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Pubbl. Mar, 17 Gen 2023

La Cassazione su uno dei filoni del caso Cucchi: un´articolata decisione in materia di omicidio preterintenzionale e falso in atto pubblico

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autori Mario Nicolini , Orsi Nicolò



Nella sentenza n. 18396 del 2022, la V Sezione penale interviene su uno dei filoni del c.d. “caso Cucchi” con un’articolata sentenza in materia di omicidio preterintenzionale e falso in atto pubblico.


ENG

The Court of Cassation delivers an important decision about the notorious Cucchi-case

In the Decision No. 18396 of 2022 the Court of Cassation delivers an important decision about the so-called “Cucchi case” stating above a hard case of second-degree murder and falsification in public deed.

Sommario: 1. Il caso in esame e l’articolazione delle difese; 2. Profili processuali; 2.1. L'acquisizione ex art. 507 c.p.p. del contributo dichiarativo di periti relativo alla perizia disposta in sede di incidente probatorio (art. 392 co. 1 lett. f. c.p.p.); 2.2. Sulla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale e sullo statuto normativo della perizia come mezzo di prova; 2.3. Sulla conversione del ricorso in appello (art. 580 c.p.p.); 3. Profili sostanziali; 3.1. Sulla sussistenza di decorsi causali alternativi e sulla loro prevedibilità; 3.2. Sull’elemento soggettivo dell’omicidio preterintenzionale; 3.3. Sugli addebiti di falso ideologico in atto pubblico

 

1. Il caso in esame[1] e l’articolazione delle difese

Con la sentenza del 9 maggio 2022, n. 18396, la Sezione V della Corte di Cassazione si è espressa in merito ad uno dei filoni generati dalla ben nota vicenda relativa alla morte di Stefano Cucchi[2].

Il processo nell’ambito del quale si è espressa la sentenza in commento concerneva, in particolare, la contestazione di omicidio preterintenzionale e falso ideologico a carico di quattro carabinieri, alla cui ricostruzione giova un sintetico riepilogo della vicenda.

Dopo essere stato tratto in arresto il 16 ottobre 2009 per cessione di sostanze stupefacenti, Cucchi fu accompagnato alla Stazione dei Carabinieri “Roma Casilina” per essere sottoposto a rilievi dattiloscopici utili alla sua identificazione, cui, tuttavia, si sarebbe rifiutato di sottoporsi, generando un acceso diverbio con uno dei due carabinieri. A quel punto, i due operanti lo hanno percosso, spingendolo, e colpendolo sia al volto sia con un calcio in modo da determinarne la caduta con impatto violento contro il pavimento. Ciò ha provocato la frattura scomposta di una delle vertebre con interessamento delle radici posteriori del nervo sacrale.

In un momento successivo, l’arrestato fu portato presso la Stazione dei Carabinieri di “Tor Sapienza” per essere tradotto in Tribunale ai fini della celebrazione dell’udienza di convalida con eventuale giudizio direttissimo per i fatti relativi allo spaccio. Tuttavia, nel corso della notte, iniziò a lamentare forti dolori che rendevano necessario il ricorso al 118: il personale sanitario riscontrò, nell’occasione, i segni dei colpi ricevuti dallo stesso Cucchi che, tuttavia, rifiutò il ricovero ospedaliero.

A seguito dell’udienza di convalida, tenutasi nella stessa mattinata del 16 ottobre, il Tribunale dispose l’applicazione della misura cautelare della custodia cautelare disponendo che l’indagato fosse custodito presso la casa circondariale di Roma “Regina Coeli” in attesa del giudizio. Tuttavia, le sue condizioni di salute subirono un repentino deterioramento che rese necessario il trasporto dapprima presso il pronto soccorso dell’ospedale “Fatebenefratelli” di Roma, dove Cucchi, nuovamente, rifiutò il ricovero, e successivamente, in ragione dell’aggravarsi delle patologie, presso l’ospedale “Sandro Pertini”, struttura nella quale sarebbe poi, successivamente, deceduto[3].

In questo filone processuale, dunque, [4] [5] la contestazione mossa ai militari dell’Arma è consistita nell’aver innescato, con le proprie condotte, la catena eziologica esitata nel decesso di Cucchi, dapprima provocando l’insorgenza di una vescica neurogenica atonica ed anuria, con conseguente ipertensione vescicale per elevata ritenzione urinaria, mai risolta in sede di degenza ospedaliera in ragione di un drenaggio insufficiente: a ciò seguì una stimolazione vagale tale da accentuare la brachicardia giunzionale della vittima che ne provocava aritmia, causa ultima e prossima della morte.

Le difese degli imputati sono insorte contro la pronuncia di condanna con ricorso per cassazione articolato sulla base di plurimi motivi, concernenti significative questioni sia processuali che sostanziali.

Pregiudiziale, ed inammissibile, è stato ritenuto il secondo motivo proposto da D’Alessandro Raffaele, uno dei due Carabinieri cui si addebitano le percosse che, nella ricostruzione accusatoria, avrebbero dato innesco alla catena eziologica conclusasi con la morte di Cucchi. L’imputato deduceva[6] violazione di legge e vizi motivazionali con riferimento al rigetto della richiesta di estromissione della parte civile Comune di Roma, rilevando che, come eccepito sin dall’udienza preliminare, il danno determinato dal reato contestatogli sarebbe occorso in epoca antecedente alla stipulazione del protocollo d'intesa fra l'Ente locale ed il Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, avvenuta solo nel 2017. Da ciò conseguirebbe il difetto di legittimazione attiva del Comune di Roma, che si ritiene ritualmente eccepito con la proposizione della relativa questione nell’ambito dei motivi d’appello in quanto la mancata prova del danno sarebbe risultata solo all’esito dell’istruttoria dibattimentale di primo grado.

Inammissibile viene ritenuto il primo motivo[7] di ricorso presentato dall’altro carabiniere, Alessio Di Bernardo. Con esso, l’imputato deduce l’erronea applicazione della legge penale nonché vizi della motivazione in relazione all’audizione disposta ex art. 507 c.p.p. nel dibattimento di primo grado dei periti che avevano provveduto all’incidente probatorio funzionale alla determinazione delle cause del decesso di Cucchi, richiamando altresì l’attenzione sulle confliggenti conclusioni raggiunte dagli stessi periti nelle due differenti sedi. In particolare, il ricorrente lamenta l’irritualità dell’operato della Corte d’Assise nella parte in cui, anziché disporre una nuova perizia affidandola ad esperti diversi, ha acquisito una nuova valutazione dagli stessi soggetti che avevano reso il proprio operato in sede di indagini preliminari ex art. 392 c.p.p., senza neppure acquisire la prova nelle forme della perizia, ma semplicemente raccogliendone dichiarazioni inedite con lo strumento dell’esame dibattimentale. Tale scelta processuale è censurata dal ricorrente che la considera un’indebita sostituzione della prova legittimamente acquisita in incidente probatorio con una prova nuova ed irrituale che non terrebbe conto dei risultati raggiunti con il precedente accertamento, all’esito del quale era stato escluso qualunque collegamento causale tra i fatti accaduti dopo l’arresto di Cucchi ed il suo successivo decesso.

Inammissibile è giudicato anche il secondo motivo proposto dallo stesso Di Bernardo[8] con cui viene censurato il rigetto della richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale funzionale all’esperimento di una nuova perizia medico-legale che accertasse le cause del decesso di Cucchi, ritenuta, dal ricorrente una prova decisiva omessa. In particolare, l’imputato lamenta che alla luce del contrasto tra le valutazioni formulate dai periti in sede di incidente probatorio e, successivamente, in dibattimento, i giudici del merito avrebbero dovuto acquisire un nuovo parere scientifico in relazione ad un profilo di fatto decisivo per la valutazione della fondatezza degli addebiti. Analoghe considerazioni vengono svolte dal ricorrente Raffaele D’Alessandro nel suo terzo motivo di ricorso, il quale, altresì, con il quarto motivo lamenta la violazione di legge in relazione all’omessa rinnovazione dell’istruzione dibattimentale ed al rigetto rispetto ad acquisizioni istruttorie officiose ex art. 507 c.p.p.

Il terzo motivo dello stesso Di Bernardo[9] viene ritenuto affetto da inammissibilità o, comunque, infondatezza rispetto alle critiche articolate dal ricorrente sull’iter logico sotteso alla valutazione delle prove dichiarative ex art. 192 c.p.p., mentre se ne ravvisa la fondatezza sotto il profilo del lamentato travisamento delle dichiarazioni del coimputato Tedesco che ha erroneamente attribuito allo stesso Di Bernardo il calcio a Cucchi, sferrato, invece, da D’Alessandro. Tale travisamento è ricondotto ad una mera svista in sede di redazione della motivazione di merito. Della valutazione operata rispetto alla prova dichiarativa si duole altresì il coimputato D’Alessandro con il quarto motivo ricorso[10], ritenuto infondato e, in parte, inammissibile.

Sul piano processuale viene deciso il quinto motivo[11] di ricorso con cui Di Bernardo lamenta che la propria responsabilità a titolo di concorso sarebbe stata affermata senza adeguatamente giustificare il rapporto fra la condotta a lui addebitabile e quella del collega D’Alessandro, ritenuta imprevedibile e, comunque, non finalizzata a cagionare lesioni, ma, piuttosto, a rimproverare la persona offesa. Analoghe ragioni sono poste alla base della decisione sul sesto motivo[12], con viene contestata la qualificazione giuridica del fatto ex art. 584 c.p. Sostiene il ricorrente che la sua condotta sarebbe consistita in una reazione al comportamento provocatorio dello stesso Cucchi, manifestatasi attraverso uno schiaffo ed una spinta, gesti da considerarsi del tutto autonomi e distinti rispetto a quelli attribuiti al collega D’Alessandro, i quali soltanto avrebbero innescato la catena causale infaustamente dipanatasi fino all’exitus della persona offesa.

La fondatezza del ricorso di D’Alessandro viene, invece, affermata in rapporto al primo motivo[13] con cui egli eccepisce la violazione dell’art. 580 c.p.p. nella parte in cui la Corte territoriale avrebbe omesso il giudizio di ammissibilità ex art. 606 c.p.p. a seguito della conversione del ricorso per cassazione presentato in appello. Infondato è ritenuto, invece, lo stesso motivo nella parte in cui eccepisce il difetto di legittimazione ad impugnare del P.M. per l'aver egli proposto appello contro una sentenza che non aveva modificato il titolo di reato, né escluso la sussistenza di un’aggravante ad effetto speciale né applicato una pena di specie diversa da quella prevista per il reato ritenuto.

Sulla base di considerazioni prevalentemente processuali viene rigettato il quinto motivo di ricorso di ricorso proposto da D’Alessandro[14], ritenuto inammissibile, poiché versato in fatto, allorché lamenta da un lato l’erronea qualificazione giuridica delle condotte e dall’altro la ritenuta configurabilità delle aggravanti della minorata difesa (art. 61 n. 5 c.p.) nonché dell’abuso di potere (art. 61 n. 9 c.p.). Medesime considerazioni vengono riservate al settimo motivo di ricorso, concernente i medesimi profili, formulato da Di Bernardo[15].

2. Profili processuali

2.1. L’acquisizione ex art. 507 c.p.p. del contributo dichiarativo di periti relativo alla perizia disposta in sede di incidente probatorio (art. 392 co. 1 lett. f c.p.p.)

Tra i molteplici profili processuali sollevati dai ricorrenti e affrontati dalla sentenza si ritiene di analizzarne solo alcuni, selezionati per maggiore rilevanza relativamente all’oggetto del processo, e ampiezza delle considerazioni svolte dalla sentenza.

Tra questi assume particolare rilevanza la questione relativa alla perizia disposta in sede di incidente probatorio sul cadavere della persona offesa, di cui appare evidente la centralità in punto di ricostruzione dei fatti oggetto di imputazione.

Con particolare riguardo a tale profilo, è necessario evidenziare che la Corte d’Assise di Roma ha disposto ai sensi dell’art. 507 c.p.p. l’audizione in dibattimento dei periti che avevano proceduto nell’incidente probatorio a determinare le cause di decesso del Cucchi. Questi, nelle loro dichiarazioni dibattimentali, sono addivenuti a conclusioni diverse e confliggenti rispetto a quelle raggiunte precedentemente in sede di incidente probatorio.

Come detto, uno dei ricorrenti ha eccepito l’irritualità dell’assunzione di tali valutazioni peritali, ritenendo che la Corte d’Assise avrebbe, invece, dovuto disporre una nuova perizia affidandola ad altri esperti[16]. La parte ha lamentato, in particolare, che da tale scelta processuale sarebbe derivata la sostituzione della perizia resa in incidente probatorio con una prova nuova, irritualmente assunta e, soprattutto, con esito del tutto contraddittorio[17].

