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Pubbl. Mar, 26 Lug 2022

La potestas del pater familias

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Chiara Savazzi
Dottorando di ricercaUniversità degli Studi di Catanzaro Magna Græcia



Con il presente contributo si propone un´analisi diacronica della patria potestas nel diritto romano. Essa emerse dapprima col suo carattere assoluto sui figli, e in un secondo momento venne temperata, annichilendosi grazie all´influenza dello spirito cristiano e della filosofia stoica, che arrecarono un apporto sostanziale alle riforme degli Imperatori, dal II secolo d.C. in poi.


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The potestas of the pater familias

With this contribution, we propose a diachronic analysis of the ”patria potestas” in Roman law. It first emerged with its absolute character on the children, and later it was tempered, annihilating itself thanks to influence of the Christian spirit and Stoic philosophy, which made a substantial contribution to the reforms of the Emperors, from the second century AD on.

Sommario: 1. Il pater familias: definizione e correnti sul significato; 1.1. La familia proprio iure: definizione e caratteristiche; 1.2. Adgnatio e familia communi iure; 2. Estinzione della patria potestas: filius sui iuris; 2.1. Emancipatio; 3. Una patria potestas che muta; 3.1. Breve riepilogo delle riforme più rilevanti. L’influenza romana nelle epoche successive fino ai nostri giorni.

1. Il pater familias: definizione e correnti sul significato

Così come alla base della Res Publica o del Regnum vi era un sovrano detentore della regia potestas[1], allo stesso modo il pater assumeva nella sua domus un potere indiscusso sulle res e sulle personae. Egli rappresentava il faro, nel bene e nel male, dei suoi discendenti, i quali dovevano ben limitarsi nel contraddirlo, e difatti era, secondo una celebre definizione di Ulpiano «qui in domo dominium habet»[2]. Il pater godeva dunque di una condizione familiare e sociale superiore a chiunque altro. Ma come si acquisiva la qualifica di pater familias?

Per rispondere a questo interrogativo è necessario fare un passo indietro. Anzitutto, la capacità giuridica in diritto romano era riconosciuta in capo alle persone fisiche, venute ad esistenza[3], che rispettavano tre status: la cittadinanza romana (status civitatis); la libertà fin dalla nascita per i c.d. ingenui oppure avvenuta in un momento successivo per gli schiavi liberati, i c.d. libertini (status libertatis); la condizione personale propria dei soggetti sui iuris, poichè non sottoposti ad altrui potestas, mancipium o ancora, per le donne, manus (status familiae).

In relazione allo status familiae, coloro che erano soggetti all’altrui potestà – giuridicamente qualificabili in termini di personae alieno iuri subiectae – non detenevano normalmente alcuna capacità giuridica, seppure, in taluni casi, poteva loro riconoscersi capacità di agire. Chi era, al contrario, sui iuris – perché non possedeva ascendenti o perchè era stato emancipato – acquisiva lo status di pater familias e diveniva, come autorevole dottrina ha evidenziato, «il tessuto connettivo del gruppo»[4], assumendo la potestà non solo sui figli ma anche sui nipoti, e così via. Peraltro il predetto status di pater familias doveva riconoscersi anche al soggetto sui iuris privo di discendenti e neppure legato da vincolo di coniugio; in tal caso, questi avrebbe goduto del titolo in parola solo potenzialmente.

All’immagine del padrone della casa romana sono stati attribuiti vari significati, partendo da questioni etimologiche e sviluppando teorie che hanno acceso gli animi di moltissimi studiosi, i quali in punta di penna hanno dato vicendevolmente risposte e controrisposte alle loro tesi.[5]

La prima teoria, elaborata da De Visscher, muove dall’affermazione di Gaio secondo cui sia le persone che le cose erano soggette al mancipium (venivano, cioè, trasferite ad un altro soggetto, «eodem modo»[6]), e sostiene che l’originario potere del pater familias sarebbe stato una sorta di «imperium domestique»[7], simile a quello che lo Stato esercitava sull’intera collettività, con l’unica differenza del carattere cellulare. Sulla stessa linea esegetica si pone Bonfante[8], che descrive la familia come caratterizzata dai mores – tradizioni e regole all’interno della casa – quali uniche limitazioni al potere assoluto del pater, che pare assumere tutte le sembianze di un re[9].

