Brevi note sul peculiare modello parlamentare dei Paesi Nordici

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Saverio Regasto
Professore OrdinarioUniversità degli Studi di Brescia



Il contributo approfondisce il tema dei parlamentarismi scandinavi


ENG

Notes on the peculiar parliamentary model of Nordic Countries

The contribution explores the theme of Scandinavian parliamentarisms

Buona parte delle democrazie europee e, più in generale, occidentali, adotta la forma di governo parlamentare, razionalizzandola o correggendola in diversi modi. La tendenza negli ultimi tempi a mettere in discussione tale assetto politico, accusato in vari modi di non essere in grado di affrontare compiutamente la complessa realtà globale (come già si è in parte accennato relativamente alle possibili riforme in Italia e di cui si dirà meglio in un paragrafo dedicato) e di essere la principale causa di una frequente instabilità politico-istituzionale, vede una forte eccezione all’interno del contesto nordico, il quale sembra riuscire a coniugare al meglio le sfide del presente con il sistema parlamentare[1].

Sin dal secolo scorso, gli ordinamenti di questi Paesi vedono la strutturazione di un quadro partitico improntato alla creazione di democrazie consensuali, in cui, appunto, le più importanti fasi socioeconomiche e politiche sono affrontate con uno spirito di forte collaborazione sul piano istituzionale, trasformando le assemblee legislative in luoghi della contrattazione, attraverso continui confronti tra elettorato, parti sociali e Governo. Lo svolgimento dei rapporti tra gli organi costituzionali informato al principio di collaborazione ha consentito il fiorire di sistemi-paese nei quali si è assistito ad un importante sviluppo di tutti i settori della vita civile. Ciò è confermato dall’inserimento nelle Carte nordiche di sistemi elettorali essenzialmente proporzionali i quali, a differenza di quanto accaduto in altre realtà (in primis quello italiano) non hanno portato nel tempo a fenomeni di insostenibile instabilità e al pregiudizio della governabilità in favore della rappresentanza.

Una tale concezione complessiva si pone principalmente in controtendenza con il modello Westminster, orientato in misura preponderante alla ricerca costante della soluzione maggioritaria al fine di offrire un’accentuata stabilità agli esecutivi, tenendo sempre ben presente l’orizzonte di fine legislatura che vedrà la premiazione o la bocciatura dell’azione politica del Governo; nelle esperienze in questione, invece, la già citata costituzionalizzazione della legge elettorale proporzionale determina, spesso, la formazione di esecutivi di minoranza, fondati sulla costante ricerca di consenso nel corso del loro mandato. Quello che a prima vista potrebbe apparire come un problema, però, nel contesto nordico non pare rappresentare uno scoglio insormontabile, permettendosi, così, il pieno coinvolgimento di ogni tipo di rappresentanza all’interno dei vari Paesi, nell’ottica di un assetto consensuale trasversale a tutto il sistema politico.

Emerge, in tal modo, un'analisi della forma di governo in questi contesti che, come negli altri, deve essere sicuramente affrontata non solo alla luce dell’astratta creazione di una categorizzazione parlamentare, all’interno della quale sono individuati e descritti i caratteri fondamentali che consentano, inoltre, una previsione in ottica futura del loro funzionamento, ma anche sulla base della situazione sociopolitica su cui essa si trova ad operare, rendendo questo lavoro maggiormente apprezzabile sul piano dinamico dell’evoluzione istituzionale di un Paese. L’apprezzabilità di creare una sistematizzazione teorica generale facente capo ai tratti fondamentali dell’assetto politico, insomma, non deve condurre all’illusione di possedere un parametro universalmente valido, essendo necessario, nello specifico, operare ulteriori distinzioni in riferimento ai diversi ordinamenti, atte a comprenderne affinità e distanze.

In questo modo è possibile notare come, anche nel contesto nordico, si debba parlare di parlamentarismi, al plurale; per quanto riguarda le Repubbliche di Islanda e Finlandia, infatti, il dato puramente costituzionale restituisce un assetto istituzionale di tipo semipresidenziale, il quale, però, si confronta con un’evoluzione della realtà che concretamente le pone nell’alveo della forma di governo oggetto d’esame.

La prima, dal 1849, sostituisce al tradizionale sovrano un Presidente della Repubblica eletto ma, al pari della monarchia danese, esso assume un ruolo prettamente di garanzia ed equilibrio istituzionale, rinunciando alla determinazione dell’indirizzo politico e a molti poteri che la Costituzione gli permetterebbe di esercitare. La seconda, dopo una lunga parentesi in cui la figura del Capo dello Stato assumeva una posizione rilevante nell’ordinamento sia interno che internazionale, in virtù di un’impostazione di tipo maggioritario, dal 1991 vede una progressiva erosione dei poteri presidenziali a favore del Parlamento, grazie ad una revisione costituzionale intervenuta sul punto e che lo relega, anche qui, a ruoli di supervisione sul corretto svolgersi della vita democratica.