I giudici di legittimità ritengono manifestamente infondata la questione sollevata, rilevandone, altresì, preliminarmente, anche l’inammissibilità, in quanto si tratterebbe, al più di una violazione di norma processuale (art. 507 c.p.p.) e non sostanziale.

Tale rilievo non è meramente formalistico, in quanto, come noto, la violazione di norme processuali è ammissibile in sede di ricorso per cassazione solo se dalla loro falsa applicazione sia derivata un’invalidità[18].

Venendo al merito dell’eccezione sollevata, la sentenza motiva la manifesta infondatezza del motivo di ricorso affermando l’incensurabilità dell’operato del giudice del merito: la Corte d’Assise, infatti, non ha in alcun modo sostituito le risultanze dell’incidente probatorio, le quali, in quanto comprese nel fascicolo per il dibattimento (art. 431 co. 1 lett. e) c.p.p. non sono di certo state espunte dalla piattaforma cognitiva[19]. Si afferma, dunque, che l’integrazione probatoria disposta ex art. 507 c.p.p. non era certo funzionale al reperimento di conclusioni diverse da quelle risultate dall’incidente probatorio, ma, piuttosto, funzionale ad una loro miglior precisazione[20].

La prima questione che quindi si trova a risolvere la Corte, per come impostata, pare essere quella relativa al rapporto tra risultanze della perizia dell’incidente probatorio e l’assunzione di una nuova prova dichiarativa di natura tecnica acquisita officiosamente ex art. 507 c.p.p.[21].

A ben vedere, però, la Corte non affronta effettivamente la questione, limitandosi a disattendere le doglianze esposte nel ricorso, confermando la correttezza del modus procedendi dei giudici di merito, senza diffondersi in approfondite motivazioni rispetto ad una questione che, in punto di diritto, pare di sicura rilevanza.

Essa si può approfondire a partire da un preciso rilievo sulla portata dell’art. 507 c.p.p., fattispecie che si limita a descrivere una modalità tramite può avvenire l’assunzione di una prova, senza nulla disporre né sulla valutazione, mutuando lo statuto regolatorio del singolo mezzo di prova.

Il primo interrogativo al quale la Corte è chiamata a rispondere concerne la possibilità di assumere in dibattimento i periti che hanno già svolto un incarico in sede di incidente probatorio.

La soluzione deve partire dalla corretta ricostruzione delle modalità di acquisizione in dibattimento della perizia già assunta in incidente probatorio, in primo luogo sulla base di un’analisi del dettato normativo.

I verbali dell’incidente probatorio entrano nel fascicolo del dibattimento ex art. 431 co. 1 lett. f) c.p.p., norma che, tuttavia, deve essere letta sistematicamente con quanto previsto all’art. 511 co. 3 c.p.p., a mente del quale il giudice può dare lettura degli atti relativi alla perizia solo dopo l’esame del perito stesso. Dunque, si evince dal combinato disposto tra le norme testé citate che la lettura della relazione peritale è la modalità prevista dalla legge per introdurre in dibattimento le prove assunte in sede di incidente probatorio[22], ma essa può avvenire solo dopo l’esame del perito.

Gli artt. 227, 501 e 508 c.p.p., che completano lo statuto della perizia, dispongono una tendenziale immediatezza che dovrebbe caratterizzare le dichiarazioni del perito, contenenti il suo parere tecnico: alternativamente, ciò può avvenire a seguito dello spirare di un termine a tal fine concessogli.

A fronte di una regola descritta nel senso dell’oralità, si deve, tuttavia, prendere atto che la relazione scritta costituisce, nella prassi, la modalità attraverso cui vengono illustrati i risultati della perizia senza che, comunque, essa possa sostituirsi al portato dichiarativo, vero momento attorno al quale si instaura il contraddittorio sulla formazione della prova[23]: tale è, si crede la ragione per cui la lettura della relazione peritale è subordinata al preventivo esame dibattimentale, in base ad una regola che si applica sia alla perizia disposta in dibattimento sia a quella già precostituita con incidente probatorio[24].

Pertanto, così come confermato anche dalla giurisprudenza, «la relazione peritale espletata con incidente probatorio può essere letta in dibattimento solo dopo l’esame del perito; se questo non avviene la perizia è irrecuperabile»[25], in ragione della ritenuta incommensurabilità fra il contraddittorio orale in sede di dibattimento e quello che pure l’art. 401 c.p.p. prevede nella fattispecie incidentale[26] [27].

Alla luce di ciò appare, dunque, condivisibile la decisione della Suprema Corte nel senso della manifesta infondatezza del motivo di ricorso, con l’avvertenza che tale conclusione si sarebbe potuta suffragare con un percorso motivazionale ulteriore rispetto a quello esposto nella sentenza: i giudici del merito, infatti, altro non hanno fatto che seguire quanto previsto dalla norma, applicata sulla base di paradigmi giurisprudenziali pacificamente consolidati.

La diversa soluzione, che sarebbe consistita nel non procedere alla riassunzione orale dei periti, avrebbe comportato una violazione dell’art. 511 co. 3 c.p.p., dando luogo ad un’invalidità, che, addirittura, certa giurisprudenza qualifica di ordine generale a regime intermedio in quanto lesiva del diritto di difesa[28].

Per tutto quanto sopra detto, può essere valorizzato il richiamo all’art. 507 c.p.p.: infatti, in virtù del principio espresso dall’art. 511 co. 3 c.p.p. si può considerare la citazione del perito in dibattimento quale corollario indefettibile dello statuto normativo di tale mezzo istruttorio.

Generalmente, la citazione è un onere delle parti che viene espletato con la richiesta contenuta nella lista testimoniale ex art. 468 c.p.p., e ciò è conforme al principio dispositivo che, con qualche temperamento, regola l’istruzione penale nel sistema vigente: tuttavia, poiché l’esame del perito costituisce elemento necessario per la rituale acquisizione del suo contributo tecnico, allora diviene necessario ricorrere allo strumento di cui art. 507 c.p.p. per sovvenire all’eventuale inerzia delle parti.

Un secondo ordine di problematiche che mette in luce il ricorso è dato dalla contraddizione tra l’esito della perizia e le dichiarazioni rese al giudice del dibattimento dai periti.

La sentenza in commento sembra solo lambire la problematica: ciò è, in parte, comprensibile se si considera il compito istituzionale della Cassazione come giudice di legittimità, in ragione del quale risulta precluso un sindacato nel merito sull’opzione preferibile, nei limiti della ragionevolezza dell’argomentazione adottata. Ciò che, tuttavia, la Corte di legittimità avrebbe potuto valutare è la correttezza delle regole in base alle quali il giudice del merito ha valutato, in sede dibattimentale, i risultati dell’incidente probatorio, motivando adeguatamente sulla scelta tra i due opposti risultati.

La valutazione dell’incidente probatorio in dibattimento è, come noto, demandata al giudice ed affidata al suo libero apprezzamento, razionalmente estrinsecato attraverso la motivazione svolta conformemente al canone di cui all’art. 192 c.p.p.[29], essendo ormai estranea all’ordinamento processuale penale la nozione di prova legale.

Qualora infatti, una prova assunta in sede anticipata sia poi riassunta - o comunque specificata - in sede dibattimentale e da tale riassunzione conseguano contrasti tra le diverse risultanze probatorie, il giudice può liberamente valutare ed apprezzarle entrambe senza alcuna precostituita prevalenza di un mezzo sull’altro.

In caso di contraddizione, il giudicante sarà chiamato ad una scelta, sindacabile, come detto, nei limiti della ragionevolezza della motivazione: come detto, tale sindacato non è stato svolto nell’ambito del giudizio di legittimità qui in commento[30].

2.2. Sulla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale e sullo statuto normativo della perizia come mezzo di prova

Direttamente collegata è la questione trattata al successivo punto n. 4 «in diritto» della sentenza in commento, in cui la Corte risponde alle doglianze sollevate dal ricorrente Di Bernardo con il secondo motivo di ricorso, vertente sull’omessa assunzione di una prova decisiva che si sarebbe verificata in relazione al rigetto della richiesta di rinnovare l’istruttoria dibattimentale per acquisire una nuova perizia medico-legale sulle cause della morte di Cucchi.

Il ricorrente sembra evocare due distinte problematiche – tra loro comunque in stretta correlazione -: l’una relativa alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale funzionale all’esperimento di nuova perizia, l’altra concernente la natura della perizia come mezzo di prova.

Quanto al primo tema, la sentenza riporta quell’orientamento giurisprudenziale che afferma la residualità della rinnovazione, condizionandola ad un giudizio di merito sulla possibilità di decidere allo stato degli atti; il rigetto della relativa richiesta, se logicamente e congruamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità, trattandosi di un giudizio di fatto[31].

L’impostazione adottata dalla Suprema Corte su questa prima problematica appare priva di rilievi critici. Infatti, chiarito che la perizia non avrebbe comunque potuto essere nuovamente disposta[MN1] , si deve precisare che la rinnovazione avrebbe riguardato l’esame dibattimentale dei periti, tematica già assorbita trattando della contraddizione tra esiti peritali a seguito di incidente probatorio e successive affermazioni dibattimentali[32].

Di maggiore rilevanza è invece la seconda questione, sulla quale la sentenza non dà ampia motivazione, limitandosi a fare proprio l’orientamento delle Sezioni Unite in base al quale la mancata effettuazione di un accertamento peritale non può costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606 lett. d) c.p.p.: la perizia, si afferma, non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova “neutro”, pertanto sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice[33].

La sentenza in commento lambisce, senza affrontare, un profilo rilevantissimo – e perciò oggetto di dibattito in dottrina e giurisprudenza – relativo alla natura della perizia e, più in particolare, alla “neutralità” del mezzo di prova. Sul punto, l’orientamento espresso, conforme ad un precedente di legittimità reso a Sezioni Unite, pare ormai superato alla luce di un successivo intervento del massimo consenso nomofilattico[34], che ha segnato il superamento della neutralità della perizia[35].

Il dogma della neutralità è conseguenza logica di una precomprensione positivistica, in ragione della quale se i fatti sono “positi” ed esterni al soggetto che li valuta, allora esiste un unico metodo scientifico ed un unico paradigma teoretico attraverso cui possano essere esaminati; l’oggetto detta il metodo attraverso cui l’osservatore ne ha conoscenza e, dunque, il sapere scientifico è neutrale perché prescinde dal punto di vista, interno, dell’osservatore[36]. Così ragionando quindi non si ammetterebbe alcuna possibilità di falsificazione, e, in tal modo, il contraddittorio sulla prova scientifica risulterebbe superfluo in quanto il sapere scientifico portato dalla perizia sarebbe incontestato.

Questa impostazione ben si poteva conciliare con un sistema processuale come quello del codice abrogato, dove al contraddittorio nella formazione della prova non era data la centralità che riserva l’attuale modello accusatorio, e quindi ininfluenti erano tanto la possibilità per le parti di controvertere sulla prova scientifica con la nomina degli esperti di parte, quanto il momento di audizione mediante l’esame incrociato del perito. Il sapere scientifico viene riversato nel quadro probatorio dal perito, senza possibilità di essere messo in discussione, in quanto considerato infallibile[37]; ciò in modo pienamente compatibile con un modello processuale di tipo inquisitorio.

A partire quantomeno dalla metà del secolo scorso, si fa strada un approccio diverso – detto post-positivista - che mette in crisi la concezione positivista, giungendo ad affermare come la scienza possa essere fallibile. Con il superamento del positivismo, quindi, e la conseguente introduzione nel processo penale del portato dell’epistemologia popperiana – che trova suo diretto precipitato nel principio del contraddittorio – si è fatta strada la necessità di rivalutare l’opinione prevalente circa la natura della perizia. Appare allora evidente come tale concezione della “perizia prova neutra” si pone in posizione antitetica rispetto al principio di formazione della prova in contraddittorio tra le parti, rendendo tale teoria anacronistica rispetto a un modello processuale di tipo accusatorio[MN2] [38].

Il più recente orientamento nomofilattico analizza la perizia, scindendo il profilo soggettivo, attinente alla terzietà dell’esperto, da quello oggettivo, relativo al contributo scientifico introdotto nel processo. Sul piano soggettivo, il perito è senz’altro terzo, sia perché viene nominato dal giudice, sia perché è gravato dall’obbligo di verità penalmente sanzionato dall’art. 373 c.p.[39]. Dal lato oggettivo, viene rilevato come, accogliendo la teoria post-positivista, «se è vero che nessun metodo scientifico, per la sua intrinseca fallibilità – può dimostrare la verità di una legge scientifica, ne consegue inevitabilmente, che anche la perizia non può essere considerata portatrice di una verità assoluta (e quindi “neutra”) tanto più in quei casi in cui il perito – del tutto legittimamente – sia fautore di una tesi scientifica piuttosto che di un’altra»[40].