A ben vedere, Bonfante mantiene questa impostazione come giustificazione dell’esistenza di tutti gli istituti connessi al potere del pater, senza realmente verificarne l’origine nè il collegamento e pertanto la sua ricostruzione è stata tacciata di estremo tecnicismo da parte della dottrina.

A superare tali presunte limitazioni sovviene infatti la teoria c.d. unitaria di Gallo, secondo cui la potestas in età arcaica sarebbe stata unita alla proprietà sulle res (compresi gli schiavi) insieme al potere – rectius, alla manus – sulla moglie: un unico potere dunque, ma con più ambiti di applicazione.[10] In tutta risposta, Capogrossi[11], dà vita alla teoria atomistica, basandosi sulla convinzione che in epoca arcaica esistessero più poteri detenuti dal pater, sebbene nello specifico il diritto di proprietà mancasse di nomenclatura, poichè solo nel I sec. a.C. sarebbe stato elaborato l’astratto sintagma di “dominium ex iure Quiritium”. Lo studioso in parola si basa sulla diversità del modo di applicare istituti, se pur uguali, a persone e cose; per esempio, la mancipatio, avente per oggetto lo schiavo avrebbe avuto l’effetto di trasferire questo ad un altro dominus, mentre qualora avesse avuto per oggetto il filius non avrebbe conseguito l’effetto di trasferire la di lui proprietà, bensì di porre questi in una condizione paraservile momentanea.[12]

Significativo è inoltre il contributo offerto da Franciosi, poichè tenta di far collimare le varie teorie – pur propendendo per la teoria atomistica – indirizzandole verso il fulcro centrale della questione: «In ogni caso, sia che il pater familias fosse titolare di un’unica situazione di supremazia, sia che facessero capo a lui più poteri paralleli rispetto ad oggetti diversi, egli con la sua potestà dominava tutta l’organizzazione della famiglia romana costituendone il perno e l’unico centro di imputazione delle varie situazioni giuridiche sia attive che passive».[13]

1.1.  La familia proprio iure: definizione e caratteristiche

Si potrebbe pensare che la famiglia romana, con a capo il pater, sia la vera chiave di volta di una società scandita da gerarchie precise. E invece no, com’è stato osservato, «la storia più antica di Roma è storia di gentes»[14].

La gens poteva essere considerata un’aggregazione fittizia di più famiglie; fittizia non perchè la scelta dei soggetti da considerarsi uniti in un vincolo familiare fosse arbitraria, ma perchè il capostipite – che come ben sappiamo rappresentava l’esistenza stessa del nucleo familiare – era soltanto mitologico. Veniva a crearsi, così, una sorta di albero genealogico senza gradi, ma comunque sinonimo dell’appartenenza forte ad un gruppo, ad un’identità. Che fosse una parentela senza gradi possiamo inoltre apprenderlo dalle XII Tavole, che chiamavano collettivamente i gentiles all’eredità: «gentiles familiam habento»[15]. La famiglia gentilizia era caratterizzata da tradizioni e da vincoli di solidarietà e sostegno, ai quali tutti i membri erano tenuti, elementi che vennero trasmessi alla famiglia nucleare. Quest’ultima, nel senso moderno tutt’oggi vigente, iniziò ad apparire solo verso il IV sec. a.C.

Ora, mentre i gentiles erano legati da un vincolo di sangue[16], la famiglia romana, detta “proprio iure”, era tale o per nascita o per aggregazione e suo collante era, ovviamente, la potestà. Si trattava, dunque, più di una famiglia in senso civilistico che in senso naturalistico. A tal proposito vedremo che i figli concepiti da una donna e da un uomo non in giuste nozze, furono per molto tempo esclusi da una possibile inclusione, anche a livello di eredità, nel nucleo familiare.

