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Pubbl. Mer, 23 Giu 2021

I diritti dei minori: una querelle ancora aperta

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Luana Leo
Dottorando di ricercaLUM Giuseppe Degennaro



Il presente contributo analizza la figura del minore, ponendo l´accento sui diritti dello stesso, riconosciuti a livello costituzionale e consacrati sul versante internazionale. Quello dei diritti dei minori è un tema da tempo confinato, che sembra aver ritrovato spessore solo di recente, nel contesto dell´emergenza sanitaria da Covid-19. Emerge la necessità di riporre particolare attenzione al tema, soprattutto alla luce dei radicali mutamenti interessanti la sfera familiare.


ENG This contribution analyzes the figure of the minor, placing emphasis on the rights of the same, recognized at the constitutional level and consecrated on the international front. The rights of the child is a long-term confined issue, which seems to have only recently regained its depth, in the context of the Covid-19 health emergency. The need to pay particular attention to the theme emerges, especially in light of the radical changes affecting the family sphere.

Sommario: 1. L’inquadramento del minore nella Costituzione Repubblicana; 2. L’approccio delle Costituzioni europee alla figura del minore; 3. Tutela giuridica dei minori: quadro generale; 4. Diritti del minore e fonti internazionali; 4.1 Le Convenzioni in materia di protezione dei minori; 4.2 La normativa europea; 5. I doveri dei genitori nei confronti dei figli; 5.1 Dalla “potestà” alla “responsabilità” genitoriale; 5.2 I doveri dei figli verso i genitori; 6. Il diritto di ascolto del minore; 7. Affidamento del minore e crisi di famiglia; 8. Osservazioni conclusive.

1. L’inquadramento del minore nella Costituzione Repubblicana

La Costituzione italiana riserva al minore scarsa attenzione.

I riferimenti a tale figura sono limitati: si segnalano gli artt. 30, 31, 34 e 37.

Tuttavia, essi assumono particolare rilevanza, giacché investono peculiari ambiti, nonché il rapporto genitori-figli, l’assistenza, la scuola e il lavoro.

Le disposizioni relative al minore non esauriscono la questione dei suoi diritti; pertanto, devono essere invocate altre previsioni, non attinenti al fanciullo, o comunque non solo egli.

Agendo in tale modo, il minore è posto sullo stesso piano di ogni ulteriore cittadino[1].

Tale prospettiva trova piena conferma negli artt. 2 e 3 Cost: il primo riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, nella duplice accezione di singolo e componente della formazione sociale in cui svolge la sua personalità; il secondo concerne l’impegno pubblico a rimuovere gli ostacoli che – limitando la libertà e l’uguaglianza dei cittadini – impediscono il pieno sviluppo della persona umana. In entrambe, è presente l’elemento della personalità e il suo sviluppo: la suddetta circostanza si addice soprattutto al minore, per il quale lo sviluppo della personalità rappresenta uno stato fisiologico.

Tenuti presenti tali principi, assumono peso anche le norme sopracitate.

Si considera, l’art. 30 Cost., per cui, al diritto e dovere dei genitori di mantenere, educare ed istruire i figli, a prescindere dal loro status filiationis (ormai estinto)[2], deve corrispondere un diritto del figlio ad essere mantenuto, educato e istruito.

Peraltro, assodato che la tutela dei figli nati al di fuori del matrimonio deve combaciare con quella dei membri della famiglia legittima, ciò coinvolge anche l’esercizio dei diritti fondamentali e la garanzia di sviluppo della personalità (artt. 2 e 3 Cost.).

In tale contesto, si colloca l’art. 31 Cost., il quale mette a punto un sistema di aiuti e sostegni alla famiglia, ai fini dell’adempimento dei suoi doveri; esso si concretizza in una serie di interventi che interessano più settori (sicurezza sociale, salute, istruzione, formazione e promozione del lavoratore, protezione della donna lavoratrice).

Dal testo costituzionale, altresì, si riscontra qualche indicazione sullo sviluppo della personalità del fanciullo: libertà di pensiero, di stampa, di religione, di associazione e partecipazione alla vita politica, ecc.

Si tratta di una preparazione del minore alla capacità piena, che implica una crescente sfera di autonomia, e di conseguenza, un contenimento degli interventi dei genitori o di quanti esercitano un potere di controllo su di essi[3]

 2. L’approccio delle Costituzioni europee alla figura del minore

Originariamente, la maggior parte delle Carte costituzionali non accennava al minore: tale circostanza comprova il disinteresse manifestato nei confronti della figura in discussione.

Nell’ottica dell’Ottocento, le Costituzioni presentavano una portata ridotta, tendevano a prendere posizione sugli aspetti essenziali, specialmente in relazione all’organizzazione e al funzionamento dei poteri.

L’essenzialità si traduceva nel menzionare i diritti e le libertà individuali: i diritti economici e sociali della seconda, terza e quarta generazione trovano spazio solo sotto l’influenza dei Paesi socialisti.

In concreto, i diritti del minore non erano reputati “essenziali”, e di conseguenza, non dovevano essere riportati nella Costituzione. 

Tale approccio sembra avere intaccato la struttura delle Costituzioni moderne europee: talune di esse, non solo trascurano i diritti del minore, ma addirittura escludono la stessa figura.

Al contempo, essa è stata oggetto di una radicale mutazione: da soggetto incapace meritevole di protezione in tutto l’arco di vita, il minore è stato inquadrato come persona umana, portatrice di diritti e libertà.

Comparando talune Costituzioni, emerge la specifica attenzione rivolta alla famiglia e al matrimonio. In tale senso, la Costituzione di Weimar è la prima a riferirsi all’istituto familiare[4].

Occorre però segnalare che la stessa non compare in tutte le Leggi Fondamentali: il mancato richiamo alla famiglia attiene alla sua rinomata collocazione nella sfera privata, al fine di prevenire eventuali intromissioni.

L’assenza del termine “famiglia” però non equivale all’omessa predisposizione di politiche al riguardo.

La famiglia ottiene riconoscimento grazie all’importanza assunta dall’matrimonio, il quale costituisce il fondamento della stessa.

Al pari della Costituzione Italiana[5], la Costituzione rumena del 1991[6] statuisce che “la famiglia è fondata sul matrimonio liberamente consentito tra i congiunti”.

In diverse Costituzioni (Germania, Turchia, Italia, Irlanda), la famiglia presenta una funzione strutturante: essa rappresenta la cellula base della società, essendo così posta sotto la tutela dello Stato.

Per quanto concerne la prole, nella Costituzione tedesca affiora l’uguaglianza tra figli legittimi e naturali in ordine al “loro sviluppo fisico e morale” e alla “loro situazione sociale”.

In altri testi costituzionali, si rileva una tutela estesa dapprima alla madre e poi al minore: in tale contesto, rientrano il congedo di maternità a beneficio della madre lavoratrice, la protezione della donna in maternità contro il licenziamento, la riduzione dell’orario di lavoro nei primi mesi di nascita del bambino, l’assistenza sanitaria per madre e figlio, l’allestimento di centri di accoglienza.

Talune Costituzioni si contraddistinguono per la previsione di misure concrete a favore della famiglia, tra cui gli assegni familiari, gli sgravi fiscali, l’adeguamento degli alloggi, ecc.

Come già espresso, il bambino deve essere considerato non soltanto come componente della comunità familiare, ma anche come un soggetto di diritto dotato di propri connotati specifici.

Sotto tale profilo, le Costituzioni europee prevedono che il minore debba essere istruito.

È interessante il ruolo assegnato da esse ai genitori in tale campo.

La Costituzione irlandese sancisce che i genitori, in base ai propri mezzi, debbano assicurare al minore “l’educazione religiosa e morale, intellettuale, fisica e sociale dei loro figli” (art. 42).

Sulla medesima lunghezza d’onda, la Costituzione tedesca del 1949, rettificata nel 2003, prescrive che “la cura e l'educazione dei figli sono un diritto naturale dei genitori ed un loro precipuo dovere. La comunità statale vigila sul modo con i quale essi svolgono la loro funzione”.

Nella Costituzione finlandese, invece, l’educazione dei minori è affidata allo Stato, al quale spetta garantire ad essi “pari opportunità di ottenere ulteriori servizi in materia di istruzione in rapporto alle proprie capacità e alle proprie particolari necessità, così come la possibilità di sviluppare la propria personalità senza incontrare ostacoli di natura economica”.