L’applicazione di tale principio nella vicenda processuale trattata dalla sentenza in commento avrebbe costituito una valida argomentazione al fine di risolvere, sul piano tecnico, la questione della non rinnovabilità della perizia. [MN3] 

Inoltre, proprio dal più recente arresto delle Sezioni Unite, è possibile trarre indicazioni utili in ordine all’assunzione dibattimentale, e alla relativa indefettibilità della medesima, del perito, allorché si afferma che: «è proprio nell’assunzione dibattimentale della perizia che si evidenzia il ruolo decisivo, che, nell'ambito della dialettica processuale, assume il contraddittorio orale attraverso il quale si verifica, nel dibattimento, l'attendibilità̀ del perito, l'affidabilità̀ del metodo scientifico utilizzato e la sua corretta applicazione alla concreta fattispecie processuale»[41]. [MN4] 

Ecco che facendo buon governo anche di tale principio offerto dalla Sezioni Unite più recenti si sarebbe potuta dare una risposta maggiormente argomentata e fondata in punto di diritto alla questione sollevata dal ricorrente, esaminata al precedente paragrafo, circa l’assunzione dibattimentale dei periti. Ciò, al di là delle valutazioni su un piano strettamente tecnico, avrebbe permesso di risolvere la problematica che sul piano processuale appare di maggior rilievo, ossia la contraddittorietà tra esiti della perizia e dichiarazioni dei periti. [MN5] 

2.3. Sulla conversione del ricorso in appello (art. 580 c.p.p.)

Altra questione processuale di particolare interesse tra quelle trattate è quella relativa alla conversione del ricorso presentato dal pubblico ministero in appello, a norma dell’art. 580 c.p.p.

Con il primo motivo di ricorso, D’Alessandro lamenta la violazione, nell’operato della corte distrettuale, dell’art. 580 c.p.p., in quanto la conversione in appello del ricorso presentato dal pubblico ministero non sarebbe stata preceduta dal necessario giudizio di ammissibilità entro i parametri segnati dall’art. 606 c.p.p.

La questione così prospettata ha portato la Suprema Corte ad analizzare, con la sentenza in commento, l’istituto della conversione del ricorso in appello entro due direttrici.

Da una parte – pur brevemente – si è interrogata circa le finalità sottese all’istituto della conversione; dall’altra, affrontando la tematica principale, la sentenza prende posizione circa il giudizio di ammissibilità che la Corte d’Appello deve operare e i limiti del successivo giudizio rescissorio.

Quanto alla prima questione, la ratio per la quale è stato previsto dal legislatore il meccanismo di conversione è, secondo l’opinione prevalente, quella di garantire l’unità del procedimento nel corso di tutte le fasi, evitando così che si abbiano, avverso la medesima decisione, una pluralità di impugnazioni pendenti davanti a giudici diversi[42], conformemente ai principi generali di economia processuale, concentrazione e certezza dei rapporti giuridici, nel senso di evitare giudicati contrastanti[43].

Quanto al funzionamento del meccanismo di conversione del ricorso, è utile tenere presente che essa opera sempre verso il giudizio d’appello, rito che permette un sindacato anche di merito, e si fonda su un gravame a critica libera: tale istituto, tuttavia, ed è ciò che più rileva nell’economia della decisione qui esaminata, non è di per sé solo attributivo di legittimazione attiva né idoneo a modificare i contenuti dell’impugnazione originariamente proposta[44].

Sul punto l’orientamento accolto è quello prevalente in base al quale il ricorso per cassazione proposto dal pubblico ministero avverso la sentenza di condanna inappellabile e convertito in appello, conserva la propria natura di impugnazione di legittimità, e quindi il giudice investito dell’impugnazione deve anzitutto sindacarne l’ammissibilità sulla base dei parametri cui all’art. 606 c.p.p.[45] [46].

Una volta concluso il giudizio di ammissibilità con esito positivo, il giudice di appello riprende la propria funzione di giudice del merito, con conseguente riespansione anche del perimetro cognitivo, senza che sia necessario il formale annullamento della sentenza di primo grado[47].

Sebbene, dunque, il giudizio rescissorio svolto dalla Corte d’Appello sarà limitato ai motivi di legittimità proposti con il ricorso poi convertito[48], la scelta per il giudizio di appello descrive, secondo un certo orientamento, la sussistenza di un vero e proprio «diritto al riesame anche nel merito della parte impugnante»[49].[MN6] 

3. Profili sostanziali

Col quarto motivo di ricorso[50], ritenuto infondato e, a tratti, inammissibile, Di Bernardo ha contestato l’applicazione della legge penale sostanziale in rapporto alla sussistenza del nesso eziologico fra la condotta addebitatagli ed il decesso di Cucchi. Si contesta, in primo luogo, che il Giudice del merito non avrebbe preso in considerazione la circostanza che il giovane, nella stessa sera in cui sono accaduti i fatti, aveva sostenuto un allenamento di kick-boxing, fatto che, viceversa, si sarebbe dovuto considerare come innesco alternativo del decorso causale esitato con il decesso.

Nell’ambito dello stesso motivo, concernente il nesso causale, viene altresì lamentata l’erronea applicazione dell’art. 41 co. 2 c.p. nella misura in cui, la pluralità di fattori eziologici determinanti per il decesso (comportamenti tenuti dagli altri carabinieri dopo l’azione dell’imputato; negligenti condotte del personale sanitario dell’Ospedale Pertini; resistenze opposte da Cucchi nel corso della degenza), riconosciuta sulla base delle considerazioni peritali, sarebbe stata oggetto di un’indebita considerazione frazionata e non già unitaria e complessiva, funzionale a stabilire se tale concorso fosse stato in grado di interrompere la catena eziologica attivando rischi esorbitanti ed imprevedibili rispetto a quello innescato dallo stesso Di Bernardo. In una critica rispetto all’applicazione delle regole in materia di nesso causale si sofferma anche il terzo motivo dedotto da D’Alessandro[51] con il proprio ricorso, del pari ritenuto infondato.

Il quinto[52] ed il sesto[53] motivo formulati da Di Bernardo, pur ritenuti inammissibili, vengono esaminati anche nel merito e ne viene dichiarata l’infondatezza, prendendo in esame l’elemento soggettivo dell’omicidio preterintenzionale, specialmente con riferimento alla sua forma di manifestazione plurisoggettiva.

Si ritengono, invece, fondati i ricorsi degli imputati Mandolini[54] (secondo, terzo e quarto motivo) e Tedesco con riguardo agli addebiti concernenti le contestate condotte di falsità ideologica in atto pubblico.

Quanto a Mandolini, egli contestava alla sentenza di merito di non essersi adeguatamente confrontata con lo specifico motivo d’appello sul punto della sentenza di primo grado che ne aveva affermata la responsabilità per l’omessa menzione della partecipazione di Di Bernardo e D’Alessandro all’arresto di Cucchi. La difesa, in particolare, eccepiva che la Corte territoriale non avesse adeguatamente vagliato il profilo concernente l’elemento soggettivo, avendo ritenuto in modo apodittico, anche alla luce della funzione normativamente assegnata al verbale d’arresto, che l’imputato fosse stato a conoscenza della partecipazione dei colleghi alle operazioni, senza considerare le circostanze idonee alla prova del contrario nonché avendo ravvisato la sussistenza della volizione senza adeguatamente confrontarsi col dato in base al quale negli altri due atti contestualmente redatti la presenza dei colleghi era regolarmente attestata.

3.1. Sulla sussistenza di decorsi causali alternativi e sulla loro prevedibilità

Come detto, all’esame del nesso eziologico, è dedicata la motivazione nella parte[55] in cui respinge il quarto motivo di ricorso proposto da Di Bernardo, in larga parte sovrapponibile al terzo articolato da D’Alessandro.

La Corte ravvisa genericità nelle doglianze relative all’omessa considerazione dell’allenamento di kick-boxing in cui Cucchi era stato impegnato nella stessa sera in cui sarebbe poi stato tratto in arresto. Si afferma, in particolare, che la difesa non ha indicato «alcuna evidenza, eventualmente trascurata dalla Corte (territoriale) in grado di dimostrare che nel corso dell’allenamento egli abbia subito un qualsiasi infortunio compatibile con la lesione sacrale successivamente riscontrata o anche solo che quella sera egli abbia svolto attività di contatto piuttosto che di altro genere», facendo presente come, al contrario, nessuna delle persone entrate in contatto con il ragazzo abbia avuto modo di riscontrare alcuna lesione di quel tipo.

A fronte, invece, della ritenuta considerazione atomistica che il giudizio di merito avrebbe riservato alla sussistenza di decorsi causali alternativi, la sentenza in commento ritiene che il nesso eziologico sia stato correttamente ricostruito in termini multifattoriali, tenendo conto anche della negligenza omissiva dei sanitari e del progressivo indebolimento dell’organismo «determinato dalla prolungata carenza di alimentazione e di idratazione».

Si ravvisa che, tuttavia, pur a fronte di una pluralità di concause, non sia possibile isolarne alcuna, ritenendola indipendente dalle azioni degli imputati: essi hanno innescato una catena eziologica mai successivamente deviata, ma semmai solo accelerata nel suo decorso, dalla sopravvenienza di altri fattori causali, che, in relazione all’evento-morte, si collocano come mere concause.

Tale ricostruzione viene contestualizzata nel quadro del consolidato orientamento giurisprudenziale in base al quale il nesso causale «non è interrotto dalla intermedia omissione della condotta che sarebbe stata in ipotesi idonea ad evitare la produzione dell’evento medesimo, qualora questa non costituisca un fatto imprevedibile ovvero uno sviluppo assolutamente atipico della serie causale»[56], potendo, al più, fungere da presupposto per l’affermazione di responsabilità concorsuale anche del soggetto inadempiente alla propria posizione di garanzia.

Nella ricostruzione del nesso causale, sollecitata dalle prospettazioni difensive, la sentenza si confronta altresì con la teoria dell’imputazione obiettiva dell’evento[57] che, come noto, è stata formulata per circoscrivere la causalità penalmente rilevante allorché un fattore sopravvenuto inneschi un rischio «nuovo e incommensurabile, del tutto incongruo rispetto al rischio originato dalla condotta originaria».

Sul punto, i giudici di Cassazione esprimono riserve rispetto alla praticabilità dogmatica del paradigma dell’imputazione obiettiva ai reati dolosi, in quanto il riferimento all’imprevedibilità oggettiva della sopravvenienza eziologica comporterebbe una confusione di piani: il giudizio, a posteriori, sul nesso causale risulterebbe, infatti, confuso con valutazioni relativa alla prevedibilità ex ante dell’evento morte, che meglio dovrebbero collocarsi sul piano della colpevolezza[58].

Anche a volersi adeguare a tale sistematizzazione teorica, comunque, le risultanze processuali, a giudizio della Corte, consentono di affermare che gli accadimenti successivi alle lesioni inferte a Cucchi dai carabinieri hanno costituito proprio la concretizzazione del pericolo determinato dalla condotta lesiva, senza generare alcun rischio esorbitante.

Infatti, l’anomalo riempimento della vescica che ha comportato la crisi cardiaca degenerata nell’exitus non è addebitabile alle sole omissioni del personale sanitario, in quanto deve essere ricondotto alla lesione sacrale determinata dal pestaggio occorso in caserma: la cattiva manutenzione del catetere, insomma, potrebbe costituire al più una causa concomitante che si colloca a valle di tale accadimento.

Considerazioni in tema di causalità vengono spese anche nella parte in cui viene disatteso il terzo motivo di ricorso articolato da D’Alessandro[59].

Come detto, l’imputato si doleva ritenendo che non fossero stati correttamente applicati i principi in materia di accertamento del nesso causale sotto il profilo dell’individuazione della legge scientifica di copertura.

La Corte, tuttavia, ritiene che in nulla possa censurarsi la sentenza di merito: essa ha individuato una legge idonea a fornire la spiegazione causale dell’evento e verificato sulla base delle evidenze processuali disponibili, l’insussistenza di decorsi causali alternativi, ben applicando quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità nell’elaborazione del noto giudizio di alta probabilità logica[60].

È già stato autorevolmente evidenziato[61] come la sentenza qui commentata si assesti su una linea di particolare rigore rispetto alla valutazione sulla sussistenza del nesso causale che si traduce in una sostanziale interpretatio abrogans del temperamento normativo fissato all’art. 41 co. 2 c.p. e si traduce in affermazioni di responsabilità di colui che abbia generato situazioni di rischio.

