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Pubbl. Lun, 20 Giu 2022

Il diritto di autodeterminazione terapeutica nell´interruzione volontaria di gravidanza: profili di diritto civile

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Camilla Della Giustina
Dottorando di ricercaUniversità della Campania Luigi Vanvitelli



Il contributo, a partire dalla sentenza Cass. civ., Sez. III, Sent., (data ud. 18/02/2020) 06/07/2020, n. 13881, è preordinato a fornire una disamina del diritto di autodeterminazione terapeutica rapportato all´interruzione volontaria di gravidanza. L´obiettivo è quello di evidenziare tale particolare declinazione del diritto di autodeterminazione specialmente nell´ipotesi in cui il personale sanitario non fornisca adeguate informazioni.


ENG

The right of therapeutic self-determination in voluntary termination of pregnancy: profiles of civil law

The contribution, starting from the sentence Cass. civ., Sez. III, Sent., (data ud. 18/02/2020) 06/07/2020, n. 13881, is intended to provide an examination of the right of therapeutic self-determination in relation to the voluntary termination of pregnancy. The aim is to highlight this particular declination of the right of self-determination especially in the event that the health personnel do not provide adequate information.

Sommario: 1. Descrizione del caso; 2. Il diritto di autodeterminazione della gestante; 3. Il danno risarcibile: contenuto e onere della prova; 4. Riflessioni conclusive.

1. Descrizione del caso

Il caso sul quale è intervenuta la pronuncia della Corte di Cassazione[1] ha preso le mosse dalla richiesta di risarcimento del danno avanzata da una donna nei confronti del proprio ginecologo. Precisamente, la contestazione mossa al sanitario attiene alla mancata e tempestiva rilevazione di malformazioni fetali, qualificate come gravissime[2], nonostante l’esecuzione di ecografie periodiche effettuate durante la gravidanza.

La mancata diagnosi, secondo la ricostruzione offerta dalla ricorrente, avrebbe pregiudicato il proprio diritto di autodeterminazione circa la scelta di interruzione della gravidanza e, di conseguenza, l'avrebbe titolata a richiedere il risarcimento dei danni patrimoniali[3] e non [4].

La domanda avanzata dalla ricorrente è stata qualificata come lesione del diritto di esercitare l’aborto terapeutico, diritto che la donna, secondo la ricostruzione della Corte, avrebbe esercitato qualora fosse stata adeguatamente informata.

In relazione alle spese di assistenza protesica, poi, la sentenza emessa dalla Corte di Appello è risultata essere, in sede di legittimità, priva di vizi (pur denunciati dal ricorrente) poiché la Corte territoriale avrebbe correttamente applicato il principio di diritto in precedenza già espresso dalla Suprema Corte, ossia quello secondo cui «il danno consistente nelle spese per assistenza personale, patito dalla vittima di lesioni personali, va liquidato ai sensi dell'art. 1223 c.c. stimando il costo presumibile delle prestazioni di cui la vittima avrà bisogno in considerazione delle menomazioni da cui è afflitta, rapportato alla durata presumibile dell'esborso. Il risarcimento così determinato è dovuto per intero, senza alcuna riduzione percentuale corrispondente al grado di invalidità permanente patito dal danneggiato[5]».

2. Il diritto di autodeterminazione della gestante

La sentenza oggetto della presente analisi ha validato, confermandola in parte, la pronuncia del Tribunale di primo grado il quale, a sua volta, aveva affermato il diritto della gestante ad esercitare l’interruzione di gravidanza qualora il feto fosse stato affetto da gravi malformazioni.

Il riferimento è alla disciplina dettata in tema di autodeterminazione procreativa e, precisamente, alla l. n. 194/1928: detta normativa ha disciplinato le pratiche attinenti l’interruzione volontaria della gravidanza. L’articolo 1[6] della citata legge afferma il diritto a una procreazione cosciente e responsabile: la stessa menziona anche le condizioni al ricorrere delle quali la gestante può assumere la decisione di porre termine alla gravidanza che è in corso[7].  Anche i presupposti che legittimano il ricorso all’interruzione della gravidanza subiscono, poi, delle variazioni a seconda che la pratica venga esercitata entro i primi 90 giorni o in un momento successivo[8].

Ebbene, se l’interruzione di gravidanza è un diritto riconosciuto alla gestante, seppure esercitabile alla presenza di determinate condizioni, è evidente che la malformazione del feto suscettibile di cagionare un pregiudizio alla salute della madre come anche l’errata o omessa informazione relativa alla salute del feto medesimo lede il diritto di autodeterminazione della gestante[9].

