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Pubbl. Ven, 14 Mar 2025
Sottoposto a PEER REVIEW

Il concetto di pacifismo giuridico espresso nella Costituzione del Giappone

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Miriam Foti
Laurea in GiurisprudenzaUniversità telematica Guglielmo Marconi



Il concetto di pacifismo giuridico nella Costituzione giapponese rappresenta un caso peculiare nel diritto costituzionale contemporaneo. L´Articolo 9 della Costituzione codifica questo principio attraverso due elementi fondamentali: la rinuncia alla guerra come diritto sovrano della nazione e il divieto di mantenere potenziale bellico. L´analisi esamina la genesi di tale disposizione nel contesto dell´occupazione alleata post-bellica e la sua relazione con il diritto internazionale, evidenziando come il pacifismo costituzionale giapponese, nato in circostanze eccezionali, abbia influenzato lo sviluppo del costituzionalismo moderno, diventando un modello per l´integrazione dei principi di pace nell´ordinamento giuridico.


ENG

The concept of legal pacifism expressed in the Japanese Constitution

The concept of legal pacifism in the Japanese Constitution represents a unique case in contemporary constitutional law. Article 9 enshrines this principle through two fundamental provisions: the renunciation of war as a sovereign right of the nation and the prohibition of maintaining military forces. This analysis explores the origins of this provision within the context of the post-war Allied occupation and its relationship with international law, highlighting how Japan’s constitutional pacifism, born under exceptional circumstances, has influenced the evolution of modern constitutionalism, becoming a model for integrating principles of peace into legal frameworks.

Sommario: 1. Il processo costituente del Giappone del 1947; 2. L'Articolo 9 della Costituzione Giapponese: un modello di pacifismo giuridico e le sue implicazioni internazionali;  3. L'Articolo 24 della Costituzione giapponese e la sua connessione con il pacifismo costituzionale; 4. Considerazioni conclusive.

1. Il processo costituente del Giappone del 1947

La Costituzione del Giappone del 1947 è il risultato di un processo legislativo atipico, determinato da circostanze eccezionali che hanno segnato profondamente la sua natura giuridica ed il suo contenuto normativo. La sua promulgazione avvenne nel quadro dell’occupazione militare del Giappone da parte delle Potenze Alleate, a seguito della resa incondizionata del paese il 15 agosto 1945. Il contesto normativo e politico che ha portato alla nascita della nuova carta fondamentale trova la sua origine nella Dichiarazione di Potsdam[1], il documento che ha sancito le condizioni della resa nipponica e stabilito i principi fondamentali per la ricostruzione del sistema politico-giuridico del Giappone postbellico. La Dichiarazione di Potsdam, firmata da Stati Uniti, Regno Unito e Cina (e successivamente dall’Unione Sovietica), costituì il quadro giuridico vincolante cui il Giappone dovette conformarsi. Tra le disposizioni più rilevanti, ai fini della riforma costituzionale, si segnalano i seguenti articoli:

Articolo 6: «Devono essere definitivamente eliminate l’autorità e l’influenza di coloro che hanno condotto il popolo giapponese verso una politica di espansione e conquista militare. La stabilizzazione di un nuovo ordine, basato sulla pace, sulla sicurezza e sulla giustizia non sarà possibile finché il militarismo irresponsabile non sarà stato completamente estirpato dalla scena internazionale».

Questo principio esprime il fondamento giuridico del divieto di restaurazione del militarismo giapponese, che troverà successiva codificazione nel summenzionato Articolo 9. La disposizione della Dichiarazione di Potsdam, dunque, stabilisce un nesso diretto tra la riforma costituzionale e la necessità di prevenire qualsiasi possibilità di ritorno a un governo autoritario e militarista.

Articolo 10: «Il governo giapponese dovrà eliminare ogni ostacolo alla rinascita e al consolidamento delle tendenze democratiche all’interno del Paese. Dovranno essere garantiti la libertà di parola, di religione e di pensiero, nonché il rispetto dei diritti umani fondamentali».

Tale disposizione rappresenta il presupposto normativo per la successiva introduzione dei principi democratici e dei diritti fondamentali sanciti nella nuova Costituzione, in particolare nel Capitolo III ("Diritti e doveri del popolo"), che introduce un sistema di protezione dei diritti umani in linea con gli standard internazionali. La necessità di rimuovere gli ostacoli alla democratizzazione si tradusse concretamente nella revisione del ruolo dell'Imperatore (Tennō, 天皇), che nella nuova carta costituzionale venne privato di ogni prerogativa sovrana, diventando simbolo dell’unità nazionale senza poteri di governo (Articolo 1 della Costituzione del 1947).

Articolo 12: «Le forze di occupazione alleate saranno ritirate dal Giappone non appena gli obiettivi sopra elencati saranno stati raggiunti e sarà stato istituito, in conformità con la libera volontà del popolo giapponese, un governo pacifico e responsabile».

Questo principio introduce il concetto di transitorietà dell’occupazione, subordinando il ritiro delle truppe alleate alla creazione di un sistema politico conforme ai principi democratici e pacifisti imposti dalla Dichiarazione. La conseguente revisione costituzionale, culminata nella promulgazione della nuova Costituzione fu formalmente presentata come il frutto della libera autodeterminazione del popolo giapponese. Tuttavia, la genesi della Costituzione fu fortemente influenzata dalle direttive del Comandante Supremo delle Forze Alleate (Supreme Commander for the Allied Powers, SCAP), il generale Douglas MacArthur, il quale supervisionò l’intero processo di redazione e impose modifiche sostanziali al progetto iniziale presentato dal governo giapponese.