Risultano, dunque, irrilevanti comportamenti ulteriori che abbiano interferito sul decorso causale in modo rilevante come, nel caso di specie, quelli dello stesso Cucchi nel suo reiterato rifiuto di cure necessarie nonché quelli dei sanitari che lo hanno assistito[62].

A parere di chi scrive, ferma restando l’efficacia, anche cumulativa, di molte tra le varie e ben note soluzioni correttive elaborate in dottrina[63] per temperare i rigori di un condizionalismo acriticamente inteso, potrebbe essere utilmente rivalorizzata l’elaborazione di un antico Maestro che, in un noto studio sul rapporto di causalità nel diritto penale, ha interpretato l’art. 41 co. 2 c.p. elaborando la nozione poi definita “causalità umana”[64] secondo cui, sostanzialmente, si imputano all’agente solo i fattori eziologici che rientrano nella sua area di dominio, con l’esclusione di quelli che hanno una probabilità minima e trascurabile di verificarsi.

Tale tesi è stata accolta per lungo tempo, almeno in linea di principio, anche dalla giurisprudenza che ne ha, tuttavia, operata un’interpretazione particolarmente rigorosa e più allineata ai paradigmi della c.d. “causalità adeguata”[65].

Vero è che, sul piano rigorosamente logico, alla teoria della causalità umana può essere opposto di non aggiungere nulla alla necessità di misurare la regolarità causale sulla base di leggi scientifiche universali o statistiche che leghino il fattore eziologico all’evento da esso prodotto[66], e, tuttavia, essa potrebbe essere non del tutto superflua se utilizzata come criterio (anche argomentativo) per valutare la ragionevolezza delle argomentazioni svolte nel motivare i giudizi sul rapporto di causalità.

Se, infatti, elemento indefettibile di ogni rigoroso accertamento è la riconducibilità dei decorsi a leggi scientifiche di copertura che ne fondino l’esattezza, è altrettanto meritevole di considerazione il dato rappresentato dalla motivazione della sentenza come momento nel quale il giudicante esplicita il proprio iter logico di ragionamento rendendolo fruibile e controllabile alla generalità dei consociati.

Orbene, un prudente utilizzo delle migliori intuizioni riconducibili alla teoria della causalità umana potrebbe contribuire a restringere l’ambito di applicazione della norma penale in vicende nelle quali, pur in presenza di una catena eziologica astrattamente plausibile sul piano strettamente scientifico, il giudizio risulterebbe contrastante con elementari parametri di ragionevolezza.

Nel caso di specie, ad esempio, è indiscutibile che la censurabile condotta lesiva posta in essere dagli imputati abbia, sul piano strettamente scientifico-meccanicistico, contribuito ad innescare il processo eziologico esauritesi nel tragico exitus di Cucchi. Tuttavia, si ritiene che un’adeguata valorizzazione della causalità umana avrebbe, forse, consentito di mettere in evidenza l’irragionevolezza di un addebito che smentisce qualsiasi efficacia escludente a sopravvenienze quali il successivo rifiuto dei trattamenti terapeutici e le omissioni dei sanitari: si tratta, all’evidenza, si fattori concausali la cui prevedibilità da parte degli imputati è decisamente opinabile e che, indubbiamente, sfuggivano a qualsiasi possibilità di controllo e dominio da parte dei medesmi.

Così, dunque, potrebbe, forse, “umanizzarsi” il giudizio sul rapporto di causalità: alla giusta ed imprescindibile valorizzazione dell’apporto scientifico come garanzia contro forme arbitrarie di solipsismo cognitivo del giudicante si affiancherebbe, in chiave garantistica, il miglior portato della causalità umana in senso ulteriormente restrittivo e funzionale ad evitare che si addebitino eventi dannosi a soggetti che, pur avendovi dato un apporto, magari remoto, non avevano, in rerum natura, su di essi, alcuna effettiva e plausibile possibilità di controllo.

3.2. Sull’elemento soggettivo dell’omicidio preterintenzionale

Le deduzioni difensive, articolate sotto il profilo dell’imprevedibilità della morte, vengono ricondotte dalla sentenza sotto il diverso ambito del giudizio di colpevolezza e risultano comunque destituite di fondamento in quanto «meramente assertive, posto che non viene in alcun modo argomentato perché il decorso causale sarebbe stato anomalo rispetto alla natura della condotta e delle sue più immediate conseguenze lesive».

Si richiama il consolidato orientamento giurisprudenziale[67] che ricostruisce l’elemento soggettivo dell’omicidio preterintenzionale non come combinazione fra dolo e responsabilità oggettiva né tra dolo e colpa: esso, infatti, viene ricostruito, in sede pretorile, come costituito «unicamente dal dolo di percosse o lesioni, in quanto la disposizione di cui all’art. 43 c.p. assorbe la prevedibilità dell’evento più grave nell’intenzione di risultato»[68].

Corollario a ciò è la riconduzione «alla stessa previsione legislativa» della prevedibilità dell’evento morte da cui dipende l’esistenza del delitto di cui all’art. 584 c.p., in quanto esso costituirebbe uno sviluppo «assolutamente probabile» di un’azione violenta contro una persona: vi si legge, insomma, l’adesione (inespressa) alla tesi[69] della combinazione fra dolo del reato-base e colpa (presunta) in relazione all’evento più grave.

Ad abundantiam, nell’economia della motivazione, la Corte non manca di segnalare come la prevedibilità dell’exitus, nel caso di specie, sia comunque predicabile anche applicando il diverso paradigma ermeneutico della c.d. “prevedibilità in concreto”: si ritiene, infatti, che chiunque sarebbe in grado di rappresentarsi il possibile decorso letale come conseguenza dell’inflizione di plurimi colpi violenti al volto ed in zona sacrale. Ciò sarebbe, peraltro, sufficiente ai fini della formulazione di un giudizio di colpevolezza ex art. 43 co. 1 III al. c.p., non essendo richiesta per l’addebito la rappresentabilità dell’esatto decorso causale concretamente realizzatosi.

La tematica dell’elemento soggettivo dell’omicidio preterintenzionale è altresì declinata nella forma di manifestazione concorsuale di tale delitto, nella parte in cui vengono disattese le deduzioni difensive formulate da Di Bernardo con il quinto motivo di ricorso, ove si afferma che sarebbe solo il calcio sferrato a Cucchi dal coimputato e collega D’Alessandro ad aver dato innesco alla sequenza eziologica esitata con la morte del giovane.

L’infondatezza della tesi difensiva è predicata facendo richiamo all’orientamento consolidato[70] in materia di colpevolezza nelle fattispecie concorsuali[71]: si ribadisce che «la volontà di concorrere non presuppone necessariamente un previo accordo o, comunque, la reciproca consapevolezza del concorso altrui, essendo sufficiente che la coscienza del contributo fornito all’altrui condotta esista unilateralmente, con la conseguenza che essa può indifferentemente manifestarsi o come previo accordo o come intesa istantanea ovvero come semplice adesione all’opera di un altro che rimane ignaro»[72]. Corollario di tale principio, declinato nella fattispecie di cui all’art. 584 c.p., è che la sola partecipazione materiale o morale di più soggetti attivi nell’attività diretta a percuotere o ledere una persona, senza dolo omicidiario, è sufficiente per l’affermazione dell’addebito allorché sia data evidenza del rapporto di causalità intercorrente tra tale attività e l’evento mortale[73].

È stato autorevolmente ritenuto[74], che, nel delineare la fattispecie di omicidio preterintenzionale, il Legislatore codicistico si sia mantenuto nel solco tracciato dal Codice Zanardelli[75], in cui la struttura del reato combinava il dolo di lesioni al nesso causale con la morte, addebitata a titolo di responsabilità oggettiva[76].

È noto che l’omicidio preterintenzionale ha rappresentato un banco di prova per misurare la tenuta dell’impianto legislativo disegnato dal Legislatore codicistico rispetto alla successiva emersione di principi costituzionali che, per molti aspetti, si pongono in rapporto dialettico rispetto alle matrici ideologiche e politico-criminali che hanno fatto da sfondo alla codificazione del 1930.

Prima di ripercorrere sinteticamente tale elaborazione, alla luce della quale valutare l’orientamento accolto dalla sentenza in commento, si ritiene interessante provare ad esercitarsi in un’interpretazione della fattispecie ispirata ai criteri dell’originalismo[77] testualista, spesso estranei all’ermeneutica corrente in ambito nazionale[78].

Ciò permetterà di ricostruire in modo quanto più esatto possibile, sul piano tecnico, i contorni sostanziali della fattispecie, per poi vagliarne con maggior consapevolezza la compatibilità costituzionale.

Applicando il descritto paradigma, si deve prendere atto che dal tessuto codicistico la preterintenzione risulta come un quid alii rispetto alle fattispecie di responsabilità oggettiva, nell’ambito delle quali viene sovente ricondotta[79]: ciò, invero, marca una distinzione, quantomeno sul piano tecnico-testuale, al previgente Codice Zanardelli[80].

La differenziazione emerge sin dalla lettura degli artt. 42 e 43 c.p.

Infatti, nella rubrica della prima disposizione, la «responsabilità obiettiva» viene giustapposta alla «responsabilità per dolo o per colpa o per delitto preterintenzionale» e tale ripartizione si riflette nel testo normativo, che alla preterintenzione dedica il co. 2 in cui è previsto che «nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale […] espressamente preveduti dalla legge».

Della responsabilità oggettiva si occupa, invece, il co. 3, il quale, riproducendo la norma di cui all’art. 45 c.p.1889, fissa una riserva di legge nella determinazione dei casi «nei quali l’evento è posto altrimenti a carico dell’agente, come conseguenza della sua azione od omissione».

L’art. 43 offre una definizione della preterintenzione come «elemento psicologico del reato» per cui «il delitto è preterintenzionale, o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente».

Dunque, riassuntivamente, si danno nell’ordinamento giuridico penale quattro criteri di ascrizione soggettiva del reato, tra loro normativamente distinti sulla base del differente atteggiarsi della volontà del reo in rapporto alla realizzazione dell’evento[81] da cui la legge fa dipendere l’esistenza del reato. Ai due poli stanno il delitto doloso, in cui l’evento asseconda, variamente in rapporto alle differenti intensità, l’intenzione dell’agente e quello colposo che si definisce per l’essere l’evento, pur cagionato dall’agente, contrario alla sua intenzione.

Fuori dal perimetro dell’intenzionalità si collocano le ipotesi di responsabilità oggettiva di cui all’art. 42 co. 3, in cui l’intenzione si colloca in un rapporto di indifferenza teleologica nella dinamica fra l’azione e l’evento. I due elementi sono legati da nesso eziologico, ma il Legislatore descrive la fattispecie incriminatrice senza connotare né in termini di volontarietà né di involontarietà il nesso psichico che li astringe, il quale è, dunque, irrilevante.

In medio si colloca la preterintenzione, descritta come causazione di un evento che si colloca «oltre» l’intenzione del reo.

È di palmare evidenza la diversità, almeno sul piano normativo, rispetto alla responsabilità oggettiva.

Infatti, se in quest’ultima la descrizione della fattispecie prescinde dalla caratterizzazione del rapporto fra l’intenzione dell’agente e l’evento, invece tale caratterizzazione sussiste nella formulazione della definizione dell’illecito preterintenzionale: l’evento non è voluto, né è disvoluto, ma non è indifferente all’agente, in quanto va «oltre», cioè, ne eccede l’intenzione.

Una ricostruzione così analitica dell’ordito codicistico non è, si crede, superflua.

Infatti, se è chiaro che solo equiparando l’illecito preterintenzionale alla responsabilità oggettiva sarà possibile mutuarne l’elaborazione giurisprudenziale[82] tesa ad una piena applicazione del principio di colpevolezza, tuttavia non pare perspicuo, sul piano tecnico-giuridico, prescindere da un’onesta presa d’atto della volontà della legge, ancora vigente, di descrivere diversamente le due fattispecie.

Si tratta, dunque, di approfondire lo studio della preterintenzione per comprendere se essa, normativamente diversa dalla responsabilità oggettiva, lo sia anche sul piano sostanziale: se sia, cioè, possibile individuare un proprium del delitto preterintenzionale rispetto ai casi di responsabilità anomala.

La giurisprudenza di legittimità è pressocché unanime[83] nel distinguere l’illecito preterintenzionale dalle ipotesi di responsabilità oggettiva: esso viene descritto in termini di progressione ed approfondimento di un disvalore già sprigionato dalla condotta-base, rispetto a cui, per l’appunto, la condotta dell’agente va “oltre”.