Un ruolo cruciale è assolto dalla scuola, quale intermediario.

A tale proposito, solo talune Carte costituzionali riportano un’età obbligatoria[7], essendo quest’ultima di competenza legislativa.

Altro dato fondamentale attiene natura degli istituti (pubblico e privato): in certi testi, è mantenuto il principio dell’insegnamento pubblico obbligatorio (es. la Costituzione della Danimarca, all’art. 76, prevede che “i genitori, o i tutori, che garantiscono ai giovani un insegnamento equivalente a quello generalmente impartito nelle scuole pubbliche, non sono obbligati a far frequentare le scuole pubbliche”); in altri, invece, la scelta è libera (es. la Costituzione tedesca, all’art. 7, dichiara che “è garantito il diritto di istituire scuole private. Le scuole private, che sostituiscono le scuole pubbliche, necessitano dell'autorizzazione dello Stato e sono sottoposte alle leggi dei Länder”).

La concezione del minore come soggetto a sé stante trova margine nell’art. 6, co. 2, della Costituzione finlandese (“I minori hanno diritto ad uguale trattamento come individui; ad essi deve essere permesso di concorrere alle decisioni che li riguardano in misura che corrisponde al loro grado di maturità”).

3. Tutela giuridica dei minori: quadro generale

Agli inizi del Novecento, la legislazione italiana si mostrava lacunosa circa la protezione giuridica dei minori, specialmente se comparata con la normativa extraterritoriale.

In tale senso, il Progetto di Codice per i minorenni intendeva riprendere il Children Act del 1908, introducendo un esperto nelle discipline psico-antropologiche nel Tribunale, qualificato nella tutela e protezione sociale dei minorenni[8].

In epoca liberale, il Progetto Ferri mirava a sviluppare una giustizia speciale rispetto a quella relativa agli adulti, oltre che consolidare la distinzione tra bambini e adolescenti[9].

Tali intenti trovarono un ostacolo nell’ideologia fascista. Nel medesimo periodo, altresì, l’istituzione del Tribunale per i minorenni pose il problema minorile in ambito sociale, a riguardo della rieducazione.

In tale contesto, la Costituzione assumeva una rilevanza limitata, così come la Dichiarazione di Ginevra del 1924[10].

La protezione giuridica dei minori risultava complicata in ragione dell’evoluzione sociale: prima dell’avvento della Costituzione, la figura in esame era vincolata all’autorità paterna, mostrandosi non autonoma.

La stessa entrata in vigore della Costituzione non migliorava la situazione: in Assemblea costituente, l’On. Aldo Moro qualificava il diritto minorile come “problematico”, in ragione dell’incapacità di agire del predetto soggetto.

Trattandosi di un diritto “flessibile” entrava in collisione con il pensiero legalista, ostile all’ampio potere discrezionale esercitato dal Tribunale per i minorenni.

Nel 1954, nasceva l’Unione italiana giudici per i minorenni, mentre nel 1971 cominciava a prendere forma la figura del “giudice specializzato”.

Sul piano normativo, la legge 5 giugno 1967, n. 431 – relativa all’adozione speciale – assegnava al Tribunale il compito di “promuovere e difendere i diritti del minore”.

Tale legge diede vita ad una “rivoluzione copernicana”: gli artt. 291 e ss. c.c. regolamentavano la sola adozione ordinaria, avente una funzione politica; il fine perseguito era esclusivamente patrimoniale (trasmissione del cognome e del patrimonio dall’adottante all’adottato).

Essa, invece, tutelava interessi diversi: intendeva garantire una famiglia al minore che ne era privo o che versava in una condizione economica e sociale disagiata.

La legge in esame, dunque, spostava l’attenzione dalla tutela degli interessi degli adulti a quella del preminente interesse del minore[11]. Nel corso degli anni Settanta, il tema del “metodo” indusse alla trasformazione del “diritto dei minori” a “diritto dei diritti dei minori”.

La riforma del diritto di famiglia (1975) introdusse novità rilevanti in materia di filiazione: l’impostazione originaria del Codice civile prevedeva una contrapposizione tra figli nati da genitori coniugati e figli nati fuori dal matrimonio, identificati rispettivamente come “legittimi” e “illegittimi”.

Con l’intento di dare attuazione all’art. 30 Cost., il quale pone sullo stesso piano le due categorie di “figli”, il legislatore del 1975 ha compiuto un primo passo importante verso il riconoscimento della pari dignità in materia di filiazione.

Innanzitutto, la nuova disciplina ha concesso una diversa qualificazione ai figli nati fuori dal matrimonio (c.d. “figli naturali”).

La riforma in esame, altresì, ha provveduto ad una parziale equiparazione del trattamento giuridico dei figli naturali a quello prescritto per i figli legittimi.

Tuttavia, l’attesa parità giuridica tra figli non avvenne: il Codice civile, infatti, manteneva la distinzione le due categorie di figli, assoggettando gli stessi ad una disciplina per certi aspetti differente[12].

Sul piano giudiziario, si evocava l’istituzione di un “Tribunale per la difesa del minori”; tale circostanza si traduceva nel “fallimento della rieducazione”.

Il Codice di procedura penale minorile (1988), orientato a “educare responsabilizzando”, non seppe fornire garanzie ai minori.

Nell’assetto legislativo precedente alla legge 8 febbraio 2006, n. 54, mancava un puntuale riconoscimento normativo del diritto del minore alla bigenitorialità: il diritto del minore ad essere mantenuto, cresciuto, istruito e educato da parte di entrambi i genitori era offuscato; al momento della scelta del genitore affidatario, il giudice determinava un’attenuazione del legame tra i figli e l’altro genitore.

Il nuovo art. 155 c.c., modificato dalla legge n. 54/2006, consacra il diritto del figlio minore, anche in caso di separazione dei genitori, di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi e di ricevere cura, educazione ed istruzione da ambedue.

Infine, la legge 9 dicembre 2012, n. 219 porta a compimento il processo di parificazione dei figli naturali e legittimi: la riforma, infatti, prevede che tutti i figli possiedano lo stesso status giuridico, con eguali diritti e uguali doveri[13]; da tale momento in poi, si prende atto dalla sussistenza di ulteriori modelli familiari.

4. Diritti del minore e fonti internazionali

Le fonti relative alla protezione dei diritti del fanciullo sono varie.

A livello internazionale, si segnalano la Dichiarazione dei diritti del fanciullo, i Patti internazionali sui diritti civili, politici ed economici e la Convenzione di New York sui diritti del bambino; seguono, la Dichiarazione sui principi di protezione e sicurezza sociale dei bambini, la Convenzione di Strasburgo sull’esercizio dei diritti dei minori.

La Dichiarazione dei diritti del fanciullo del 1959 preme sulla necessità che il minore sia considerato dall’umanità, in modo tale da crescere nel migliore dei modi e godere dei diritti previsti nell’interesse del minore stesso.

Essa, altresì, tutela il fanciullo[14] non solo rispetto a forme brutali di violenza (art. 9), ma anche in termini di cura e responsabilità dei genitori (art. 6), tenuti ad assicurare, oltre ad una sicurezza materiale, affetto e comprensione, un riferimento morale e un clima sicuro, quali elementi indispensabili per uno sviluppo armonioso della personalità (art. 6).

Essa, pur non essendo vincolante, afferma per la prima volta il principio del superiore interesse del fanciullo[15], e supera i lievi riferimenti al minore inclusi nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948.

I Patti internazionali sui diritti civili, politici ed economici, approvati nel 1966 ed entrati in vigore nel 1976, impongono obblighi giuridici agli Stati contraenti, tenuti ad un adeguamento della loro legislazione; al contempo, sono riportate specifiche misure di attuazione, in un protocollo facoltativo, limitato però ai diritti civili e politici.

Il fanciullo ha diritto a misure protettive da parte della famiglia, della società, al nome e alla cittadinanza, senza alcuna discriminazione; in caso di scissione della famiglia, deve essere garantita ai figli la protezione necessaria (artt. 23 e 24).

Nel 1979, l’Assemblea dell’ONU decide di istituire un gruppo di lavoro con il compito di definire un “Progetto di convenzione internazionale sui diritti del bambino”. Il testo definitivo, approvato nel 1989 ed entrato in vigore nel 1991, costituisce uno “statuto” dei diritti del minore.