Una definizione di famiglia romana quale «coniunctio maris et feminae»[17] è quella contenuta nelle Istituzioni di Giustiniano, riconducibile in parte alle Institutiones di Gaio e in parte al manuale istituzionale ulpianeo:

«Sono in nostra potestà i nostri figli che abbiamo procreato da nozze conformi al diritto. Le nozze o il matrimonio sono l’unione di un uomo e di una donna, implicante un inseparabile legame di vita. Il diritto di potestà che abbiamo sui figli è proprio dei cittadini romani; non ci sono altri uomini, infatti, che abbiano sui loro figli la stessa potestà che abbiamo sui nostri. Colui dunque che nasce da te e da tua moglie è in tua potestà; egualmente colui che nasce da tuo figlio e da sua moglie, cioè tuo nipote o tua nipote, è in tua potestà, così come pure tuo pronipote o tua pronipote e gli altri successivi. Colui invece che nasce da tua figlia non è in tua potestà, ma in quella del padre suo»[18].

Da questa importantissima definizione emerge la caratteristica della c.d. patrilinearità della familia, giacchè la discendenza si formava partendo dal pater e proseguendo con le persone in sua potestà. Per tale motivo la donna, se anche poteva trovarsi nella condizione di sui iuris, non era potenzialmente titolare di patria potestas, infatti era definita «caput et finis»[19], senza sottoposti [20].

Oltre che per nascita, come già accennato, la discendenza poteva formarsi per aggregazione (come ci dice Ulpiano utilizzando le parole «aut natura aut iure subiectae»)[21], quindi secondo una scelta del pater e in alcuni casi anche del soggetto da sottoporre alla sua potestà (come nel caso dell’arrogazione, che si analizzerà più avanti).

1.2. Adgnatio e familia communi iure

«Si intestato moritur, cui suus heres nex escit, adgnatus proximus familiam habeto. Si adgnatus nec escit, gentiles familiam habento»[22]. Si tratta di una celebre disposizione della Legge delle XII Tavole sulla chiamata degli eredi: in primo luogo vi erano i discendenti, per così dire, più stretti, vale a dire coloro che, al tempo della morte del de cuius, erano assoggettati alla sua immediata potestas o manus; succedevano, poi, gli agnati prossimi; infine erano chiamati i gentili[23]. L’analisi dell’agnazione è fondamentale, per avere un quadro il più possibile esauriente della famiglia romana; non a caso su di essa si sono sviluppati pensieri differenti, quasi al pari della dibattuta questione sui poteri del pater familias.

In linea generale, era adgnatus (letteralmente “colui che è nato accanto”) chi si aggiungeva ai membri di una famiglia; dall’etimologia si può supporre che inizialmente fossero tali solo i soggetti discendenti da un pater per nascita, mentre in seguito si intese inglobare nel termine anche gli adottati e gli arrogati[24]. Secondo Franciosi[25] esistevano due organismi familiari, la familia e la gens. La familia, a sua volta, era prima declinabile in familia proprio iure, familia communi iure (o vincolo agnatizio fino al sesto grado) e consortium ercto non cito. Secondo la tesi opposta, offerta da Perozzi[26], non era contemplabile una parentela con limiti di gradi e, in realtà, laddove il capostipite fosse identificabile, si sarebbe semplicemente parlato di parentela, rientrante nella famiglia proprio iure; laddove, al contrario, non vi fosse reale memoria dell’avus, si sarebbe parlato di gens. In base a questa seconda teoria, l’adgnatio rappresentava niente più che la parentela, non un gruppo familiare diverso da quello della famiglia in senso stretto.

Condivisibile è in ogni caso l’osservazione di Albanese, secondo cui «l’adgnatio è una relazione di ius civile»[27], non basata sul vincolo di sangue. Conseguentemente, coloro che erano discendenti per nascita dal pater, erano considerati agnati, ma coloro che, pur avendo il vincolo di sangue con la madre, non erano discendenti legittimi in quanto nati fuori dalle iustae nuptiae, non avevano col padre alcuna relazione, neppure quella dell’agnazione. Solo in seguito questa condizione di “figlio di nessuno” mutò. Allo stesso modo, non era necessario avere un vincolo di sangue col proprio ascendente o con i propri fratelli per essere un adgnatus (si pensi all’adottato, che diveniva parte integrante di un nuovo nucleo familiare, in quanto “persona iure subiecta”).