Tale approdo del diritto vivente è sottoposto a critica dalla dottrina dominante[84], che propugna l’adozione, anche per la preterintenzione, del paradigma fondato sul c.d. “dolo misto a colpa”, in ragione del quale l’evento più grave sarebbe da porre a carico dell’agente solo se da lui concretamente prevedibile.

Si afferma, infatti, che solo a questa condizione sarebbe possibile adeguare l’ordito normativo al principio di colpevolezza di cui all’art. 27 co. 1 e co. 3. In buona sostanza, la dottrina suggerisce un’equiparazione analogica tra preterintenzione e responsabilità oggettiva che superi la differente descrizione del Legislatore in nome della superiore necessità di adeguare la fattispecie al principio costituzionale di colpevolezza.

In via di prima approssimazione, è dato distinguere fra preterintenzione e colpa mettendo a sistema la non intenzionalità dell’evento, che accomuna entrambe le figure, con gli altri elementi dei rispettivi tipi criminosi. Mentre nel delitto colposo la descrizione dell’elemento oggettivo prescinde da qualsiasi caratterizzazione dell’intento, ed il disvalore è tutto assorbito dal giudizio (normativo) di inadeguatezza della condotta rispetto ai paradigmi di prudenza, perizia e negligenza esigibili, invece, nel delitto preterintenzionale l’evento, ancorché disvoluto, è l’esito di un’azione teleologicamente orientata alla realizzazione di un delitto “minore”[85].

Da questo ovvio rilievo sistematico, potrebbe trarsi un argomento a conforto della tesi che predica l’equiparabilità fra delitto preterintenzionale e fattispecie di responsabilità oggettiva, ora reinterpretate con la formula del “dolo misto a colpa”: in entrambi i casi, infatti, è data una condotta-base illecita, finalizzata alla commissione di un delitto, da cui deriva un evento, rispetto al quale, per esigenze di adeguamento costituzionale, si richiede la presenza del minimo coefficiente di rimproverabilità soggettiva rappresentato dalla colpa. Tutto ciò, si intende, a condizione che si mantenga ferma la consapevolezza sulla differente struttura sottesa all’impianto intessuto dal Legislatore storico, il quale, nelle fattispecie di responsabilità oggettiva descrive l’esito preterintenzionale solo in termini di eventualità in quanto non esclude che il dolo possa avere ad oggetto anche il risultato più grave: in esse, infatti, la responsabilità è la medesima sia che l’agente abbia voluto sia che non abbia voluto l’evento realizzato.

Dimostrata la differenza sul piano della struttura fra colpa e preterintenzione e fra quest’ultima e responsabilità oggettiva, è ora da esaminare il nucleo più problematico dell’illecito preterintenzionale che, come noto, attiene alla declinazione di tale figura nel sistema della colpevolezza: si tratta, cioè, di discernere se l’agente debba essere legato all’esito più grave da una qualche relazione psichica.

Secondo una prima ricostruzione[86], l’illecito preterintenzionale sarebbe sostanzialmente doloso.

Essa è stata declinata ricomprendendo l’evento nell’ambito dell’intenzione, e l’obiezione che si può muovere a tale interpretazione è quella di fornire, del pari alla lettura antitetica che legge nella preterintenzione un’ipotesi di colpa, una lettura antiletterale che si pone in aperto contrasto con la lettera della legge nella parte in cui detta la definizione dell’elemento in esame.

All’altro estremo si colloca la ricostruzione teorica che equipara la preterintenzione alla colpa, distinguendo il delitto preterintenzionale da quello colposo non in rapporto all’evento non voluto ma alla condotta causativa del medesimo la quale, in quest’ultimo caso, è dolosamente preordinata alla commissione di un delitto[87].

In una prima declinazione, ormai superata, tale teoria sostiene la plausibilità di fondare l’addebito per l’evento più grave su una colpa presunta che ha per suo presupposto la violazione della stessa legge penale[88], in quanto essa avrebbe in pari tempo sia una funzione repressiva di comportamenti illeciti che preventiva rispetto alla loro commissione: si afferma, insomma, che sul piano politico-criminale la repressione di determinate condotte non può che fondarsi sulla loro ritenuta pericolosità, e così si smentisce la lettura oggi dominante[89] che misconosce valenza cautelare alla norma incriminatrice.

Dal lato opposto[90], si tiene ferma la distinzione fra norma penale e regola cautelare, negando che da un divieto possano trarsi, a contrario, prescrizioni precauzionali che fornirebbero indicazioni di natura cautelare su come agire nel caso in cui tale divieto venisse violato[91].

Altra tesi[92], accolta dalla dottrina dominante, individua la preterintenzione come ipotesi di responsabilità oggettiva in base a rilievo per cui non può ravvisarsi una terza figura autonoma rispetto al dolo e alla colpa: il giudizio sul delitto preterintenzionale dovrebbe, dunque, svolgersi non già sul piano dell’elemento soggettivo ma oggettivo, potendosene escludere la sussistenza solo allorché fra l’evento-base voluto e l’ulteriore evento più grave siano intercorsi fattori causali atipici che sfuggono ad ogni possibilità di controllo da parte dell’agente.

Tale ultima precisazione risulta, peraltro, superata dall’ermeneutica oggi dominante che, ammettendo la plausibilità della colpa anche in attività illecita, trae dalla ritenuta equiparazione fra preterintenzione e responsabilità oggettiva la conseguenza che l’evento-morte debba essere rimproverabile all’agente sulla base degli ordinari criteri di giudizio in materia di colpa generica.

I sostenitori di questo orientamento, comunque, ne argomentano la correttezza anche sul piano normativo-sistematico chiarendo che l’illecito preterintenzionale descriverebbe un sottoinsieme nel più ampio genus della responsabilità oggettiva la cui specificità consiste nell’involontarietà dell’evento più grave, dato, quest’ultimo, non comune a tutte le (altre) fattispecie di ascrizione soggettiva anomala in cui il tipo criminoso si riferisce ad eventi che possono o meno, indifferentemente, rientrare nell’oggetto della volontà dell’agente. Così, dunque, la descrizione dell’art. 43 co. 1 II alinea c.p. manterrebbe una sua autonoma utilità nel senso di meglio descrivere tutti gli elementi che connotano la preterintenzione in rapporto alla generica figura della responsabilità oggettiva: condotta-base dolosa diretta ad attingere beni in rapporto di progressione con quello leso; nesso eziologico fra condotta voluta ed evento; involontarietà dell’evento medesimo.

Peculiare per la sua originalità nel senso di sforzarsi a definire in modo autonomo l’essenza della preterintenzione è la nota tesi della volontà lambente[93] secondo cui l’evento più grave non potrebbe considerarsi né voluto né disvoluto ponendosi sull’orlo della volontà dell’agente.

Ad essa è stata eccepita l’inconsistenza empirico-sostanziale nella misura in cui, si afferma, sarebbe impossibile distinguere un tertium genus frapposto fra intenzionalità e non intenzionalità[94]: ciò violerebbe il principio logico di non contraddizione postulando che in relazione ad un determinato evento nello stesso tempo la volontà dell’agente ne voglia la realizzazione e lo respinga.

Né, d’altra parte, il diritto penale è scevro di elaborazioni rispetto alla problematica dell’evento il quale, pur non rientrando nella prospettiva mentale che muove l’agente (c.d. intenzione), è da questi comunque rappresentato come conseguenza possibile della sua condotta: il tema è, evidentemente, quello del dolo indiretto (o eventuale) che, per sua stessa definizione, costituisce una delle forme di intensità del dolo e non potrebbe, perciò, essere ricompreso nel diverso ambito della preterintenzione.

Quest’ultimo assunto, pur consolidato nella giurisprudenza ed unanimemente condiviso in dottrina, è stato oggetto di autorevole riflessione critica da parte di chi ha affrontato il tema del c.d. “reato eccessivo” in prospettiva storico-sistematica[95] evidenziando la plausibilità di una lettura innovativa ma, probabilmente, più vicina all’intento originario del Legislatore storico, che consentirebbe di ripensare la preterintenzione negli stessi termini in cui oggi l’interprete è portato a definire il dolo eventuale.

Dall’analisi dei Lavori preparatori al Codice penale, infatti, può evincersi il chiaro intento del Legislatore storico di considerare il dolo solo nella sua forma intenzionale o, al più, diretta[96].

Si può, dunque, ritenere che la sistematica originaria del Codice distinguesse fra dolo e preterintenzione in base al rapporto tra scopo perseguito ed evento realizzato, coerente in caso di delitto doloso, distonico nell’illecito preterintenzionale dove l’intenzione del reo non comprende nel proprio oggetto anche la causazione dell’evento più grave.

Ciò non dimeno, inequivocabilmente l’evento più grave deve poter essere ascritto sulla base di un elemento psicologico, in quanto, come si è dimostrato, l’illecito preterintenzionale è distinto dalla responsabilità oggettiva.

Per meglio descrivere il quid di tale elemento soggettivo, lo si deve distinguere anche da quello proprio del reato colposo, il quale, per come definito dall’art. 43, non prevede la previsione dell’evento cagionato fra i suoi elementi strutturali: allorché essa ricorra, infatti, il reato commesso risulta aggravato ex art. 61 n. 3 c.p. e da ciò si desume che nell’economia della fattispecie la previsione costituisce non già un elemento accidentale ed eventuale nell’economia dell’illecito medesimo.

Poste tali premesse, dunque, si è arrivati a comprendere che nella preterintenzione l’evento più grave non può essere intenzionalmente perseguito né rientrare tra le conseguenze indefettibili della condotta realizzata, poiché altrimenti il reato commesso sarebbe attratto nel dolo, ma non può nemmeno essere disvoluto ed imprevisto, dal momento che, in tal caso, il reato sarebbe colposo.

Rimane, dunque, la sola combinazione disponibile rappresentata da un evento più grave che sia necessariamente preveduto, con ciò distinguendosi dal reato colposo, e, ancorché non voluto, comunque accettato nell’eventualità della sua verificazione.

Così ridescritta la preterintenzione, potrebbe quindi, comprendersi, la tesi della volontà lambente il dolo come esplicativa dell’atteggiamento psicologico di colui che, versando dolosamente in re illicita, preveda la possibilità che dalle proprie condotte derivino conseguenze più gravi e, ciò nonostante, non desista dall’azione.

Tale lettura, per quanto rifiutata dall’interpretazione oggi dominante, consentirebbe, da un lato, di recuperare la preterintenzione al terreno della colpevolezza e dall’altro di leggere in modo maggiormente tassativo la precisa indicazione legislativa fornita nella definizione del dolo come evento «secondo l’intenzione».

3.3. Sugli addebiti di falso ideologico in atto pubblico

Rispetto alle imputazioni per falso ideologico in atto pubblico aggravata dalla sua natura fidefacente (art. 479 c.p. in relazione all’art. 476 co. 2 c.p.) viene, invece, ritenuta la fondatezza dei ricorsi proposti dai coimputati Mandolini e Tedesco.

L’addebito si articolava in quattro profili di falsità: in primo luogo si contestava di aver indicato nel verbale che Cucchi fosse stato identificato attraverso fotosegnalamento; si addebitava l’intenzionale omissione dei nominativi di Di Bernardo e D’Alessandro tra quelli degli operanti che avevano partecipato all’arresto; si censurava che nessun riferimento fosse evincibile dal verbale rispetto al fatto che Cucchi si era rifiutato di sottoporsi al fotosegnalamento stesso e, da ultimo, la mendace attribuzione alla stessa persona offesa della volontà di non procedere alla nomina di un difensore di fiducia.

Il primo addebito era già stato ritenuto non costituente reato nella sentenza di primo grado: il giudice, infatti, aveva ricondotto ad un mero errore l’avvenuta indicazione del fotosegnalamento come procedura identificativa. Gli operanti, infatti, in preda a fretta e stanchezza dovuta alla tarda ora delle operazioni, avevano riprodotto pedissequamente un verbale già utilizzato nella stessa giornata per un precedente arresto, senza sostituire i dati identificativi dell’altro arrestato con quelli di Cucchi e omettendo di modificarne l’intestazione, in cui era contenuta la menzione dell’avvenuto fotosegnalamento.

Quanto al secondo addebito di falsità, relativo all’omessa indicazione dei nomi di Di Bernardo e D’Alessandro, l’accoglimento del ricorso si fonda su una premessa relativa alla ricostruzione del verbale d’arresto dal punto di vista della sua efficacia probatoria nonché come oggetto materiale di delitti di falso.

