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Pubbl. Lun, 27 Feb 2023

Il delitto tentato

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Sarah Otera
AvvocatoUniversità degli Studi di Trento



Il saggio intende analizzare i presupposti e le principali applicazioni di una delle norme generali più affascinanti contenute nel codice penale italiano. L´analisi muoverà sia dal punto di vista dottrinale che giurisprudenziale.


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The attempted crime

The article aims to analize the characteristics and the main applications of one of the most fascinating norms of the italian criminal code. The analysis will move both from a doctrinal and jurisprudential point of view.

Il delitto tentato

Sommario: 1. Considerazioni introduttive; 2. L’autonomia dell’art. 56 c.p. 3. Desistenza volontaria e recesso attivo; 4. Delitto tentato e circostanze; 5. Delitto tentato ed elemento soggettivo; 6. Furto tentato al supermercato; 7. La figura del reato impossibile; 8. Conclusioni.

1. Considerazioni introduttive

Il presente saggio, senza alcuna presunzione di completezza, intende analizzare una delle norme di carattere generale nella collocazione sistematica del codice Rocco in assoluto più affascinanti e complesse: il delitto tentato. Si tratta, infatti, dell’articolo 56[1] del codice penale con cui il legislatore elabora una disciplina caratterizzata dal minor disvalore sociale che il tentativo esprime rispetto alla consumazione. Infatti, esso si pone in un range che si colloca dall’inizio dell’attività punibile al momento precedente alla consumazione. In questo lasso temporale devono svilupparsi l’idoneità degli atti e la non equivocità della condotta tentata. La prima descrive un’azione o un’omissione che vada a definire l’adeguatezza dei rispettivi atti per la realizzazione del delitto o anche il complesso del comportamento che ha la capacità di raggiungere un obiettivo, mentre la non equivocità della condotta si rivolge al momento della realizzazione[2], che deve fermarsi su un piano che precede l’eventuale consumazione. Il concetto di atto non equivoco richiede un metodo di accertamento che, dapprima, valuta un certo grado di idoneità  e, solo in secondo luogo, la non equivocità. Fondamentale, inoltre, nel prosieguo dell’analisi sarà rivolgere l’attenzione al rapporto tra l’art. 56 c.p. e le circostanze del reato, o al rapporto tra il delitto tentato e il concorso di persone nel reato, di cui all’art. 110 c.p., altra norma di carattere generale che si associa a norma di parte speciale. E questa combinazione, ci si permette di affermare, dà vita a innumerevoli fattispecie del tutto autonome. Ci si rivolgerà, poi, al rapporto tra l’art. 56 c.p. e le circostanze del reato, qualificando la, talvolta, ingannevole differenza tra delitto tentato circostanziato e delitto circostanziato tentato. Da ultimo, ma non per importanza, si affronterà il tema dell’elemento psicologico negato nel delitto tentato, compatibile solo con il dolo e non con la colpa né con la preterintenzione, cui si aggiunge l’ulteriore incompatibilità con il reato contravvenzionale. La configurabilità del delitto tentato è esclusa in tutta una serie di delitti, vedi delitti di attentato, di strage, di bancarotta fraudolenta, i cui requisiti strutturali sono idonei a richiedere la consumazione. Controversa l’ammissibilità del tentativo nei reati abituali, che parte della dottrina esclude in quanto singole condotte prive di rilevanza penale autonoma. Di nuovo controversa l’ammissibilità del delitto tentato nei reati di pericolo. L’autonomia del delitto tentato opera, dunque, come norma espansiva della punibilità che si innesta, di conseguenza, sulla norma di parte speciale, operando come titolo autonomo di reato. Prima di trarre delle pur parziali conclusioni riguardo una delle più affascinanti norme di carattere generale dell’ordinamento penalistico italiano, che parte della dottrina straniera nominerebbe the attempted crime, si prospetterà un caso pratico nella figura di creazione giurisprudenziale nel furto al supermercato, in cui le Sezioni Unite della Corte di legittimità hanno affermato una soluzione epocale.