In questo contesto deve essere, quindi, valutata la diligenza del personale medico. La condotta del professionista sanitario nell’omettere la comunicazione relativa alla anomalia o alla malformazione del feto, si pone in contrasto con il consenso informato, istituto che può essere elevato a fondamento di qualsivoglia trattamento medico[10]. Pertanto, dall’errata o dall’omessa diagnosi di una patologia del feto, possono concretizzarsi ulteriori fattispecie di danno: il danno da procreazione e il danno da nascita indesiderata.

Il primo allude alle conseguenze che possono essere patite dal concepito a causa della nascita malformata: originariamente, con tale espressione, ci si riferiva al pregiudizio che veniva subito dal nato a causa di condotte negligenti, imprudenti o imperite poste in essere dal personale medico o dal personale facente parte della struttura sanitaria.

All’interno del danno da procreazione sono state fatte rientrare, successivamente, anche differenti fattispecie, tra cui quelle che riassunte nelle espressioni «diritto a non nascere se non sano» e «diritto a nascere solo se sano». In particolare, la prima è stata qualificata [11] come la legittima pretesa risarcitoria avanzata dal figlio nei confronti dei genitori circa la trasmissione, attraverso il concepimento, di una condizione morbosa che ha menomato la sua efficienza fisica, ma l’orientamento, rinvenibile in pronunce di merito, non ha poi trovato un seguito in giurisprudenza[12].

Per quanto concerne la seconda declinazione del danno da procreazione, parte della giurisprudenza ha ritenuto sussistente in capo al concepito il diritto risarcitorio nell’ipotesi in cui avesse subìto un danno a causa dell’essere nato malformato a seguito di un errore imputabile al personale medico. La condotta tenuta da questi ultimi concerne la mancata rilevazione della patologia genetica di cui è portatore il concepito e, conseguentemente, nel mancato esercizio del diritto, esistente in capo alla gestante, di procedere alla interruzione volontaria della gravidanza[13]. La domanda risarcitoria, si precisa, viene rivolta al medico: quest’ultimo, non avendo rilevato la menomazione durante l’accertamento diagnostico non ha consentito l’esercizio del diritto riconosciuto, cioè, l’interruzione della gravidanza. La conseguenza della condotta del sanitario determina, quale conseguenza, la nascita di un soggetto affetto da patologie gravi.

Circa la legittimità di tale richiesta, si rinviene una pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione[14] per mezzo della quale è stato sancito che il nato disabile non può agire in giudizio al fine di ottenere il risarcimento del danno poiché, non solamente l’ordinamento giuridico italiano non riconosce «il diritto a non nascere se non sano» ma, altresì, la vita di un bambino non «può integrare un danno-conseguenza dell'illecito omissivo del medico».

La medesima condotta tenuta dal medico, ossia l’errata, omessa o non tempestiva comunicazione delle malformazioni, sebbene non determina l’insorgenza di un danno in capo al concepito, può fondare la pretesa risarcitoria della gestante[15]. La mancata messa a conoscenza della donna, determinata da un errore del medico o da una condotta omissiva in termini di informazione, infatti, lede il diritto, costituzionalmente garantito, di autodeterminazione della donna[16]. La violazione del menzionato diritto, quindi, può legittimamente fondare una pretesa risarcitoria basata sui pregiudizi sia patrimoniali che non [17].

In questo contesto, condizione necessaria ai fini del riconoscimento del danno è la prova (che deve essere fornita dalla madre) del fatto che, qualora debitamente informata della patologia del feto, avrebbe interrotto la gravidanza. A contrario, qualora dovesse risultare che, seppur in presenza di una tempestiva informazione, la gestante non avrebbe interrotto la gravidanza, la domanda risarcitoria non potrebbe trovare accoglimento[18].

L’aspetto cruciale, ai fini del riconoscimento del danno da lesione del diritto di autodeterminazione, è, quindi, la volontà della madre, in presenza di una malformazione del feto, di accedere a tecniche di interruzione della gravidanza. Di conseguenza, l’omessa informazione non di è di per sé elemento che può far sorgere automaticamente il diritto al risarcimento del danno[19].

Se quanto appena esposto è risultato essere un orientamento accettato dalla giurisprudenza, recentemente la Corte di Cassazione ha viceversa svincolato la pretesa risarcitoria dalla necessità di fornire la prova della volontà della gestante di interrompere la gravidanza al ricorrere di malformazioni. Il fondamento di tale ultimo orientamento, è da rinvenirsi nella valorizzazione del principio di autodeterminazione, secondo la lettura costituzionalmente orientata ai sensi degli artt. 2 e 13 Cost.[20].

In base al richiamato ultimo orientamento, la consulenza genetica si pone, oggi, come punto di partenza dal quale derivano una innumerevole serie di decisioni, esistenziali, morali e materiali, che acquistano una propria rilevanza autonoma rispetto sia alla interruzione di gravidanza sia alla tutela della salute in senso stretto.