Essa sottolinea come i diritti del minore si pongano sullo stesso piano dei diritti riconosciuti a qualsiasi altro individuo.

La Convenzione, dunque, afferma che al bambino deve essere riconosciuto un pieno ed armonioso sviluppo della personalità.

Occorre chiarire che nella Convenzione il termine “bambino” assume un significato letterale inedito: è “bambino”, ai sensi dell’art. 1, “ogni essere umano al di sotto dei diciotto anni, a meno che per le leggi del suo Stato abbia già raggiunto la maggiore età”.

Al pari della Dichiarazione dei diritti del fanciullo, anche tale fonte enuncia il principio di preminente tutela dell’interesse del bambino.

Essa, poi, approfondisce il tema dell’adozione, intendendo quest’ultima come possibile alternativa all’inadeguatezza della famiglia biologica; si pone l’accento sulla necessità di combattere il mercato dei bambini (artt. 9-11).

Lo sviluppo della personalità del fanciullo risulta legato a talune norme: diritto del bambino ad uno standard di vita adeguato al suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale (art. 27).

Esso implica idonee condizioni ambientali di vita: egli ha diritto al godimento dei più alti livelli raggiungibili di salute e ai servizi per le cure mediche riabilitative (art. 24), a periodici controlli del trattamento (art. 25), a beneficiare delle misure di mutualità e di sicurezza sociale (art. 26).

Nel 1986, su pressione dell’Assemblea dell’ONU agli Stati membri[16], è approvata la Dichiarazione sui principi di protezione e sicurezza sociale.

Essa si contraddistingue per la particolare considerazione riservata all’affidamento familiare, all’adozione nazionale e internazionale. Il primo deve essere regolato dalla legge, potendo continuare fino alla maggiore età; al contempo, non è escluso il ritorno del minore nella famiglia di origine.

Nel caso dell’adozione, il bambino non educato dai genitori può essere iscritto definitivamente in un’altra famiglia, godendo così dei relativi diritti (art. 16).

L’adozione internazionale, invece, è ammessa solo laddove affidamento e adozione non possano essere disposti nello Stato di origine del bambino; in tale circostanza, devono essere assicurate le medesime garanzie previste nell’adozione nazionale.

La Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei minori del 1996 si incentra sulla garanzia specifica e concreta dei diritti del minore: essa prevede, infatti, la necessità di garantire i “diritti processuali” dei fanciulli e agevolarne l’esercizio, aggiungendo che essi siano, direttamente o tramite altre persone o organizzazioni, informati ed autorizzati a partecipare ai procedimenti giudiziari che li coinvolgono (art. 1); laddove la legge privi il genitore della facoltà di rappresentare il minore in ragione di un conflitto di interessi, quest’ultimo ha diritto di chiedere, personalmente o tramite un intermediario, la nomina di un rappresentante nei procedimenti giurisdizionali che lo riguardano (artt. 4, 5 e 9)[17].

4.1 Le Convenzioni in materia di protezione dei minori

La tutela dei minori è oggetto di interesse della Conferenza dell’Aja.

Nel 1980, essa adotta la Convenzione sugli aspetti civili della sottrazione di minori, volta ad assicurare, salvo in casi eccezionali, l’immediato ritorno del fanciullo nello Stato in cui risiedeva abitualmente prima del trasferimento illecito in un altro Paese.

Sebbene tale Convenzione non accenni al principio del superiore interesse del minore, gli Stati firmatari ne hanno riconosciuto la rilevanza nel Preambolo della stessa[18].

Tale Convenzione, dunque, tutela la situazione di fatto, in quanto mira al tempestivo rientro del minore nel Paese di residenza abituale, facendo così prevalere l’interesse dello stesso a mantenere una continuità con il proprio ambito socioculturale.

Occorre precisare che la predetta non entra nel merito del diritto di affidamento. Essa trova margine in caso di trasferimento o mancato rientro del minore “illecito”[19].

Ai fini della determinazione dell’illeceità, assume rilievo la nozione di “diritto di affidamento”, che “comprende i diritti concernenti la cura della persona del minore, ed in particolare il diritto di decidere riguardo al suo luogo di residenza” (art. 5).

È interessante notare come essa non si preoccupi di definire il concetto di “residenza abituale”, oggetto di interesse della giurisprudenza europea[20].

La Convenzione dell’Aja del 1980 investe i minori di anni sedici aventi residenza abituale in uno Stato contraente prima dell’avvenuta sottrazione.

Il limite di età sancito dalla Convenzione in esame risulti più restrittivo rispetto a quello stabilito nella Convenzione di New York del 1989 e nella Convenzione europea sul rimpatrio dei minori del 1970[21].

A seguito della Convenzione dell’Aja del 1980, i principi sanciti nella Convenzione sui diritti del fanciullo influirono sulle conseguenti Convenzioni dell’Aja in materia minorile.

In tale contesto, si colloca la Convenzione dell’Aja del 1996, riguardante la competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione in materia di potestà genitoriale e di misure di protezione dei minori[22].

La ratio di essa risiede nel prevenire i problemi e i conflitti coinvolgenti i minori; la suddetta si distingue dalla precedente in termini di applicabilità, estendendosi a casi di sottrazione dei minori, da uno Stato contraente all’altro, non rientranti nel range della Convenzione internazionale sulla sottrazione internazionale del 1980. Meritano cenno anche le principali Convenzioni sull’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO).

Nei primi anni del XX secolo, l’ILO adotta due Convenzioni (nn. 5 e 6), circa, rispettivamente, l’età minima per l’ammissione al lavoro industriale (pari a quattordici anni) e al lavoro notturno dei minori nell’industria. 

Nel 1978, è adottata la Convenzione n. 38, la quale, ancora oggi, costituisce il riferimento fondamentale in tema di età minima per l’ammissione al lavoro.

La presente Convenzione racchiude due regole generali: la prima prevede che l’età minima per l’accesso al lavoro non possa essere inferiore all’età fissata per il completamente dell’età dell’obbligo (in ogni caso non inferiore a quindici anni); la seconda stabilisce che il limite di età dei quindici anni debba essere elevato a diciotto per i lavori che, per loro natura, possono danneggiare la salute, l’incolumità pubblica e la moralità dei bambini.

Altra importante Convenzione è la n. 182, entrata in vigore nel 2000.

A tale fonte spetta il merito di aver imposto degli obblighi agli Stati contraenti, non limitandosi a evidenziare i diritti garantiti ai minori sul lavoro.

Al contempo, essa non menziona lo sfruttamento domestico tra le forme peggiori di sfruttamento minorile.

Per tale motivo, l’OIL ha adottato nel 2011 la Convenzione n. 189 sulle lavoratrici e i lavoratori domestici: essa concentra l’attenzione anche sui minori che operano in tale ambito, rivelandosi incauta nel lasciare eccessiva “discrezionalità” agli Stati ai fini dell’individuazione dei lavori domestici considerati “rischiosi”.

4.2 La normativa europea

Il Consiglio d’Europa ha tenuto a tutelare la figura del minore sia come componente del nucleo familiare sia come individuo fragile.

La Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) riserva ai fanciulli gli artt. 5 e 6. Il primo specifica le situazioni in cui il minore può essere legittimamente privato della libertà.

Il secondo, dedicato al diritto ad un equo processo, viete l’accesso alla sala d’udienza da parte della stampa e del pubblico, laddove opportuno in ragione dell’interesse del minore.

Un richiamo ai minori si riscontra anche nel Primo protocollo allegato alla CEDU, il quale riconosce ai genitori il diritto di educare i figli secondo le proprie convinzioni.

Negli ultimi anni, la Corte EDU ha tutelato i diritti dei minori interpretando in maniera estensiva taluni articoli della CEDU, nonché gli artt. 2 (diritto alla vita), 3 (proibizione alla tortura), 4 (divieto di schiavitù e lavoro forzato), 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare).

Inizialmente, la Corte EDU manifestato indifferenza verso il diritto europeo, ricorrendo ad esso solo con l’entrata in vigore della Carta di Nizza.

Allo stato attuale, essa considera la Carta europea dei diritti fondamentali dell’uomo come fonte di integrazione del proprio parametro di giudizio nell’integrazione della CEDU[23].

Nelle pronunce della Corte EDU, si ravvisa l’influenza della Convenzione sui diritti del fanciullo. In un caso di specie, essa ha invocato l’art. 8 di tale Convenzione, che garantisce ai minori la protezione del diritto al nome, per ovviare all’assenza, nell’art. 8 della CEDU, di una prescrizione al riguardo.