Si richiama l’orientamento giurisprudenziale che circoscrive la valenza probatoria di tale atto «esclusivamente» all’attività svolta in occasione dell’avvenuta coercizione da parte della polizia giudiziaria, senza che essa si possa estendere anche ad attività investigative antecedenti, pur se richiamate e riassunte nella parte in cui si giustifica l’arresto stesso né, a fortiori, ad attività successive[97].

Ciò non di meno, tale peculiare funzione probatoria, diversamente modulata in rapporto alla fase in cui versa il procedimento, deve tenersi distinta dalla più generale funzione di documentazione: trattandosi di un atto pubblico, infatti, anche il verbale d’arresto ha la funzione di attestare i dati in esso esposti. Da ciò deriva che esso può assurgere ad oggetto materiale del delitto di falso ideologico anche qualora il falso non ricada su circostanze direttamente attinenti alla funzione probatoria o connesse alla sua valenza processuale di atto irripetibile.

La Corte d’Appello, nel riformare l’esito assolutorio cui era approdato il giudice di prime cure, ha affermato che i nominativi di Di Bernardo e D’Alessandro sarebbero dovuti comparire nel verbale d’arresto in quanto essi, pur non avendo assistito al fatto in cui si era sostanziata l’adozione della misura precautelare, avevano partecipato alle attività ad esso strumentali e necessarie per la compiuta redazione del verbale.

Tale lettura è disattesa dalla sentenza in commento, nella misura in cui al si ritiene eccentrica rispetto al consolidato orientamento giurisprudenziale in base a quale la realizzazione dell’arresto in flagranza coincide con il momento in cui avviene la privazione della libertà personale[98] senza che rilevi il momento successivo in cui viene redatto il relativo verbale. Si rileva, altresì, verosimilmente per smentire la sussistenza dell’elemento soggettivo, che comunque l’omissione dei nominativi nel verbale d’arresto non avrebbe sortito l’effetto in ipotesi addebitabile a Mandolini e Tedesco di oscurare il ruolo dei due colleghi nell’atto compiuto, in quanto esso risulta in ogni caso dalla relazione di servizio e dal verbale di perquisizione domiciliare, regolarmente trasmessi all’autorità giudiziaria.

Quanto all’omessa menzione del rifiuto di Cucchi di sottoporsi al fotosegnalamento, elemento che, secondo la sentenza di merito, avrebbe dovuto essere evidenziato ai fini di una valutazione relativa alla possibile contestazione del reato di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.), la Cassazione ne argomenta l’irrilevanza penale in ragione delle risultanze istruttorie acquisite nel corso del processo da cui risulta che Mandolini ha dato ordine di soprassedere a tali incombenti essendo l’arrestato già stato compiutamente identificato. Ricollegandosi a quanto sopra ricostruito con riferimento alla funzione tipica del verbale d’arresto, peraltro, viene rilevato che tale rifiuto di Cucchi si è situato, comunque, in un momento successivo a quello dell’avvenuto arresto.

Il tema si inserisce in quello più vasto della rilevanza penale del falso ideologico per omissione che, pure, la sentenza non affronta ex professo. Come noto, la giurisprudenza maggioritaria[99] è orientata nel senso di ritenere rilevante anche il falso omissivo allorché esso si traduca in un’incompletezza della documentazione in ordine a profili richiesti sulla base del contesto normativo che fonda l’obbligo di attestazione. In base a quanto ricostruito nella pronuncia, dunque, si argomenta l’irrilevanza penale delle condotte dei verbalizzanti anche sul piano dell’elemento oggettivo nella misura in cui si afferma che il rifiuto di sottoporsi al fotosegnalamento da parte di Cucchi sia intervenuto solo dopo l’avvenuto arresto, e, dunque, in un momento successivo rispetto a quello che l’atto era destinato a rappresentare.

In ordine al quarto addebito, concernente la mendace attribuzione a Cucchi della volontà di non avvalersi della nomina di un difensore di fiducia, la Corte ritiene non dimostrato che la dichiarazione di nomina sia stata ricevuta proprio da Mandolini e Tedesco né che gli stessi fossero comunque consapevoli della circostanza, ritenendo plausibile che si sia trattato non già di una falsa attestazione ma solo di un errore materiale «frutto dell’ennesimo refuso dovuto al riutilizzo di un precedente verbale».

Merita di essere evidenziato l’orientamento accolto in punto di elemento soggettivo in quanto si mostra consentaneo ad una linea ermeneutica attenta a valorizzare in modo approfondito la componente psicologica della condotta[100] senza ridurre, come avviene da parte di altra giurisprudenza[101], l’oggetto del dolo alla mera consapevolezza dell’immutazione della verità.

Si tratta, sul piano sistematico, di un dato interpretativo rilevante in quanto solo l’espunzione di ogni componente di dolus in re ipsa si mostra conforme al dato normativo nella misura in cui esclude ogni addebito di natura esplicitamente o larvatamente colposa di condotte che il Legislatore qualifica come punibili solo a titolo di dolo[10


Note e riferimenti bibliografici

[1] I paragrafi 1, 3, e 4 concernenti l’inquadramento del caso, i profili di diritto sostanziale e le conclusioni sono a cura dal dott. Mario Nicolini; i profili di diritto processuale, esaminati al paragrafo 2, sono a cura del dott. Nicolò Giovanni Orsi

[2] Sul punto, cfr. il commento di A. DE LIA, “Omicidio preterintenzionale, interferenza di fattori causali sopravvenuti e prevedibilità dell’evento-morte”. Note a margine del “caso Cucchi”, in Archivio Penale, 2, Maggio-Agosto 2022, https://archiviopenale.it/omicidio-preterintenzionale-interferenza-di-fattori-causali-so-pravvenuti-e-prevedibilita-dellevento-morte-note-a-margine-del-caso-cucchi/articoli/36395

[3] Più sinteticamente, una ricostruzione della vicenda è contenuta alle pp. 2-3 della sentenza in commento.

[4] Per la morte di Cucchi si è altresì celebrato un processo a carico del personale sanitario dell’Ospedale Pertini. In esso, la Corte d’Assise di Roma, con sentenza del 5 giugno 2013, ha condannato alcuni degli imputati per omicidio colposo rilevando che i medici avessero omesso di trattare adeguatamente il paziente cagionandone per colpa la morte dovuta alla sindrome da inanizione di cui era affetto Cucchi, da essi non riconosciuta, e ritenuta causalmente determinate per il verificarsi del decesso. Tale sentenza veniva riformata in sede d’appello allorché si rilevava, con sentenza del 31 ottobre 2014, un insanabile contrasto fra i pareri medico-legali acquisiti in dibattimento, da cui non era possibile accertare oltre ogni ragionevole dubbio la causa del decesso. In sede di legittimità, il 15 dicembre 2015, la Cassazione annullò con rinvio la sentenza d’appello rilevando carenze nella motivazione consistenti in una contraddittorietà intrinseca dell’iter logico con cui la Corte d’Assise d’Appello aveva formulato il giudizio sul compendio probatorio, senza rispondere in modo univoco all’interrogativo sulla sussistenza del nesso eziologico. Successivamente, in sede di rinvio, la Corte d’Assise d’Appello confermò, il 18 luglio 2016, la sentenza assolutoria ritenendo che, pur dovendosi affermare l’apporto causale tra la sindrome da inanizione e la morte di Cucchi, tuttavia non fosse stata raggiunta la certezza processuale in ordine all’efficacia impeditiva dell’intervento medico omesso. Nuovamente investita, la Corte di cassazione, il 19 aprile 2017, annullò la decisione di rinvio mantenendo un giudizio critico sulla motivazione con cui si era ritenuto insussistente il nesso di causalità. Da ultimo, la Corte d’Assise d’Appello, disposta una nuova perizia che accertasse con esattezza le cause del decesso, il 14 novembre 2019 si pronunciò dichiarando prescritto il contestato omicidio colposo con contestuale accertamento della responsabilità di alcuni imputati in ragione dell’omesso adempimento di obblighi di adeguata informazione sui rischi derivanti dal comportamento ostruzionistico assunto da Cucchi nonché su una più generale considerazione di negligenza del contegno complessivo, dovuto ad un’intempestiva ed inadeguata valutazione del quadro patologico complessivo.

[5] Altro procedimento penale ha avuto ad oggetto fatti di depistaggio: nell’ambito di esso, il 7 aprile 2022 il Tribunale di Roma ha condannato alcuni Carabinieri per falso ideologico, omessa denuncia, favoreggiamento e calunnia.

[6] Cfr. p. 5 della sentenza

[7] Cfr. p. 3 della sentenza.

[8] Cfr. p. 3 della sentenza.

[9] Cfr. p. 4 della sentenza.

[10] Cfr. pp. 11-14 della sentenza.

[11] Cfr. p. 7 della sentenza.

[12] Cfr. p. 7 della sentenza.

[13] Cfr. pp. 8 e 9 della sentenza.

[14] Cfr. pp. 13 e 14 della sentenza.

[15] Cfr. pp. 7 e 8 della sentenza.

[16] Cfr. p. 3 della sentenza.

[17] Nella perizia acquisita all’esito di incidente probatorio veniva, infatti, escluso ogni collegamento causale tra le condotte addebitate agli imputati, perpetratesi a danno del Cucchi dopo il suo arresto, e l’evento della sua morte. Nelle dichiarazioni rese dai medesimi periti in sede dibattimentale, invece, veniva affermata la possibilità che l’evento morte potesse essere stato causato dalle condotte degli imputati Di Bernardo e D’Alessandro.

[18] Cfr. p. 26 della sentenza.

[19] Ibidem.

[20] Ibidem.

[21] Ibidem.

[22] Così G. BIONDI, L’incidente probatorio nel processo penale, Giuffrè, Milano 2006, 427.

[23] Cfr. G. BIONDI, L’incidente probatorio nel processo penale, cit., 428.

[24] Cfr. G. ESPOSITO, Contributo allo studio dell’incidente probatorio, Jovene, Napoli 1989, 123 ss.

[25] Cass. Pen., Sez. I, 6 febbraio 1997, n. 2670. Nello stesso senso v anche più di recente Cass. Pen., Sez. I, 5 novembre 2008, n. 44847 Rv. 242192.

[26] Cass. Pen., Sez. I, 6 febbraio 1997, n. 2670.

[27] Cfr. Ibidem.

[28] In questo senso, Cass. Pen., Sez. VI, 29 settembre 2011, n. 38157, Rv. 250781 dove viene affermato che: «Il mancato esame dibattimentale del perito prima della lettura della relazione peritale integra una nullità di ordine generale a regime intermedio ex art. 178, lett. c), cod. proc. pen., soggetta ai limiti di deducibilità e rilevabilità d'ufficio di cui all'art. 182 e alla sanatoria prevista dall'art. 183, comma primo, lett. a), cod. proc. pen.».

[29] Cfr. G. BIONDI, L’incidente probatorio nel processo penale, cit., 426. In genere sulle regole di valutazione della prova, con riferimento alle prove formate prima del dibattimento v. anche M. DEGANELLO, I criteri di valutazione della prova penale, Giappichelli, Torino 2005, 313.

[30] In questo senso, tra gli altri, M. BARGIS, Incidente probatorio (voce), in Dig. Disc. Pen., VI, Utet, Torino 1992, 347. Per un’opinione parzialmente difforme si veda anche S. SAU, L’incidente probatorio, Cedam, Padova 2001, 334 dove viene affermato che: «un’ermeneutica più aderente ai principi fondamentali dell’attuale sistema accusatorio, dovrebbe indurre – in assenza di ulteriori e robusti elementi probatori a favore dell’assunzione attuata con l’incidente – a privilegiare il meccanismo conoscitivo realizzato in sede dibattimentale: ciò soprattutto perché la prova incidentale garantisce un contraddittorio minore e più parziale rispetto al dibattimento laddove la conoscenza del thema probandum è, invece, completa».

[31] Cfr. p. 27 della sentenza dove viene citato l’orientamento giurisprudenziale espresso, ex multis, da Cass. Pen., sez. I, 18 febbraio 2019, n. 11168, Rv. 274996.

[32] V. supra.

[33] Cfr. p. 37 della sentenza che cita Cass. Pen., Sez. U., 23 marzo 2017, Rv. 270936.

[34] Si fa riferimento a Cass. Pen., Sez. U., 28 gennaio 2019, n. 14426, imp. Pavan.

[35] Cfr. C. BONZANO, Le Sezioni Unite Pavan e la morte di un dogma: il contraddittorio per la prova spazza via spazza via la neutralità della perizia, nota a sentenza in Dir. Pen. e proc., 2019, 822.