In altri termini, è proprio la violazione del principio di autodeterminazione, da interpretare in senso ampio, a fondare la pretesa risarcitoria: il pregiudizio si concretizza, allora, in sofferenze soggettive che derivano dalla compressione della libertà riconosciuta in capo al soggetto di disporre di sé stesso[21].

3. Il danno risarcibile: contenuto e onere della prova

A seguito dell’approdo giurisprudenziale cui è giunta la Suprema Corte, ai fini di ammettere la risarcibilità del danno ai sensi dell’art. 2059 c.c. è necessario che il pregiudizio arrecato alla gestante superi la soglia della normale tollerabilità. Si richiede, in altri termini, che la lesione del diritto di autodeterminazione terapeutica sia tale da poter essere qualificato come serio al fine di assurgere come meritevole di tutela in un sistema che, proprio in forza della Carta costituzionale italiana (art. 2 Cost.), impone la sopportazione di un livello minimo di tolleranza[22].

In termine di onus probandi, in forza della lettera dell’art. 1223 c.c., la madre deve dimostrare di aver subito un pregiudizio quale conseguenza immediata e diretta della omessa informazione da parte del medico. Deve dimostrare che, se correttamente informata, non avrebbe subito i nocumenti derivanti dalla mancata informazione[23] attraverso, dunque, la prova controfattuale[24] che può essere assolta anche attraverso il ricorso a presunzioni.

È evidente che la ripartizione dell’onere probatorio assume rilevanza sotto un duplice aspetto. In primis, viene richiesto che la prova riguardi il rapporto causale che deve sussistere tra l’inadempimento imputabile al personale sanitario, ossia l’omessa diagnosi di malformazione del feto, e il mancato ricorso all’aborto. In secundis, la gestante deve offrire la prova delle condizioni che consentono di procedere all’interruzione di gravidanza, cioè, quelle menzionate dagli artt. 4 e 6 l. n. 194/1978. Le condizioni appena menzionate, sebbene necessarie, non possono definirsi sufficienti poiché, aspetto cruciale è che la donna fornisca la prova circa la mancata volontà di proseguire con la gestione se venuta a conoscenza delle anomalie e delle malformazioni del nascituro[25].

La prova circa la propensione della donna, alle condizioni appena menzionate, di accedere a pratiche di interruzione della gravidanza può avvenire sia secondo le modalità stabilite dall’art. 2697 c.c., rispettoso del principio di vicinanza della prova, sia in via presuntiva[26]. In quest’ultima ipotesi, il riferimento è all’art. 2729 c.c. in forza del quale è possibile provare l’esistenza di un fatto ignoto quale conseguenza di un fatto noto in forza non solamente di correlazioni ricorrenti ma, altresì, di circostanze contingenti, atipiche che risultano dagli atti istruttori[27].

Il medico, in senso opposto, dovrà dimostrare che la gestante non avrebbe deciso di accedere alle tecniche di interruzione della gravidanza in forza di un convincimento personale[28].

Alla luce di quanto esposto, la prova che deve essere fornita, tanto dal medico quanto dalla madre, concerne la sussistenza di anomalie rilevanti o malformazioni del nascituro idonee a determinare un pericolo, qualificabile come grave, per la salute fisica o psichica della donna[29] da valutare in forza delle concrete circostanze nonché della sensibilità della donna.

È rimessa al giudice, una volta che l’onere probatorio sia stato assolto, l’accertamento diretto a qualificare il danno come serio e grave in un’ottica di bilanciamento tra il principio di solidarietà e di tolleranza[30] da valutare attraverso l’applicazione del parametro della coscienza sociale presente in un determinato momento storico[31].

La responsabilità nei confronti della gestante ricade sia nei confronti del medico che della struttura sanitaria nonostante si tratti di due species di responsabilità differenti. La prima di natura extracontrattuale, la seconda di natura contrattuale[32]: la donna che dovesse decidere di agire nei confronti della struttura sanitaria può limitarsi ad allegare l’inadempimento dell’esercente la struttura sanitaria, in capo a quest’ultima sussisterà l’onere di provare l’adempimento consistente nell’attività di informazione della gestante circa le anomalie e malformazioni del feto. Se la domanda viene proposta nei confronti del medico, sarà onere di parte attrice, ossia della gestante, di provare la violazione dell’obbligo di diagnosticare le malformazioni.

Ultimo aspetto da prendere in considerazione attiene al nomen da riferire al danno che viene vantato: ci si chiede se si tratti di danno esistenziale o di danno non patrimoniale. Il primo elaborato proprio al fine di offrire tutela a interessi e diritti costituzionalmente garantiti può essere identificato nella lesione della personalità del soggetto che si può concretizzare in una apprezzabile modificazione della vita dell’individuo che, a sua volta, si traduce in un «un agire altrimenti[33]» o nel «non poter fare più come prima[34]».