In seguito, la Corte EDU ha richiamato la Convenzione sui diritti del fanciullo nel caso Costello-Roberts[24] concernente le punizioni corporali subite da un soggetto minore in un istituto scolastico privato nel Regno Unito. 

A differenza della CEDU, la Carta sociale europea invoca i fanciulli solo agli artt. 7 e 17. Il primo definisce il diritto dei minori ad essere protetti dallo sfruttamento economico, mentre il secondo afferma il diritto dei minori a ricevere cure, assistenza e protezione in situazioni di violenza e trascuratezza.

Negli ultimi anni, il Consiglio d’Europa ha adottato talune Convenzioni al fine di tutelare in maniera specifica determinati diritti dei minori, tra cui la Convenzione di Varsavia del 2005 sulla lotta contro la tratta degli esseri umani, la quale si ispira al Protocollo di Palermo[25], nonché al rispetto della dignità e dell’integrità dell’uomo. In tale contesto, si colloca anche la Convenzione di Lanzarote sulla protezione dei diritti dei minori dallo sfruttamento e dagli abusi sessuali[26], entrata in vigore nel 2010, dalla quale ha preso forma la Direttiva 2011/19/UE relativa alla lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile.

Tale Convenzione racchiude un concetto ampio di “sfruttamento e abusi sessuali sui minori”, in modo tale da offrire la massima protezione ai fanciulli, e di conseguenza, contenere i reati sessuali contro gli stessi.

Essa, altresì, si distingue nell’includere il reato di “grooming”, ossia l’adescamento di un minore per fini sessuali tramite l’impiego di mezzi informatici.

È opportuno segnalare anche le Risoluzioni approvate dall’Assemblea parlamentare e dal Comitato dei Ministri: si pensi, alla Raccomandazione n. 874/1979, nella quale il termine “autorità genitoriale” è sostituito con quello di “responsabilità genitoriale”.

Nello scenario europeo, rivestono particolare spessore le “Guidelines of the Committee of Ministers of the Council of Europe on child-friendly justice”, le quali, oltre a evocare la giurisprudenza della Corte EDU, richiamano la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo e le “Guidelines for action on children in the criminal justice system” del Consiglio economico e sociale dell’ONU.

Esse si fondono su cinque principi fondamentali: partecipazione, interesse superiore del minore, dignità, tutela contro la discriminazione, tutela giurisdizionale.

L’attenzione è rivolta soprattutto al diritto di partecipazione dei minori capaci di discernimento.

Le Guidelines reputano che l’espressione “capace di discernimento” non deve essere concepita in termini restrittivi, ma come dovere delle autorità di riflettere su di una concreta incapacità di discernere del minore. In tale ottica, il diritto di partecipazione si articola in due diversi aspetti: il diritto all’informazione e il diritto all’ascolto.

Con riguardo al primo, il minore deve essere messo a conoscenza dei meccanismi giudiziari alternativi al processo, i quali devono assicurare uno standard di tutela analogo a quello dei procedimenti giudiziari.

Per quanto concerne il secondo profilo, i soggetti in discussione devono essere tranquillizzati circa il fatto che le loro posizioni non andranno ad incidere necessariamente sulla decisione finale, al fine di non caricarli di eccessive responsabilità.

L’intento delle Guidelines, dunque, è quello di coinvolgere maggiormente il minore nei procedimenti che lo coinvolgono.

5. I doveri dei genitori nei confronti dei figli

Su spinta costituzionale (art. 30), il Codice civile impone ai genitori di mantenere, istruire e educare e, complice la riforma della filiazione del 2013, di assistere moralmente i figli, tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni dei medesimi. (art. 147).

A tali doveri, in virtù del richiamo all’art. 315 bis c.c., si accosta anche il dovere di ascoltarli e di consentire loro di mantenere rapporti affettivi con i componenti esterni del nucleo familiare.

I doveri dei genitori nei confronti dei figli sono ritenuti non soltanto obbligazioni morali, ma anche obblighi giuridici, in quanto il minore, privo di assistenza morale e materiale, è dichiarato in stato di abbandono, potendo pertanto essere adottato.

Il dovere di mantenimento, che prescinde dalla titolarità della potestà[27] derivando invece dall’accertamento dello status di filiazione, si concretizza non solo nel consentire al figlio di avere un tenore di vita adeguato e proporzionato a quello della famiglia, ma anche nel garantirgli in economicamente l’esistenza in vita e in salute, nonché la piena realizzazione della sua personalità[28].

A tale proposito, il d.lgs. n. 154/2013, tesa a superare la perdurante discriminazione a carico dei figli nati fuori dal matrimonio, ha riordinato (non innovato) la tutela economica della prole, ridelineando[29] la disciplina delle garanzie del credito del beneficiario dettata dall’art. 3, co. 2, della legge n. 219/2012.

Passando al secondo dovere, quello di istruzione, appare opportuno sottolineare che la Costituzione riconosce e tutela il diritto all’istruzione non solo in relazione al rapporto tra genitori e figli (art. 30, co. 1), ma anche con riferimento a quello tra minore e istituzioni esterne alla comunità familiare (art. 34).

All’apparato scolastico e agli enti locali spetta il compito di predisporre le sedi, in modo tale da consentire una regolare frequenza della scuola dell’obbligo, contrastando così la dispersione scolastica.

I genitori, invece, sono tenuti a sostenere le relative spese, compiere scelte per conto dei figli rappresentandoli in termini burocratici, monitorare la frequenza e il profitto scolastico. In tale senso, la dottrina distingue l’obbligo di istruzione diretto da quello indiretto[30].

Quest’ultimo costituisce un obbligo di “mezzi” e si sostanzia nel consentire, agevolare e imporre la frequentazione della scuola, nei confronti dei figli minori.

Il primo ricade totalmente sui genitori e consiste in un vero e proprio obbligo di “contenuti” attinente alla preparazione e alle capacità oggettive dei genitori.

Dottrina e giurisprudenza[31], altresì, ritengono che sia dovere del genitore rispettare le scelte dei figli, specialmente con riferimento all’indirizzo scolastico, alla formazione professionale, alla dedizione politico-sociale, alla fede religiosa. Infine, il dovere di educazione[32] si sostanzia nella conoscenza delle regole sociali di vita.

È importante segnalare che tale dovere, nella formulazione dell’art. 147 c.c., anteriore alla riforma del 1975, era collegato ai “principi” della morale, concetto generico e astratto che non permetteva di ravvisare il contenuto e la tipologia di “educazione” impartita ai figli.

Il legislatore del 1975, invece, ha disposto che il compito educativo deve essere adempiuto secondo i criteri direttivi della “capacità, inclinazione naturale ed aspirazione dei figli”.

Una corrente di pensiero sostiene[33] che la prima ed essenziale funzione educativa dei genitori sia legata all’esempio di vita e di condotta di quest’ultimi, nonché dal limite rappresentato dal divieto di abusare delle proprie funzioni.

Nel corso del tempo, la giurisprudenza[34] ha individuato tra i doveri del genitore associati al percorso educativo anche quello di vigilare e controllare la sua condotta per sostenerlo e proteggerlo.

In dottrina[35], si sostiene che il dovere di educazione interagisca con quello di mantenimento: ove il genitore ecceda nel soddisfacimento delle esigenze voluttuarie del figlio, soprattutto se minore, il comportamento è valutato come lesivo della funzione educativa attribuita ai genitori.

La figura materna e quella paterna dovrebbero integrarsi armonicamente nell’educazione dei figli. In dottrina[36], si osserva che tale considerazione non sempre trova riscontro nella realtà.

La madre tende a svolgere funzioni di accoglienza e protezione, dimostrando così una più profonda percezione della vita e dell’intima unità dell’esistenza.

Il padre, invece, incoraggia i figli ad affrontare le dure sfide quotidiane: egli, dunque, rappresenta la figura che aiuta ad assumersi consapevolmente le responsabilità delle proprie scelte, nonché a confrontarsi con la realtà.

5.1 Dalla “potestà” alla “responsabilità” genitoriale

Il tema appena delineato si intreccia con quello della responsabilità genitoriale.

Il d.lgs. n. 154/2013 ha modificato il testo dell’art. 316 c.c. sostituendo l’espressione “potestà” con quella di “responsabilità” genitoriale.