2. L’autonomia dell’art. 56 c.p.

Seguendo una prima interessante tematica, le teorie più accreditate in tema di ricostruzione della punibilità del delitto tentato sono le teorie soggettive e le teorie oggettive: le prime fanno rinvenire il fondamento della punibilità nel fatto che il tentativo è espressione della volontà (ribelle) criminosa del soggetto agente. Le seconde, ovvero le teorie oggettive, in ossequio al principio di offensività rinvengono detto fondamento nell’esposizione a pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma di parte speciale. Le teorie miste o eclettiche, che si aggiungono a queste ultime, muovono dalla circostanza di fare salve entrambe le suddette teorie, definendo il tentativo come espressione di una volontà criminosa, che turba la fiducia della collettività nei confronti dell’ordinamento. Il dettato dell’art. 56 c.p. viene, così, sintetizzato dalla formula latina “cogitare, agere sed non perficere”. Tornando ancora una volta sul concetto di idoneità degli atti può essere fondamentale riferire l’espressione del codice Zanardelli, in cui si riferiva il requisito dell’idoneità del mezzo, inteso come mezzo impiegato, e l’atto è l’impiego che si fa del mezzo. Nella successiva evoluzione portata avanti nel codice Rocco l’idoneità ha assunto la figura di potenziale lesivo della condotta tenuta in concreto e valutata ex ante, secondo il criterio della prognosi postuma, non ex post. Al proposto, giova riportare i due diversi orientamenti giurisprudenziali che seguono: il primo dei quali riferisce “in tema di delitto tentato, il giudizio di idoneità degli atti consiste in una prognosi compiuta ex post con riferimento alla situazione che si presentava all’imputato al momento dell’azione, in base alle condizioni meramente prevedibili nel caso particolare, che non può essere condizionata dagli effetti realmente raggiunti”[3]. Secondo, invece, un secondo orientamento: “L’idoneità degli atti, richiesta per la configurabilità del delitto tentato, deve essere valutata con giudizio ex ante, tenendo conto delle circostanze in cui opera l’agente e delle modalità dell’azione, in modo da determinarne la reale adeguatezza causale e l’attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto[4]”. L’univocità degli atti, di contro, è un requisito di tipicità del tentativo che delinea la direzione finalistica della condotta, da desumersi quale caratteristica degli atti posti in essere. Contra, la concezione soggettiva vede in tale requisito un criterio probatorio dal quale discende l’esigenza di provare l’intenzione di porre in essere il delitto o il proposito criminoso. Al riguardo, “in tema di tentativo, per affermare l’univocità degli atti, ancorché la prova del dolo sia stata desunta aliunde, è necessario effettuare una seconda verifica per accertare se gli atti posti in essere, valutati nella loro oggettività per il contesto nel quale si inseriscono, per la loro natura e la loro essenza, siano in grado di rivelare, secondo le norme di esperienza e secondo l’id quod plerumque accidit, il fine perseguito dall’agente[5]. Ulteriore aspetto è la rilevanza degli atti preparatori ritenuti irrilevanti da parte della dottrina ai fini della configurabilità del tentativo, secondo la ratio dell’art. 115 c.p. che sancisce la non punibilità dell’istigazione non accolta e dell’accordo cui non segue la realizzazione del fatto criminoso. Il legislatore del’30, infatti, avrebbe eliminato la distinzione tra atti preparatori e atti esecutivi propri del codice Zanardelli. Di contro, altra dottrina, minoritaria, afferma la rilevanza degli atti preparatori ai fini della configurabilità del tentativo, secondo la ratio per cui se il legislatore del ’30 avesse voluto sancire l’irrilevanza non