Nel mese di ottobre del 1945, il nuovo Primo Ministro giapponese, Kijūrō Shidehara, nominò il Comitato di Ricerca sulla Costituzione (Kenpō mondai chōsa iinkai, 憲法問題調査委員会), presieduto dal Professore Jōji Matsumoto[2], per esaminare le questioni relative alla revisione della Costituzione giapponese[3]. Tale iniziativa giunse in un momento storico particolarmente critico, segnato dalla resa incondizionata del Giappone alla fine della seconda guerra mondiale e dalla conseguente occupazione da parte delle Potenze Alleate. Durante le prime fasi di occupazione, le forze alleate si preoccuparono di implementare un ampio programma di riforma politica, che avrebbero incluso una revisione della Costituzione Meiji del 1889, un atto legislativo che, nonostante i cambiamenti nel corso del tempo, aveva mantenuto il suo impianto autoritario, incentrato sulla figura dell'Imperatore come detentore del potere sovrano. Il Comitato Matsumoto, incaricato di elaborare una proposta di modifica costituzionale, operò inizialmente in un clima di segretezza, cercando di formulare un nuovo testo costituzionale che fosse il più possibile in linea con le tradizioni giuridiche giapponesi e, al tempo stesso, compatibile con le linee guida imposte dalle Potenze Alleate. Nonostante la riservatezza del lavoro del comitato, alcune bozze preliminari furono ottenute dal giornale Mainichi Shimbun, che pubblicò una delle bozze del comitato il 1° febbraio 1946[4]. Tuttavia, questa bozza provvisoria, che si fondava sulla Costituzione Imperiale (Meiji Kempo, 明治憲法) con alcune piccole modifiche, non soddisfaceva i requisiti imposti dalla Dichiarazione di Potsdam, la quale chiedeva una radicale riforma del sistema giuridico e politico giapponese, eliminando il militarismo e promuovendo la democrazia. In risposta alla bozza del comitato Matsumoto, il Generale Douglas MacArthur, comandante supremo delle forze alleate in Giappone, ordinò il 3 febbraio 1946 la redazione di una nuova bozza costituzionale, senza consultare preliminarmente il governo giapponese. Quest’ultimo, ignaro di questa iniziativa, aveva già richiesto un incontro con il GHQ per discutere il progetto di Matsumoto. Durante l’incontro del 13 febbraio 1946, la bozza del Comitato Matsumoto fu respinta in maniera definitiva ed il GHQ presentò ai giapponesi una propria proposta. Il fatto che il GHQ redigesse la Costituzione senza consultare il governo giapponese, e che il contenuto stesso di quella bozza fosse una sorpresa per il governo, sollevò molte preoccupazioni riguardo alla legittimità del processo. Nonostante le riserve, il governo giapponese fu costretto ad accettare la bozza. Il 22 febbraio 1946, il Ministro di Stato Matsumoto iniziò a redigere una nuova bozza, basata sul progetto del GHQ. Sebbene il GHQ avesse dato il suo consenso affinché la traduzione finale della bozza fosse sottoposta a loro entro l’11 marzo 1946, il 4 marzo 1946 il GHQ chiese di visionare una versione preliminare della bozza, che Matsumoto aveva ancora in fase di discussione. La bozza modificata dal Comitato Matsumoto fu in gran parte respinta dal GHQ, che fece ritorno alla versione originale del progetto. La bozza del 5 marzo 1946 rappresentò il risultato finale di questo processo di negoziazione, in cui il GHQ esercitò una forte pressione sul governo giapponese affinché adottasse il testo senza ulteriori modifiche. Il governo giapponese, pur tra difficoltà politiche interne, adottò la bozza del 5 marzo 1946, che fu rilasciata ufficialmente sia dal Gabinetto che dal SCAP (Supreme Commander for the Allied Powers) subito dopo. Nonostante le divergenze tra la Costituzione Meiji e la nuova proposta, la bozza fu presentata come una modifica formale della Costituzione Meiji, per ordine dell'Imperatore[5].nIl processo di revisione costituzionale fu influenzato da vari fattori che riflettevano il mutato contesto internazionale ed interno del Paese. Tra gli elementi di maggiore rilevanza si annoverano:

  1. il mutamento della posizione dell'Imperatore (天皇, Tennō), un cambiamento determinato principalmente dalle implicazioni derivanti dall'occupazione alleata, che aveva drasticamente ridotto i poteri sovrani dell'Imperatore, trasformandolo in un simbolo dell'unità nazionale senza alcuna prerogativa politica o militare;
  2. l'esigenza di un governo democraticamente rappresentativo, conforme ai principi di un ordinamento costituzionale moderno e democratico, in contrapposizione al sistema autoritario e centralizzato che caratterizzava la Costituzione Meiji. La nuova struttura costituzionale doveva riflettere un regime che garantisse la partecipazione popolare, i diritti civili e politici, ponendo un freno al potere assoluto del sovrano;
  3. l'enfasi posta dalla Dichiarazione di Potsdam sui diritti umani fondamentali, che, nella Costituzione Meiji, erano concessi esclusivamente entro i limiti fissati dalla legge imperiale. La Dichiarazione, in particolare, sanciva la necessità di riconoscere e garantire i diritti fondamentali in modo universale ed incondizionato, creando un contrasto netto con la concezione restrittiva della Costituzione Meiji, che subordinava i diritti dei cittadini all'autorizzazione dell'Imperatore ed al contesto giuridico-politico dell'epoca.

Questi fattori, unitamente ad altri sviluppi interni ed internazionali, ebbero un impatto determinante sulla redazione della nuova Costituzione giapponese del 1947. In particolare, l'Articolo 9, che sancisce la rinuncia della nazione giapponese alla guerra ed all'uso della forza come mezzo per risolvere le controversie internazionali, trova le sue radici in un desiderio esplicito da parte delle Potenze Alleate, in particolare degli Stati Uniti, di promuovere una struttura giuridica che sostenesse principi pacifisti, ma anche che eliminasse definitivamente il militarismo giapponese e le sue tendenze ultranazionalistiche.

L'influenza americana nella progettazione della nuova Costituzione fu determinante. Le autorità alleate, sotto la direzione del Comandante Supremo delle Forze Alleate (Supreme Commander for the Allied Powers, SCAP), esercitarono una pressione notevole sul governo giapponese affinché adottasse un testo che fosse conforme agli ideali della post-guerra mondiale, garantendo sia la pace che la democrazia, pur mantenendo un ordine giuridico che riflettesse le necessità di ricostruzione e stabilità del Paese. La frustrazione del Comando Alleato per l'incapacità del Giappone di produrre una propria proposta costituzionale che rispecchiasse gli orientamenti della politica giapponese post-bellica degli Stati Uniti portò ad una decisione critica: la bozza costituzionale fu redatta direttamente dal Generale Douglas MacArthur e dal suo staff, senza consultare preliminarmente il governo giapponese, costringendo quest'ultimo ad accettare un testo che, pur formalmente redatto dalle autorità giapponesi, rifletteva principalmente le linee guida imposte dalle Potenze Alleate. Questa nuova configurazione costituzionale mirava non solo a creare un Giappone pacifico e democratico, ma anche a ridisegnare il sistema giuridico e politico internazionale, rifiutando le logiche di potenza e di guerra che avevano caratterizzato il Giappone nel periodo precedente. La stesura dell'Articolo 9, in particolare, incarnava un atto di disarmo unilaterale che si poneva come un deterrente per il ritorno al militarismo e, al contempo, come un tentativo di creare una cornice internazionale di sicurezza collettiva in grado di superare le contraddizioni del sistema statale sovrano moderno. In questo modo, la Costituzione giapponese del 1947, pur apparentemente frutto della libera autodeterminazione del suo popolo, è strettamente legata agli imperativi geopolitici imposti dalla sconfitta nella Seconda guerra mondiale e dalla volontà delle Potenze Alleate di riscrivere le regole del sistema internazionale.

2. L'Articolo 9 della Costituzione Giapponese: un modello di pacifismo giuridico e le sue implicazioni internazionali

L’attuale Costituzione giapponese (日本国憲法, Nihon-koku Kenpō) è stata promulgata il 3 novembre 1946 ed è entrata in vigore il 3 maggio 1947. Essa rappresenta un unicum giuridico internazionale che istituzionalizza il pacifismo attraverso meccanismi ermeneutici, principalmente incarnati nell'Articolo 9 (第9条, dai-kyū-jō).

Ad eccezione del preambolo, essa è l'unica disposizione ad esordire con il soggetto esplicito "il popolo giapponese" (日本国民, Nihon Kokumin). Tale formulazione richiama direttamente il Patto Kellogg-Briand del 1928, il quale sancisce la rinuncia alla guerra "in nome dei rispettivi popoli". L'inserimento di questa espressione è attribuito a Hitoshi Ashida (芦田 均), all'epoca presidente della Commissione Speciale per la Revisione Costituzionale (憲法改正特別委員会, Kenpō Kaisei Tokubetsu Iinkai) della Camera dei Rappresentanti. Ashida, profondo conoscitore del diritto internazionale e critico nei confronti dell’interpretazione giuridica dominante in Giappone durante il periodo bellico, mirò, con ogni probabilità, a rafforzare il legame tra l’Articolo 9, il preambolo costituzionale ed i principi fondamentali del diritto internazionale stesso.

