Pubbl. Lun, 31 Gen 2022
La Corte costituzionale demolisce un altro caposaldo del diritto penale del nemico: l´avvocato non è complice del detenuto pericoloso
Modifica paginaIl contributo si sofferma brevemente sulla sentenza della Corte costituzionale del 24 gennaio 2022, n. 18, sui controlli della corrispondenza tra il detenuto in regime di “carcere duro” e l’avvocato difensore
Sommario: 1. Premesse; 2. La posizione assunta dalla Consulta; 3. Conclusioni.
1. Premesse
La sentenza Corte cost., 2 dicembre 2021, dep. 24 gennaio 2022, n. 18 – Pres. Coraggio – Rel. Viganò rappresenta l’epilogo del procedimento nel quale la Consulta è stata chiamata a scrutinare la legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera e) della l. 26 luglio 1975, n. 354, sull’ordinamento penitenziario, per l’effetto dell’ordinanza di remissione della Sesta Sezione penale della Cassazione.
Il giudice a quo, in particolare, aveva sollevato dubbi di legittimità della suddetta disposizione, nella misura in cui essa avrebbe autorizzato anche la c.d. “censura” della corrispondenza tra detenuto in regime di “carcere duro” ed il proprio difensore; il che, ad avviso della Cassazione stessa, si sarebbe rivelato in contrasto con gli artt. 3, 15, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione (quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU)[1].
L’imputato, più precisamente, condannato in primo grado ad una pena assai severa perché ritenuto esponente di una consorteria criminale con le caratteristiche di cui all’art. 416-bis c.p., detenuto in regime di sicurezza di cui alla predetta disposizione speciale, aveva spiegato impugnazione avverso il provvedimento del Tribunale di Locri che aveva disposto il trattenimento di un telegramma indirizzato dal soggetto al proprio difensore. Il reclamo, tuttavia, era stato rigettato, atteso che il giudice del gravame aveva rilevato la pericolosità della comunicazione “intercettata”, in quanto recante frasi ambigue e, dunque, potenzialmente idonea a veicolare all’esterno della struttura penitenziaria, attraverso un “codice”, dei messaggi di natura illecita.
Sicché il ricorso da parte dell’interessato davanti alla Cassazione, che, vagliati i motivi proposti, aveva deferito alla Consulta la questione di legittimità dell’art. 41-bis o.p.; difatti, la Corte di cassazione aveva rimarcato che la disposizione indubbiata si sarebbe posta in irragionevole asimmetria con l’art. 18 o.p., che vieta il controllo e la limitazione della corrispondenza dei detenuti con i soggetti indicati all’art. 103 comma 4 c.p.p., e quindi con il difensore.
Sulla scorta di tali rilievi, il giudice a quo aveva rilevato anche che la disposizione censurata si sarebbe posta in irrimediabile tensione non soltanto con l’art. 15 Cost., che tutela il diritto di corrispondenza, bensì con gli artt. 24 e 111 Cost., e cioè con il diritto di difesa ed il principio del giusto processo. In proposito, si era soggiunto che pur non potendosi escludere l’ipotesi del difensore quale “ponte di comunicazione” illecita tra detenuto e gruppo criminale di appartenenza, ciò non avrebbe potuto neppure condurre a ritenere ciò riconducibile ad una sorta di “massima d’esperienza”, tanto da giustificare un giudizio di pericolosità assoluta, secondo la logica dell’id quod plerumque accidit.
Del resto, profili di irragionevolezza sarebbero derivati anche dalla circostanza che i colloqui visivi e telefonici tra detenuto in regime di 41-bis o.p. e difensore siano comunque sottratti dal controllo uditivo e dalla videoregistrazione; tale coacervo di censure era stato peraltro condiviso dall’associazione “Italiastatodidiritto”, che aveva spiegato intervento nella veste di “amicus curiae”, anche rammentando gli arresti della Corte di Strasburgo sui casi Montani c. Italia[2] e Zara c. Italia[3].