Ritornando alla disposizione iniziale, le XII Tavole stabilivano che gli agnati fossero chiamati all’eredità ma fino al sesto grado; in realtà questa specificazione non rientra nella ricostruzione che è stata compiuta attraverso i vari frammenti degli scritti ritrovati, ma è dedotta da una serie di altre testimonianze.

La prima è quella di Trebazio che tratta, come ultimo legame di parentela, della figura dei sobrini, vale a dire i primi e i secondi cugini, rispettivamente collaterali in quarto e sesto grado, per i quali vigeva anche il divieto di matrimonio[28]. La seconda testimonianza è relativa al ius osculi[29], ovverosia al divieto di baciare sulla bocca una donna sposata che non rientrasse nella propria cerchia parentale entro il sesto grado, perchè, diversamente, sarebbe stato come baciare un estraneo.

Il vincolo dell’agnazione veniva meno con la capitis deminutio c.d. minima, cioè una modifica della propria condizione giuridica – in contrapposizione alla c.d. massima, con la perdità della libertà, e alla c.d. media, con la perdita della cittadinanza – che poteva aver luogo con l’adozione, quindi col passaggio alla potestà di un altro pater, o con l’emancipazione. Il vincolo in parola non veniva meno, invece, alla morte del pater, giacchè i suoi discendenti continuavano a mantenere il legame di adgnati tra loro. E da qui sorge la locuzione “familia communi iure” o “famiglia allargata” stante ad indicare il vincolo familiare in linea maschile. Ciò posto, i figli, le figlie e anche la moglie, pur divenendo sui iuris, mantenevano tale legame che si traduceva, inoltre, nel mantenere indiviso il patrimonio del loro ascendente. Questo patrimonio, secondo quanto tramandatoci da Gaio, era chiamato «consortium ercto non cito»[30], espressione che letteralmente significa “divisione non provocata”.

Com’è stato notato da Franciosi, è argomento assai discusso «se la titolarità in solido riguardasse solo la potestà sui beni materiali o si estendesse anche alla potestà sui figli»[31]. Sebbene sia più plausibile ritenere che ognuno mantenesse la sua potestas acquisita sui discendenti, Carla Fayer[32] ci riporta il racconto di una famiglia del II sec. a.C., gli Aelii Tuberones, i quali si ritrovarono ad essere sedici maschi adulti e decisero di continuare a vivere insieme con i figli e le mogli, in una piccolissima casa con un poderetto. La tendenza a non scindere il patrimonio aveva, come primo scopo, l’obiettivo di evitare che esso si disperdesse e di far sì che i soggetti potessero mantenere l’iscrizione ad una classe di maggior importanza della societas, proprio in base al censo.

2. Estinzione della patria potestas: filius sui iuris

La patria potestas poteva estinguersi per varie ragioni. Ciò comportava che il figlio avesse la prospettiva, o quantomeno la speranza, di diventare indipendente. La causa più frequente era, come è intuibile, la morte del capo-famiglia, a meno che non ci fosse un pater intermedio ad assumere la potestà su di lui. Questa situazione si verificava quando a morire fosse il nonno e il padre avesse preso il suo posto. La potestà non veniva in tal modo trasmessa, bensì sorgeva ex se, per diritto proprio in capo ad un soggetto.

Già nel I secolo d.C. venivano puniti gli abusi del potere del padre, attraverso l’emancipazione coattiva; in diritto giustinianeo, vi era l’estinzione a titolo di pena nei confronti del padre che esponesse o facesse prostituire i figli.

L’estinzione della patria potestas non comportava, comunque, lo scioglimento del vincolo di sangue rappresentato dalla cognatio, il quale perdurava indissolubile, anzi divenendo, nel tempo, il legame principale.

2.1. Emancipatio

L’emancipazione nacque da una disposizione delle XII Tavole che mirava a contrastare un possibile abuso di potere del padre nel vendere il figlio per tre volte: «Si pater filium ter venum duit, filius a patre liber esto.»[33] Non si comprende, ancora oggi, se la disposizione fosse utilizzata come punizione nei confronti del padre e per porgli dei limiti, o come strumento e occasione per far diventare il figlio un soggetto con capacità giuridica, così da divenire titolare dei propri diritti.