L'Articolo 9, al primo comma, sancisce la rinuncia del Giappone alla "guerra come diritto sovrano della nazione" (戦争を国権の発動として, Sensō o kokken no hatsudō toshite). Questa disposizione riflette, chiaramente, la norma contenuta nel Patto Kellogg-Briand, il quale «condanna il ricorso alla guerra per la soluzione delle controversie internazionali e vi rinuncia come strumento di politica nazionale nei rapporti reciproci[6]». Storicamente, fino allo scoppio della Grande Guerra,  il ricorso al conflitto armato era generalmente riconosciuto come una prerogativa sovrana degli Stati, rientrando tra gli strumenti legittimi di politica estera per la tutela degli interessi nazionali e la risoluzione delle controversie internazionali. La guerra, in questo contesto, era considerata un'estensione naturale della diplomazia e veniva formalmente dichiarata nel rispetto delle consuetudini giuridiche dell’epoca, senza che ciò comportasse una condanna sistematica sul piano normativo o etico. Tuttavia, con l’evoluzione del diritto internazionale nel XX secolo, tale concezione venne progressivamente superata, portando all’affermazione del principio della proibizione del ricorso alla guerra quale mezzo di risoluzione delle dispute tra Stati. Durante la seconda guerra mondiale, il concetto stesso di "guerra" (戦争, sensō) venne strumentalizzato dalle potenze dell’Asse[7] - tra cui il Giappone imperiale - che legittimavano le proprie azioni aggressive sostenendo che la "guerra difensiva" (自衛戦争, jieisen’sō) non fosse interdetta dal diritto internazionale. Questo equivoco fu superato con l’adozione della Carta delle Nazioni Unite nel 1945, che stabilì all’Articolo 2, paragrafo 4, il divieto della «minaccia o dell’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato». L’Articolo 9, comma 1, della Costituzione giapponese si inserisce in questa cornice giuridica e vieta esplicitamente «la minaccia o l’uso della forza come mezzo per risolvere le controversie internazionali (国際紛争を解決する手段としての武力の行使, Kokusai funsō o kaiketsu suru shudan toshite no buryoku no kōshi)». L’adesione giapponese al Patto Kellogg-Briand generò, tuttavia, un acceso dibattito interno, in particolare per quanto concerne la presunta prerogativa sacra dell’Imperatore (天皇, Tennō) di dichiarare la guerra, sancita dalla Costituzione Meiji del 1889 (大日本帝国憲法, Dai-Nippon Teikoku Kenpō). I vertici militari, autoproclamatisi esecutori supremi della volontà imperiale, sostennero che il potere politico civile non dovesse interferire nelle decisioni militari, ritenute di esclusiva competenza dell’Imperatore. Tale concezione contribuì alla progressiva militarizzazione del governo giapponese ed all’accentramento del potere nelle mani delle forze armate, portando all’espansione militare del Giappone dal 1931 al 1945 sotto il pretesto della "guerra difensiva". La redazione della Costituzione giapponese da parte del General Headquarters (GHQ) delle forze alleate mirava a vincolare il Giappone ai principi del Patto Kellogg-Briand[8] attraverso il diritto interno, assicurando il rispetto del divieto di guerra non solo come impegno internazionale, ma anche come principio costituzionale inderogabile. Sebbene nel 1947 la Carta delle Nazioni Unite fosse già in vigore, il Giappone, in quanto paese occupato, non era ancora membro dell'ONU. Di conseguenza, l’introduzione dell’Articolo 9 rispondeva ad una duplice esigenza: da un lato, conformarsi all'ordine giuridico internazionale postbellico e dall'altro soddisfare le condizioni necessarie per la fine dell’occupazione ed il recupero della piena sovranità nazionale.

Dal punto di vista del diritto internazionale, la rinuncia alla guerra sancita dall’Articolo 9 non implica l’abbandono del diritto di autodifesa (自衛権, Jieiken). Al contrario, il diritto internazionale riconosce l’autodifesa come elemento essenziale per il mantenimento dell’ordine internazionale, come esplicitato nell’Articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. In tal senso, l’Articolo 9, pur vietando la guerra come strumento di politica nazionale, non esclude la possibilità per il Giappone di adottare misure di autodifesa, in conformità con il diritto internazionale. Dopo la fine dell’occupazione e con la firma del Trattato di Sicurezza USA-Giappone (日米安全保障条約, Nichibei Anzen Hoshō Jōyaku), alcuni giuristi costituzionalisti giapponesi, muovendosi in chiave ideologica, iniziarono a sostenere che l’Articolo 9 rappresentasse un caso unico nel panorama giuridico mondiale, espressione di un pacifismo assoluto e superiore alle norme del diritto internazionale. Questa prospettiva, che enfatizzava la natura "costituzionalmente autonoma" della norma stessa rispetto al diritto internazionale, si sviluppò in contrasto con l’ordine internazionale guidato dagli Stati Uniti e fu spesso invocata per contestare la legittimità della politica di sicurezza giapponese nell’era del dopoguerra. L'analisi testuale dell'originale giapponese rivela una complessità linguistica che distingue sottilmente tra guerre offensive e difensive, influenzata storicamente dal Kellogg-Briand Pact del 1928. Il primo paragrafo della norma recita:

«Aspirando sinceramente ad una pace internazionale basata sulla giustizia e sull’ordine, il popolo giapponese rinuncia per sempre alla guerra come diritto sovrano della nazione ed alla minaccia o all’uso della forza come mezzo per risolvere le controversie internazionali».

 

Confrontiamolo con il Patto Kellogg-Briand del 1928, che afferma:

Articolo 1

«Le Alte Parti Contraenti dichiarano solennemente, in nome dei rispettivi popoli, di condannare il ricorso alla guerra per la soluzione delle controversie internazionali e di rinunciarvi come strumento di politica nazionale nei loro rapporti reciproci».

Articolo 2

«Le Alte Parti Contraenti concordano che la risoluzione o la soluzione di tutte le controversie o conflitti, di qualsiasi natura o origine, che possano sorgere tra di loro, non dovrà mai essere ricercata se non con mezzi pacifici».

Esaminiamo anche l’Articolo 2, comma 4, della Carta delle Nazioni Unite del 1945:

«Tutti i Membri devono astenersi, nelle loro relazioni internazionali, dalla minaccia o dall’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, o in qualsiasi altro modo incompatibile con i fini delle Nazioni Unite».

La disposizione rilevante della Carta delle Nazioni Unite è l’Articolo 51, che stabilisce:

«Nulla nella presente Carta pregiudica il diritto naturale di autodifesa individuale o collettiva nel caso in cui un attacco armato si verifichi contro un Membro delle Nazioni Unite, fino a quando il Consiglio di Sicurezza non abbia adottato le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Le misure adottate dai Membri nell’esercizio di questo diritto di autodifesa devono essere immediatamente comunicate al Consiglio di Sicurezza e non devono in alcun modo pregiudicare l’autorità e la responsabilità del Consiglio di Sicurezza in base alla presente Carta nel prendere, in qualsiasi momento, le azioni che ritenga necessarie per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale».

Pertanto, è necessario esaminare il punto critico del secondo paragrafo nell’interpretazione dell’Articolo 9 della Costituzione giapponese. Il testo recita:

«Al fine di conseguire l'obiettivo del paragrafo precedente, non saranno mantenute forze di terra, di mare e di aria, così come qualsiasi altro potenziale bellico. Il diritto di belligeranza dello Stato non sarà riconosciuto.»