Norvegia, Svezia e Danimarca, infine, con diverse tempistiche, divengono classiche monarchie parlamentari, nelle quali il sovrano ricopre un ruolo prettamente simbolico. A fronte di tale situazione, quindi, in tutti e cinque i modelli si assiste a un funzionamento di fatto parlamentare della forma di governo, attribuendosi centralità al rapporto tra esecutivo e legislativo.

Una nota di rilievo è sicuramente rappresentata dall’esperienza svedese, nella quale, dal 1974, il Capo dello Stato è espressamente escluso da ogni tipo di possibile interferenza sul piano della determinazione dell’indirizzo politico, costituendosi sia formalmente che sostanzialmente una relazione bilaterale fondata solamente su Governo e Parlamento; nelle altre due monarchie, invece, un seppur minimo ruolo di garanzia istituzionale del sovrano permane, anche se nella prassi viene esercitato in misura relativamente marginale.

Fatte queste premesse, è possibile tracciare una veloce analisi descrittiva in merito ai rapporti tra esecutivo e legislativo in questi Paesi, evidenziandone similitudini e differenze[2].

In Danimarca, le relazioni tra Governo e Folketing unica Camera elettiva dal 1953 - composta da 179 membri rinnovati ogni quattro anni) dopo l’abolizione della Camera alta rappresentativa di nobiltà e grande proprietà terriera (Landsting) - all’interno di un contesto, da quella data, monocamerale, sono caratterizzate dall’assenza della previsione in Costituzione di un espresso voto di fiducia iniziale; si determina, inoltre, come prerogativa della regina, la scelta, e l’eventuale revoca, del Primo Ministro (il quale, a sua volta, sceglie e definisce gli ambiti di competenza dei Ministeri), la necessità della sua approvazione per l’entrata in vigore delle leggi e la possibilità di convocare e dirigere il Consiglio di Stato, costituito dalla compagine di governo e, se maggiorenne, dall’erede al trono.

Una tale impostazione rende il monarca, a prima vista, una figura di primo piano nella gestione degli affari del regno ma, se si va oltre l’elemento testuale contenuto nella Carta, si può notare che nella prassi evolutiva delle relazioni tra gli organi, il Parlamento e il suo rapporto con l’esecutivo risulta centrale, configurandosi il Capo dello Stato come equilibratore e garante del corretto svolgimento della vita istituzionale, nonché di sostanziale ratificatore delle scelte della politica; se poi ci si concentra sul fatto che il Governo non ottiene un mandato esplicito da parte del Parlamento, si può constatare che quest’ultimo, nel tempo, riesce a dar vita ad un ampio potere di indirizzo politico e controllo nei confronti del primo, rendendo centrale l’organo perno della vita democratica.

Il dato di fatto è, di conseguenza, quello delineante un sistema nel quale il sovrano, anche se nel frattempo non è intervenuto alcun processo di revisione costituzionale sul punto, rimane essenzialmente fuori dal gioco politico tra assemblea ed esecutivo, limitandosi a prendere atto delle decisioni assunte dalle forze politiche in ordine alla formazione, ad esempio, di un Governo sostenuto da una certa coalizione, la quale indica la figura prescelta per il ruolo di Primo Ministro; più di frequente, però, la situazione che si presenta è quella in cui il partito di maggioranza relativa si propone di dar vita ad un esecutivo di minoranza il quale, una volta accertatosi davanti alla regina che l’opposizione gli permetterà di entrare in carica, inizierà a determinare e perseguire la propria azione politica, fino al momento in cui dovesse intervenire una mozione di sfiducia nei suoi confronti. Importante sottolineare il fatto che è nelle facoltà del Primo Ministro dimissionario, nel momento in cui il suo Governo fosse fatto cadere con il voto della maggioranza assoluta dei membri del Folketing, determinare lo scioglimento anticipato della stessa Camera, strumento in grado di bilanciare gli ampi poteri in capo all’Assemblea legislativa; ciò gli permette, quindi, sia la possibilità di compattare la propria maggioranza, sia il tentativo di ottenere un rapporto maggiormente dialettico con l’opposizione.

La costruzione di un modello fondato sul consenso, come detto in precedenza, non vede la presenza di un Parlamento essenzialmente ratificatore delle scelte dell’esecutivo, visibile nell’esperienza maggioritaria di Westminster, essendo invece qui necessaria la continua ricerca dell’approvazione dell’organo legislativo nel corso del mandato relativamente all’azione politica perseguita dal Governo, soprattutto nella frequente ipotesi della presenza di esecutivi di minoranza; è possibile, a questo proposito, addirittura rilevare una certa fluidità della maggioranza parlamentare a seconda dei disegni di legge discussi, la quale può appunto variare nel corso del tempo in base alle concrete iniziative poste in essere dal Primo Ministro.

