ISCRIVITI (leggi qui)
Pubbl. Gio, 5 Nov 2015

La corporeità nel diritto postmoderno: il contratto di ibernazione

Flavia Piccione


La corporeità costituisce, tra i vari ambiti incisi dal diritto, un settore ove le razionali scelte legislative, storicamente tese verso la salvaguardia dell’integrità fisica, devono misurarsi con le esigenze dell’uomo post-moderno, trascinato dal corso veloce ed inarrestabile del progresso scientifico.


Invero, il tema si è tradizionalmente distinto per l’accentuata problematicità giuridica. Il primo aspetto controverso riguarda la riferibilità del termine proprietà al corpo dell’uomo-persona fisica, o meglio la stessa configurabilità del diritto di proprietà sul proprio corpo.

Invero, il tema si è tradizionalmente distinto per l’accentuata problematicità giuridica. Il primo aspetto controverso riguarda la riferibilità del termine proprietà al corpo dell’uomo-persona fisica, o meglio la stessa configurabilità del diritto di proprietà sul proprio corpo.

“L’uomo non può disporre di se stesso, poiché non è una cosa; egli non è una proprietà di se stesso, poiché ciò sarebbe contradditorio. Nella misura infatti, in cui è una persona, egli è un soggetto, cui può spettare la proprietà di altre cose. Se invece fosse una proprietà di se stesso, egli sarebbe una cosa, di cui potrebbe rivendicarne il possesso(…). Perché è impossibile essere insieme una cosa e una persona, facendo coincidere il proprietario con la proprietà. In base a ciò l’uomo non può disporre di se stesso. Non gli è consentito vendere un dente o un’altra parte di se stesso”. (Kant, Lezioni di etica, trad. di A. Guerra, Vorlesung Kants über Ethik di Paul Menzer).

Stando alla posizione di Kant, certamente influenzata dall’originaria concezione patrimonialistica della proprietà, l’uomo non può essere proprietario di se stesso; e ciò sulla base dell’assunto che oggetto del diritto di proprietà possono essere soltanto “cose”, ossia entità esterne all’uomo ed aventi valore economico. il logico corollario dell’argomentazione kantiana sta nell’escludere che l’uomo possa disporre di se stesso, in quanto egli è persona e non cosa suscettibile di proprietà. Inoltre, il diritto di proprietà è traslatato nella sua accezione più risalente, quale potere assoluto ed immediato, esercitabile in modo indipendente, esclusivo e pieno. Perciò, al fine di superare le contraddizioni logico-giuridiche che l’utilizzo del termine proprietà pone, è stato proposto il concetto alternativo e più cauto di “appartenenza”. È evidente che i problemi, essenzialmente terminologici, legati all’uso del concetto di proprietà in riferimento al corpo, sono agevolmente superabili se si considerano due dati di fatto: il potere del proprietario è, ad oggi, di necessità un potere non più “illimitato” ma “conformato”; le parti del corpo umano, a fronte dello sviluppo medico-scientifico, acquistano inevitabilmente, se non un valore economico, quantomeno un rilievo sociale in una moderna ottica solidaristica.

Andando oltre le questioni puramente teoriche, e partendo dal presupposto che l’uomo moderno ha certamente la disponibilità giuridica del proprio corpo – quale che sia il titolo di simile potere, di proprietà o di appartenenza – occorre interrogarsi sull’ampiezza dei poteri dispositivi: fino a che punto l’uomo, in qualità di soggetto di diritto, può riconoscersi giuridicamente libero di disporre di se stesso?

Un primo sguardo è diretto alla disciplina normativa che gravita attorno al tema della corporeità ed è improntata al principio dell’integrità fisica del corpo, della gratuità degli atti dispositivi e del consenso informato. Nel dettaglio, l’art. 21 della Convenzione di Oviedo,  ratificata con l. n.145/2001, dopo aver  codificato il primato dell’interesse e del bene dell’essere umano sul solo interesse della società e della scienza, sancisce il divieto di profitto, vale dire il divieto di fare del corpo umano o delle parti di esso fonte di lucro. I medesimi principi sono ribaditi anche all’art. 3 della Carta di Nizza, ed affiancati al divieto di pratiche eugenetiche ed al divieto della clonazione riproduttiva di essere umani.