Il paragrafo in esame introduce due concetti giuridici di cruciale importanza: il divieto di mantenimento del "potenziale bellico" ed il non-riconoscimento del "diritto di belligeranza dello Stato". Per comprendere appieno la portata di queste disposizioni, è necessario analizzare approfonditamente, innanzitutto, la nozione di "potenziale bellico" ed il suo divieto esplicito previsto dalla Costituzione giapponese. La cosiddetta MacArthur Note[9], ovvero le direttive iniziali impartite dal Comandante Supremo delle forze di occupazione alleate (GHQ) ai suoi sottoposti in relazione alla redazione della nuova Costituzione giapponese, non faceva riferimento al concetto di "potenziale bellico" (senryoku, 戦力). Il secondo punto della Nota, infatti, dichiarava:

«La guerra, in quanto diritto sovrano della nazione, è abolita. Il Giappone vi rinuncia come strumento per la risoluzione delle controversie e persino per la propria sicurezza. Per la sua difesa e protezione, esso farà affidamento sugli ideali superiori che ora ispirano il mondo. Nessun esercito, marina o aviazione giapponese sarà mai autorizzato e nessun diritto di belligeranza sarà mai conferito a qualsiasi forza giapponese».

La Nota si limitava ad un’istruzione piuttosto chiara e diretta, «nessun esercito, marina o aviazione giapponese» sarebbe stato autorizzato ad essere mantenuto, in un contesto che rifletteva l’intenzione di garantire un Giappone privo di qualsiasi capacità militare che potesse portare al riemergere di un nuovo conflitto bellico. La MacArthur Note non andava oltre questo divieto esplicito, omettendo di stabilire un concetto giuridico più articolato, ma non meno importante, ossia quello di "potenziale bellico". Fu, dunque, il gruppo di redazione, sotto la supervisione del Generale di Brigata Courtney Whitney, capo della Government Section del GHQ, ad introdurre formalmente il termine "potenziale bellico" nella Costituzione. La formulazione finale, che recita «forze di terra, mare e aria, nonché qualsiasi altro potenziale bellico[10]», amplia significativamente la portata del divieto, includendo, oltre alla mera rinuncia alla forza armata tradizionale, anche altri tipi di risorse o strutture che potrebbero essere utilizzate per tali scopi. La nozione di "potenziale bellico" si riferisce, quindi, a qualsiasi strumento, anche non strettamente legato a forze armate tradizionali, che potrebbe essere convertito in strumenti di guerra. Ciò implica un rinvio specifico al divieto di mantenere risorse belliche, ma non esclude il possesso di quelle strutture che potrebbero essere utilizzate per la legittima autodifesa, in conformità con le disposizioni del diritto internazionale. Questa modifica nella terminologia ha anche il merito di preservare la logica del passaggio dalla guerra come diritto sovrano della nazione alla subordinazione della forza militare a scopi puramente difensivi e conformi agli obblighi derivanti dal diritto internazionale contemporaneo.

L’introduzione di tale concetto consente di tracciare una netta separazione tra gli strumenti illegali per il condurre la guerra e le risorse necessarie per garantire la difesa del Paese, operando così in modo da non contraddire le disposizioni dell’Articolo 9. Una delle caratteristiche più rilevanti del pacifismo insito nella Costituzione giapponese è la concezione di chi sia il vero artefice della pace. Alla luce dell’espressione contenuta nel Preambolo, che recita: «Noi, il popolo giapponese [...] risoluti a fare in modo che mai più ci siano visitazioni degli orrori della guerra per mano del governo» e dell'uso del soggetto grammaticale «il popolo giapponese» nel Preambolo stesso e nell’Articolo 9 della Costituzione, si può evincere che la Costituzione giapponese attribuisce la responsabilità della creazione della pace non al governo, ma ai singoli cittadini ed alla loro collettività, ovvero al popolo in senso lato. In questo contesto, il pensiero del giurista costituzionalista Tadakazu Fukase appare particolarmente illuminante. Fukase sostiene che i problemi relativi alla guerra, agli armamenti, alla pace ed al disarmo non sono più da considerarsi come prerogativa esclusiva del «governo» o come espressione di un suo potere assoluto[11]. Questi temi sono infatti subordinati alla direzione ed al controllo, sia diretto che indiretto, del popolo, che in virtù del principio di sovranità popolare (国民主権, kokumin shuken) detiene il potere sovrano[12]. Ciò implica che non solo nella società interna (domestica), ma anche in quella internazionale (globale), il popolo giapponese, sia come individui che come gruppi volontari (tra cui le organizzazioni non governative ed altre entità che esercitano pressioni sull’Organizzazione delle Nazioni Unite), sia dotato dello status e dei diritti necessari per agire autonomamente nella risoluzione di questioni relative alla guerra, alla pace, agli armamenti ed al disarmo. Inoltre, il popolo ha la possibilità di influenzare o esercitare pressione su tali questioni attraverso l’opinione pubblica, sia parziale che totale. Questa visione implica una profonda revisione del concetto di sovranità nazionale, riconoscendo al popolo, in quanto ente collettivo, la capacità di partecipare attivamente ed in prima persona alla formazione della politica di pace, sia sul piano interno che in ambito internazionale. Tale approccio si inserisce nell'ottica della promozione di una pace duratura, che non dipenda esclusivamente dalle decisioni governative, ma dalla coscienza collettiva e dalla volontà di tutti i cittadini, in una prospettiva inclusiva e democratica.

Il principio espresso dalla Costituzione, quindi, non solo promuove una visione della pace che supera la mera azione governativa, ma riconosce - come fondamentale - il ruolo attivo dei cittadini facendo sì che ogni individuo, attraverso il proprio diritto di partecipazione, possa contribuire alla costruzione di un ordine mondiale più giusto e pacifico. Nel contesto del sistema di sicurezza universale, l’uso della forza da parte degli Stati membri è soggetto a rigide limitazioni. In particolare, l’uso della forza per risolvere conflitti tra Stati è assolutamente vietato, mentre l’utilizzo della forza per autodifesa è consentito solo in circostanze eccezionali e strettamente regolamentate. In taluni casi, l'uso della forza per autodifesa è addirittura precluso. Come corollario di questa visione, l’intera organizzazione internazionale si assume la responsabilità di garantire la pace e la sicurezza globale. Gli Stati singoli sono vincolati all’obbligo di disarmarsi, mentre la forza militare è riservata all’uso collettivo, gestito ed utilizzato dall’organizzazione internazionale nel suo complesso.

All'interno di un simile sistema di sicurezza universale, agli Stati membri non è consentito fare uso della "forza militare privata", ma potrebbero essere chiamati a partecipare ad operazioni militari "pubbliche" organizzate dall'ente sovranazionale, ossia ad operazioni congiunte tra Stati membri.

Nel contesto di questa analisi, sorgono interrogativi rilevanti riguardo all’articolazione ed all’interpretazione dell’Articolo 9 della Costituzione giapponese. Come bisogna considerare l’uso della forza in virtù di tale disposizione? La riflessione giuridica proposta dal giurista tedesco Hans Wehberg (1885-1962), noto per le sue teorie sul diritto internazionale, offre spunti significativi[13]. Nell'analisi del pensiero di Wehberg emerge una prospettiva significativa sul ruolo delle misure di enforcement militare nel contesto della Lega delle Nazioni. Secondo lo studioso, nonostante il loro carattere eccezionale, tali interventi rappresentavano un elemento cruciale nel processo di edificazione di un ordine internazionale fondato sulla pace. Particolarmente rilevante è la sua valutazione degli Stati che perseguivano politiche orientate al disarmo totale: Wehberg ravvisava in questi approcci un concreto avanzamento verso l'instaurazione di una pace durevole. La sua analisi si spinge oltre, formulando una tesi innovativa secondo cui la partecipazione alle operazioni militari di enforcement, condotte sotto l'egida di organizzazioni internazionali, non presuppone necessariamente il mantenimento di apparati militari permanenti a livello statale. Questa interpretazione offre una chiave di lettura sofisticata del rapporto tra disarmo nazionale e sicurezza collettiva internazionale, suggerendo la possibilità di conciliare l'aspirazione al superamento degli eserciti permanenti con l'esigenza di garantire meccanismi efficaci di mantenimento della pace internazionale.