Questa impostazione, però, è inserita nel contesto sopra citato, nel quale la tendenza e la disponibilità alla discussione sulle scelte strategiche per il Paese risultano la regola, permettendosi, in tal modo, una buona stabilità istituzionale registrata nel corso del tempo; gli istituti della sfiducia o della questione di fiducia, quindi, vedono un raro impiego, anche perché, all’interno di una realtà così frammentata, un’eventuale esecutivo che si insediasse in sostituzione al precedente si troverebbe ad operare in una situazione sostanzialmente analoga.

Anche la Svezia si presenta come una monarchia parlamentare nella quale, però, il ruolo del sovrano è, dal 1974, costituzionalmente inserito all’interno di un rapporto tra organi nel quale esso svolge funzioni meramente formali o di natura cerimoniale; ciò, ad esempio, è testimoniato dal fatto che il Capo dello Stato non entra a far parte del procedimento di formazione dell’esecutivo (prima gli spettava il potere di nomina del Governo stesso).

Quest’ultimo, infatti, vede un ruolo centrale attribuito al Riksdag, il Parlamento monocamerale svedese, che dal 1969 è composto da 349 membri, il quale è rinnovato, tramite elezioni, ogni quattro anni con il classico sistema proporzionale tipico delle realtà nordiche; una volta insediatisi i nuovi eletti, il Presidente della Camera indicato opera una serie di consultazioni nei confronti dei gruppi parlamentari e dei vicepresidenti, concludendo tale processo con l’individuazione di una proposta di formazione di un nuovo Governo; nello specifico, in questa fase, di un Primo Ministro pronto a dirigerlo, che dovrà essere sottoposta a voto da parte dell’Assemblea stessa entro due settimane.

Ad ulteriore differenza del modello danese, poi, è da evidenziare la necessità che tale investitura dell’esecutivo da parte del Riksdag sia espressa come un vero e proprio voto di fiducia iniziale, grazie alla riforma costituzionale sul punto del 1975; il primo, infatti, potrà iniziare la propria azione politica solo dopo che quest’ultima non gli venga negata a maggioranza assoluta (prima di allora, anche qui era prevista l’entrata in carica dell’esecutivo senza tale passaggio, presumendosi la non contrarietà della Camera elettiva; ora il meccanismo previsto e quello della “non sfiducia”).

In una siffatta costruzione, di conseguenza, interviene una certa razionalizzazione del parlamentarismo svedese, la quale impegna i partiti ad assumere una posizione formale nei confronti del nascente esecutivo (la quale, nella sostanza, rappresenta un pregio in termini di chiarezza ma un possibile indebolimento, come constatato nelle recenti crisi a cavallo tra 2021 e 2022, di quella fluidità all’interno del Parlamento caratterizzante il modello consensuale scandinavo), ma che permette, comunque, la formazione di Governi di minoranza posti nella tipica tradizione di queste esperienze, che vede la necessità di una continua contrattazione con le varie forze in corso di mandato relativamente ai progetti di legge e di riforma.

Il potere di nomina e revoca dei singoli Ministri (minimo cinque, ma in tempi recenti solitamente una ventina) è esclusivamente in capo al Primo Ministro, così come la delimitazione dei rispettivi ambiti di competenza; naturalmente, nel caso di maggioranze costituite dalla coalizione di più partiti, ognuno di essi potrà far valere il proprio peso nella costituzione della compagine ministeriale. Al fine di evitare lunghi stalli istituzionali, che fino ad ora non si sono mai verificati, nel caso in cui la fiducia venisse negata dal Riksdag, il procedimento analizzato sarebbe ripetibile per un massimo di quattro volte; nel momento in cui nessuno di tali tentativi riuscisse a portare alla formazione di un nuovo esecutivo, la Camera verrebbe sciolta e si procederebbe a nuove elezioni.

In parziale analogia all’esperienza danese, anche nell’ordinamento svedese è possibile per il Parlamento proporre una mozione di sfiducia votata a maggioranza assoluta nei confronti dell’intero organo di Governo (o, meno grave, di un singolo Ministro); a fronte di tale situazione, lo stesso esecutivo, dimettendosi, ha la facoltà, esercitabile entro una settimana, di sciogliere anticipatamente il Riksdag, portando così il Paese a nuove elezioni (devono passare almeno tre mesi da quelle precedenti).