L’aspetto problematico del danno esistenziale[35] concerne la sua possibile riconduzione nel concetto di danno biologico, soluzione che sembra essere confermata dall’art. 138 cod. ass[36]. In forza di questa nuova interpretazione, alla nozione di lesione dell’integrità psico-fisica viene aggiunta l’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti relativi alla vita del danneggiato in modo indipendente da eventuali riflessioni sulla capacità di produrre reddito. A contrario, la riconduzione del genus del danno morale[37] viene giustificata dal fatto che questa voce risarcitoria propaga i propri effetti sia all’esterno che all’interno poiché incide su aspetti attinenti alla realizzazione della personalità dell’individuo[38].

A seguito dell’abbandono della figura del danno esistenziale, a partire dalle sentenze di San Martino, e dal mancato richiamo di esso in quelle che sono le «nuove sentenze di San Martino[39]», la voce risarcitoria oggetto della presente trattazione potrebbe essere ricondotta nella fattispecie dell’art. 2059 c.c.[40].

4. Riflessioni conclusive

Il diritto di autodeterminazione terapeutica rappresenta l’architrave sul quale poggia tutto il sistema della responsabilità medico-legale del sanitario. Precisamente, il diritto de quo, che viene espresso attraverso il consenso libero e informato del paziente, possiede rilevanza proprio in quanto affonda le proprie radici in tre disposizioni costituzionali, ossia l’art. 2, 13 e 32 Cost. assurgendo a canone fondamentale per quanto attiene la tutela della salute del soggetto[41].

Corollario di questo è il consenso informato[42], il quale, proprio in quanto intimamente connesso al principio di autodeterminazione terapeutica, può essere qualificato come principio fondamentale poiché sintesi del diritto alla salute e, appunto, del già richiamato diritto di autodeterminazione terapeutica[43].

A partite da queste premesse, emerge chiaramente come la mancata o omessa informazione da parte del medico, nel caso di specie il ginecologo di fiducia, circa la presenza di gravi malformazioni del feto è condotta idonea a incrinare il principio di autodeterminazione della gestante. In questo senso, infatti, la donna non è posta nella condizione di assumere consapevolmente e autonomamente adesione al trattamento sanitario. Dall’altra parte, il consenso informato è qualificabile non solamente come diritto ma anche come obbligo per il sanitario che si traduce nel dovere di fornire informazioni dettagliate circa la natura dell’intervento, sia esso medico o chirurgico che deve essere eseguito[44].

Si deve aggiungere che, l’omissione da parte del sanitario circa l’informativa necessaria a rendere edotto il paziente, è condotta autonoma rispetto al trattamento terapeutico in sé e per sé considerato. Il danno che deriva dalla violazione del diritto di autodeterminazione può, addirittura, concretizzarsi in una minore qualità del vissuto della paziente dalla quale, a sua volta, deriva una minore serenità e predisposizione circa l’accettazione di eventuali e inaspettate conseguenze e sofferenze. Ulteriori conseguenze attengono alla limitazione della libertà di poter disporre di sé stessi, alla menomazione psichica e fisica, a cui aggiungere la perdita della possibilità, definibile come perdita di chance, di poter accedere al medesimo trattamento sanitario in un’altra struttura e da parte di un altro medico[45].

In conclusione, dunque, sotteso alla volontà di accedere a trattamenti terapeutici di interruzione della gravidanza per malformazioni del feto è il principio di autodeterminazione della gestante a ricevere tempestive e corrette informazioni circa il proprio stato di salute e quello del feto.

Proprio con riferimento alla gravidanza e alla eventuale decisione di porre termine a essa, il diritto di autodeterminazione, nell’opinione di scrive, subisce un incremento importante proprio in ragione della peculiarità della materia. La gestante, infatti, si trova a dover assumere una decisione che non riguarda solamente la propria vita e il proprio corpo ma anche quella di altri soggetti, in primis, del feto. Essa si fa portatrice di diritti, di aspettative, di eventuali problematiche che non sono riferibili solamente al suo essere ma che necessariamente riguarderanno anche la vita in divenire di un altro essere.

Proprio per questo, si ritiene che il principio di autodeterminazione e relativo consenso informato, con precipuo riferimento alle pratiche mediche ginecologiche, dovrebbe essere interpretato in modo estremamente rigoroso imponendo al personale medico, nel caso di specie il ginecologo, di prestare particolare perizia e attenzione non solo nell’esecuzione degli accertamenti ma anche nella comunicazione dei risultati. Il sanitario, infatti, è responsabile non solamente della salute della madre ma anche di chi ancora persona non è, ossia, il nascituro.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Cass. civ. n. 13881/2020.