Se accettiamo la giustezza dell’Articolo 9 come un’iniziativa unilaterale di disarmo, si presenta un ulteriore interrogativo: come interpretare il mantenimento e l’uso della forza militare "pubblica" da parte di un’organizzazione di sicurezza universale? Il problema principale risiede nell’equilibrio tra il mantenimento della pace globale e la giustificazione dell'uso della forza anche quando essa è collettiva, come nel caso delle operazioni di enforcement previste dalla Carta delle Nazioni Unite. Sostenere un ordine mondiale che superi la violenza diretta implica un impegno per limitare e, idealmente, superare l'uso della forza, anche quando essa è esercitata in modo "pubblico". È particolarmente significativo che numerose ONG pacifiste a livello globale abbiano cercato di superare la teoria della "guerra giusta" sancita dal Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, proponendo alternative che puntano ad avvicinare l'ordinamento delle Nazioni Unite alla visione pacifista della Costituzione giapponese. Questo sforzo può essere visto come una proposta di riforma in senso più pacifico, cercando di integrare i principi della sicurezza universale con quelli di una pace duratura e senza conflitti, tanto auspicata dalla Costituzione giapponese.

3. L'Articolo 24 della Costituzione giapponese e la sua connessione con il pacifismo costituzionale

L'Articolo 24 della Costituzione[14], sebbene non sia ampiamente discusso nel contesto della pacifismo costituzionale delineato nell'Articolo 9, si inserisce perfettamente in una visione complessiva della non violenza, un principio cardine che pervade la Costituzione stessa. In effetti, così come l'Articolo 9 rinuncia all'uso della forza come mezzo per risolvere le controversie internazionali, l'Articolo 24 mira a rifiutare una forma di violenza che, pur trovandosi nell'ambito della sfera familiare, è altrettanto dannosa per il benessere sociale e umano. Sebbene i due articoli si trovino in contesti differenti, la loro interconnessione rivela una concezione giuridica che supera la violenza in ogni sua forma e la codifica come inaccettabile. Nel contesto della modernità, gli Stati hanno concepito una divisione fra la sfera pubblica, su cui interviene l’autorità statale, e la sfera privata, lasciata spesso alla gestione dei singoli individui o delle famiglie. Fino al XIX secolo, questa distinzione tra ambito pubblico e privato ha consentito la perpetuazione di un dominio patriarcale, tanto nelle istituzioni familiari quanto in quelle sociali. Nella tradizione giuridica occidentale, che ha influenzato in misura significativa la formazione della moderna concezione di Stato, le leggi patriarcali hanno giustificato e spesso istituzionalizzato la subordinazione della donna al marito e la violenza come uno strumento legittimo di controllo[15]. Questa tradizione di violenza patriarcale venne respinta con forza dalla Costituzione giapponese del 1947, in particolare con l’adozione dell'Articolo 24. Quest'ultimo, redatto sotto l’influenza diretta della giurista Beate Sirota, è stato un passo fondamentale verso l'abolizione della subordinazione della donna all’uomo all'interno della famiglia giapponese. La formulazione originale dell’Articolo 23[16], parte del progetto di Costituzione redatto dal generale MacArthur, rifletteva chiaramente l’intento di garantire l'uguaglianza giuridica e sociale tra i sessi nel contesto matrimoniale, fondando il matrimonio su un consenso reciproco anziché su coercizioni familiari. Dunque, l’Articolo 24 non solo ha il merito di avere messo in discussione le radici storiche della violenza patriarcale, ma ha anche gettato le basi per una prospettiva che travalica i confini dello Stato moderno, tentando di creare una società più giusta, equilibrata e senza violenza. La rilevanza di questa disposizione costituzionale assume una dimensione paradigmatica nell'architettura giuridica del Giappone post-bellico. Essa rappresenta un punto di convergenza significativo tra l'aspirazione alla stabilità interna dello Stato e l'impegno più ampio verso la costruzione di una società fondata sui principi di pace e giustizia, come delineato dall'Articolo 9 della Costituzione. Tale approccio normativo testimonia la sofisticata elaborazione giuridica attraverso cui il costituente giapponese ha cercato di armonizzare le esigenze di sicurezza interna con gli ideali di pace duratura. In questa prospettiva, la disposizione costituisce un esempio illuminante di come il diritto costituzionale possa operare simultaneamente su due livelli: come strumento di governance interna e come veicolo di trasformazione sociale verso gli obiettivi più ampi di pace e giustizia. L'impianto costituzionale nipponico, mediante l'interconnessione degli Articoli 9 e 24, si erge come un modello normativo rivoluzionario nel panorama del costituzionalismo moderno. La sua unicità risiede nella capacità di affrontare simultaneamente due manifestazioni fondamentali del potere coercitivo: la violenza militare e le strutture patriarcali di dominazione.

Tale approccio costituzionale rappresenta un exemplum singulare nel diritto pubblico comparato, poiché stabilisce una correlazione intrinseca tra demilitarizzazione e depatriarcalizzazione, riconoscendo implicitamente l'interconnessione tra queste due forme di violenza strutturale. Questa prospettiva emerge, chiaramente, nella riflessione critica proposta nel 1993 da Ichiro Ozawa[17], in cui si argomenta che il Giappone dovrebbe evolversi in uno "stato ordinario", dotandosi di una forza militare, come le Forze di autodifesa giapponesi (SDF). L'Articolo 24, inserendosi nel solco del pacifismo costituzionale (平和主義, Heiwa-shugi) delineato dall'Articolo 9, si configura come strumento giuridico volto all'eliminazione della violenza patriarcale all'interno dell'istituto familiare (家族制度, Kazoku Seido)[18].

La dottrina costituzionalistica ha ulteriormente approfondito questa interconnessione attraverso la teoria della 構造的平和 (Kōzō-teki Heiwa, "pace strutturale"). Questo framework teorico identifica una simmetria costituzionale tra il ripudio della 戦争暴力 (Sensō Bōryoku, "violenza bellica") sancito dall'Articolo 9 ed il superamento della 家庭内暴力 (Kateinai Bōryoku, "violenza domestica") previsto dall'Articolo 24, delineando un approccio integrato alla pacificazione sociale[19]. L'impatto di questa costruzione ermeneutica si riflette significativamente nell'ordinamento giuridico giapponese. La legislazione del 2001[20] sulla prevenzione della violenza domestica rappresenta una cristallizzazione normativa di questa visione integrata. Parallelamente, l'elaborazione giurisprudenziale del concetto di 家族の尊厳 (Kazoku no Songen, "dignità familiare") come derivazione del 憲法平和主義 (Kenpō Heiwa-shugi, "pacifismo costituzionale") ha consolidato il nesso tra demilitarizzazione statale e democratizzazione delle relazioni familiari.