La peculiarità di questa impostazione risiede nel fatto che la nuova Camera non riceverà un nuovo mandato di legislatura, ma resterà costituita solo fino al completamento dell’ordinario quadriennio. Non viene costituzionalmente previsto, invece, lo strumento della questione di fiducia; ciò non toglie la possibilità, per l’esecutivo, di legare la propria permanenza in carica all’approvazione di un certo provvedimento ritenuto indispensabile per il perseguimento del proprio indirizzo politico, anche se il voto negativo su quest’ultimo non determinerebbe per il primo l’obbligo di dimettersi. Ovviamente, come in tutte le esperienze all’interno dell’assetto istituzionale in esame, una crisi determinante la caduta di un Governo può avvenire anche per via extraparlamentare (a causa dell’implosione della maggioranza stessa).

Nonostante il sistema elettorale proporzionale e la frequente nascita di esecutivi di minoranza, anche il modello svedese gode di una buona stabilità politica: a questo proposito, basti notare che fino al 2021 le mozioni di sfiducia proposte non hanno mai avuto esito positivo. All’interno della costante ricerca del perfezionamento di un modello informato al massimo coinvolgimento delle istanze provenienti dalla società civile, è interessante notare come il Primo Ministro, nel processo decisionale volto all’adozione dei vari provvedimenti, non solo debba, naturalmente, coinvolgere la propria squadra di Ministri e le varie forze politiche dell’arco parlamentare, ma anche associazioni o privati cittadini, i quali devono essere messi nelle condizioni di esprimere perplessità e pareri da un punto di vista maggiormente concreto.

Infine, come in molte altre realtà non solo nordiche, il divenire stato membro dell’UE e di altri organismi internazionali tende a rafforzare la posizione del Primo Ministro, a scapito della già sottolineata e progressiva marginalizzazione dell’organo parlamentare nella definizione dell’indirizzo politico (anche se, come già rimarcato, la forte influenza delle Assemblee nei parlamentarismi nordici nelle dinamiche istituzionali continua ad essere degna di nota, a differenza di altre esperienze europee).

L’ultima delle tre monarchie dei paesi nordici è rappresentata dalla Norvegia, nel cui ordinamento il sovrano, seppur di fatto relegato a funzioni meramente simboliche e di rappresentanza e garanzia dell’unità del Paese, continua a mantenere una certa centralità, anche se su un piano più prettamente formale. Esso, da questo punto di vista, risulta il titolare del potere esecutivo, concretamente esercitato insieme al Consiglio di Stato, il quale si costituisce del Governo vero e proprio come organo collegiale formato dal Primo Ministro (il cui ruolo, maggiormente direttivo o mediatore, varia naturalmente in base alla costituzione di un esecutivo monocolore o di coalizione) e dalla compagine ministeriale; questi ultimi sono tutti nominati dal monarca ed individuano e perseguono l’indirizzo politico sostanzialmente inteso.

Il Re, necessariamente di religione evangelica luterana, insieme ai collaboratori sopra definiti, possiede poteri di ordinanza in un gran numero di materie (come la libertà religiosa, commercio e attività doganali, attuazione della politica fiscale delineata dal Parlamento, nomina di dirigenti amministrativi, ecclesiastici e militari ecc.), i quali devono essere esercitati a norma delle leggi vigenti e della Costituzione; ma soprattutto, ogni atto regio deve essere controfirmato dal Primo Ministro, configurandosi in tal modo da una parte la sua piena irresponsabilità e, dall’altra, il carattere formale delle prerogative ad esso conferite.

Ciò è testimoniato dalla facoltà del monarca di revoca di tutti i componenti dell’organo di Governo (invece può solo sospendere i dirigenti in attesa di giudizio), della quale però non fa mai uso, confermandone, così, il ruolo essenzialmente garantistico nei confronti del sistema democratico e rispettoso delle libere scelte degli elettori, sfocianti nel raccordo tra esecutivo e Parlamento (particolarmente evidente nello stretto controllo che l’Assemblea esercita sulla gestione delle forze armate o su missioni e ratifica di trattati internazionali da parte del sovrano).

Come già anticipato, le regole dettate nella Costituzione del 1814 prevedono un ruolo di primo piano per il monarca, sia nella formazione che nella direzione dell’esecutivo, il quale non vede codificata la necessità dell’instaurarsi di alcun vincolo fiduciario con il Parlamento. Nella prassi evolutiva che arriva fino ai giorni nostri, comunque, la figura del Capo dello Stato risulta ormai relativamente marginale, sia nel momento genetico dell’esecutivo, che in quello concretamente legato all’espletamento della sua azione politica.