La tecnica era articolata. Il padre vendeva per due volte il figlio ad un soggetto di fiducia, il quale, a sua volta, lo manometteva, facendolo ricadere sempre sotto la potestà del padre, «potendo l’imprescrittibilità della patria potestà essere di fatto superata solo mediante la vendita del figlio come schiavo in territorio straniero»[34].

Con le prime due vendite il figlio si trovava nella condizione di persona in causa mancipii, uno status di asservimento che poteva anche protrarsi in maniera permanente, se non fosse conseguita una manomissione, e quindi ritenuto peggiore del semplice status di figlio. Alla terza vendita, il terzo fiduciario lo rivendeva al pater, il quale lo manometteva definitivamente, secondo la disposizione. Quest’ultima, come si può leggere nella disposizione normativa, si riferiva solo al figlio di sesso maschile, quindi per prassi, figlie e nipoti venivano emancipati per mezzo di una sola vendita. In seguito, la forma dell’emancipazione venne a snellirsi omettendo l’elaborato cerimoniale delle vendite. In un primo momento, nel periodo postclassico, Anastasio introdusse l’emancipazione per rescritto imperiale; in un secondo momento, Giustiniano introdusse l’emancipazione dinanzi al magistrato, subordinandola al necessario consenso del figlio che non fosse più infante. In questo stesso periodo, il filius aveva ormai acquisito una autonomia di gran lunga maggiore rispetto all’età arcaica, il che comportava una minore premura del soggetto alieni iuris ad essere emancipato; tuttavia si consolidò la prassi di emancipare i figli una volta raggiunta la maggiore età.

3. Una patria potestas che muta

E’ innegabile, a seguito di tale trattazione, che «il diritto privato romano è, fino a tutta l’epoca veramente romana, il diritto dei patres familias o capi delle famiglie»[35]. La patria potestas non rappresentava solo una peculiarità del mondo romano – nel rapporto tra padri e figli, nel modo di educare questi ultimi e di insegnar loro il principio regnante all’interno della famiglia, ovverosia l’obbedienza – ma anche la rappresentazione di un ordine sociale indispensabile anche per un’efficiente politica cittadina, per un regime strutturato in modo impeccabile che avesse come esempio di base proprio l’ambiente familiare, nel quale ognuno aveva il suo compito e il suo ruolo.

Le leggi servivano al popolo ed erano emanate dai re; le regole della domus servivano ai figli e agli altri sottoposti ed erano stabilite dal pater. Erano, insieme, complementari nel mondo romano. Si potrebbe affermare che il padre fosse investito di una vera e propria carica sociale, con compiti, decisioni da assumere; tanto è vero che per diversi secoli il compito di badare alla famiglia e di decidere il percorso e le sorti di tutti i componenti fu affidato a lui solo. Lo Stato non intervenne a lungo negli affari di famiglia, neppure in quelli più ingrati, come decretare la morte o la vita di un soggetto.

Non era l’autorevolezza, che caratterizza – teoricamente, quantomeno – un padre odierno, a rendere efficace tale carica, bensì l’autorità, imposta ex se, senza necessità di giustificazione alcuna, proprio come spiega Schulz:

«Intendiamo per “autorità” il prestigio sociale di una persona o di un’istituzione. [...] L’autorità è una qualità normativa. Essa è regolatrice; ed ha la forza di persuadere altri, che questa autorità riconoscano, a tenere un certo comportamento, sia di azione o di astensione. Le funzioni dell’autorità sono dunque educative e direttive, essa provoca l’obbedienza l’ordine la disciplina [...]»[36].