La dottrina ha elaborato il concetto di "costituzionalismo preventivo" (予防的立憲主義, Yobō-teki Rikkenshugi)[21], evidenziando come entrambi gli articoli mirino a prevenire i conflitti piuttosto che a gestirli dopo la loro insorgenza. L'influenza di questa interconnessione si riflette anche nella legislazione sul benessere familiare, promuovendo un modello di famiglia basato sulla cooperazione e sul rispetto reciproco, in analogia con i principi di cooperazione internazionale pacifica. Gli studi di diritto costituzionale comparato hanno evidenziato come questo approccio integrato alla pace, che unisce la dimensione internazionale a quella familiare, abbia influenzato le riforme costituzionali in altri paesi asiatici, contribuendo allo sviluppo di un "costituzionalismo pacifico asiatico" (アジア平和主義的立憲主義, Ajia Heiwa-shugi-teki Rikkenshugi)[22].

4. Considerazioni conclusive

La redazione della nuova Costituzione giapponese fu una componente fondamentale delle politiche di occupazione messe in atto dagli Stati Uniti, le quali avevano l'obiettivo di trasformare il Giappone in uno "stato pacifista". Questo processo di riforma costituzionale, incentrato sulla smilitarizzazione (Articolo 9)[23] e sulla democratizzazione, si sviluppò nel contesto di un'occupazione che, pur volendo garantire la stabilità politica e la sicurezza regionale, mirava anche ad impedire il riemergere di una potenza militare giapponese.

Un elemento centrale di queste riforme fu il mantenimento del sistema imperiale, sancito dall'Articolo 1 della Costituzione[24], che conferiva all'Imperatore (天皇, Tennō) una posizione simbolica e cerimoniale, escludendo qualsiasi ruolo diretto nelle funzioni politiche o governative. Per quanto difficile fosse per i dirigenti dell’Impero giapponese accettare tali condizioni, la necessità di preservare la figura dell'Imperatore come simbolo di unità nazionale e di continuità storica li obbligò ad accettare le modifiche imposte dalla potenza occupante. La Costituzione giapponese del 1947 rappresentò, quindi, un compromesso tra la necessità di preservare un simbolo della tradizione imperiale e l’imposizione di principi fondamentali di smilitarizzazione e pacifismo. Questo quadro giuridico, noto come la Costituzione della pace (Heiwa Kōgō), stabiliva la rinuncia al ricorso alla guerra come strumento di politica internazionale, nonché l’abolizione di forze armate regolari, con l'eccezione delle forze di autodifesa, che, pur essendo create in seguito, venivano limitate a funzioni difensive strettamente controllate. L'interpretazione prevalente è che l'Articolo 9 incarni un principio di pacifismo universale, che risponde all'esigenza di garantire un Giappone privo di capacità militare, con il fine di prevenire la possibilità di conflitti futuri. La portata e la profondità di questo principio vanno ricercate in diverse fonti che hanno influenzato la sua inclusione nella Costituzione del 1947.

Una delle fonti più significative è l'idea della "messa fuori legge della guerra" (war outlawry)[25]. Tale concetto ebbe un impatto notevole negli Stati Uniti negli anni ’20 e venne trasferito nell’Articolo 9 grazie all'influenza diretta di Douglas MacArthur e dello staff di occupazione durante il periodo del dopoguerra. La riflessione giuridica che sottende l’Articolo 9 del Giappone rientra così nell’ambito di una più ampia corrente giuridica internazionale volta a promuovere la pacificazione delle relazioni tra gli Stati. La genealogia delle disposizioni costituzionali sul ripudio della guerra trova un antecedente fondamentale nella Costituzione francese del 1791. Tale testo rappresenta il capostipite di una tradizione costituzionalistica[26] che ha progressivamente elaborato il principio della rinuncia all'uso della forza nelle relazioni internazionali, configurandolo come elemento cardine del costituzionalismo moderno. Questa matrice costituzionale ha inaugurato un filone giuridico-filosofico che ha permeato l'evoluzione del diritto pubblico, delineando un percorso normativo in cui il rifiuto della guerra come strumento di politica estera si è incarnato in principio costituzionale fondamentale. L'influenza di questa tradizione giuridica si è manifestata attraverso diverse declinazioni nelle carte costituzionali successive, contribuendo alla formazione di un patrimonio costituzionale comune orientato alla pacificazione delle relazioni internazionali.

L'evoluzione del pacifismo costituzionale giapponese si radica in un complesso processo storico che trascende la mera analisi testuale della Costituzione del 1947. La metamorfosi istituzionale iniziata nell'epoca Meiji (1868-1912) segnò la transizione da un sistema feudale a un'entità statuale centralizzata, culminando nell'adozione della Costituzione del 1889, che consacrò la figura del Tennō quale depositario della sovranità assoluta. 

Il pacifismo costituzionale giapponese si qualifica pertanto come elaborazione giuridica di una consapevolezza storica, trascendendo la dimensione puramente normativa per assurgere a principio fondante dell'identità costituzionale nazionale. La figura imperiale ha subito una profonda ridefinizione, transitando da centro effettivo del potere politico-militare a simbolo dell'unità nazionale, venendo privata di qualsiasi autorità diretta nelle sfere politica e giuridica, comportando significative tensioni nella società giapponese.

La nazione si è trovata a dover riconciliare la millenaria concezione dell'Imperatore quale incarnazione suprema della sovranità statale con i nuovi principi democratici e pacifisti sanciti dalla Costituzione del 1947. Nonostante la sua natura eminentemente simbolica, l'istituzione imperiale ha mantenuto un ruolo essenziale quale fonte di legittimazione dell'ordine costituzionale e quale elemento unificatore dell'identità nazionale. In questo contesto, l'Imperatore Akihito ha interpretato il proprio ruolo costituzionale con particolare efficacia, manifestando un'adesione inequivocabile ai principi della Carta fondamentale ed astenendosi da qualsiasi tentativo di recupero di prerogative politiche attive.

A tal riguardo, un punto di partenza significativo per un’analisi sulla giurisprudenza pacifista giapponese e sulla sua Costituzione è senza dubbio il pensiero di Edwin Reischauer, uno dei più eminenti studiosi occidentali della storia e della cultura giapponese, nonché ambasciatore degli Stati Uniti in Giappone. Negli ultimi anni della sua carriera, Reischauer dichiarò che «oggi nessun popolo supera i giapponesi nella loro devozione al pacifismo. Esso rappresenta il loro grande ideale, sostenuto tanto dalle emozioni quanto dagli intelletti[27]». Tale affermazione ha suscitato ampi dibattiti, in quanto alcuni studiosi pongono una maggiore enfasi sul principio di "pacifismo" contenuto nella Costituzione giapponese, come nel caso del giurista Matsui Shigenori, secondo cui «la Costituzione giapponese è davvero unica nel fornire un principio di pacifismo [...] questo principio della Costituzione giapponese aspira al pacifismo assoluto e viene considerato da molti giapponesi come un conseguimento senza precedenti e degno di ammirazione[28].» La figura che ha avuto il maggiore impatto nella creazione della nuova Costituzione giapponese è indubbiamente quella di Douglas MacArthur, nominato dal presidente Truman. L'idea che si sarebbe concretizzata nell'Articolo 9 gli fu in effetti proposta prima della pubblicazione delle sue celebri tre note (le cosiddette "Note MacArthur") dal Primo Ministro Shidehara Kijūrō.