Come in tutti i parlamentarismi, infatti, anche in quello norvegese assume rilevanza centrale, col passare del tempo, il rapporto tra Governo e Camera elettiva, in questo caso chiamata Storting, la quale, naturalmente, condiziona la vita del primo dal suo sorgere al suo terminare (dal 2009, anche il sistema norvegese è caratterizzato da un assetto monocamerale, con il rinnovo dei 169 membri dell’Assemblea che avviene ogni quattro anni, senza possibilità di scioglimento anticipato). Risulta comunque importante sottolineare come un’imponente insieme di regole consuetudinarie si siano formate a tal riguardo, mancando riferimenti espliciti nella Carta non solo a proposito del rapporto fiduciario tra i due organi, che ha posto importanti interrogativi su temi come l’eventuale obbligo di dimissioni dell’esecutivo in carica, ma anche in relazione all’individuazione del soggetto a cui attribuire il ruolo di Primo Ministro; sullo sfondo, ovviamente, rimane la legislazione elettorale proporzionale e il conseguente e forte multipartitismo, i quali, come già ribadito, non costituiscono problemi invalicabili nelle democrazie consensuali scandinave, ma che comunque determinano la formazione di Governi spesso di minoranza, alla ricerca volta per volta dell’appoggio dell’Assemblea al fine di attuare le proprie politiche.

Dopo una fase iniziale senza regole precise, fino a fine ‘800, dal 1905 sembra determinarsi una prassi più precisa sul punto, divenendo normale, nel funzionamento di un sistema sempre più orientato ad una maggiore centralità del Parlamento, l’insediamento dell’esecutivo senza un espresso voto di fiducia iniziale, anche se, in corso di mandato, quest’ultimo può sempre essere revocato dalla maggioranza dell’Assemblea (anche qui, come in Danimarca, si afferma il carattere negativo del rapporto di fiducia, rendendosi così più facile la formazione di esecutivi di minoranza).

Dal 2007, l’impostazione così definita a livello convenzionale viene codificata all’interno della Costituzione: lo Storting, a maggioranza, può presentare una mozione di sfiducia nei confronti di un singolo ministro o dell’intero Governo, i quali, una volta approvata, devono necessariamente dimettersi (nel secondo caso, l’esecutivo rimane in carica per il disbrigo degli affari correnti). Specularmente, è possibile proporre la questione di fiducia su un singolo provvedimento sia da parte dell’intero Governo che del singolo Ministro, il cui esito negativo porta all’obbligo di dimissioni in blocco o individuali. È interessante notare, infine, che lo scioglimento del Parlamento a fine legislatura non determina la contestuale caduta del Consiglio di Stato, il quale, grazie all’istituto della fiducia presunta, continua a rimanere in carica anche dopo il rinnovo della Camera; ovviamente, nel momento in cui dalle elezioni uscisse una maggioranza diversa dalla precedente, sarà compito delle opposizioni prendersi carico della mutata volontà degli elettori, presentando una mozione di sfiducia atta a far cadere l’esecutivo e a formarne uno nuovo.

Anche questo, insieme al tratto distintivo della collaborazione e all’impossibilità di sciogliere anticipatamente uno Storting fortemente frammentato (il che significherebbe, sostanzialmente, che nel momento in cui un esecutivo fosse fatto cadere, si creerebbe la necessità di formarne un altro con la stessa composizione parlamentare, determinandosi in tal modo una sfiducia costruttiva di fatto e l’impossibilità di approfittare di eventuali momenti favorevoli nei sondaggi elettorali), determina una certa stabilità dei Governi norvegesi, da leggere sempre all’interno del modello nordico sopra delineato.