avrebbe eliminato la distinzione tra atti preparatori e atti esecutivi propria del codice Zanardelli e in ossequio alla quale gli atti preparatori erano espressamente ritenuti non punibili. La giurisprudenza al riguardo, discostandosi dalla posizione dottrinale, ha definito la possibilità per gli atti preparatori di integrare gli estremi del tentativo punibile[6], o, al contrario, la non punibilità dell’atto preparatorio in quanto non idoneo in modo non equivoco alla consumazione di un determinato reato[7]. In un delitto tentato il bene giuridico tutelato non è ancora stato offeso, secondo la tecnica dei reati di pericolo dove il legislatore anticipa l’offesa posta in essere, la messa in pericolo del bene sufficiente a far scattare la tutela. Le teorie elaborate per rappresentare il delitto tentato sono state varie ma si procederà ad elencare le più accreditate di seguito. Una prima teoria, la stessa che coinvolge il nesso di causalità, è la teoria condizionalistica della condicio sine qua non. Una seconda teoria è quella della causalità adeguatrice, tesi molto valida nei reati a consumazione ma di dubbia applicazione nel caso del tentativo. Infine, la teoria della prognosi postuma che postula un’analisi fatta solo dopo che l’azione si è verificata. Da un punto di vista giurisprudenziale le due più avvalorate teorie sono state la teoria della probabilità e della possibilità. Esse assumono un’importanza fondamentale ai fini della determinazione della pena massima per il delitto tentato – per il quale l’art. 56 co.2 c.p., stabilisce soltanto la sanzione minima di dodici anni di reclusione qualora per il reato consumato sia prevista la pena dell’ergastolo – si ha riguardo al principio generale, per cui in ogni caso di determinazione della sola pena minima, la pena massima irrogabile è quella stabilita dall’art. 23 c.p., e cioè nel caso di reclusione, quella di ventiquattro anni[8]. Il tentativo si connota, dunque, per l’estrinsecazione di varie fasi, di massima individuabili in: ideazione, che si svolge all’interno della psiche del reo e culmina nella risoluzione criminosa, che come tale non è punibile (cogitationis poenam nemo patitur), cui seguono l’attività preparatoria, l’attività esecutiva e la consumazione, che si ha quando sono al completo tutti gli elementi che costituiscono il reato e, in particolare, quando si verifica l’ultimo requisito necessario per la sua esistenza. Il momento consumativo in alcune specie di reati si verifica con il compimento di una determinata condotta, attiva od omissiva, in altri con il verificarsi di un determinato evento. Peculiare è il momento consumativo nei reati permanenti, che inizia allorquando sono presenti tutti gli elementi del reato e termina con il cessare dello stato dannoso o pericoloso determinato dalla condotta del soggetto agente. Dal reato consumato si distingue il delitto tentato, ed è ormai pacifico che, pur derivando dalla commistione dell’art. 56 c.p. e delle singole fattispecie incriminatrici e pur conservando il nome della corrispondente figura delittuosa consumata, il delitto tentato costituisce un a fattispecie autonoma di reato, o meglio di delitto. Dalla lettera dell’art. 56 c.p. si possono estrapolare due elementi costitutivi della condotta del tentativo: elemento negativo del mancato compimento dell’azione o mancato verificarsi dell’evento; l’elemento, poi, della univoca direzione degli atti; tale requisito è stato oggetto di una duplice interpretazione. La non pacifica interpretazione del dato dell’univocità ha portato conseguentemente ad un contrasto in merito alla sussumibilità o meno sotto tale formula degli atti meramente preparatori. Questi ultimi rilevano al pari degli atti esecutivi per la configurabilità del tentativo.