Shidehara propose quindi che, una volta adottata la nuova costituzione, venisse inclusa la cosiddetta "clausola di non-guerra". Voleva anche che fosse vietato al Giappone di mantenere qualsiasi tipo di istituzione militare, senza alcuna eccezione. In questo modo si sarebbero ottenuti due risultati. Il vecchio partito militare sarebbe stato privato di ogni strumento che potesse permettergli un giorno di riprendere il potere, e il resto del mondo avrebbe saputo che il Giappone non avrebbe più avuto intenzione di intraprendere guerre. Aggiunse che il Giappone era un paese povero e non poteva permettersi di destinare risorse agli armamenti. Le risorse che il paese aveva ancora a disposizione dovevano essere impiegate per rafforzare l'economia[29].

Nonostante le dichiarazioni relative al pacifismo siano state messe in risalto da diversi studiosi, il termine "pacifismo" (o la sua traduzione giapponese 平和主義, Heiwa shugi) non compare esplicitamente nel testo della Costituzione nipponica. "Pacifismo", infatti, non è presente in alcuna parte di essa, benché la parola "pace" (平和, Heiwa)[30] compaia in alcune sezioni del testo, ma questo non è di per sé insolito. L'elemento distintivo dell'Articolo, successivamente incorporato nell'"Emendamento Ashida", si manifesta nella dichiarazione programmatica: «aspiriamo sinceramente a una pace internazionale basata sulla giustizia e sull'ordine». Tale formulazione, benché significativa nel contesto costituzionale giapponese, non rappresenta un caso precipuo nel panorama del costituzionalismo asiatico del secondo dopoguerra. Un parallelo significativo si riscontra nell'Articolo 5 della Costituzione della Repubblica di Corea del 1948 (successivamente revisionata nel 1987), dove si enuncia l'impegno dello Stato a «mantenere la pace internazionale e rinunciare a tutte le guerre di aggressione[31]». Questa convergenza testuale e concettuale tra i due documenti costituzionali riflette la comune aspirazione pacifista emersa nell'Asia orientale nel periodo post-bellico, evidenziando come i principi di pace e di non aggressione siano divenuti elementi fondanti del sistema costituzionale regionale.

La convergenza dei principi pacifisti nelle costituzioni del secondo dopoguerra trova un'ulteriore, significativa manifestazione nell'Articolo 11 della Costituzione italiana del 1948, secondo cui «l’Italia ripudia la guerra come strumento di aggressione contro la libertà degli altri popoli e come mezzo per la risoluzione delle controversie internazionali[32]». Questa consonanza testuale e valoriale tra le costituzioni giapponese, sudcoreana ed italiana evidenzia l'emergere di una comune sensibilità giuridico-costituzionale transnazionale nel periodo successivo al secondo conflitto mondiale, testimoniando come l'esperienza traumatica della guerra abbia condotto diverse nazioni, sia in Asia orientale che in Europa, ad incorporare nei propri ordinamenti costituzionali principi espliciti di ripudio della guerra e di promozione della pace internazionale, delineando così un significativo parallelismo nella evoluzione del costituzionalismo contemporaneo. La caratteristica distintiva dell'Articolo 9 (第九条, Dai-kyū-jō) della Costituzione giapponese, che lo differenzia dalla precedente Costituzione Meiji (大日本帝国憲法, Dai-Nippon Teikoku Kenpō), sta nella sua chiara ed esplicita dichiarazione di rinuncia al mantenimento delle forze armate (戦力, Senryoku) e del potenziale bellico (戦争潜在能力, Sensō Senzai Nōryoku). Questa formulazione costituisce un esempio senza precedenti nel contesto del costituzionalismo mondiale. I concetti di "rinuncia alla guerra" e di "aspirazione alla pace mondiale", espressi nel suo primo paragrafo, mostrano alcune somiglianze concettuali con altri strumenti giuridici internazionali - in particolare il Patto Kellogg-Briand del 1928 - ma si distinguono per la loro specificità nell'imporre un divieto totale di qualsiasi capacità militare.

Questa caratteristica rende tale disposizione eccezionale nel panorama del diritto costituzionale comparato, evidenziando il profondo cambiamento dell'ordinamento giuridico giapponese del dopoguerra. L'elemento innovativo della norma emerge anche nella sua struttura complessiva: sebbene il termine "pacifismo" non sia esplicitamente presente nel testo costituzionale, l'elaborazione normativa della rinuncia alla guerra e del divieto di mantenimento delle forze armate rappresenta una concreta espressione dell'impostazione pacifista dell'ordinamento costituzionale nipponico.

Questa scelta non solo riflette la determinazione di impedire il ripetersi delle atrocità belliche, ma stabilisce anche un nuovo modello di cooperazione internazionale basato sulla pace attiva e sulla gestione non violenta dei conflitti internazionali.


Note e riferimenti bibliografici

[1] La Dichiarazione di Potsdam fu emessa il 26 luglio 1945 dai Capi di Stato delle Potenze Alleate, ovvero il Presidente degli Stati Uniti Harry S. Truman, il Primo Ministro del Regno Unito Winston Churchill e il Generalissimo della Repubblica di Cina Chiang Kai-Shek. Tale documento delineava le condizioni per la resa incondizionata del Giappone, ponendo le basi giuridiche e politiche per la conclusione del conflitto nel teatro del Pacifico durante la Seconda guerra mondiale. La dichiarazione imponeva il completo disarmo del Giappone, lo smantellamento definitivo del militarismo e la costruzione di un governo pacifico e democratico, in linea con i principi del diritto internazionale. Inoltre, il documento conteneva un monito esplicito: in assenza di una resa immediata, il Giappone avrebbe affrontato una "rapida e totale distruzione". Tale avvertimento trovò tragica attuazione nei bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, che segnarono l’epilogo del conflitto e portarono alla resa del Giappone il 15 agosto 1945.

[2] Jōji Matsumoto è stato un eminente giurista giapponese, la cui ricerca si è concentrata sull'analisi della Costituzione giapponese del 1947, con particolare attenzione alle implicazioni storiche e giuridiche della sua stesura nel contesto del dopoguerra. Matsumoto ha svolto un ruolo significativo nello studio delle dinamiche tra le riforme costituzionali imposte dall'occupazione americana e l'evoluzione del sistema giuridico giapponese nel secondo dopoguerra. Il suo lavoro contribuisce in modo rilevante alla comprensione delle radici giuridiche del pacifismo giapponese e delle sue implicazioni sul piano internazionale. Vd. C. L. KADES, The American Role in Revising Japan's Imperial Constitution, New York, 1989, 104 POL. SCI. Q. 215, 223.

[3] Vd. K. TAKYANAGI, Nihon-koku Kenpo Seitei no Katei [Il Processo di Adozione della Costituzione Giapponese], Tokyo, 1972, vol. II, 13.

[4] TAKYANAGI K., op. cit., 23.

[5] Q. NISHI, Nihonkoku Kenpo no Tanjo o Kensho Suru [Esame della nascita della Costituzione del Giappone], Tokyo, 1986, 135.

[6] Art. 1. – «Le Alte Parti Contraenti dichiarano solennemente, in nome dei rispettivi popoli, di condannare il ricorso alla guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e di rinunciarvi come strumento di politica nazionale nelle loro reciproche relazioni.»

[7] Le potenze dell'Asse, nella Seconda Guerra Mondiale, erano la Germania Nazista, l'Italia Fascista ed il Giappone Imperiale. Questi Stati, attraverso accordi bilaterali come il Patto Tripartito del 1940, costituirono una coalizione politica e militare finalizzata all'espansione territoriale ed alla modificazione dell'ordine internazionale, in contrasto con le potenze alleate.