Nel momento in cui si procede all’esame della disciplina interna, si avverte immediatamente la dissonanza tra la logica legislativa sottesa all’art. 5 cod. civ. e le nuove esigenze di disposizione del proprio corpo dettate dalla scienza moderna. La norma codicistica prevede che “gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica, o quando sono altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico, o al buon costume”.  Coerentemente alla sua genesi storica, l’art. 5 cod. civ. tradisce un indirizzo di sfavore verso gli atti di disposizione del proprio corpo. L’intento del legislatore del 1942 era di scoraggiare il compimento di atti che potessero incidere sulla capacità fisica del soggetto rendendolo inidoneo ad adempiere agli obblighi militari verso lo Stato ed agli obblighi di natura sessuale all’interno della famiglia. È evidente che una simile logica di intangibilità del corpo umano stride fortemente con l’attuale stato della scienza medica che pratica ordinariamente operazioni di espianto e trapianto di organi e dei c.d. prodotti del corpo, quali sangue, capelli,ecc.

Ma la normativa interna, così strutturata, è destinata ad un incalzante allontanamento dalla realtà scientifica laddove si considera una stupefacente novità della ricerca scientifica, che sembra inaugurare una nuova era dello statuto proprietario del corpo umano: il c.d. contratto di ibernazione del corpo umano.

In via preliminare, è spontaneo chiedersi in che cosa consista l’ibernazione umana, o anche detta crioconservazione del corpo umano. Si tratta di un processo di “congelamento” del proprio corpo che impedisce la totale decomposizione del corpo umano e, per così dire, sospende gli effetti della morte. L’ibernazione è praticabile entro due minuti dall’accertamento della morte clinica; la testa del soggetto clinicamente morto viene portata alla temperatura di -96°, il sangue viene prelevato e conservato in un’ampolla e sostituito da una soluzione criogenica, a base di azoto, che è funzionale ad evitare che le vene si rompano; successivamente il corpo viene portato a -196° e  viene conservato in un c.d. “tewar” , una sorta di cisterna verticale. Attualmente sono meno di una decina gli italiani ad avere stipulato un contratto di ibernazione. Il dato verosimilmente si spiega sia in ragione della spiccata onerosità del contratto, sia considerando che gli unici istituti che praticano la crioconservazione si trovato negli Stati Uniti -  la società Alcor ed il Cryonics Institute - ed in Russia, la società Kryorus.

Una volta mostrata la complessità tecnica del processo di ibernazione, si comprende anche la problematicità e particolarità giuridica del relativo contratto, racchiuse in sintesi nell’elemento oggettivo. A differenza dei comuni atti di disposizione del proprio corpo, l’oggetto contrattuale non consiste semplicemente in una parte del corpo, bensì si dispone del proprio corpo unitariamente inteso; più correttamente, si dispone di se stessi, della propria persona, fatta di materialità e spiritualità, dato che è preservata la personalità e la memoria dell’ibernato.

Altra caratteristica che emerge con tutta evidenza, è la spiccata aleatorietà che pervade l’intero ciclo contrattuale. Di fatto, attraverso il contratto di ibernazione si scommette sulla propria rinascita, procrastinata ad una centinaia di anni, poiché non vi è alcuna certezza che i “medici del futuro” siano in grado di riportare in vita l’ibernato, vale a dire che l’operazione inversa di rianimazione del paziente abbia successo e che, per ipotesi, la malattia che ha condotto alla morte l’ibernato possa essere curata nel futuro. Ma la natura aleatoria si manifesta ab initio, già all’atto di stipula del contratto, giacché l’operazione di ibernazione è possibile solo se effettuata entro due minuti dalla morte clinica che, ai sensi dell’art. 2 l. n.578/1993, si verifica quando “la respirazione e la circolazione sono cessate per un intervallo di tempo tale da comportare la perdita irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo”.  E quindi si ha un notevole sbilanciamento economico delle posizioni contrattuali poiché il disponente elargisce cospicue somme di denaro – sia al momento di stipula del contratto, che successivamente, con cadenza periodica – ma senza ricevere alcunché dalla clinica o società contraente; quest’ultima, in tanto potrà eseguire la prestazione di sua competenza, in quanto la morte del contraente si verifica in specifiche circostanze. Qualora il contraente muoia per un incidente, o per qualsiasi altra causa, ma lontano dagli istituti di crioconservazione, ovviamente l’ibernazione non potrà più aver luogo e la controprestazione diventa automaticamente impossibile da eseguire.