3. Desistenza volontaria e recesso attivo

Le due ipotesi descritte dall’art. 56 co. 3 e 4 c.p. si riferiscono nel primo caso, ad una situazione non punibile, quando s’interrompe l’attività esecutiva, nel secondo ad una circostanza attenuante, la cui volontarietà non implica resipiscenza o spontaneità, per cui è richiesto che l’agente abbia la possibilità di scegliere liberamente tra portare avanti o meno il proprio proposito, senza che intervengano cause impeditive esterne. Nello specifico, la desistenza volontaria ricorre quando il soggetto agente inizia l’azione, ma la interrompe volontariamente, prima che sia giunta a compimento. E’ un’ipotesi di tentativo non punibile; al riguardo l’art. 56 co. 3 c.p. stabilisce che se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso[9]. Il recesso attivo, invece, o pentimento operoso, ricorre quando il soggetto compie l’azione, ma impedisce volontariamente il verificarsi dell’evento. Trattasi di una circostanza attenuante del delitto tentato, come tale soggetta a giudizio di bilanciamento. Di recente, sul discrimen tra desistenza e recesso si è espressa la giurisprudenza[10] dicendo che “in tema di reati di danno a forma libera, come la rapina, la desistenza volontaria, che presuppone un tentativo incompiuto, non è configurabile una volta che siano posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo causale di produrre l’evento, rispetto ai quali può operare, se il soggetto agente tiene una condotta attiva che valga a scongiurare l’evento, la diminuente per il cosiddetto recesso attivo[11]”. Per la sussistenza della desistenza volontaria di cui all’art. 56 c. 3 c.p. occorre che la condotta dell’agente, per volontaria iniziativa dello stesso si sia arrestata prima del completamento dell’azione esecutiva ed abbia impedito l’evento, situazione che non è più configurabile nei reati di danno a forma libera, ad esempio, dal momento che il tentativo si perfeziona con l’attivazione del meccanismo causale capace di produrre l’evento, salvo l’intervento di fattori esterni. La desistenza volontaria dell’azione prevista dall’art. 56 co. 3 c.p., presuppone la costanza della possibilità di consumazione del delitto. Ne consegue che, qualora tale possibilità non vi sia più, o per la non realizzabilità della consumazione stessa oppure, sul piano soggettivo, anche soltanto per una non realizzabilità erroneamente ritenuta dal soggetto agente, ricorre, sussistendone i requisiti, l’ipotesi del delitto tentato[12]. Dunque, la desistenza deve essere intesa come un’esimente di carattere speciale e trova fondamento nella considerazione utilitaristica di politica criminale, secondo cui è opportuno mandare impunito il colpevole di un reato tentato per incentivare l’abbandono di iniziative criminose, ovvero, nell’ambito della prevenzione speciale, sulla considerazione che l’agente, il quale volontariamente desiste, dimostra di possedere una ridotta volontà criminale. L’azione, di conseguenza, non subisce l’incidenza di fattori esterni, in quanto la determinazione del soggetto agente deve essere stata libera e non coartata, la cui volontarietà non deve essere intesa come spontaneità, bensì come ridotta capacità criminosa. Di contro, la diminuente del c.d. recesso attivo postula che l’agente si riattivi, interrompendo il processo di causazione dell’evento, così da impedirne il verificarsi, mentre la circostanza attenuante del ravvedimento attivo presuppone che l’evento si sia già realizzato e che l’agente si adoperi spontaneamente ed efficacemente per attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato[13]. Dalla desistenza volontaria discende la non punibilità, salvo che gli atti compiuti integrino gli elementi di una diversa fattispecie di reato, dal momento che sotto il profilo oggettivo, la desistenza dall’azione deve consistere in un volontario arresto della condotta prima che questa abbia esaurito il suo iter esecutivo. Infine, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, la desistenza deve essere considerata volontaria anche quando non è spontanea, purché essa discenda da una scelta non imposta da cause esterne. Ciò è stato anche di recente ribadito dalla Corte di Cassazione, secondo la quale “In tema di desistenza dal delitto, la mancata consumazione del delitto deve dipendere dalla volontarietà che non deve essere intesa come spontaneità, per cui la scelta di non proseguire nell’azione criminosa deve essere non necessitata, ma operata in una situazione di libertà interiore, indipendente da circostanze esterne che rendono irrealizzabile o troppo rischioso il proseguimento dell’azione criminosa[14]”. Molto dibattuta, sia in dottrina che in giurisprudenza, è la natura giuridica della desistenza volontaria. Sebbene in dottrina si discuta sulla sua inquadrabilità nella categoria delle cause estintive del reato e in quelle di causa sopravvenuta di esclusione della punibilità o di causa risolutiva con efficacia ex tunc, la giurisprudenza è, invece, consolidata nel considerarla esimente che esclude, ab estrinseco ed ex post. Al comma 4, l’art. 56 c.p. disciplina la diversa ipotesi del recesso attivo, che da un punto di vista giuridico assume i connotati di una circostanza attenuante di carattere soggettivo. Ne discende che l’elemento distintivo tra la desistenza e il recesso deve ravvisarsi nell’esaurimento o meno dell’azione esecutiva. In particolare, utilizzando le già viste categorie di tentativo compiuto ed incompiuto, si può affermare che:

  • la desistenza volontaria presuppone che il soggetto  agente abbia interrotto l’iter criminis nella fase del tentativo incompiuto (ossia prima di portare a termine la condotta).
  • Il recesso attivo, invece, presuppone che il soggetto agente, una volta terminata la condotta, si attivi volontariamente per impedire il prodursi dell’evento. In tal senso, si è espressa anche il prevalente orientamento giurisprudenziale, secondo cui “Nei reati a forma libera la desistenza può aver luogo solo nella fase del tentativo incompiuto, non essendo configurabile una volta che siano posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo causale capace di produrre l’evento, rispetto ai quali può, di più, operare la diminuente per il c.d. recesso attivo, qualora il soggetto tenga una condotta attiva che valga a scongiurare l’evento (…) La differenza tra desistenza volontaria e recesso attivo andrebbe quindi colta nel fatto che la prima è in abbandono dell’azione, quando ancora l’agente ne domina in modo diretto e immediato il divenire, mentre il secondo è caratterizzato da un intervento postumo, quando tale dominio è ormai cessato[15]”. 