[2]Il riferimento è a agenesia del perone, della tibia e del piede destro, agenesia della mano destra, malformazioni alle dita della mano sinistra determinata dalla «sindrome delle briglie amniotiche».

[3] Diminuzione dell’attività professionale di avvocato, del reddito professionale, spese di cura e assistenza per l’acquisto di protesi, adeguamento dell’abitazione e mantenimento del figlio.

[4] Inabilità temporanea, invalidità permanente, danni alla sfera sessuale e affettiva. Il tribunale adìto in primo grado, a seguito dell’espletamento di CTU medico-legale effettuata al fine non solo di accertare ma anche di quantificare il danno non patrimoniale patito dalla madre nonché ai fini di pervenire a una quantificazione dei costi necessari per la protesizzazione del figlio, aveva dichiarato responsabile il medico ai sensi dell’art. 1218 c.c. Precisamente, il medico, nella ricostruzione di prime cure, non aveva correttamente adempiuto alle obbligazioni assunte da contratto dato che si era discostato dalle linee guida nell’esecuzione della seconda ecografia alla data della 20esima settimana. Egli, infatti, aveva rilasciato un referto incompleto nel quale dava atto di aver proceduto alla verifica di tutti gli arti.  Avverso la sentenza di condanna di primo grado, l’azienda Ospedaliera, il medico e la compagnia di assicurazione proponevano separati appelli: il giudizio di secondo grado, sebbene confermava la linea decisionale assunta dal tribunale di primo grado, riduceva l’importo complessivo. La Corte d’Appello (Corte d’Appello di Milano, n. 3196/2916) precisamente, ricavava dalla volontà della gestante di effettuare l’amniocentesi la propensione a procedere all’interruzione di gravidanza nell’ipotesi in cui fosse stata correttamente informata circa l’esistenza di malformazioni fetali.

[5] Cass. civ. n. 17815/2019. L’unico motivo che viene accolto attiene il mancato inserimento, all’interno del calcolo del danno correlato al sostenimento, anche per il futuro da parte della madre, delle necessarie spese di acquisto e di sostituzione delle protesi, di un meccanismo che possa essere definito come riequilibratore circa la ricezione anticipata di capitale per ristorare un pregiudizio che si continuerà a verificare nel tempo. Per la Corte di Cassazione, dunque, la sentenza pronunciata dal Giudice d’Appello «deve essere cassata affinché il giudice di merito ricalcoli l'importo da liquidare per l'anticipata liquidazione delle spese da sostenere nel futuro, integrando la base di calcolo tenuta in conto dalla corte d'appello, che non è scalfita idoneamente dalle critiche contenute nei motivi di ricorso, con uno dei meccanismi di riequilibrazione alternativamente segnalati da Cass. n. 7774 del 2016 in applicazione del principio di diritto da essa espresso». Ossia, «il danno permanente futuro, consistente nella necessità di sostenere una spesa periodica vita natural durante (nella specie, per assistenza domiciliare), non può essere liquidato attraverso la semplice moltiplicazione della spesa attuale per il numero di anni di vita stimato della vittima, ma va liquidato o in forma di rendita, oppure moltiplicando il danno annuo per il numero di anni per cui verrà sopportato e, quindi, abbattendo il risultato in base ad un coefficiente di anticipazione, ovvero, infine, attraverso il metodo della capitalizzazione, consistente nel moltiplicare il danno annuo per un coefficiente di capitalizzazione delle rendite vitalizie».

[6] Enuncia che «lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L'interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite.  Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell'ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che lo aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite».

[7] M. GORGONI, Interruzione volontaria della gravidanza tra omessa informazione e pericolo per la salute (psichica) della partoriente, in Danno resp., 1999, pp. 773 ss.

[8] Gli articoli di riferimento sono il n. 4 e il n. 6, il primo disciplina l’interruzione entro i primi novanta giorni, il secondo quella del periodo successivo. In base a quest’ultima ipotesi, l’interruzione volontaria di gravidanza può essere praticata solamente qualora ricorrano due ipotesi, ossia, «a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna». Per quanto attiene alla prima, quindi il riferimento normativo è all’art. n. 4, esso sancisce che «per l'interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolge ad un consultorio pubblico istituito ai sensi dell'art. 2, lett. a), della l. 29 luglio 1975 n. 405, o a una struttura socio-sanitaria a ciò abilitata dalla regione, o a un medico di sua fiducia».

[9] F. MOLINARO, Evoluzione del diritto all’autodeterminazione e risarcimento del danno per l’omessa informazione delle malformazioni fetali, in Responsabilità civile e previdenza, fasc. 5/2021, pp. 1531 ss.