[36] Cfr. per una attenta ricostruzione P. TONINI e C. CONTI, Il diritto delle prove penali, Giuffrè, Milano 2014, 163; C. CONTI, Evoluzione della scienza e ruolo degli esperti nel processo penale, in AA. VV., Medicina e diritto penale, a cura di S. CANESTRARI- F. GIUNTA – R. GUERRINI - T. PADOVANI, ETS, Pisa 2009, 335 ss.;

[37] Così P. TONINI e C. CONTI, Il diritto delle prove penali, cit., 164

[38] Cfr. Ibidem; ma anche più specificamente P. TONINI, Prova scientifica e contraddittorio, in Dir. Pen. e proc., 2003, 1459 e C. BONZANO, Le Sezioni Unite Pavan e la morte di un dogma, cit., dove viene affermato che: «la ricerca di alimenta della costante dialettica tra le tesi contrapposte; la natura scientifica di una teoria sta e cade con la sottoponibilità della stessa al tentativo di smentita; i fatti non sono “positi”, tanto più che la selezione di dati dipende dal criterio accolto da chi è chiamato ad interpretarli; nessun esperto può dirsi neutrale, giacché è perfettamente fisiologico che egli prediliga una tesi e la sostenga».

[39] Sul punto v. Cass. Pen., Sez. U., 25 settembre 2014, n. 51824, Rv. 261187.

[40] Cass. Pen., Sez. U., 28 gennaio 2019, n. 14426, imp. Pavan., §5

[41] Ibidem. Qui si fa riferimento a due sentenze – Cass. Pen., Sez. IV, 17 settembre 2010, Cozzini e altri; Cass. Pen., Sez. IV, 29 gennaio 2013, Cantore – che rappresentano un punto di svolta nella problematica della valutazione della prova scientifica, affermando l’introduzione del principio di falsificazione della prova nel processo penale. Sul punto si v. R. BLAIOTTA - G. CARLIZZI, Libero convincimento, ragionevole dubbio e prova scientifica, in AA.VV., Prova scientifica e processo penale, a cura di G. CANZIO - L. LUPARIA, Giuffrè, Milano 2018, 367 ss.; G. CARLIZZI, La valutazione della prova scientifica, Giuffrè, Milano 2019; M. Serraino, Perizia e perito nel processo penale, in Leg. pen., 2017, 1 ss.

[42] Così, A. GIARDA – G. SPANGHER, Codice di proc. Pen. commentato, Wolters Kluwer, Milano 2017, vol. II, sub. art. 580, III, 1. E in particolare: A. DIDDI, La conversione del ricorso in appello, in A. SCALFATI, Novità su impugnazioni e regole di giudizio, Ipsoa, Milano 2006, 177; A. CENCI, La conversione dei mezzi di impugnazione, in A. GAITO (a cura di), Le impugnazioni penali, I, Utet, Torino 1998, 271.; S. SALIDU, Sub. Art. 580 c.p.p., in M. CHIAVARIO, Commento al nuovo codice di procedura penale, Utet, Torino 1989, Vi, 85. In dottrina si registra anche un’opinione difforme, che individua la ratio del meccanismo di conversione nel principio del favor impugnationis. Sul punto v. M. PISANI, Le impugnazioni, in PISANI et al., Manuale di procedura penale, Monduzzi, Bologna 2006, 533.

[43] F. M. IACOVIELLO, Conversione anche per i ricorsi del p.m., in Guida al dir., 2006, 10, 83.

[44] Così, A. A. MARANDOLA, Disposizioni generali, in G. SPANGHER, Le impugnazioni, vol. V, Trattato di proc. Pen., Utet, Torino 2009, 51.

[45] Cfr. p. 43 della sentenza, dove viene citata Cass. Pen., Sez. U, 18 giugno 1993, n. 7247, imp. Rabiti, Rv. 194314.

[46] Cfr. p. 44 della sentenza.

[47] Così, Cass. Pen., Sez. VI, 25 settembre 2002, n. 42810, imp. Ruberto, Rv. 223788.

[48] Ibidem, con nota di G. SPANGHER, I profili soggettivi dell’appello incidentale nella giurisprudenza delle Sezioni unite, in Cassazione Penale, 1994, 556; in senso conforme anche Cass. Pen., sez. VI, 25 settembre 2002, n. 42810, imp. Ruberto, Rv. 223788; più di recente, Cass. Pen., Sez. II, 21 giugno 2019, n. 34487, imp. Aletto, Rv. 276739.

[49] Così, Cass. Pen., Sez. III, 16 dicembre 2009, n. 2718, p.m. in c. Caccavale, Rv. 245902.

[50] Cfr. p. 7 della sentenza.

[51] Cfr. pp. 9-11 della sentenza.

[52] Cfr. p. 7 della sentenza.

[53] Cfr. p. 7 della sentenza.

[54] Cfr. pp. 14ss. della sentenza.

[55] Cfr. pp. 30-34 della sentenza, § 7

[56] Si citano, a tal proposito: Cass. pen., Sez. V, 19 ottobre 2021, n. 45421, Rv. 282285; Cass. pen., Sez. IV, 2 maggio 2017, n. 25560, Rv. 269976; Cass. pen., Sez. I, 18 giugno 2015, n. 36724, Rv. 264534; Cass. pen., Sez. V, 2 luglio 2014, n. 35709, Rv. 260315; Cass. pen., Sez. V, 2 luglio 2014, n. 35709, Rv. 260315; Cass. pen., Sez. V, 3 luglio 2012, n. 39389, Rv. 254320; Cass. pen., Sez. V, 23 maggio 2012, n. 29075, Rv. 254320; Cass. pen., Sez. V, 23 maggio 2012, n. 29075, Rv. 2533216; Cass. pen., Sez. IV, 4 ottobre 2006, n. 41943, Rv. 235537; Cass. pen., sez. IV, 4 ottobre 2006, n. 41493, Rv. 235537; Cass. pen., Sez. V, 22 marzo 2005, n. 17394, Rv. 231634

[57] Per illustrare il contenuto di tale teoria, può essere utile riproporre il felice esempio contenuto in G. MARINUCCI, E. DOLCINI, G.L. Gatta, Manuale di diritto penale, Parte generale, X edizione, GFL, Milano, 2022, pp. 270, ove si invita a penare ad «un nipote avido e desideroso di ereditare anzitempo, il quale acquisti un biglietto aereo e lo regali ad uno zio, tanto ricco quanto sopravveduto, inducendolo a fare un viaggio in aereo. L’aereo cade e lo zio muore. L’azione del nipote è stata condizione necessaria dell’evento morte: infatti, eliminando mentalmente la condotta con la quale il nipote ha indotto lo zio a volare sull’aereo poi precipitato, la morte dello zio per caduta dell’aereo non si sarebbe verificata. Secondo lo schema dell’imputazione oggettiva, è poi necessario che la condotta del nipote abbia creato il rischio della morte per caduta dell’aereo in violazione di una regola di diligenza: è il caso in cui la destinazione del volo fosse un Paese (magari la Siria o la Libia) interessato in quel momento da fatti bellici. Il rischio non sarebbe invece contrario a regole di prudenza, qualunque fosse l’intenzione malvagia del nipote, se la destinazione fosse stata un ameno Paese in pace (un’isola della Polinesia) e la compagnia aerea prescelta altamente affidabile. Nel primo caso – viaggio aereo ad Aleppo o a Tripoli – l’evento morte è infine realizzazione del rischio colposamente creato dall’agente, in quanto la regola di prudenza violata (non volare in zone di guerra) è finalizzata ad impedire eventi del tipo di quello verificatosi in concreto (morte per caduta dell’aereo abbattuto da un missile): in altri termini, sussiste il nesso tra la condotta e l’evento necessario per l’affermazione della responsabilità colposa nei reati di evento».

[58] Autorevole dottrina, peraltro, ritenendo che, facendo accorto governo dei principi che attengono alla causalità e alla colpevolezza, si possa affermare come la teoria condizionalistica non abbia bisogno di correttivi, esprime argomentate riserve rispetto a tale modello ricostruttivo anche con riferimento ai reati colposi, cfr. G. MARINUCCI, E. DOLCINI, G.L. Gatta, Manuale di diritto penale, Parte generale, cit., pp. 272ss.

[59] Cfr. pp. 36ss. della sentenza

[60] Come noto, si tratta di un principio ormai consolidatosi a seguito di Cass. Pen., Sez. Un., 10 luglio 2002, n. 30328, Rv. 222138-1 in cui si è affermato che «nel reato colposo omissivo improprio il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere vetrificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza d decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. (Fattispecie nella quale è stata ritenuta legittimamente affermata la responsabilità penale di un sanitario per omicidio colposo dipendente dall’omissione di una corretta diagnosi, dovuta a negligenza e imperizia, e del conseguente intervento che, se effettuato tempestivamente, avrebbe potuto salvare la vita del paziente)».

[61] Cfr., A. DE LIA, cit., pp. 14ss.

[62] Un precedente in tal senso è dato da Cass. pen., Sez V., 22 marzo 2005, n. 17394 in cui si è affermato che «nel caso di lesioni personali seguite da decesso della vittima dell’azione delittuosa, le eventuali omissioni dei sanitari nelle successive terapie mediche non elidono il nesso di causalità tra la condotta lesiva dell’agente e l’evento morte, con la conseguente configurabilità dell’omicidio preterintenzionale, non potendo esso costituire un fatto imprevedibile ed atipico rispetto alla serie causale precedente, della quale rappresentano uno sviluppo evolutivo, pur se non indefettibile».

[63] Per un’analitica disamina, cfr. A. DE LIA, cit., pp. 21ss.

[64] Cfr. F. ANTOLISEI, Il rapporto di causalità ne diritto penale, CEDAM, Padova, 1934, pp. 175ss.

[65] A titolo esemplificativo, può citarsi la recente Cass. Pen., Sez. V, 19 ottobre 2021, n. 45241, Rv. 282285-01 secondo cui «in tema di lesioni personali volontarie seguite dal decesso della vittima, l’eventuale negligenza o imperizia dei medici, ancorché di elevata gravità, non elide, di per sé, il nesso causale tra la condotta lesiva e l’evento morte, in quanto l’intervento dei sanitari costituisce, rispetto al soggetto leso, un fatto tipico e prevedibile, anche nei potenziali errori di cura, mentre ai fini dell’esclusione del nesso di causalità occorre un errore del tutto eccezionale, abnorme, da solo determinante dell’evento letale».

[66] Diversamente, si afferma, essa darebbe spazio ad un eccessivo soggettivismo da parte del giudicante, cfr. F. D’ALESSANDRO, sub art. 41, in Commentario Breve al Codice penale, G. FORTI, S. SEMINARA, G. ZUCCALÀ (a cura di), VI edizione, CEDAM-Wolters Kluwer, Padova, 2017

[67] Per una diversa ricostruzione contenuta in una recente sentenza di merito, più attenta alla valorizzazione del principio di colpevolezza, si può considerare M. NICOLINI, La Corte d’Assise di Sassari supera la prevedibilità in astratto e apre alla colpa in concreto nell’omicidio preterintenzionale, Scheda in commento a Corte d’Assise di Sassari, 14 febbraio 2022, n. 1, in SistemaPenale, 13 aprile 2022, https://www.sistemapenale.it/it/scheda/corte-assise-sassari-2022-omicidio-preterintenzionale-colpa-in-concreto. Per proposte de iure condendo, anche in prospettiva critica rispetto all’orientamento di merito sopra menzionato, si veda G. PIFFER, Proposta di riforma dei reati dolosi e preterintenzionali contro la vita e l’integrità fisica, in SistemaPenale, 18 luglio 2022, https://www.sistemapenale.it/it/articolo/proposta-di-riforma-reati-dolosi-e-preterintenzionali-contro-vita-e-integrita-fisica

[68] La citazione, tratta da p. 34 della sentenza, è espressione di una massima tralatizia, rispetto alla quale cfr. Cass. pen. Sez. V, 21 settembre 2016, n. 44986, Rv. 268299; Cass. pen., Sez. V, 18 ottobre 2012, n. 791, Rv. 254386; Cass. pen., Sez. V, 27 giugno 2012, n. 35582, Rv. 253536; Cass. pen., Sez. V, 17 maggio 2012, n. 40389, Rv. 253357; Cass. pen., Sez. V, 8 marzo 2006, n. 13673, Rv. 234552; Cass. pen., Sez. V, 13 febbraio 2002, n. 13114, Rv. 222054

[69] Cfr. infra, par. 3.2.4.2

[70] Sul punto, cfr., Cass. pen., Sez. V, 15 ottobre 2019, n. 4715, secondo cui «in tema di concorso di persone nel reato di omicidio preterintenzionale, quando le aggressioni siano multiple e contestuali, nel tempo e nello spazio, configurandosi in concreto come un “fatto collettivo unitario”, il contributo rilevante ai sensi dell’art. 110 c.p. può consistere sia nell’agevolazione dell’aggressione contro la vittima, in ragione della superiorità numerica e della concomitante condotta dei concorrenti di neutralizzazione delle difese altrui (concorso materiale), che nel rafforzamento del proposito criminoso dell’esecutore, che si senta spalleggiato ed incoraggiato dalla concomitante azione degli altri (concorso morale); in tale situazione, il dolo dei singoli concorrenti ha ad oggetto, nella dimensione monosoggettiva, le sole percosse o lesioni, e non già la prevedibilità dell’evento letale, che nel delitto preterintenzionale non è voluto da alcuno, e, nella dimensione plurisoggettiva, la volontà di concorrere nel reato altrui, che può manifestarsi anche come intesa istantanea, o conoscenza, anche unilaterale, del contributo recato alla condotta altrui, o, infine, semplice adesione all’opera di un altro che ne rimanga estraneo».