4. Delitto tentato e circostanze

Le circostanze del reato[16], dalla formula latina circum stant, per la dottrina maggioritaria sono elementi esterni ed ulteriori rispetto al fatto di reato. Per una dottrina minoritaria, è doveroso ricordare, sono, tuttavia, qualificate come elementi costitutivi del reato. Esse sono disciplinate dall’art. 59 e ss. c.p. e possono essere qualificate come oggettive e soggettive, comuni o speciali, attenuanti o aggravanti, in concorso omogeneo o eterogeneo tra loro. Le circostanze soggettive si riferiscono “all’intensità del dolo e al grado della colpa, o alle condizioni e alle qualità personali del colpevole, o ai rapporti tra colpevole e offeso[17]”, mentre quelle oggettive rimandano alla natura, ai mezzi, all’oggetto, al tempo, al luogo o ad ogni altra modalità dell’azione. Inoltre, quelle comuni possono essere applicate alla condotta di chiunque, mentre quelle speciali solo a determinati soggetti. Le circostanze, siano esse soggettive o oggettive, comuni o speciali, aggravanti o attenuanti, nella relazione “complicata” con il delitto tentato vivono due nuove ipotesi di fattispecie autonoma: la nascita di un delitto tentato circostanziato[18], in cui la circostanza si realizza completamente e viene applicata all’art. 56 c.p., e, di contro, il delitto circostanziato tentato in cui la circostanza interviene ancor prima della realizzazione del delitto di cui all’art. 56 c.p. Come si sosteneva inizialmente, quest’ultima è assai controversa perché per lungo tempo non è stata ritenuta configurabile. Di recente, però, la giurisprudenza di legittimità ne ha affermato l’ammissibilità. Ne consegue che la disciplina del delitto tentato coinvolge tutti gli aspetti della tipicità compresi quelli inerenti alle circostanze e quest’estensione comporta un problema di semplice compatibilità logico-giuridica, che va verificata in concreto tenuto conto della tipologia dell’aggravante o dell’attenuante contestata.

5. Delitto tentato ed elemento soggettivo

Affermare l’esistenza del reato tentato costituirebbe un errore cosmico e imperdonabile per un giurista, dal momento che il tentativo è configurabile solo con i delitti e mai con le contravvenzioni. Peraltro, è compatibile solo con il dolo e mai con la colpa o la preterintenzione. Il dolo che entra in gioco nel tentativo è quello del corrispondente delitto consumato, che difetta nel delitto colposo perché difetta l’elemento volitivo, del tutto assente come richiesto dalla previsione dell’art. 42 c.3 c.p. Le questioni che emergono circa l’elemento soggettivo applicabile al tentativo trovano un’ulteriore interrogativo nella possibilità dell’applicazione del delitto tentato al dolo eventuale, figura di dolo con elemento volitivo depotenziato e assai debole. Al quesito, gli orientamenti più recenti forniscono una risposta negativa al quesito, in virtù del quale “in tema di elemento psicologico del reato, il dolo alternativo sussiste se l’agente si rappresenta e vuole indifferentemente l’uno e l’altro degli eventi causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria, sicché già al momento della realizzazione dell’elemento oggettivo del reato egli deve prevederli entrambi. Si ha, invece, dolo eventuale quando l’agente, ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi si rappresenti la concreta possibilità del verificarsi di una diversa conseguenza della propria condotta, e, ciononostante, agisca accettando il rischio di cagionarla. Ne consegue che il dolo eventuale non è configurabile nel caso di delitto tentato, in quanto è ontologicamente incompatibile con la direzione univoca degli atti compiuti nel tentativo, che presuppone il dolo diretto”. Problematica la configurabilità con la figura più debole di dolo: il dolo eventuale. Quest’ultimo è assai depotenziato, infatti, con un elemento volitivo che, seppur presente, si mostra molto fragile. Il dolo eventuale, per i motivi suddetti, non è compatibile con il tentativo[19]. La norma di cui all’art. 56 c.p. impone di ricostruire, sulla base della prove disponibili, la direzione teleologica della volontà dell’agente, quale emerge dalle modalità di estrinsecazione della condotta dello stesso, allo scopo di accertare quale sia stato il risultato del medesimo avuto di mira e rendere in tal modo possibile l’individuazione dello specifico bene giuridico aggredito e concretamente posto in pericolo[20]. Ne risulta che una delle questioni che si deve risolvere è se il dolo del tentativo sia identico o meno a quello della consumazione. Solo se si accoglie la tesi dell’identità strutturale, il tentativo è realizzabile con tutte le forme di dolo configurabili nell’ambito della consumazione, compreso il dolo eventuale[21].