[10] Cass. 8 febbraio 2019 n. 3720, in Foro it., 2019, I, 1215. R. BALDUZZI, D. PARIS, Corte costituzionale e consenso informato tra diritti fondamentali e ripartizione delle competenze legislative, in Giurisprudenza costituzionale, n. 3/2008, pp. 4953 ss.; F. AGNINO, Lesione del consenso informato e risarcimento del danno: il danno è in re ipsa, in Foro it., 2018, I, pp. 23299 ss.; M. CAPUTI, Consenso informato, autodeterminazione e contrasti occulti ma non troppo, in Nuova giur. civ. commentata, 2018, I, pp. 1652 ss.; I. PIZZIMENTI, Consenso informato e danno da lesione del diritto all'autodeterminazione: il risarcimento è automatico?, Cass. 17 gennaio 2019 n. 1043, in Leggi d'Italia.it. Sul punto si richiama la l. n. 219/2017 il cui art. 1 co. 1 il cui obiettivo è quello di tutelare «il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge».

[11] F. CECCONI, G. CIPRIANI, Responsabilità medica: quando il consenso, veramente informato, fa la differenza, in Responsabilità civile e previdenza, n. 2/2014, pp. 621 ss.

[12] L’idea alla base è quella secondo cui «nella propagazione della vita umana, e nel venire al mondo di queste o quelle individualità (sane o malate) si scorge un disegno ben più alto e misterioso di quanto i genitori possano comprendere e volere, e che trascende perciò il loro merito, ma anche la loro responsabilità». S. LENER, Mero delitto civile la paternità?, in Foro it., 1952, p. 21.

[13] Si tratta di un aspetto oggetto di attuale dibattito giuridico. Precisamente il riferimento va alla recente sentenza della Corte Suprema (Planned Parenthood of Southeastern Pennsylvania v. Casey, 505 U.S. 833 (1992), 887) in relazione al «Louisiana Unsafe Abortion Protection Act». Questo provvedimento legislativo prevedeva che il personale medico, al fine di svolgere le operazioni di interruzione della gravidanza, dovesse essere titolare dei cd. «active admitting privileges» presso un ospedale che fosse situato entro 30 miglia dal luogo in cui si sarebbe svolto l’aborto. In estrema sintesi la decisione della Corte Suprema ha evidenziato che le normative in tema di aborto possono contenere dei limiti ma questi devono essere bilanciati dall’esistenza di opportuni “benefits” e non devono incidere sulla libertà decisionale della donna di interrompere o meno la gravidanza. A contrario, ossia nell’ipotesi in cui questi limiti non dovessero trovare alcuna giustificazione si realizzerebbe un onere eccessivo, un ostacolo alla libertà di scelta della donna. M.C. ARRIGO, Corte Suprema e diritto all’aborto. Il caso della Louisiana e l’importanza della libertà di poter scegliere, in Federalismi.it, n. 1/2021, pp. 19 ss.; G. TIEGHI, Sfide (epocali?) generate dalla State Abortion Lefislation statunitense: “Critical Oral Arguments” dinanzi alla Corte Suprema, in DPCE-Online, n. 1/2022, pp. 121 ss.

[14] Cass. civ., sez. unite, n. 25767/2015.

[15] Da un punto di vista di diritto comparato il riferimento è alla «wrongful birth»: questa espressione viene utilizzata per ricomprendere tutti i danni che la madre subisce a condizione che siano riconducibili a errori medici relativi alla gestione di una gravidanza. In tal senso rientrano, quindi, sia le condotte erronee che vengono effettuate durante l’intervento di interruzione di gravidanza, sia quelle attinenti alla prescrizione di contracettivi e, infine, quelle svolte in sede di consulenza genetica effettuata proprio con la finalità di riscontrare delle malformazioni del feto. J.L. DIAMOND, L.C. LEVINE, A. BERNSTEIN, Understanding torts, San Francisco, 2013, pp. 156-159; N. MUCCIOLI, Diagnosi prenatale inesatta e responsabilità del medico, in Contratti, n. 2/2013, p. 586.

[16] Il riferimento è agli artt. 2, 13 e 32 Cost.

[17] R. DE MATTEIS, Il danno risarcibile per nascita indesiderata, in Danno resp., 1999, pp. 1034 ss.; A. LISERRE, Mancata interruzione della gravidanza e danno da procreazione, in Corr. giur., 2004, p. 1437.

[18] C.M. BIANCA, Inadempimento delle obbligazioni, Bologna, 1979, p. 237.

[19] F. MOLINARO, Evoluzione del diritto all’autodeterminazione e risarcimento del danno per l’omessa informazione delle malformazioni fetali, op. cit.