L’Islanda si presenta, invece, come una Repubblica Parlamentare la cui Costituzione, da un punto di vista eminentemente formale, considera prerogativa del Capo dello Stato la nomina di Primo Ministro e compagine ministeriale, non essendo previste disposizioni in merito all’instaurazione del rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento; quest’ultimo, di conseguenza, non vanterebbe alcun potere in ordine alla formazione e al concreto controllo dell’esecutivo nell’esercizio del suo mandato. Anche in questo caso, però, come si è già riscontrato nelle altre esperienze nordiche, sul terreno sostanziale prassi e convenzioni succedutesi nel tempo tracciano una strada ben diversa; nel modello islandese, infatti, i partiti usciti vittoriosi dalle elezioni e rappresentati in maggioranza in Parlamento sono, di fatto, titolati al dialogo reciproco al fine di formare il nuovo esecutivo, proponendo poi la loro proposta al Presidente della Repubblica. Esso, nella pratica, si adegua alle determinazioni delle forze politiche (che possono pure risultare da consultazioni del Capo dello Stato con queste ultime), tranne nel raro caso in cui dovesse insorgere una situazione di stallo che non permettesse il fisiologico procedimento appena esposto, potendo discrezionalmente proporre, in un contesto così dato, un esecutivo di minoranza; nel momento in cui ciò risultasse impossibile, il Presidente piò sciogliere anticipatamente l’Assemblea, determinando così una nuova convocazione dei comizi. Come accennato, queste ultime risultano ipotesi limite e per lo più di scuola, in quanto, dal 1944 in poi, esse non si sono mai verificate; il normale avvicendamento al potere vede, di base, la costituzione di governi di coalizione formatisi dopo le elezioni in quanto, anche qui, la forte frammentazione degli schieramenti all’interno dell’Assemblea non crea le condizioni affinché un partito ottenga, da solo, la maggioranza assoluta dei seggi. Alla luce di tale impostazione, il Presidente si limita a nominare i soggetti indicati nel compromesso politico delle forze vincitrici e l’esecutivo, una volta giurato sulla Costituzione ed insediatosi, diviene l’elemento centrale del sistema insieme al Parlamento, in Islanda chiamato Althingi (si ripete il modello monocamerale tipico dei Paesi nordici, con la presenza di 63 membri rinnovati ogni quattro anni con il classico e costituzionalizzato metodo proporzionale). Anche in questo caso non viene previsto un voto di fiducia iniziale, ma il Governo, per attuare la propria azione politica, deve costantemente confrontarsi con la Camera, al fine di ottenere i voti a sostegno dei propri provvedimenti; ciò è ancor più importante dal 1991, data in cui una riforma costituzionale ha ristretto l’ambito di possibile approvazione di decreti governativi soggetti ad una approvazione parlamentare ex post (simili ai nostri decreti-legge). Continua, inoltre, a mancare una regolamentazione specifica della mozione di sfiducia sia a livello costituzionale che a quello parlamentare; ciò non toglie che essa sia pacificamente ammessa da tempo dalla prassi nell’ottica del modello parlamentare; anche nell’esperienza islandese, comunque, queste rimangono evenienze quasi del tutto assenti, se si pensa che si deve risalire al 1950 per rinvenire l’ultimo Governo sfiduciato. Come in tutte le altre esperienze affini, naturalmente, sono possibili e maggiormente probabili crisi di Governo extra-parlamentari, dovute a rotture o scandali all’interno della maggioranza stessa; è qui previsto, contrariamente al modello norvegese, la possibilità di scioglimento anticipato da parte del Presidente dell’Althingi, richiedibile, nel caso, anche dalla Camera stessa. Per quanto attiene più strettamente l’esecutivo, una lettura pienamente formale del dato costituzionale, come già detto, indicherebbe ampi poteri in capo al Presidente della Repubblica in ordine alla scelta del Primo Ministro e della squadra di Governo; nella prassi degli ultimi decenni, invece, il Primo Ministro viene indicato dalle forze politiche che vanno a costituire la maggioranza parlamentare a suo sostegno (al Capo dello Stato rimane sostanzialmente solo il potere cerimoniale di nomina), e quest’ultimo gode di un’ampia libertà di scelta dei Ministri, politici e non, solitamente nell’ordine delle dieci unità. L’Althingi possiede penetranti spazi di controllo anche sui singoli membri dell’esecutivo, avendo la potestà di chiamarli a riferire in ordine alle loro attività di fronte alle commissioni parlamentari. Oltre alle classiche riunioni del Consiglio dei ministri al fine dell’espletamento dell’ordinaria azione di Governo, è possibile riunire, come in Norvegia, il Consiglio di Stato, comprendente anche il Presidente della Repubblica, quando sia necessario prendere decisioni importanti per la vita del Paese. Risulta infine di rilievo segnalare, soprattutto a fronte di frequenti esecutivi di coalizione, una forte separazione degli ambiti di competenza e delle concrete modalità di espletamento dei propri compiti tra i vari Ministeri, la quale, traducendosi in una marcata autonomia (è il singolo Ministro che sottoscrive i propri atti e li presenta al Presidente per la firma) si riflette in una minor collegialità dei processi decisionali all’interno del Governo, oltre che in una forte separazione tra i vari