6. Furto tentato al supermercato

La previsione della traccia in esame descrive la condotta di un soggetto, che chiameremo Tizio, il quale all’interno di un centro commerciale rilevava dai banchi a disposizione del supermercato due confezioni di caffè, un pacco di biscotti, e due flaconi di profumo. Tizio aveva, di seguito, occultato la refurtiva celandola dentro la borsa e sotto gli indumenti. Aveva, quindi, superato la cassa senza pagare la merce nascosta ma esibendo altro prodotto (regolarmente pagato). All’esterno del fabbricato, l’addetto alla sicurezza, il quale si era avveduto in precedenza dell’azione furtiva, a tal fine intervenuto, promuovendo l’intervento della polizia giudiziaria nell’immediatezza bloccava Tizio. Posto che sotto il profilo psicologico è necessario il dolo specifico, trattandosi della fattispecie di furto di cui all’art. 624 c.p., nel caso di specie Tizio è stato fermato subito dopo il superamento della barriera delle casse in quanto costantemente vigilato dall’addetto alla sicurezza, che gli ha impedito di impossessarsi dei prodotti sottratti, con conseguente mancata realizzazione degli elementi integranti la consumazione. Il superamento delle casse a lungo è stato considerato il discrimen tra furto consumato e furto tentato. Al proposito, si registrano due orientamenti: il primo qualifica il superamento della barriera delle casse di un supermercato come elemento costitutivo della consumazione[22]. Ulteriore aspetto è quello della sorveglianza e del controllo esercitato dall’addetto alla sicurezza. Di conseguenza, per dirsi consumato il furto il bene deve trovarsi nella concreta disponibilità del soggetto agente. Successivamente, le Sezioni Unite, nella sentenza 52117 del 2014, si è qualificato come furto tentato la condotta che aderisce all’orientamento maggiormente rispettoso del connotato di effettività che deve caratterizzare l’impossessamento. La Corte ha affermato che il monitoraggio nell’attualità dell’azione furtiva avviata, esercitato sia mediante la piena osservazione della persona offesa, sia mediante appositi apparati di osservazione fa restare allo stadio di tentativo l’azione.

7. La figura del reato impossibile

L’articolo di riferimento è l’art. 49 co. 2 c.p., che stabilisce che la punibilità è esclusa “quando, per la inidoneità dell’azione o per la inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso”. Secondo un’interpretazione tradizionale, la disposizione ora citata sarebbe sostanzialmente superflua perché si limiterebbe a riesprimere “in negativo” i requisiti positivamente richiesti per la punibilità del tentativo. Secondo questa interpretazione, il reato impossibile non sarebbe altro che un tentativo impossibile. Per reato impossibile si intende la fattispecie criminosa che non è giuridicamente possibile compiere e tale definizione è fortemente correlata a quella di delitto tentato, o tentativo, che dir si voglia.