[20] A. AMIDEI, Consenso informato e risarcimento del danno per omessa informazione, in Giur. it., fasc. 2/2021, p. 496.

[21] Non si tratta di un danno presunto ma di una negativa influenza e incisione sulla personalità e sulla sfera di interessi, di rapporti personali e famigliari dei futuri genitori. Il danno non è presunto ma concreto poiché si traduce in un cambiamento di vita. G. FACCI, Il danno da nascita indesiderata e la legittimazione al risarcimento del padre, in Fam. dir., 2006, p. 262; E. GALATI, Considerazioni su errore diagnostico, danno da nascita indesiderata e danni risarcibili, in Resp. civ., 2012, p. 870; M. GAGLIARDI, Un decalogo anche su consenso informato (complicanze) e danni risarcibili, in Nuova giur. civ. comm., n. 2/2020, p. 276; I. SARDELLA, La nuova responsabilità sanitaria: quali novità in tema di consenso informato, in Danno resp., n. 2/2019, p. 165.

[22] C. SALVI, Il danno extracontrattuale modelli e funzioni, Napoli, 1985, 155,

[23] A titolo esemplificativo, la possibilità di prepararsi per affrontare e gestire la nascita di un bambino malformato, non aver potuto porre in essere interventi tempestivi per attenuare o ridurre la malattia del nato.

[24] C. PETRUZZI, La lesione del diritto all'autodeterminazione terapeutica quale fonte autonoma di responsabilità, in Danno resp., n. 6/2019, p. 800.

[25] Cass. 22 dicembre 2015 n. 25767.

[26] Essa viene posta a carico della donna non integrando una presunzione legale prevista dal legislatore che esenta l’attore dall’onere di provare uno o più elementi integrativi nonché ulteriori rispetto alla premessa. Si osserva, infatti, che il legislatore non pone alcun esonero a favore della madre per quanto attiene dall’onere di fornire la prova della malattia grave, sia essa fisica o psichica, che giustifichi il ricorso all’aborto e nemmeno la sua volontà conforme di fare ricorso all’interruzione della gestazione. Cass. 22 dicembre 2015 n. 25767.

[27] Cass. 22 dicembre 2015 n. 25767.

[28] Ibidem.

[29] E.A. EMILIOZZI, Malformazione fetale non diagnostica: quali danni? In Diritto di Famiglia e delle Persone (II), fasc. 2/2020, pp. 162 ss.

Sul punto è stato precisato come sia impossibile fornire una elencazione tassativa ed esaustiva delle anomalie che possano fondare la presunzione di ricorso alla pratica dell’aborto. Cass. 22 dicembre 2015 n. 25767.

[30] V. FANTETTI, Diritto di autodeterminazione e danno esistenziale alla luce della recente pronuncia delle S.U. della Cassazione, in Resp. civ., n. 1/2009, p. 90.

[31] L. PAPI, La responsabilità medica per difetto di consenso alla luce degli ultimi orientamenti della Cassazione civile: verso un riequilibrio del sistema?, in Riv. it. med. leg., fasc. 3/ 2011, pp. 704 ss.

[32] Art. 7 co. 1 l. 24/2017 «la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell'adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell'opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose». In forza del terzo comma, «l'esercente la professione sanitaria... risponde del proprio operato ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile».

[33] D. CHINDEMI, Il danno esistenziale «esiste», in Responsabilità civile e previdenza, fasc. 6/2005, p. 1459.

[34] M SELLA, Danno esistenziale: la scienza raccoglie la sfida, in Giur. merito, 2007, p. 1206.

[35] Il danno esistenziale è un danno non patrimoniale preordinato a offrire tutela la qualità di vita del danneggiato e caratterizzato da una eccentricità ontologica. Con la prima sentenze delle Sezioni Unite il danno esistenziale venne ricondotta nel danno non patrimoniale all’interno del quale vengono, a sua volta, valorizzati gli aspetti economici sia del danno biologico che di quello morale andando quindi a contraddire la natura unitaria del danno non patrimoniale (Cass. civ., sez. un. 11 novembre 2008, nn. 26972 e 26975). Nell’agosto del 2017, con l’entrata in vigore della l. n. 124/2017 e, precisamente, dell’art. 17 è stato riformulato l’art. 38 Codice delle Assicurazioni Private introducendo importanti novità, ossia: 1) l’affermazione del diritto di una vittima di un incidente stradale a ottenere un pieno risarcimento abbandonando quindi la regola del risarcimento limitato; 2) ai fini di determinare livelli di risarcimento pieno si fa riferimento alle Tabelle giudiziali; 3) si torna a una valutazione morale del danno. Questo percorso si conclude nel 2020 in forza di un paio di sentenze della Corte di Cassazione in forza delle quali il danno morale non è più accertabile da parte del medico legale e quindi non è più tabellare. Il riferimento è a Cass., 4 febbraio 2020, n. 2461 secondo cui, il danno morale, a differenza del danno biologico, proprio per non possedere fondamento medico-legale deve essere «allegato, provato e valutato nella sua concreta, multiforme e variabile fenomenologia che nessuna ragione logica, oltre che nessun fondamento positivo, consente di rapportare in termini standardizzati alla gravità della lesione all'integrità psico-fisica». Questo orientamento trova successiva conferma dalla pronuncia di novembre (Cass., 10 novembre 2020, n. 25164). Per un approfondimento G. PONZANELLI, Danno morale: sofferenza interna, esterna e risarcimento integrale – il danno morale e la sua valutazione: i corsi e ricorsi della giurisprudenza, in Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), fasc. 2/2021, pp. 481 ss.