[71] Cfr. A. DE LIA, cit., 7 anche per opportuni richiami giurisprudenziali di tipo comparatistico.

[72] Cfr. p. 36 della sentenza, in cui si richiama il principio affermato da Cass. pen., Sez. Un., 22 novembre 2000, n. 31, Rv. 218525

[73] Sul punto, viene richiamato il precedente di Cass. pen., Sez. V, 30 ottobre 2013, n. 12413, Rv. 262539

[74] Cfr. A. DE LIA, cit., pp. 6 e 7 in cui si dà conto dell’ampio dibattito dottrinale sorto con riferimento alla fattispecie storica. In particolare, si evidenzia un contrasto fra l’opinione di Carrara (Programma del corso di diritto criminale, Firenze, 1925, vol. III, sub. 1101 ss., 112 ss. secondo cui «una terza figura di omicidio, che è tutta di creazione dell’equità pratica, cioè l’omicidio preterintenzionale […] appartiene alla famiglia degli omicidii dolosi, perché esordisce dallo animo diretto a ledere la persona; ma nel rapporto della sua gravità occupa uno stato di mezzo tra i dolosi e i colposi… esso rappresenta il grado massimo della colpa informata da dolo… è necessario costruirne la nozione sul fatto che l’agente non prevedesse attualmente la conseguenza letale, sebbene potesse prevederla» e quella di Impallomeni (L’omicidio del diritto penale, Torino, 1899, 38ss.) e Manzini (Trattato di diritto penale italiano, vol. VII, Torino, 1926, 56ss.) secondo cui nell’economia della fattispecie il dolo di lesioni avrebbe un effetto trainante da cui deriverebbe, conformemente a quanto ritenuto dalla giurisprudenza maggioritaria, l’indifferenza della prevedibilità dell’evento morte.

[75] Art. 368

«Chiunque, con atti diretti a commettere una lesione personale, cagiona la morte di alcuno è punito con la reclusione da dodici a diciotto anni, nel caso dell’articolo 364 [omicidio con dolo specifico di uccidere]; da quindici a venti anni, nei casi dell’articolo 365 [omicidio aggravato]; e non minore di venti anni, nei casi dell’articolo 366 (altre fattispecie aggravate di omicidio]».

«Se la morte non sarebbe avvenuta senza il concorso di condizioni preesistenti ignote al colpevole, o di cause sopravvenute e indipendenti dal suo fatto, la pena è della reclusione da otto a quattordici anni, nel caso dell’articolo 364; da undici a sedici anni nei casi dell’articolo 365; e da quindici a venti anni nei casi dell’articolo 366».

[76] Art. 45

«Nessuno può essere punito per un delitto, se non abbia voluto l fatto che lo costituisce, tranne che la legge lo ponga altrimenti a suo carico, come conseguenza della sua azione od omissione».

«Nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione, ancorché non si dimostri ch’egli abbia voluto commettere un fatto contrario alla legge».

[77] Tale tecnica interpretativa, largamente utilizzata in anni recenti dalla Corte suprema degli Stati Uniti d’America, si è sviluppata nell’ambito del diritto costituzionale statunitense e può riassumersi nelle parole di uno dei suoi più autorevoli interpreti, il giudice Antonin SCALIA, il quale spiega (in A Theory of Constitution Interpretation, Remarks at the Catholic University of America, Washington D.C., 18 ottobre 1996, in https://web.archive.org/web/19970108070805/http://www.courttv.com/library/rights/scalia.html) che «la teoria dell’originalismo considera la costituzione come un testo legislativo, ed attribuisce alle parole in essa contenute il significato che esse avevano al tempo della loro adozione».

[78] Tale scetticismo verso la valorizzazione in chiave ermeneutica del criterio originalista fondato sull’intenzione del Legislatore storico può verosimilmente ricondursi al debito culturale della tradizione giuridica nazionale verso l’elaborazione di Vezio Crisafulli, tra i padri del diritto costituzionale italiano, al quale si deve l’elaborazione di una teoria della norma giuridica tutta declinata in senso oggettivistico tale da considerare il precetto come datità testuale che prescinde dall’intenzione del Legislatore e vive oggettivamente nell’ordinamento: sul punto, cfr. V. CRISAFULLI, voce Disposizione e norma, in Enciclopedia del diritto, vol. XII, Giuffrè, Milano, 1964

[79] A. DE LIA, nella Nota alla medesima sentenza qui esaminata, cit., p. 8 suffraga tale equiparazione attingendo ad un argomento storico in base al quale si evidenzia come nella Relazione al progetto definitivo il Guardasigilli abbia descritto l’addebito dell’evento più grave come fondato sulla responsabilità oggettiva secondo la nota logica del versari in re illicita. Si richiama, infatti, una citazione tratta da Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale. Progetto definitivo, Parte I, vol. V, Roma, 1929, p. 88 in cui si legge che «v’è in esso – e cioè nel dolo – una parte dell’evento, che non è voluta dall’agente ma gli è messa a carico come conseguenza della sua azione od omissione».

[80] Tale differenziazione emerge da G. ZUCCALÀ, Il delitto preterintenzionale, G. Priulla Editore, Palermo, 1952, p. 1, nella parte in cui l’Autore dà atto che «il codice Rocco, con notevole rigore sistematico, ha raggruppato nel medesimo articolo, che si occupa dell’elemento psicologico del reato, tutte le diverse forme che può assumere la responsabilità penale e, a differenza del codice Zanardelli e di altri precedenti, ha espressamente definito la preterintenzione».

[81] La nozione di evento è qui intesa in senso giuridico e non naturalistico come offesa agli interessi tutelati conformemente alla lezione di M. GALLO, da ultimo espressa in Diritto penale italiano. Appunti di parte generale, vol. I, III edizione, Gappichelli, Torino, 2020, p. 478

[82] Su tutte, le ben note Corte cost. 364/1988 e 1085/1988 nonché nella giurisprudenza di legittimità, Cass. Pen., Sez. Un., 22 gennaio 2009, n. 22676, in Rv. 243381-01

[83] Cfr. Cass. pen., Sez. V, 17 maggio 2012, n. 40389, in Rv. 253357-01; Cass. pen., Sez. V, 27 giugno 2012, n. 35582, in Rv. 253536-01; Cass. pen., Sez. V, 18 ottobre 2012, n. 791, in Rv. 254386-01

[84] Cfr., F. BASILE, L’alternativa tra responsabilità oggettiva e colpa in attività illecita per l’imputazione della conseguenza ulteriore non voluta alla luce della Sentenza Ronci delle Sezioni Unite sull’art. 586, in Studi in onore del prof. Mario Romano, vol. II, Jovene, Napoli, 2011, pp. 699-764

[85] Negli stessi termini, G. ZUCCALÀ, cit., p. 6

[86] Cfr., tra gli altri, E. MASSARI, Le dottrine generali del diritto penale, Jovene, Napoli, 1930, p. 116

[87] Tale è l’interpretazione oggi maggioritaria in dottrina, riconducibile all’elaborazione di P. A. FEUERBACH, Lehrbuch des gemeinen in Deutschland gültigen Peinlichen Rechts, Giessen, 1847, p. 116

[88] Cfr., come principale assertore di quest’interpretazione, anche per l’autorevolezza del personaggio, G. LEONE, Appunti polemici in tema di «aberratio ictus» con pluralità di eventi, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, Giuffrè, Milano, 1941, p. 216

[89] Cfr. G. MARINUCCI, La colpa per inosservanza di leggi, Milano, Giuffrè, 1965

[90] Cfr. A. DE MARSICO, Colpa per inosservanza di leggi e reato aberrante, in «Annali di diritto e procedura penale», Utet, Torino, 1940, pp. 237ss.

[91] La questione è quella più generale della culpa in re illicita, su cui F. BASILE, La colpa in attività illecita: un’indagine sul superamento della responsabilità oggettiva, Milano, Giuffrè, 2005 e rispetto alla cui plausibilità la giurisprudenza a partire dalla ben note Cass. Pen., Sez. Un., 22 gennaio 2009, n. 22676, in Rv. 243381-01, in un caso avente ad oggetto un’imputazione ex art. 586 c.p., si è consolidata in senso affermativo.

[92] Essa è fatta propria da G. ZUCCALÀ, cit., p. 42

[93] Cfr. A. DE MARSICO, Diritto penale. Parte generale, Jovene, Napoli, ed. 1969

[94] Cfr., G. ZUCCALÀ, cit., p. 40.

[95] Cfr. M. CATERINI, Il reato eccessivo, La preterintenzione dal versari in re illicita al dolo eventuale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2008

[96] Lo stesso Guardasigilli, nel rispondere alle obiezioni di chi riteneva imprescindibile mantenere il dolo eventuale o indiretto dentro l’elemento soggettivo doloso, si domandava retoricamente: «Ma che cosa sno queste distinzioni del dolo? Esse sono finite tutte nel nulla: o l’evento dannoso è voluto, e c’è dolo; o non è voluto, e non c’è dolo», in Lavori preparatori, cit.

[97] Cfr. la richiamata Cass. pen., Sez. I, 24 febbraio 2015, n. 23311, Rv. 263604

[98] Cfr. la richiamata sentenza Cass. pen., Sez. III, 30 gennaio 2018, n. 41093, Rv. 274070

[99] Cfr. Cass. Pen., Sez. V, 21 maggio 2014, n. 32951, Rv. 261651-01 secondo cui «integra il reato di falso ideologico in atto pubblico la Condotta del pubblico ufficiale che, formando una relazione di servizio, espone una parziale rappresentazione di quanto accaduto, tacendo dati la cui omissione, non ultronea nell’economia dell’atto, produce il risultato di una documentazione incompleta e comunque contraria, anche se parzialmente, al vero».

[100] Cfr. Cass. pen., Sez. V, 19 dicembre 2019, n. 2496, Rv. 278134-01 in cui si afferma che «in tema di falso ideologico […] per la configurazione del delitto è necessaria la coscienza e volontà di agire contro il dovere giuridico di dichiarare il vero, non essendo, invece, sufficiente la mera colposa omissione», nonché Cass. pen., Sez. III, 14 maggio 2015, n. 30862, Rv. 264328-01 secondo la quale «in tema di falsità documentali, ai fini dell’integrazione del delitto di falsità, materiale o ideologica in atto pubblico, l’elemento soggettivo richiesto è il dolo generico, il quale, tuttavia, non può essere considerato in “re ipsa”, in quanto deve essere rigorosamente provato, dovendosi escludere il reato quando risulti che il fatto deriva da una semplice leggerezza ovvero da una negligenza dell’agente poiché il sistema vigente non incrimina il falso documentale colposo».

[101] Cfr. Cass. pen., Sez. V, 8 novembre 2018, n. 12547, Rv. 27605-02 secondo cui «ai fini della configurabilità del reato di falsità ideologica in atto pubblico è sufficiente il dolo generico, da ritenersi sussistente in presenza della falsa attestazione, contenuta nell’atto, di un accertamento in realtà mai compiuto», nonché Cass. pen., Sez. V, 21 maggio 2013, n. 35548, Rv. 257040-01 per la quale «in tema di falsità ideologica in atto pubblico, ai fini dell’integrazione dell’elemento soggettivo, è sufficiente il dolo generico – e cioè la volontarietà e la consapevolezza della falsa attestazione – che sussiste in presenza adi complessive ed immediatamente percepibili risultanze contabili di cui non venga data contezza dell’agente nelle attestazioni di cui sia investito».

[102] Cfr. P. ASTORINA MARINO, sub art. 479, in Commentario breve al Codice penale, G. FORTI, S. SEMINARA, G. ZUCCALÀ (a cura di), VI edizione, Milano, CEDAM-Woltes Kluwer.