2. La posizione assunta dalla Consulta
La Corte, allora, ha innanzitutto ricostruito l’iter normativo che ha condotto alla disposizione indubbiata, a partire dall’art. 18 o.p. che, originariamente, prevedeva la generica possibilità di controllo della corrispondenza di tutti i detenuti; successivamente, con l’entrata in vigore del nuovo codice di rito, nel 1989, è stato introdotto – come ben risaputo – attraverso l’art. 103 comma 6, il divieto di controllo di tale forma di comunicazione con il difensore, salvo particolari eccezioni e purché vengano rispettate le formalità di cui all’art. 35 delle norme di attuazione[4].
A seguito dell’introduzione dell’art. 41-bis o.p. (d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. l. 7 agosto 1992, n. 356) è stata poi approvata la l. 23 dicembre 2002, n. 279, che ha introdotto il comma 2 quater, oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in disamina.
Dopo tale excursus, la Corte ha focalizzato la propria attenzione sulla giurisprudenza della Corte EDU intervenuta in ordine all’art. 18 o.p., più volte censurato per violazione dei diritti del detenuto, condizionando il legislatore italiano, che infatti ha modificato la disposizione con la l. 8 aprile 2004, n. 95, limitando il controllo della corrispondenza ai casi di esigenze di tutela delle indagini o di prevenzione dei reati, escludendo comunque le comunicazioni con il difensore.
È stato altresì rammentato che il comma 2-quater dell’art. 41-bis, per l’effetto della l. 15 luglio 2009, n. 94, ha sostanzialmente reso obbligatorio il controllo della corrispondenza del detenuto in carcere duro senza nulla specificare in ordine a quella con il difensore, tanto è vero che il DAP con la Circolare n. 3676/6126 del 2 ottobre 2017 ha disposto che vi «è tassativo divieto di sottoporre a limitazioni e/o controlli la corrispondenza cd. “per giustizia”», attraverso una soluzione più volte avallata anche dalla giurisprudenza[5].
Tuttavia, la Consulta ha rimarcato che il divieto di controllo della corrispondenza tra detenuto in regime di carcere duro e difensore non sarebbe oggetto di giurisprudenza consolidata, non essendo dunque sancito dal c.d. “diritto vivente” e risultando, per altro verso, fondata l’obbligatorietà della censura su argomenti letterali e sistematici; talché, essendo il dato testuale – ha rilevato la Corte in un passaggio di fondamentale importanza - «il naturale limite dello stesso dovere del giudice di interpretare la legge in conformità alla Costituzione», la rilevanza della questione sottoposta dalla Cassazione.
Sulla scorta di tali rilievi, pertanto, si è ritenuta fondata la questione sollevata nel prisma dell’art. 24 Cost., anche alla luce dell’art. 8 CEDU e della giurisprudenza di Strasburgo, che hanno esaltato il valore del diritto di difesa; dal che l’esigenza di un allineamento della disciplina anche con la sentenza Corte cost., 20 giugno 2013, n. 143, che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera b), ultimo periodo, nella parte in cui la disposizione limitava il numero di colloqui ammessi tra detenuto e difensore.
A tal proposito, allora, la Corte ha sancito:
- il difetto di funzionalità, e di ragionevolezza, della disposizione, atteso che il fine illecito eventualmente perseguito dal detenuto potrebbe comunque essere perseguito attraverso i colloqui de visu o telefonici con il difensore, e quindi con modalità alternative alla corrispondenza scritta;
- la sproporzione tra mezzo e scopo, atteso che la disposizione, «potendo addirittura impedire che talune comunicazioni giungano al proprio destinatario – appare certamente eccessiva rispetto allo scopo perseguito, dal momento che sottopone a controllo preventivo tutte le comunicazioni del detenuto con il proprio difensore. E ciò in assenza di qualsiasi elemento concreto che consenta di ipotizzare condotte illecite da parte di quest’ultimo».
Particolarmente significativo appare poi l’ultimo passo che scandisce la trama motivazionale, ove la Corte ha rilevato: «il vulnus al diritto di difesa risulta particolarmente evidente nei confronti dei detenuti meno abbienti. Qualora infatti il detenuto sia stato trasferito in una struttura penitenziaria distante dalla città in cui ha sede il proprio difensore di fiducia, la corrispondenza epistolare potrebbe divenire il principale mezzo a disposizione per comunicare con lo stesso difensore; mentre i detenuti provvisti – anche in ragione della propria posizione apicale nell’organizzazione criminale – di maggiori disponibilità economiche potrebbero assai più agevolmente sostenere i costi e gli onorari connessi ai viaggi del proprio avvocato finalizzati allo svolgimento dei colloqui».