L’indagine si complica quando, sulla base di tali caratteri evidenti, ci si inoltra nell’inquadramento giuridico di questo particolarissimo schema contrattuale. Ai fini della qualificazione formale del contratto, l’evento-morte gioca un ruolo importantissimo. Il verificarsi della morte clinica è evento che nell’assetto negoziale sembra essere concepito quale condizione sospensiva non tanto per l’esecuzione del contratto - posto che un principio di esecuzione si ha a partire dall’erogazione di somme di denaro da parte del potenziale paziente - quanto per l’esecuzione della controprestazione dovuta dalla clinica contraente. D’altra parte, la tesi secondo la quale si tratta di una condizione sospensiva è comprovata dalla circostanza che, affinché si possa svolgere il processo di ibernazione, non è sufficiente che si verifichi l’evento-morte sic et simpliciter, ma qui viene in rilievo l’evento-morte oggettivamente qualificato. Vale a dire, devono realizzarsi le ulteriori condizioni di tempo e spazio per la pratica eseguibilità dell’operazione. Ed allora non è sufficiente che si verifichi la morte che, essendo evento futuro ma certo nel suo avverarsi, potrebbe far pensare erroneamente che si tratti dell’elemento accidentale del termine. Ma in realtà è necessario che  la morte, come legalmente definita, si verifichi all’interno della clinica. Quindi se correttamente si considera l’evento-morte quale evento caratterizzato da precise circostanze oggettive, si etichetta giuridicamente come condizione, ossia evento di futura ed incerta verificabilità.

Arrivati a questa fase di indagine, è possibile fissare alcuni punti fermi circa la qualificazione giuridica del contratto di ibernazione. In primo luogo appartiene alla categoria degli atti di destinazione del proprio corpo con effetti post mortem, al pari del contratto di donazione di organi. In secondo luogo, è contratto sinallagmatico ad esecuzione continuata, in quanto la clinica o società contraente si impegna in una controprestazione complessa che consta di un duplice intervento – l’operazione di ibernazione, il trattamento del corpo ibernato durante il periodo di crioconservazione nelle celle, il “risveglio” dell’ibernato -  la cui esecuzione è scandita in momenti dall’ampia distanza cronologica.

Pur abbandonando il tentativo di assegnare una sistemazione giuridica al contratto di ibernazione, affiorano nuovi e diversi profili problematici laddove ci si interroghi sullo status giuridico del corpo ibernato. Immaginando che si avverano tutte le condizioni per praticare l’ibernazione, il corpo “congelato”  si trasferisce in proprietà alla clinica contraente? Ed anche se non si vuole usare il termine azzardato di proprietà, certamente si concorda sul fatto che la clinica ne consegue la disponibilità giuridica, quantomeno ai fini di trattazione del corpo stesso e per adempiere al contratto. Ma, spingendosi oltre, si potrebbe anche invocare la nozione, propria della dottrina nord-americana, di “commons”: il corpo ibernato diventerebbe un bene comune, un bene rientrante nel patrimonio dell’umanità in quanto asservito alla ricerca scientifica. Invero, non soltanto i futuri ibernati contribuiscono indirettamente al processo scientifico nel settore della crioconservazione,  offrendosi quali cavie di fatto, ma generalmente al contratto viene apposta la clausola secondo la quale, qualora non si possa far luogo all’ibernazione, le somme di denaro già corrisposte verranno devolute a favore della ricerca scientifica.

Sebbene la disponibilità del proprio corpo si perde, com’è ovvio, soltanto al verificarsi della morte, tuttavia, vincolando il proprio corpo alla futura ibernazione, si producano degli effetti prodromici già durante la vita del futuro ibernato, funzionali ad evitare che questi realizzi qualsiasi circostanza ostativa all’eseguibilità dell’operazione. In particolare, il contraente, che sia affetto da male incurabile allo stato attuale della scienza, è tenuto a farsi ricoverare, nel periodo di prevedibile peggioramento della malattia, presso la clinica contraente in modo tale che si possa tempestivamente procedere all’ibernazione.

Le tecniche di crioconservazione del corpo umano, in quanto non praticate nel nostro Paese, si prospettano quali realtà lontane e vengono quasi offuscate da un alone di mistero, di fantascienza. Al contrario, se si evidenzia il dato relativo al numero di persone che hanno già stipulato un siffatto contratto, si può certamente affermare che si stia affacciando nel mondo del diritto una nuova epoca della corporeità, una concezione postmoderna del governo sul proprio corpo che impone un ripensamento della tradizionale disciplina interna.


Note e riferimenti bibliografici

(1)   Istituzioni di diritto privato, a cura di M. Bessone, Cap. X, di Cosimo Marco Mazzoni, pag. 128;

(2)   www.alcor.org