rami dell’amministrazione pubblica. Il ruolo tendenzialmente neutrale e di garanzia dell’equilibrio istituzionale del Capo dello Stato islandese emerso dalla prassi costituzionale è constatabile non solo dal punto di vista empirico, fin qui analizzato, ma anche dall’evoluzione storica afferente le figure che si sono succedute in tale incarico: in quasi otto decenni, infatti, a fronte di un mandato elettivo direttamente conferito dai cittadini della durata di quattro anni, si sono avuti solo sei Presidenti, frequentemente rieletti in più occasioni e spesso senza avversari; da ciò deriva una radicata estraneità della figura alla determinazione dell’indirizzo politico del Paese, riconosciuta dagli stessi elettori, che vedono tale scelta fortemente scollegata da quella per il rinnovo del Parlamento. In conclusione, conviene fare un breve riepilogo dell’esperienza dell’Islanda la quale, come si è visto ad inizio paragrafo, ad una prima lettura potrebbe essere inquadrata all’interno del modello semipresidenziale. Effettivamente, se ci si limitasse al dato formale codificato dalla Costituzione, ci si troverebbe di fronte a un Presidente direttamente legittimato dal popolo a cui spettano: la nomina dell’intera compagine di Governo, la direzione del Consiglio di Stato, la possibilità di iniziativa legislativa e del potere di proporre autonomi decreti d’urgenza, la stipula di trattati internazionali, la convocazione dopo le elezioni e l’eventuale scioglimento anticipato dell’Althingi , la promulgazione delle leggi e la potestà di sospenderle con il proprio veto, e generali prerogative in ordine alla nomina e alla revoca di pubblici ufficiali o di concessione della grazia; inoltre, esso può essere destituito solamente con i tre quarti dei voti parlamentari a favore e con un successivo referendum, entro due mesi, che ne confermi la decisione (nel caso quest’ultimo non approvasse la scelta della Camera, essa verrebbe sciolta e si andrebbe a nuove elezioni). Da tutti questi punti di vista, la supremazia formale sull’esecutivo e un certo potere sul piano legislativo concorrono a delineare la figura di un Presidente forte, inserito in un contesto semipresidenziale squilibrato a suo favore. Il concreto svolgimento dei rapporti istituzionali tra poteri però, dopo la descrizione del modello islandese sopra tratteggiata, restituisce una realtà molto diversa, nella quale centrale risulta essere il rapporto tra Parlamento e Governo e, soprattutto, all’interno del primo, tra maggioranza e opposizione, alla ricerca continua della trattativa e del compromesso sui singoli temi, a fronte del contesto nordico informato a un modello di democrazia consensuale. Se si aggiunge il fatto che si tratta di un Paese di circa 300000 abitanti e senza particolari fratture sociali ed economiche, si capisce ancora meglio come la direttrice della collaborazione a scapito del conflitto sia ancora più facilmente raggiungibile. Il Presidente, irresponsabile per i propri atti sempre controfirmati dal Ministro competente, si pone come figura super partes che guida i processi di transizione politica e che, di conseguenza, rinuncia spontaneamente a molti dei poteri che la Costituzione gli permetterebbe di esercitare. Insomma, il modello vivente sembrerebbe inquadrabile nei c.d. “semipresidenzialismi apparenti”[3], all’interno dei quali gli elementi parlamentari sono fortemente esaltati a scapito di quelli presidenziali, conducendo questi ultimi, sostanzialmente, al di fuori delle normali logiche istituzionali. Anche in Finlandia, la seconda Repubblica nordica, l’architettura costituzionale dettata nella Carta del 1919 delineava un assetto politico di tipo semipresidenziale il quale, fino a molti decenni dopo la Seconda guerra mondiale, si caratterizzava per una netta posizione di predominio del Presidente sulle dinamiche dell’esecutivo e del Parlamento. Pure nel contesto in esame, però, l’insieme delle revisioni dell’ordinamento e dell’evoluzione delle prassi dei rapporti tra organi dello Stato sanciscono, soprattutto a cavallo tra la fine degli anni Novanta e l’inizio di quelli duemila, un forte ribaltamento dei rapporti di forza, acquisendo sempre maggiore centralità l’Assemblea e il rapporto che essa va ad instaurare con il Governo; a tutto ciò, naturalmente, corrisponde una crescente marginalizzazione della figura del Capo dello Stato. Quest’ultimo dal 1994 (poco dopo, inoltre, si attuano una serie di riforme che erodono molte delle sue originarie prerogative), viene legittimato direttamente dai cittadini, rimane in carica per sei anni (mandato rinnovabile solo per una volta) e vede quali candidati soggetti indicati dalle forze politiche in Parlamento o da almeno 20000 elettori; vince chi ottiene la maggioranza assoluta e, se nessuno la raggiunge, si tiene un secondo turno di ballottaggio tra i due concorrenti più votati. Sempre secondo la Costituzione, il Presidente presenzia alle sedute del Consiglio dei ministri e dispone dei poteri di nomina e revoca dei componenti del Governo, oltre che della possibilità di sciogliere anticipatamente la Camera, anche se, in particolare dopo il 1999, l’unico compito di spicco che continua a mantenere rimane quello in campo estero, parallelamente a quello relativo al comando delle forze armate. Anche l’esercizio di tali prerogative, comunque, deve