3. Conclusioni
La pronuncia si colloca su un filone giurisprudenziale della Corte costituzionale che sta sostanzialmente demolendo, pezzo dopo pezzo, alcune “pietre miliari” del Feindstrafrecht, e cioè del c.d. “diritto penale del nemico”; valga in proposito rammentare l’ordinanza “interlocutoria” della Consulta sul tema dell’ergastolo ostativo alla liberazione condizionale, che fa seguito alla decisione sui permessi premio.
Di grande interesse appare inoltre il punto della decisione in cui la Corte, nel rimarcare il vincolo della lettera della legge, come ostacolo insormontabile all’interpretazione “adeguatrice” del giudice, evidenziando che per “diritto vivente” debba ritenersi soltanto quello promanante da orientamenti giurisprudenziali assai sedimentati, non essendo per contro sufficiente l’univocità, ha sostanzialmente sottolineato il proprio potere di intervenire anche al fine di prevenire futuri revirement giurisprudenziali che, fondandosi su un’interpretazione letterale delle norme (lato sensu) penali, potrebbero condurre a soluzioni pratiche in tensione con i principi cardine dell’ordinamento.
[1] Che così recita: «1. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia.
2. Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata.
3. In particolare, ogni accusato ha diritto di:
(a) essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico;
(b) disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa;
(c) difendersi personalmente o avere l’assistenza di un difensore di sua scelta e, se non ha i mezzi per retribuire un difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato d’ufficio, quando lo esigono gli interessi della giustizia; (d) esaminare o far esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico;
(e) farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata in udienza».
[2] Corte EDU, Sezione Seconda, 19 gennaio 2010, Montani c. Italia, con la quale la Corte ha accertato la violazione dell’art. 8 CEDU, relativo al diritto al rispetto della vita privata e familiare, poiché ai sensi dell’art. 18-ter della legge n. 354/1975, introdotto con la legge n. 95 del 2004, il controllo sulla corrispondenza di detenuti in regime di applicazione dell’art. 41-bis non può estendersi alle missive indirizzate al proprio difensore di fiducia ed agli organi internazionali competenti in materia di diritti umani.
[3] Corte EDU, Sezione Seconda, 20 gennaio 2009, Zara c. Italia, di tenore analogo alla successiva pronuncia “Montani”.
[4] Che così recita: «1. Ai fini di quanto previsto dall’articolo 103 comma 6 del codice, la busta della corrispondenza tra l’imputato e il suo difensore deve riportare:
a) il nome e il cognome dell’imputato;
b) il nome, il cognome e la qualifica professionale del difensore;
c) la dicitura “corrispondenza per ragioni di giustizia” con la sottoscrizione del mittente e l’indicazione del procedimento cui la corrispondenza si riferisce.
2. Quando mittente è il difensore, la sottoscrizione è autenticata dal presidente del consiglio dell’ordine forense di appartenenza o da un suo delegato.
3. Se l’imputato è detenuto, l’autorità che ne ha la custodia appone il proprio timbro o firma sulla busta chiusa che già reca le indicazioni suddette, senza che ciò ritardi l’inoltro della corrispondenza.
4. Alla corrispondenza tra l’imputato detenuto e il suo difensore, recante le indicazioni stabilite nei commi 1 e 2, non si applicano le disposizioni dell’articolo 18 commi 8 e 9 della legge 26 luglio 1975 n. 354 e degli articoli 20 comma 1 e 36 commi 7 e 8 del d.P.R. 29 aprile 1976 n. 431».
5. Ai fini di quanto previsto dall’articolo 103 comma 5 del codice, quando sono autorizzati colloqui telefonici tra l’imputato detenuto e il suo difensore, come risultante dall’indicazione del relativo procedimento, non si applica la disposizione dell’articolo 37 comma 8 del d.P.R. 29 aprile 1976 n. 431.
[5] Vd. per tutte Cass., Sez. I, 29 febbraio 2019, n. 27571.