Il ruolo del capo famiglia non poteva essere spiegato, ma solo accettato e rispettato in ogni suo aspetto. Tuttavia, l’estrinsecazione di questa figura, umana e sociale al tempo stesso, mutò nel tempo, come si è avuto modo di analizzare. Il diritto più sconcertante in capo ad egli – il ius vitae ac necis – fu mitigato già ai tempi dei decemviri, con la possibilità di attuarlo solo per iusta causa. Naturalmente la ragione giusta che sottostava alla decisione di condannare a morte un proprio figlio, doveva essere tale in base alla sua conformità all’ordinamento; nulla di oggettivo, insomma. È proprio per questo che Pasquale Voci, dopo aver descritto la storia della potestà paterna dalle origini fino a Giustiniano, afferma di non ritenere che la patria potestas, nel tempo, sia stata dissolta, ma che al contrario sia rimasta, seppure mutata in termini quantitativi. Se inizialmente il padre deteneva un potere smisurato al quale né lo Stato né i magistrati ponevano freni, successivamente lo stesso venne temperandosi, assumendo una valenza contrassegnata anche da tratti di pietas e benevolenza; senza che il pater si spogliasse delle sue vesti autoritarie[37].

Nell’età giustinianea ebbe inizio quella che lo stesso imperatore chiamava «nova hominum conversatio: in definitiva, l’inesauribile potenza di crescita della dignità umana»[38].

3.1. Breve riepilogo delle riforme più rilevanti. L’influenza romana nelle epoche successive fino ai nostri giorni

La patria potestas venne mitigata più per prassi che per legislazione.

La fonte squisitamente normativa iniziò infatti a subentrare in età classica ma in modo eccezionale, relativamente a casi specifici che non avevano l’effetto di annullare altri poteri che, contestualmente, rimanevano invece indiscussi.

Già Romolo stabilì il dovere di allevare tutti i primogeniti e tutte le primogenite e il divieto di uccidere i bambini sotto i tre anni, ad eccezione dei nati mostruosi; superati i tre anni il padre era, però, legittimato ad agire in tal senso.

Con le XII tavole si introdusse l’opinabile giusta causa nelle uccisioni e, successivamente, con Augusto, nelle decisioni di tale portata il padre doveva essere affiancato da un consiglio domestico che desse il suo parere.

Nel 374 una Costituzione di Valentiniano, Valente e Graziano sancì come dovesse esplicarsi il controllo del padre sui figli: un moderato potere educativo e correzionale, sostenuto dalla pietas, il nuovo modo di sentire che in quel periodo iniziò a prendere forma anche nel rapporto genitori-figli e, più in generale, tra le persone. Così, anche tutti gli altri poteri caddero man mano in desuetudine fino a Giustiniano, grazie al quale, alcuni di essi, come il ius occidendi o il ius exponendi, vennero vietati a pena di morte.

A partire già dal I secolo d.C. il cristianesimo e l’ellenismo ebbero una forte influenza nel mondo romano e nella rottura dei vincoli familiari così come questi erano stati concepiti fino ad allora, lasciando spazio a sentimenti di fratellanza e comunione.

All’auctoritas subentrò l’humanitas e, molto lentamente, l’antico brocardo secondo il quale il figlio vedeva nel proprio padre un Dio[39], venne accantonato, ma non del tutto abbandonato, dato che nelle successive epoche la totalità dei principi romani venne studiata[40] e, in taluni casi, come nelle relazioni domestiche, presa a modello.

Nei vari secoli, vi fu dunque, un altalenarsi di modi di concepire la “famiglia”, in una commistione di affetto e obbedienza assoluta. Nel ‘500 Montaigne dialogava con il vecchio maresciallo de Montluc, il quale raccontava di avere un gran rimorso per non aver saputo dare al proprio figlio, ormai morto, sufficiente affetto[41]; un vero e proprio dilemma dei padri, costretti dalle idee in fermento, a porsi dei dubbi sul loro nuovo ruolo.

Col giusnaturalismo prima e con l’illuminismo in seguito, filosofi come Locke, Rousseau e Beccaria, incentrarono lo scopo della famiglia non nella sopraffazione e nelle rigide gerarchie, bensì nell’accoglienza; secondo Rousseau il bambino avrebbe dovuto trascorrere la sua infanzia immerso nella natura, lontano da insegnamenti e condizionamenti, ma al contrario, vicino alla spontaneità e alla libertà. Il diritto alla felicità dei bambini nasceva proprio nel ‘700.