Il concetto di “potestà” evoca una supremazia dei genitori a cui corrisponde una subordinazione dei figli, mentre il termine “responsabilità” genitoriale pone i soggetti della relazione su un piano paritario, richiamando così i diritti e i doveri reciproci che caratterizzano tale rapporto.

I documenti internazionali inerenti ai rapporti tra genitori e figli menzionano la responsabilità genitoriale, marcando il profilo del munus, ossia dell’obbligo che i genitori assumono di curare la crescita, l’istruzione e l’educazione dei figli, rispetto a quello della potestas[37].

La legge n. 219/2012 sembra avere recepito la vivace querelle, anche se il d.lgs. n. 154/2013 pecca di eccessivo semplicismo, limitandosi ad una sostituzione di nozioni, reputandole sinonime, senza mettere a punto una definizione di responsabilità genitoriale[38].

La portata di quest’ultima è ben più ampia rispetto a quella della potestà, poiché prosegue anche a seguito del raggiungimento della maggiore età.

Di fatti, il figlio non è più “soggetto alla potestà dei genitori sino alla maggiore età o alla emancipazione”.

Occorre considerare che il previgente sistema non aveva concesso una definizione normativa di “potestà genitoriale”, il cui contenuto e significato era infatti ricondotto ai principi costituzionali enunciati dall’art. 30., ai principi di cui all’art. 147 c.c., e alle disposizioni introdotte dalla legge n. 54/2006 in materia di affidamento condiviso.           

Il significato della “potestà genitoriale” era individuato nell’obbligazione, incombente su entrambi i genitori – in egual misura – di provvedere alla cura dei figli, al fine di soddisfare le loro esigenze e realizzare i loro interessi.

Con la legge n. 54/2006, la prospettiva inizia pian piano a mutare: nei rapporti genitori-figli si inserisce il principio inerente la “centralità della posizione del minore”.

Alla luce di tale scenario, la “potestà” era concepita quale insieme di poteri e doveri diretti alla crescita spirituale e fisica del figlio, da esercitarsi nel rispetto delle sue capacità, inclinazioni naturali ed aspirazioni.

La nuova disposizione prevede che i genitori devono fissare di comune accordo la residenza abituale del figlio, mantenendo la possibilità di ricorrere al giudice in caso di contrasto su aspetti di specifica rilevanza.

5.2 I doveri dei figli verso i genitori

È risaputo che l’attenzione di dottrina e giurisprudenza si soffermi sui diritti del minore; tale circostanza pone in secondo piano i doveri dei figli nei confronti dei genitori, i quali erano maggiormente considerati nel precedente regime incentrato sulla “patria potestà”. 

I doveri dei figli verso i genitori non presentano natura costituzionale; al contempo, essi sono ritenuti comunque significativi, poiché invocati in una serie di norme civili e penali.

In origine, il Codice civile napoleonico prevedeva con fermezza che “il figlio, qualunque sia la sua età deve onorare e rispettare i genitori” (art. 371).

Tale disposizione, transitata dapprima nello Statuto Albertino (art. 210) e poi nel codice Pisanelli (art. 220), si proiettava in una dimensione non patrimoniale[39].

Appare opportuno segnalare che il codice civile del 1865, forse inconsapevolmente, compì un passo determinante, in quanto, fondendo in un’unica disposizione quel che in precedenza era disgiunto, rese sovrapponibili l’osservanza e il rispetto, favorendo così il consolidamento dell’interpretazione in chiave autoritaria della patria potestà, con conseguente svilimento della posizione del figlio a mera soggezione, che condusse, a distanza di molti anni, alla riforma[40] dell’art. 315 c.c.

Con la riforma del 1975, è abrogato l’art. 319 c.c., che consentiva al genitore di collocare il figlio in un istituto di correzione in caso di sua scorretta condotta, previa autorizzazione del Presidente del Tribunale.

L’obbligo del “rispetto”, mantenuto dal Codice civile del 1942, costituisce un valore morale per l’ordinamento giuridico: la sua violazione, dunque, non implica alcuna sanzione giuridica.

Il dovere del figlio di contribuire economicamente al mantenimento della famiglia, invece, si configura come un vero e proprio obbligo giuridico, ispirato al principio della solidarietà familiare, che permane oltre il compimento da parte del figlio della maggiore età.

Il figlio deve provvedere in proporzione alle proprie sostanze[41] e ai propri redditi, e in base alle sue capacità personali.

Infine, l’art. 318 sancisce il dovere del figlio di non abbandonare la casa dei genitori, accordando ad essi il potere di richiamarlo e ricondurlo nella casa familiare[42], richiedendo, ove necessario, l’intervento del giudice.

6. Il diritto di ascolto del minore

La riforma del 2012 pone l’accento sull’ascolto del minore, introducendo nel Codice civile una nuova norma, l’art. 315-bis (“Diritti e doveri figlio”), che riconosce al figlio minore, avente dodici anni, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, il diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo coinvolgono.

Il diritto all’ascolto, in ragione della sua collocazione tra i diritti del figlio[43], deve essere inteso come un proprio diritto del figlio ad essere ascoltato non solo da parte dell’autorità giudiziaria, ma anche nella relazione genitori-figli[44].

Prima di tale riforma, si registrava una netta asimmetria tra le fonti internazionali e il diritto interno.

In origine, il legislatore italiana riconosceva, solo in parte e, in modo frammentario, il diritto del minore ad esprimere la propria opinione nei procedimenti giudiziari che lo riguardavano.

Pertanto, il diritto all’ascolto del minore appariva talvolta come obbligatorio, talaltra come facoltativo.

Tale disomogeneità trova conferma nello scarso impiego da parte del legislatore del verbo “sentire”, prediligendo piuttosto il verbo “sentire”.

Come noto, essi risultano espressione di due concetti diversi: il primo non implica un atto di volontà; al contrario, il secondo impone l’accettazione di comunicare con l’altro[45].

Alla luce di ciò, si giustifica la scelta compiuta dal legislatore con la legge n. 54/2006, la quale prevede il diritto del minore ad essere ascoltato (e non solo sentito).

L’introduzione dell’art. 155-sexies c.c., da parte di tale legge, è reputata una vera e propria novità: nella dinamica processuale, il minore non è più oggetto di contesa, ma principale interlocutore delle decisioni che lo interessano.

Come già enunciato, la riforma del 2012 consacra definitivamente il “diritto di ascolto” quale diritto del soggetto minore, allineandosi così alla normativa internazionale ed europea, che merita di essere illustrata.

La Convenzione di New York del 1989 riconosce al minore il diritto all’ascolto in termini di completa partecipazione ai procedimenti che lo riguardano a seconda della capacità di discernimento dello stesso (art. 12).

Segue la Convenzione dell’Aja del 1993 in materia di adozione internazionale, la quale prevede che le adozioni possono avere luogo solo se le autorità competenti dello Stato di origine si sono assicurate, tenuto conto dell’età e della maturità del minore, che “questi è stato assistito mediante una consulenza e che è stato debitamente informato sulle conseguenze dell’adozione e del suo consenso all’adozione, qualora tale consenso sia richiesto” (art. 4).

La Convenzione di Strasburgo del 1996 prevede un “ascolto informato”, specificando i criteri guida di esaustività dell’ascolto.

Tale Convenzione, infatti, afferma che al fanciullo (“avente un discernimento sufficiente”) devono essere riconosciuti una serie di diritti di informazione e di rappresentanza.

Il Regolamento CEE n. 2201/2003 stabilisce che l’autorità dello Stato in cui si trova il minore illecitamente sottratto dal genitore deve ordinare il rientro immediato dello stesso nello Stato di provenienza.

Tuttavia, nell’ipotesi di opposizione del minore, quest’ultimo deve essere ascoltato durante il procedimento “se ciò non appaia inopportuno in ragione della sua età o del suo grado di maturità”.

Il Protocollo alla Convenzione dei diritti del fanciullo sulla vendita dei bambini, la prostituzione dei bambini e la pornografia rappresentante bambini (2000) dispone l’adozione di procedure che considerino gli specifici bisogni dei bambini, in quanto “testimoni”.

Le Linee Guida del Consiglio europeo per una giustizia a misura di minore (2010) attribuiscono notevole rilevanza alla partecipazione del soggetto minore, nel duplice senso di essere informato ed ascoltato (artt. 45-48).