[8] J. NOBU, Teoria del Patto Briand-Kellogg, Associazione della Società delle Nazioni, 1928, 13.

[9] D. H. MACARTHUR, The so-called MacArthur Note (3 febbraio 1946), disponibile su Nota di MacArthur.

Vedi D. H. MACARTHUR, General of the Army Reminiscences, New York, McGraw-Hill Book Company, 1964, 304.

[10] D. H. MACARTHUR, op. cit.

[11] T. FUKASE, Senso hoki to heiwateki seizonken, Tokyo, Iwanami Shoten, 1987, 194-195.

[12] Il potere sovrano del popolo giapponese, espresso attraverso il principio di sovranità popolare (国民主権, kokumin shuken), stabilisce che il popolo detiene l’autorità ultima in materia politica e costituzionale. Questo principio sancisce che tutte le istituzioni statali ed il governo stesso devono agire in nome e per conto del popolo, il quale esercita la sua sovranità attraverso la partecipazione politica e l'espressione della propria volontà, come previsto dalla Costituzione giapponese.

[13] H. WEHBERG. The Outlawry of War. Washington: The Carnegie Endowment for International Peace, 1931.

[14] Art. 24. – «Il matrimonio sarà basato unicamente sul consenso reciproco di entrambi gli sposi e sarà mantenuto attraverso una mutua collaborazione, sulla base di eguali diritti per il marito e per la moglie. Le leggi riguardanti la scelta del coniuge, i diritti di proprietà, l’eredità, la scelta del domicilio, il divorzio ed altre questioni relative al matrimonio ed alla famiglia saranno formulate ispirandosi ai principi della dignità individuale e dell’eguaglianza fondamentale dei sessi.»

[15] M. TSUJIMURA, Sei shihai no hou teki kozo to rekishi teki tenkai, in Iwanami koza gendai no hou 11: Gender to hou, Tokyo: Iwanami Shoten, 1997, 3-36.

[16] Art. 23. – «La libertà di insegnamento è garantita.»

[17] I. OZAWA, Reform Plans for Japan [日本改造計画], Tokyo, Kodansha, 1993.

[18] Per una comprensione riflessiva della cultura giapponese, i seguenti testi sono fondamentali: KATŌ S., Introduzione alla Storia della Letteratura Giapponese, Heibonsha, Tokyo, 1979.

[19] Un’analisi dettagliata del concetto di "violenza strutturale" di Galtung si trova nel seguente articolo: J. GALTUNG, “Violence, Peace, and Peace Research”, Journal of Peace Research, Vol. VI, No. A, 1969. L’opera più sistematica sulla teoria della pace di Galtung è la seguente: J. GALTUNG, Theories of Peace: A Synthetic Approach to Peace Thinking, SAGE, 1996.

[20] La legislazione giapponese del 2001 sulla prevenzione della violenza domestica, conosciuta come la "Legge sulla prevenzione della violenza domestica e la protezione delle vittime" (家庭内暴力防止法, Kateinai Bōryoku Bōshi Hō), rappresenta un intervento normativo fondamentale nella lotta contro gli abusi familiari. Tale legge è stata adottata per fornire misure preventive contro la violenza domestica e garantire protezione alle vittime, creando una base giuridica per l'intervento statale a tutela dei diritti di coloro che subiscono abusi all'interno del contesto familiare. In questo contesto, la legge può essere interpretata come una manifestazione tangibile dell'integrazione tra il principio di pacifismo costituzionale (憲法平和主義, Kenpō Heiwa-shugi) e la promozione di diritti umani universali, oltre a rappresentare un passo significativo verso la lotta contro le strutture patriarcali che storicamente hanno supportato la violenza familiare. Il concetto di "dignità familiare" (家族の尊厳, Kazoku no Songen), articolato dalla giurisprudenza giapponese, diventa così una chiave interpretativa che connette la protezione dei diritti individuali all'interno della famiglia con la concezione pacifista della Costituzione giapponese.

[21] Il concetto di "costituzionalismo preventivo" si riferisce a una concezione della Costituzione che non si limita a regolare l'assetto politico e sociale di uno Stato, ma anticipa e mitiga i pericoli potenziali per la democrazia, evitando derive autoritarie o il ritorno a forme di governo oppressive. Nel caso del Giappone, la Costituzione del 1947, in particolare l'Articolo 9, si inserisce in questa logica, disegnando una struttura che desidera prevenire il riemergere di conflitti armati e la militarizzazione del paese. Vd. R. H. MITCHELL, Japan’s Peace Preservation Law of 1925: Its Origins and Significance, Monumenta Nipponica, vol. 28, no. 3, 1973, 317-345.

[22] Sul punto, vd. T. GRIPPI, A. RINELLA, V. PIERGIGLI (cur.), Asian Constitutionalism in Transition, Milano, 2009. Per quanto risalente, pare comunque opportuno un rinvio a L.W. BEER (ed.), Constitutionalism in Asia: Asian Views of the American Influence, Berkeley, 1979.

[23] K. MATSUYAMA, La disposizione dell'Articolo 9 della Costituzione giapponese sulla negazione del diritto di belligeranza e il diritto di belligeranza nel diritto internazionale, Reference, novembre 2012, 45-67.

[24] Art. 1. – «L’Imperatore è il simbolo dello Stato e dell'unità del popolo; egli deriva le sue funzioni dalla volontà del popolo, in cui risiede il potere sovrano.»

[25] Sul punto vd. KAWAKAMI A., Research on the Sources of Thought Underlying Article 9 of the Japanese Constitution: The Theory of the “Outlawry of War” and the Japanese Constitution’s Pacifism, Tokyo, Senshu University Press, 2006.

[26] Vd. T. FUKASE, "Types and Trends of Peace Provisions in the Modern Constitutions", in The Renunciation of War and the Right to Live in Peace, Tokyo 1987, 150-169.

[27] E.O. REISCHAUER, The Japanese Today: Change and Continuity, Belknap Press of Harvard University, London, 1988 [1977], 352.

[28] S. MATSUI, La Costituzione del Giappone: un'analisi contestuale, Hart, Oxford, 2011, 233.

[29] D.H. MACARTHUR, Reminiscences, Fawcett, New York, 1965, 346-347.

[30] La parola "pace" (平和, heiwa) appare una sola volta nel corpo vincolante della Costituzione giapponese. Sebbene la stessa espressione ricorra altre quattro volte nel preambolo, che per sua natura non ha valore giuridico vincolante, ci si potrebbe legittimamente aspettare che una "Costituzione pacifista" faccia maggiormente riferimento al concetto di "pace" (平和), considerando la sua centralità nelle intenzioni politiche che hanno ispirato l'adozione di tale documento. Il fatto che il termine "pace" compaia principalmente nel preambolo – parte introduttiva del testo che enuncia i principi generali, ma che non ha valore legale in senso stretto – piuttosto che nel testo effettivo degli articoli giuridicamente vincolanti, può essere letto come un'indicazione della natura simbolica e aspirazionale della pacifismo nel sistema giuridico giapponese, piuttosto che come un principio normativo di carattere assoluto e inderogabile.

[31] Art. 5. – «La Repubblica di Corea si impegnerà a mantenere la pace internazionale e rinuncerà a tutte le guerre di aggressione. Le Forze Armate avranno il compito sacro di garantire la sicurezza nazionale e difendere il territorio, mantenendo la loro neutralità politica.»

[32] Art. 11. – «l’'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.»

 

Bibliografia

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Per un maggiore approfondimento sul tema, si consiglia:

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