8. Conclusioni

Per trarre delle seppur non definitive considerazioni conclusive, è necessario ribadire che il tentativo si applica esclusivamente ai delitti, contenuti nel secondo libro del codice del ’30. Dallo sviluppo della disciplina dell’art. 56 c.p., oggetto di molteplici modifiche legislative, si è giunti all’attuale formulazione che prevede gli atti idonei e l’univocità degli atti per definirne l’integrazione. Il delitto tentato costituisce, quindi, figura autonoma di reato, qualificato dalla da una propria oggettività giuridica e da una propria struttura delineate dalla combinazione della norma incriminatrice specifica e dalla disposizione contenuta nell’art. 56 c.p. che rende punibili, con una pena autonoma, fatti non altrimenti sanzionabili perché arrestatesi al di qua della consumazione. Da tale autonomia dell’illecito e della sanzione consegue che, in presenza di delitto tentato, la determinazione della pena può effettuarsi con il cosiddetto metodo diretto o sintetico, cioè senza operare la diminuzione sulla pena fissata per la corrispondente ipotesi di delitto consumato, oppure con il calcolo “bifasico”, cioè mediante scissione dei due momenti indicati fermo restando che nessuno dei due sistemi può sottrarsi al rispetto dei vincoli normativi relativi al contenimento della riduzione da uno a due terzi, la cui inosservanza comporta violazione di legge[23]. Il successivo concetto di iter criminis, ovvero il lasso temporale con momento di partenza e momento d’arrivo dell’azione, la c.d. fase consumativa, trova riscontro anche nell’ipotesi descritta dall’articolo oggetto della presente analisi. Risulta evidente che il tentativo si colloca in questo delicatissimo range, la cui precedente definizione data dal codice Zanardelli poneva grossi e irrisolti problemi. Assai complessa, poi, l’analisi del rapporto tra il delitto tentato e le circostanze del reato o con le altre norme di carattere generale come il concorso di persone nel reato di cui all’art. 110 c.p., o il reato omissivo, di cui all’art. 40 co. 2 c.p. Da ultimo, l’esempio di scuola del caso del furto tentato al supermercato rappresenta senz’altro una volontà legislativa volta alla semplificazione e allo snellimento del sistema, sottolineando la virata del legislatore in favore del riempimento della lacuna, talvolta evidente, tra tentativo e consumazione.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Per agevolare il lettore si riporta il testo dell’art. 56 c.p., rubricato Delitto tentato: “Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica. Il colpevole del delitto tentato è punito: con la reclusione non inferiore a dodici anni, se la pena stabilita è l’ergastolo; e, negli altri casi, con la pena stabilita per il delitto, diminuita da un terzo a due terzi. Se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso. Se volontariamente impedisce l’evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà”.

[2] Al riguardo si vedano Fiandaca-Musco, i quali reputano causata da un equivoco la distinzione tra perfezione e consumazione: l’integrazione della fattispecie verrebbe a confondersi con la valutazione della gravità del fatto rilevante ex art. 133 c.p.

[3] Cass. Pen. Sez. I, n. 32851, 10/06/2013.

[4] Cass. Pen. Sez. I, n.27918, 04/03/2010.

[5] Cass. Pen. Sez. V, n. 4033, 24/11/2015.

[6] Cass. Pen. Sez. V, n. 18981, 22/02/2017,.

[7] Cass. Pen. Sez. Un., n. 47604, 18/10/2012.

[8] In tal senso, Cass., sez. V, n. 4892, 22 ottobre 2010.

[9] Cass. Pen. Sez. IV, n. 40818, 21/10/2008.

[10] Cass. Pen. Sez. II, n. 16054, 20/03/2018.

[11] Cass. Pen., sez. II, n. 16054, 20/03/2018.

[12] Cass., sez. I, n. 9015, 4 febbraio 2009.

[13] Cass., sez. I, n. 40936, 8 ottobre 2009.

[14] Cass. pen., sez. IV, n. 12240, 13 febbraio 2018.

[15] Cass. pen., Sez. V, n. 18322, 30 gennaio 2017.

[16] Esse sono regolate dall’art. 59 e ss. c.p.

[17] Art. 70 c.p.

[18] Cass. Pen. Sez. Un., n. 28243, 28/03/2013.

[19] Cass., sez. VI, n. 14342, 20 marzo 2012.

[20] Cass., sez. I, n. 12665, 2 luglio 1990.

[21] Fiandaca, Musco, Diritto penale parte generale, p. 494, Zanichelli, Bologna, 2019.

[22] Cass. Pen., n. 23020, 2008.

[23] In tal senso, per completezza espositiva, si veda Cass. sez. I, n. 37562, 16 maggio 2001