Un ruolo fondamentale in materia di ascolto del minore è stato assunto dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo per via degli artt. 6 e 8 della CEDU[46].

Un contributo prezioso è stato apportato anche dalla giurisprudenza costituzionale: nella sentenza n. 1/2002[47], la Consulta dichiara affetti da nullità insanabile e rilevabile d’ufficio i provvedimenti adottati senza il preventivo ascolto dei minori, ove previsto.

In seguito, il diritto all’ascolto è stato oggetto di intervento anche delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione[48], in tema di modifica delle condizioni della separazione personale tra coniugi.

Un aspetto peculiare di tale pronuncia risiede nell’evidenziare come l’ascolto possa essere escluso solo ove contrasti con l’interesse del minore[49], con obbligo di motivazione specifica.

Come noto, l’ascolto del minore trova terreno fertile soprattutto nei procedimenti di separazione dei coniugi.

7. Affidamento del minore e crisi di famiglia

Nel momento in cui la famiglia entra in crisi, si pone il problema di individuare, a tutela del minore, quale regime di affidamento risulti in grado di agevolarne il delicato percorso evolutivo.

È opportuno precisare che l’intervento del giudice in tema di affidamento dei figli avviene non solo in caso di contrasto tra i genitori, ma anche nell’ipotesi di accordo raggiunto dagli stessi.

In tale senso, è possibile che nell’intesa raggiunta entrino in gioco ragioni e scopi diversi dagli effettivi interessi del minore; pertanto, a tutela degli interessi di quest’ultimo, quale soggetto debole della comunità familiare, l’ordinamento giuridico prevede un capillare controllo sulla decisione di affidamento.

Con la legge n. 54/2006, il legislatore italiano rivoluziona la materia in esame, introducendo quale regime ordinario applicabile, in caso di separazione dei genitori, l’affidamento condiviso, in virtù del quale il minore mantiene un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori, riceve cura, educazione e istruzione da essi, e conserva rapporti significativi con gli ascendenti e i parenti di ciascun ramo genitoriale.

Prima dell’entrata in vigore della legge n. 54/2006, la prassi giudiziaria privilegiava l’affidamento esclusivo del minore ad un solo genitore (la madre) – c.d. affidatario – al quale incombeva l’esercizio della potestà, mentre il genitore non affidatario[50] si limitava a sorvegliare in via generale sull’istruzione e educazione dei figli, intervenendo nelle decisioni di maggiore interesse.

Occorre precisare che la necessità di consentire al minore di mantenere rapporti significativi con ciascuno dei genitori anche dopo la disgregazione del nucleo familiare si palesa negli anni Ottanta.

A tale proposito, la legge divorzile n. 74/1987 ammetteva la possibilità di disporre l’affidamento congiunto o alternato invece dell’affidamento monogenitoriale.

Entrambi i regimi sono stati oggetto di pesanti critiche. Il primo, in mancanza di una definizione normativa, si concretizzava nell’assunzione da parte dei genitori di pari responsabilità e poteri nella crescita del figlio e nello sviluppo psicofisico dei minori, al fine di assicurare ai figli l’apporto educativo di ambedue i genitori.

La giurisprudenza prevalente sosteneva che l’affidamento congiunto non dovesse essere disposto in caso di conflittualità tra la coppia genitoriale[51].

Una parte minoritaria della giurisprudenza[52], invece, riteneva che tale regime di affidamento potesse essere imposto dal giudice, anche in presenza di accesi scontri tra i coniugi, con “finalità terapeutica”, in modo tale da rendere consapevoli i coniugi della necessità di cooperare nell’interesse del minore.

Una buona parte della dottrina richiedeva la sussistenza di altri rigori presupposti, quali la capacità dei genitori di ravvisare “il miglior interesse dei figli”, la loro predisposizione al rispetto degli accordi, al dialogo e alla negoziazione, l’omessa denigrazione dell’ex coniuge[53].

Viceversa, nell’affidamento alternato, il figlio era affidato per periodi di tempo prefissati a ciascun genitore che in tale lasso di tempo esercitava la potestà in modo esclusivo sul figlio; il presente regime di affidamento, considerato fonte di indiscutibile instabilità per il soggetto minore, ha trovato rara applicazione nella prassi giudiziaria.

Esso, infatti, è apparso “assolutamente contrario ad un regime di vita razionale per i figli e per i genitori dato che, sconvolgendo le abitudini di vita degli uni e degli altri, priva i figli della necessaria continuità di rapporti con le due figure genitoriali attribuendo loro un unico punto di riferimento costante: la casa di abitazione”[54].

La legge sull’affidamento condiviso sancisce il c.d. principio della bigenitorialità, nonché della condivisione da parte dei genitori delle responsabilità nei compiti e nelle funzioni educative anche dopo la rottura del rapporto, conformandosi alla Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989[55].

La volontà del legislatore di superare il sistema tradizionale sembra emergere dalla scelta del termine impiegato per identificare il nuovo regime.

Una parte della dottrina ritiene che il legislatore abbia voluto evidenziare la partecipazione attiva di entrambi i genitori nella cura e educazione del proprio figlio[56].

La preferenza per il regime bigenitoriale[57] trova riscontro nell’indirizzo giurisprudenziale, il quale marca come, al contrario dell’affidamento esclusivo, quello condiviso non implica apposita motivazione[58].

Pertanto, l’affidamento esclusivo assume carattere eccezionale e residuale, relegato a situazioni problematiche[59].

Con la novella del 2013, il principio della bigenitorialità trova riconferma: le disposizioni introdotte dalla legge del 2006 sull’affido condiviso vengono spostate dal Titolo VII (relativo al matrimonio) al Titolo IX (inerente alla responsabilità genitoriale).

L’art. 337-ter, co. 1, c.c. prevede che: “Il figlio minore ha diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”.

La legge non riporta gli elementi che segnano tale regime, i quali devono essere pertanto rilevati in via di interpretazione sistematica.

È necessario precisare che l’affidamento condiviso non comporta necessariamente una frequentazione paritaria[60] di entrambi i genitori; la ratio di tale regime, infatti, risiede nell’assunzione della medesima responsabilità educativa e di cura da parte di ambedue le figure parentali e nel conseguente esercizio comune della potestà.

Un aspetto peculiare attiene alla possibilità da parte dei genitori di stabilire le condizioni dell’affidamento, nonché quelle riguardanti i tempi e le modalità di permanenza del figlio presso ciascuno dei genitori, anche in caso di piena crisi della coppia.

Il giudice, infatti, può sospendere l’adozione dei provvedimenti di affidamento su concorde richiesta delle parti, concedendo loro uno spazio di tempo, finalizzato a ricercare una soluzione concordata[61].

La novella del 2013, altresì, riprende la tesi della scissione tra titolarità ed esercizio della responsabilità genitoriale, messa a punto prima dell’entrata in vigore della legge n. 54/2006[62].

Allo stato attuale, sembra sussistere – a parere di chi scrive - una differente prospettiva, volta a dimostrare che in ambedue le forme di affidamento rimangono congiunti sia la titolarità della responsabilità genitoriale che il suo esercizio.

In tale senso, si ricorda che, sia in caso di affidamento condiviso che esclusivo, le decisioni di maggiore interesse per i figli, relative all’istruzione, all’educazione e alla salute del minore, devono essere concordate.

8. Osservazioni conclusive

Dal quadro delineato emerge come la figura del minore abbia subito notevoli mutamenti sia nell’ambito familiare e sociale che nel contesto giuridico.

Come già espresso, i diritti dei minori trovano riconoscimento non solo nella Costituzione Repubblicana, ma anche e soprattutto nella dimensione internazionale.

Ultima fonte in materia è la Convenzione sui diritti del fanciullo, con la quale il minore di età da mero “oggetto” di protezione da parte degli adulti diviene “soggetto di diritto”, e dunque, titolare di situazioni giuridiche proprie, nonché in grado di far valere i propri diritti.

Da qui prende le mosse, tramite la legge n. 112/2011, la necessità di istituire la figura dell’Autorità garante per l’infanzia e l’Adolescenza (AGIA), volta a operare per la promozione della Convenzione richiamata, così come per la sua piena attuazione in Italia al fine di garantire i diritti e gli interessi dei minori.

Poco più di un anno fa, il Comitato delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza ha manifestato preoccupazione per la condizione dei soggetti minori in tutto il mondo a causa dell’emergenza sanitaria da Covid-19.