informarsi al principio di stretta e leale collaborazione con il Governo e, di conseguenza, con il Parlamento, al quale spetta il potere di ratifica dei trattati internazionali. Per quanto attiene all’attuazione delle politiche inerenti all’Unione Europea, invece, centralità è assegnata prettamente all’esecutivo il quale, insieme all’Assemblea, prende gli impegni sul punto e si mobilita per dargli attuazione. Similmente al contesto italiano, il Presidente può porre il veto su proposte provenienti sia dal Governo che su leggi approvate dal Parlamento (acquisendo un parere di legittimità da parte della Corte Suprema) ma, per entrambe, una volta che queste fossero riconfermate, esso avrebbe il dovere di accettarle, nel primo caso, e di procedere alla promulgazione, nel secondo. L’emersione di un processo di erosione delle prerogative presidenziale, come detto in precedenza, crea le condizioni per una maggiore centralità del rapporto Governo-Parlamento, soprattutto in relazione alla figura del Primo Ministro. Sul piano della formazione dell’esecutivo, infatti, il processo evolutivo in questione ha portato a un notevole cambiamento di questo iter. Fino a metà degli anni Novanta, il Capo dello Stato, dopo aver provveduto a consultazioni informali con il Presidente dell’Assemblea e i rappresentanti dei vari e numerosi partiti dell’arco costituzionale, incaricava un soggetto con il compito di dar vita ad un nuovo Governo; quest’ultimo, poi, avrebbe dovuto effettuare ulteriori negoziati con i diversi schieramenti al fine di portare a termine il procedimento; capitava anche, grazie alla presenza di Presidenti della Repubblica forti e autorevoli, che di fronte ad un contesto caratterizzato da una elevata frammentazione politica che rendeva difficile giungere a un compromesso, questi ultimi ricorressero di frequente allo scioglimento anticipato del Parlamento o, anche, alla nomina di Primi Ministri di propria fiducia che però, anche quando riuscivano nella formazione dell’esecutivo, si trovavano a capo di Governi divisi e poco duraturi. Dall’inizio degli anni Duemila, in virtù della revisione costituzionale sopra accennata, la situazione cambia in modo rilevante, rimettendosi al centro del procedimento il Parlamento; in Finlandia esso prende il nome di Eduskunta, strutturato, fin dal 1906, in forma monocamerale, e composto da 200 membri rinnovati ogni quattro anni sempre con un sistema proporzionale. L’Assemblea, infatti, dopo una fase di discussione sull’azione politica da intraprendere, propone, attraverso il suo Presidente, un candidato Primo Ministro poi eletto a maggioranza assoluta il quale, una volta nominato dal Capo dello Stato, forma la propria squadra di Governo (che, riunita, prende il nome di Consiglio di Stato, da non confondere con le sessioni presidenziali dirette dal Capo dello Stato, al quale spetta, nell’ultimo caso, il potere decisionale ultimo) attraverso la scelta dei Ministri (anche loro formalmente nominati dal Presidente della Repubblica). Nel momento in cui il Premier in pectore non ottenesse il quorum appena accennato, si procederebbe alla scelta di una nuova figura incaricata di formare il nuovo esecutivo; se anche tale votazione non raggiungesse tale soglia di voti positivi, il capo del Governo sarebbe ancora eletto dalla Camera, ma in un’unica seduta e a maggioranza semplice. Una volta entrato in carica, l’esecutivo deve presentarsi nuovamente davanti al Parlamento, esponendo una risoluzione riguardante le linee programmatiche che esso intende perseguire; queste ultime, infine, sono sottoposte a votazione con scrutinio palese, configurandosi in tal modo l’instaurazione di un esplicito rapporto di fiducia tra i due organi costituzionali (inesistente, nelle forme indicate, fino alla revisione della Carta del 1991). Un simile procedimento di verifica e controllo parlamentare è poi richiesto nella particolare situazione in cui intervenissero sostanziali modifiche nella composizione del Governo; in tal senso, la prassi considera avverata questa condizione nel caso di importanti mutamenti all’interno della maggioranza (come l’entrata o l’uscita dalla stessa di uno o più partiti), mentre tale revisione non sarebbe necessaria per semplici rimpasti o sostituzioni di Ministri. Merita un accenno, in conclusione, il potere del Presidente della Repubblica di sciogliere anticipatamente l’Eduskunta, il quale, dal 2000, prende origine da una proposta in tal senso del Primo Ministro e dal parere favorevole dell’Assemblea; risulta così evidente lo spostamento del baricentro istituzionale sul binomio Governo-Parlamento, a fronte di un Capo dello Stato che, per la maggior parte delle sue attribuzioni, esercita poteri prettamente formali e ratificatori (si ricordi che, fino al 1991, tale prerogativa risultava strettamente nelle mani di quest’ultimo e che, già da tale data al 2000, la decisione doveva essere condivisa dal capo del Governo).


Note e riferimenti bibliografici

[1] V. P. BIANCHI, Parlamentarismi nordici, Napoli, Editoriale Scientifica, 2022, pp. 11 ss.

[2] V. P. BIANCHI, Parlamentarismi nordici, Napoli, Editoriale Scientifica, 2022, pp. 151 ss.

[3] V. A. RINELLA, La forma di governo semipresidenziale. Profili metodologici e “circolazione” del modello francese in Europa centro-orientale, Torino, Giappichelli Editore, 1997, p. 219.