[36] C. SALVI, Diritto postmoderno o regressione premoderna?, in Europa dir. priv., n. 3/2018, p. 875.

[37] Cfr. L. OLIVIERI, L’autonomia concettuale sfocia nell’insussistenza: dove sta andando il danno morale? Un panorama giurisprudenziale, in Responsabilita' Civile e Previdenza, fasc. 4/2021, pp. 1402 ss.; C. SCOGNAMIGLIO, Riflessioni in tema di risarcimento del danno per c.d. perdita della chance, in Responsabilita' Civile e Previdenza, fasc.6/2020, pp. 1742 ss.

[38] G. NAPPI, Il danno esistenziale, in Giust. Civ, II, 2007, p. 451.

[39] Cass. civ., nn 28985-28994/2019. In dottrina P.G. MONATERI, Il nuovo quadro della responsabilità medica e del danno alla persona secondo la Corte di cassazione, in Danno e responsabilità, n. 2/2020.

[40] P. DONADONI, Danno non patrimoniale, morale, biologico, esistenziale: questioni linguistiche e sistematico-concettuali, in Giust. civ., n. 9/2006, pp. 1477 ss.

[41] Sul punto Corte cost. n. 438/2008 secondo cui ««la circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all'autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all'art. 32, secondo comma, della Costituzione. Discende da ciò che il consenso informato deve essere considerato un principio fondamentale in materia di tutela della salute».

[42] Il consenso informato «non solo da un punto di vista etico e giuridico, ma anche e soprattutto perché è il primo e più fondante dei fattori necessari a costituire, tra medico e paziente, la fiducia necessaria per creare un'alleanza terapeutica. In tale ottica di rispetto delle motivazioni personali dell'individuo s'inserisce anche la necessità da parte del medico e dell'ordinamento di offrire un valido supporto nelle situazioni di debolezza e di sofferenza del paziente, rispettando l'eventuale dissenso al trattamento se consapevole e informato». F.M. MOSCATI- S.M. DE MARCO- G. MANDARELLI- S. FERRACUTI- P. FRATI, Il consenso informato e il trattamento dei disturbi della condotta alimentare, in Riv. it. med. leg., 2013, p. 1271.

[43] M. PLUTINO, Le vaccinazioni. Una frontiera mobile del concetto di “diritto fondamentale” tra autodeterminazione, dovere di solidarietà ed evidenze scientifiche, in Dirittifondamentali.it, fasc. 1/2017, p. 9. D. MORANA, A proposito del fondamento costituzionale per il “consenso informato” ai trattamenti sanitari: considerazioni a margine della sentenza 438/2008 della Corte Costituzionale, in Giur. Cost., 2008, 4970 ss.

[44] Il riferimento a una pronuncia della Corte di Cassazione secondo cui obbligo del personale sanitario è quello di «rendere edotto il paziente, indipendentemente dalla riconducibilità o meno di tale attività informativa ad un vincolo contrattuale o ad un obbligo legale, trovando titolo il dovere in questione nella qualificazione “illecita” della condotta omissiva o reticente, in quanto violativa di un diritto fondamentale della persona, e dunque da ritenere “contra jus”, indipendentemente dalla sussunzione del rapporto medico-paziente nello schema contrattuale o del contatto sociale, ovvero dell'illecito extracontrattuale... ». Cass. civ., n. 28985/2019.

[45] P. FRATI, A. CAMPOLONGO, R. LA RUSSA, M. SCOPETTI, V. FINESCHI, Violazione del consenso informato: codifichiamo nozioni, significati e risarcibilità dei danni alla luce della pronuncia n. 28985/2019 della Suprema Corte di Cassazione, in Responsabilita' Civile e Previdenza, fasc.4/2020, pp. 1364.