Nel corso dei mesi, i minori sono stati privati dei loro spazi ricreativi, con conseguenti effetti negativi sul benessere psico-fisico degli stessi.

I minori, dunque, si sono trovati ad affrontare situazioni delicate: malattie dei genitori, separazioni improvvise, mancanze dei genitori impegnati in ambito sanitario, crisi di famiglia, quarantena, decessi, ecc.

Eventi devastanti, aventi ripercussioni radicali sulla salute mentale dei minori, come peraltro dimostrato da studi internazionali[63].

La pandemia da Covid-19, altresì, ha costretto ad un complesso bilanciamento tra diritti: bigenitorialità[64], salute, istruzione.

Con riguardo a quest’ultima, l’adozione della didattica a distanza (DAD) “non ha mirato tanto a tutelare i suoi principali destinatari, gli studenti, quanto piuttosto a proteggere la collettività in un senso più ampio, operando così una sorta di tutela indiretta della salute pubblica”[65].

Tralasciando tali aspetti, all’emergenza sanitaria deve riconoscersi il merito di aver ridonato luce alla figura del minore, quale soggetto meritevole di tutela.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Così, M. BESSONE, Personalità del minore, funzione educativa dei genitori e garanzia costituzionale dei diritti inviolabili, in Giur. mer., 1975, I, 346.

[2] Si ricordi che, la legge 10 dicembre 2012, n. 219 ha introdotto lo stato unico di figlio.

[3] E. CALO’, Appunti sulla capacità di agire dei minori, in Dir. fam., 1997, 1604.

[4] Come osservato da M. R. MARELLA, G. MARINI, Di cosa parliamo quando parliamo di famiglia: Le relazioni familiari nella famiglia, Laterza, Roma-Bari, 2014, “è solo con la Costituzione di Weimar del 1919, all’inizio del secolo scorso (1919), che la famiglia fondata sul matrimonio assume rilevanza costituzionale, insieme all’affermazione dell’uguaglianza dei diritti dei due sessi il modello destinato a diffondersi, riflette certamente l’avvento di una nuova epoca […]”.

[5] Ai sensi dell’art. 29, co. 1, Cost: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”.

[6] Di recente, la Costituzione della Romania è stata modificata con un referendum nazionale tenutosi il 18 e 19 ottobre 2003.

[7] Sul punto, la Costituzione Italiana, all’art. 34, co. 2, costituisce un’eccezione.

[8] Progetto di codice dei minorenni, 1912.

[9] Progetto Ferri, 1928.

[10] Nel preambolo della Dichiarazione si afferma la necessità di offrire una particolare protezione ad una persona fragile, qual è il bambino che deve quindi in primo luogo poter crescere in un ambiente armonioso e sviluppare al meglio la propria personalità.

[11] G. MANERA, L'adozione e l'affidamento familiare nella dottrina e nella giurisprudenza, Milano, 2004, 21.

[12] Sul punto, M. SESTA, Diritto di famiglia, Padova, 2005, 432 osserva che “la sistematica codicistica della filiazione…anche dopo la riforma, è fortemente proiettata sull’accertamento formale del vincolo di filiazione piuttosto che sul rapporto genitore-figlio, la cui disciplina è smembrata in luoghi diversi e distanti. Se si colloca la materia in una prospettiva più aderente al dettato costituzionale, pare dunque opportuno un intervento del legislatore volto a regolare la condizione del figlio mediante l’adozione di una disciplina unitaria, così come ha recentemente fatto il legislatore tedesco”.

[13] Sul tema, si veda F. DANOVI, Le ultime riforme in tema di diritto e processo. Testo della Relazione tenuta a Perugia il 28 giugno 2013 all’incontro di Studio organizzato dal Centro Studi Giuridici e Politici.

[14] In particolare, G. PETRILLO, Per una psicologia dei diritti dei minori. Costruzioni sociali, responsabilità e ruoli educativi, Milano, 2005, 30, osserva che in essa si riscontra “una maggiore consapevolezza dei fattori che possono concorrere a supportare la normalità dello sviluppo, in senso sia fisico, sia morale e intellettuale, psicologico e sociale: una maggiore consapevolezza, dunque, della complessità del diventare persona e dell’interdipendenza tra dinamiche evolutive individuali e dinamiche sociali, espressa nelle relazioni educative e nelle politiche sociali”.

[15] Principio VII, Dichiarazione dei diritti del fanciullo, 1959: “Il superiore interesse del fanciullo deve essere la guida di coloro che hanno la responsabilità della sua educazione e del suo orientamento”.

[16] Sul punto, si veda L. FADIGA, Adozione ed affidamento: gli interventi sostitutivi della famiglia negli studi e nei progetti di dichiarazione delle Nazioni Unite, in L’adozione dei minori nelle legislazioni europee, a cura di A. BEGHE’ LORETI, 1986, 215 ss.

[17] Per un approfondimento, si veda si veda G. MAGNO, Il minore come soggetto processuale. Commento alla Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, Milano, 2001.

[18] Il Preambolo, infatti, sancisce che “Gli Stati firmatari della presente Convenzione, Profondamente convinti che l'interesse del minore sia di rilevanza fondamentale in tutte le questioni pertinenti alla sua custodia…”.

[19] Ai sensi dell’art. 3 di tale Convenzione: “Il trasferimento o il mancato rientro di un minore è ritenuto illecito: quando avviene in violazione dei diritti di custodia assegnati ad una persona, istituzione o ogni altro ente, congiuntamente o individualmente, in base alla legislazione dello Stato nel quale il minore aveva la sua residenza abituale immediatamente prima del suo trasferimento o del suo mancato rientro; se tali diritti vanno effettivamente esercitati, individualmente o congiuntamente, al momento del trasferimento del minore o del suo mancato rientro, o avrebbero potuto esserlo se non si fossero verificate tali circostanze”.

[20] Nella sentenza 2 aprile 2009, causa C-523/07, la Corte di Giustizia definisce la “residenza autonoma” come “quel luogo che denota una certa integrazione del minore in un ambiente sociale e familiare. A tal fine, si deve tenere conto della durata della regolarità, delle condizioni e delle ragioni del soggiorno nel territorio di uno Stato membro e del trasloco della famiglia in tale Stato, della cittadinanza del minore, del luogo e delle condizioni della frequenza scolastica, delle conoscenze linguistiche, nonché delle relazioni familiari e sociali del minore indetto Stato”. A tale proposito, è intervenuta anche la giurisprudenza italiana. Nella sentenza 19 dicembre 2003, n. 19544, la Corte di Cassazione ammette che per “residenza abituale” debba intendersi “il luogo in cui il minore, grazie anche ad una durevole e stabile permanenza, ancorché di fatto trova e riconosce il baricentro dei suoi legami affettivi, non solo parentali, originati dallo svolgersi della sua quotidiana vita di relazione. Il concetto di residenza abituale non coincide, pertanto, con quello di domicilio quale sede principale degli affari ed interessi di una persona (art. 43, comma 1, c.c.), né con quello di carattere meramente formale di residenza scelta di comune accordo tra i coniugi (art. 144 c.c.), ma corrisponde ad una situazione concreta, di puro fatto, il cui accertamento da parte del giudice di merito sfugge al sindacato di legittimità, se congruamente e logicamente motivato”.

[21] Ai fini della presente convenzione l'espressione: “minore” indica ogni persona che non abbia ancora raggiunto la maggiore età in base alla legge applicabile secondo le norme di diritto internazionale privato dello Stato richiedente e che, in base a detta legge, non abbia la capacità di fissare da sola la propria residenza (art. 1).

[22] Nel suo preambolo, la Convenzione consacra il principio del superiore interesse del minore.

[23] Sul punto, si veda A. SCHILLACI, La cooperazione nelle relazioni tra Corte di Giustizia dell’Unione europea e Corte europea dei diritti dell’uomo, in Rivista AIC, 2012, n.4, 12.

[24] Eur. Ct. H. R., Costello-Roberts v. UK, 1993

[25] Protocollo addizionale delle Nazioni Unite sulla prevenzione, la soppressione e la persecuzione del traffico di esseri umani, in particolar modo donne e bambini (noto anche come il protocollo sulla tratta degli esseri umani o Protocollo di Palermo), allegato alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, adottata dalla Conferenza delle Nazioni Unite di Palermo il 12 dicembre 2000.