In Italia, col codice civile del 1865 e poi quello del 1942, la potestà ritornò nuovamente in capo al padre e tutti i comportamenti, così come gli illeciti e i reati interni alla famiglia, erano giustificati in base alla morale, non secondo l’interesse preminente del minore, il quale emerse solo nel 1975, con la prima grande riforma del diritto di famiglia, e a cavallo tra il 2012 e il 2013 con il passaggio normativo dalla potestà alla responsabilità genitoriale.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Pregevole al riguardo è il contributo di U. COLI, Regnum in Studia et documenta historiae et iuris, 17, Roma, 1951, 2-168.

[2] D.50,16,195,2. Sul punto si veda C. FAYER, La familia romana, Roma, 2005, 19.

[3] Sebbene il concepito fosse privo di capacità giuridica, vigeva tuttavia la regola “conceptus pro iam nato habetur”, introdotta dal giurista Salvio Giuliano (D.1.5.26). Pur non essendo titolare di diritti soggettivi, il nascituro era infatti tutelato relativamente alle sue aspettative, per lo più ereditarie e in ogni caso subordinate all’evento nascita. A titolo di esempio, qualora il padre fosse premorto alla nascita del figlio, la parte di eredità spettante a quest’ultimo sarebbe rimasta in una situazione di quiescienza, fino alla sua nascita. O, ancora, se una donna in gravidanza fosse stata condannata a morte, l’esecuzione sarebbe avvenuta dopo il parto. A tal proposito si veda: E. BIANCHI, Per un’indagine sul principio ‘conceptus pro iam nato habetur’, Milano, 2009, 7 ss.

[4] G. FRANCIOSI, Famiglia e persone in Roma antica-dall’età antica al principato, Torino, 1992, 31.

[5] Ogni manuale parla dell’esistenza di tre teorie principali: politica, economica, unitaria; ma è negli articoli e nelle monografie che ritroviamo in tutta la loro complessità l’elaborazione dei singoli pensieri, creando anche delle sotto-teorie.

[6] Gai I.116-123. Sul punto si veda F. GALLO, “Potestas” e “dominium” nell’esperienza giuridica romana in Labeo, 16,  Napoli, 1970, 23.

[7] F. DE VISSCHER, “Mancipium” et “res mancipi” in Studia et documenta historiae et iuris, 2, Roma, 1936, 293. Sul punto si veda C. FAYER, La familia romana, cit., 23.

[8] Cfr. P. BONFANTE, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1987.

[9] Cfr. supra, nota 2.

[10] Una delle argomentazioni più rilevanti, è quella per cui i vari istituti facenti capo al pater (si pensi a titolo esemplificativo all’actio furti e all’in iure cessio) fossero applicabili sia alle cose sia alle persone.

[11] Cfr. L. CAPOGROSSI, Ancora sui poteri del pater familias in Bullettino dell’istituto di diritto romano, 73, Milano, 1970.

[12] Resta minoritaria la teoria c.d economica elaborata dall’Ambrosino, secondo cui la potestas sarebbe stata nient’altro che un dominium, una proprietà. In realtà, tale teoria collide con ciò che ci perviene da numerose fonti (cfr. supra, paragrafo 1), in quanto, avendo, il concetto di potestas preceduto a livello temporale quello di dominium, non potrebbe essere una sottospecie di quest’ultimo. Sul punto si vedano, oltre alle opere precedentemente citate: C. FAYER, La familia romana, cit.; M. TALAMANCA,  Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990.

[13] G. FRANCIOSI, Famiglia e persone in Roma antica, cit., 46.

[14] Ibidem, 23.

[15] D.50.16.195.1 Sul punto si veda C. FADDA, Concetti fondamentali del diritto ereditario romano 1, Milano, 1949.

[16] Significativa è la stessa etimologia: gigno:generare.

[17] Così, Modestino in D.23,2,1. Sul punto si veda R. BONINI, Corso di diritto romano – Il diritto delle persone nelle Istituzioni di Giustiniano (i titoli III-X), Rimini, 1984, 118.

[18] I.1,9, pr-3. Trad. R. BONINI, Corso di di diritto romano – Il diritto delle persone nelle Istituzioni di Giustiniano (i titoli III-X), cit., p. 121. «In potestate nostra sunt liberi nostri, quos ex iustis nuptiis procreaverimus. Nuptiae autem sive matrimonium est viri et mulieris coniunctio, individuam consuetudinem vitae continens. Ius autem potestatis, quod in liberos habemus, proprium est civium Romanorum; nulli enim alii sunt homines, qui talem in liberos habeant potestatem, qualem nos habemus. Qui igitur ex te et uxore tua nascitur, in tua potestate est: item qui ex filio tuo et uxore eius nascitur, id est nepos tuus et neptis, aeque in tua sunt potestate, et pronepos et proneptis et deinceps ceteri. Qui tamen ex filia tua nascitur, in tua potestate non est, sed in patris eius.». Si vedano anche Gai. I, 55 e Ulp. I.I Institutionum.

[19] ULP. D.50,16,195,5. Sul punto si veda C. FAYER, La familia romana, cit., 19.

[20] Gli stessi Romani si rendevano conto della particolarità della tipologia di famiglia esistente presso di essi, un unicum, se pensiamo che, ad esempio, presso i popoli indogermanici esisteva la Sippe, che però era molto più simile alla gens romana e inoltre pare che tenesse conto anche della parentela «per parte di donna». Sul punto si veda S. PEROZZI, Parentela e gruppo familiare in BIDR, 31, Roma, 1921, 104.

[21] D.50.16,195,2. Sul punto si veda G. FRANCIOSI, Famiglia e persone in Roma antica, cit., 8.

[22] D.28.2.9.2; D.50.16.195.1. Sul punto si veda G. FRANCIOSI, Famiglia e persone in Roma antica, cit., 13.

[23] Cfr. supra, nota 19.

[24] G.SCHERILLO, s.v. Agnazione in Novissimo Digesto Italiano, Torino, 1957, 425-427.

[25] Cfr. G. FRANCIOSI, Famiglia e persone in Roma antica, cit., 7-29.

[26] Cfr. S. PEROZZI, Parentela e gruppo familiare, cit., 88-143.

[27] B. ALBANESE, Le persone nel diritto privato romano, Palermo, 1979, 208.

[28] D.38.10.10.18. Sul punto si veda G. FRANCIOSI, Famiglia e persone in Roma antica, cit., 15.

[29] ID., Clan gentilizio e strutture monogamiche, Napoli, 1989, 309.

[30] Gai 3,154. Sul punto si veda  M. BRETONE, ”Consortium” e “communio” in Labeo, 6, Napoli, 1960, 163 ss.

[31] G. FRANCIOSI, Famiglia e persone in Roma antica, cit., 11.

[32] Plut. Aem. Paul. 5,7;28,12. Sul punto si veda C. FAYER, La familia romana, cit., 24.

[33] Tav.IV fr.3. Sul punto si veda F. GODWIN, Le XII Tavole, Città di Castello, 1887, 19.

[34]D. DALLA; R. LAMBERTINI, Istituzioni di diritto romano, Torino, 2006, 84.

[35] P. BONFANTE, Istituzioni di diritto romano, cit., 122.

[36] F. SCHULTZ, I principi del diritto romano, Firenze, 1995, 143.

[37] Lo studioso critica la concezione comune che si ha della patria potestas nel diritto giustinianeo, un potere ormai scomparso che ha lasciato il posto alla totale autonomia del filius; in particolare accenna chiaramente al P. BONFANTE, Corso di diritto romano I, cit., 107; 138. Sul punto si veda P. VOCI, Storia della patria potestas da Costantino a Giustiniano in SDHI, cit., 62-67.

[38]  Si intende, con tale sintagma, la nuova civiltà, contrapposta all'asprezza degli antichi, J. 4, 8, 7. Sul punto si veda B. ALBANESE, Le persone nel diritto privato romano, cit., 288-289.

[39] CICERONE Pro Plancio, 12, 29. Sul punto si veda  F. SCHULTZ, I principi del diritto romano, cit., 171-172.

[40] Furono, per primi, i glossatori medievali a studiare il diritto romano e a crearne delle “compilazioni” riassuntive. Sul punto si veda M. CAVINA, Il padre spodestato, cit., 74 ss.

[41] M. DE MONTAIGNE, Saggi, II.8. Sul punto si veda M. CAVINA, Il padre spodestato, Roma-Bari, 2007, 80.