[26] C. BERNASCONI, I rischi insiti nell’utilizzo del Web come possibile strumento di sfruttamento sessuale dei minori: l’attuazione in Italia della Convenzione di Lanzarote e il potenziamento degli strumenti repressivi, in Annali online della Didattica e della Formazione Docente, Vol. 9, n. 13, 2017; S. RECCHIONE, Le ratifiche del minore dopo la ratifica della Convenzione di Lanzarote, in Diritto penale contemporaneo, 2013.

[27] T. MONTECCHIARI, Rapporti tra genitori e figli, in Il diritto privato nella giurisprudenza. Famiglia e persone., a cura di P. CENDON, Tomo I, Torino 2008, 142.

[28] A. TRABUCCHI, Note introduttive agli artt. 147 e 147, in Commentario al diritto italiano della famiglia, II, Padova, 1992, 570.

[29] Sul tema, si veda F. DELL’ANNA MISURALE, La tutela economica della prole nella crisi di famiglia. Vademecum a seguito degli interventi legislativi in materia di filiazione, in Giustizia civile, n. 10, 2014.

[30] Così, A. ANCESCHI, Rapporti tra genitori e figli profili di responsabilità, Milano, 2007, 130.

[31] Trib. min. Bologna, 13 maggio 1972.

[32] G. CAMPANATO, La tutela giuridica del minore, Milano, 2005, 301, sostiene che per “educazione” si deve intendere “l’acquisizione di regole comportamentali che consentono al bambino di attivare e mantenere valide relazioni interpersonali ed anche di crescere sviluppando le sue potenzialità materiali”.  

[33] Così, T. MONTECCHIARI, La potestà dei genitori, Milano, 2006, 53.

[34] Trib. min. Catania, 21 giugno 1990.

[35] Così, M. PARADISO, I rapporti personali tra coniugi -Art. 143-148, in Il Codice civile. Commentario, a cura di P. SCHLESINGER, Milano, 1990.

[36] G. ZANNIELLO, L’integrazione dei compiti della madre e del padre nell’educazione dei figli e delle figlie, in Rivista Italiana di Educazione familiare, n. 1, 2016, 149-154.

[37] In tale quadro, si colloca il Regolamento CE n. 2201/2003 definisce la “responsabilità genitoriale” come “i diritti e doveri di cui è investita una persona fisica o giuridica in virtù di una decisione giudiziaria, della legge o di un accordo in vigore riguardanti la persona o i beni di un minore. Il termine comprende, in particolare, il diritto di affidamento e il diritto di visita” (art. 2, co. 1).

[38] A. FIGONE, La riforma della filiazione e della responsabilità genitoriale, Torino, 2014, 68.

[39] G. FOTI, Doveri del figlio verso i genitori, in Commentario del Codice civile, diretto da E. GABRIELLI, Torino, 2010, 781.

[40] Così, E. GIACOBBE, La giurisdizione ecclesiastica tra ambiguità ed incertezze (e forse qualche ipocrisia), in Studi in onore di Giovanni Giacobbe, a cura di G. DALLA TORRE, Vol. 2, Milano, 2010, 25.

[41] Occorre precisare che la parziale distrazione delle sostanze e dei redditi della prole è ammessa nei limiti in cui il patrimonio dello stesso si riveli eccedente rispetto ai bisogni della stessa. Sul punto, si veda S. ALAGNA, Doveri patrimoniali dei figli legittimi e adottivi, in Dir. fam. pers., 1991, 231 ss.

[42] Sul tema, si veda R. PANE, Convivenza familiare e allontanamento del figlio minore. Contributo allo studio della prassi, Napoli, 1984, 21 ss.

[43] F. SCAGLIONE, Ascolto, capacità e legittimazione del minore, in Dir. fam. pers., 2014, 431.

[44] Così, G. RECINTO, La legge n. 219 del 2012: responsabilità genitoriale o astratti modelli di minori di età? in Dir. fam., n. 4, 2013, 1475.

[45] M. C. CAMPAGNOLI, L'ascolto del minore, Milano, 2013, 14.

[46] Sul tema, si veda M.  G. RUO, Giusto processo civile minorile e spazio giuridico europeo: indicazioni della Corte europea dei diritti dell'uomo e Linee guida del Consiglio d'Europa per una giustizia child friendly, in Dir. fam. pers., 2013, 297 ss.

[47] Corte cost. sent. 30 gennaio 2002, n. 1.

[48] Cass., Sez. Un., 21 ottobre 2009, n. 22238. In particolare, le Sezioni Unite, in tale circostanza, dichiarano che “in tema di modifica delle condizioni della separazione personale tra coniugi (nella specie di diversa nazionalità), quanto all’affidamento dei minori costituisce, pertanto violazione del  principio del contraddittorio e dei principi del giusto processo il mancato ascolto che non sia sorretto da espressa motivazione sull’assenza di discernimento che ne può giustificare l’omissione, in quanto il minore è portatore d’interessi contrapposti e diversi da quelli del genitore, in sede di affidamento e diritto di visita e, per tale profilo, è qualificabile come parte in senso sostanziale”.

[49] Sul concetto di preminente interesse del minore, sia consentito il rinvio a L. LEO, “The best interest of the child” e sottrazione di minori all'estero, in Federalismi, n. 25, 2020, 190-193.

[50] Come osservato da M. SESTA, La nuova disciplina dell’affidamento dei figli, in L'affidamento dei figli nella crisi della famiglia, a cura di M. SESTA, A. ARCERI, Assago, 2012, 8, l’esclusione dell’altro genitore “preparava al genitore affidatario un terreno assai fertile per imporre le proprie convinzioni”.

[51] Trib. Genova, 18 aprile 1991; Corte d’App. Milano, 9 maggio 1986; Trib. Catania, 8 giugno 1994.

[52] Trib. min. Perugia, 2 dicembre 1997; Trib. Viterbo, 14 giugno 2004.

[53] Così, O. CANALI, Affidamento congiunto o custodia associata: una possibile alternativa, in Separazione, divorzio e affidamento dei figli, a cura di V. CIGOLI, G. GULOTTA, G. SANTI, Milano, 1983, 284. Sul tema, si veda anche A. RENDA, L’affidamento congiunto: problemi e prospettive (seconda parte), in Diritto e formazione, n. 12, 2004.

[54] Trib. Napoli, 22 dicembre 1995.

[55] Ai sensi dell’art. 9 di tale Convenzione: “Gli Stati parti rispettano il diritto del fanciullo separato da entrambi i genitori o da uno di essi, di intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con en­trambi i suoi genitori, a meno che ciò non sia contrario all’interesse preminente del fanciullo”.

[56] G. GIACOBBE, La famiglia nell’ordinamento giuridico italiano, Torino, 2011, 171 ss.

[57] L’affidamento condiviso, dunque, da “eccezione” diviene “regola”.

[58] Cass., 8 febbraio 2012, n. 1777.

[59] C. IRTI, L’affidamento dei figli minori ad un solo genitore nell’applicazione giurisprudenziale, in Fam.  pers. succ., 2008, 1016.

[60] Sul punto, si veda L. BALESTRA, Brevi notazioni sulla recente legge in tema di affidamento condiviso, in Familia, Vol. 4-5, 2006, 657.

[61] Si ricordi che, il giudice dovrà tenere conto dell’interesse morale e materiale dei figli, riconoscendo loro, sia a livello formale sia sostanziale, una priorità assoluta e inviolabile.

[62] Nell’ipotesi di affidamento condiviso, l’art. 337-ter, co. 3, c.c. prevede che “la responsabilità genitoriale è esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all’istruzione, all’educazione, alla salute e alla scelta della residenza abituale del minore sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli.  In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice. Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la responsabilità genitoriale separatamente”. In caso di affidamento esclusivo, invece, l’art. 337-quater, co. 3, c.c., dispone che “il genitore cui sono affidati i figli in via esclusiva, salva diversa disposizione del giudice, ha l’esercizio esclusivo della responsabilità genitoriale su di essi: egli deve attenersi alle condizioni determinate dal giudice. Salvo che non sia diversamente stabilito, le decisioni di maggiore interesse per i figli sono adottate da entrambi i genitori. Il genitore cui i figli non sono affidati ha il diritto ed il dovere di vigilare sulla loro istruzione e educazione e può ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse”.

[63] L. PISANO, D. GALIMI, L. CERNIGLIA, A Qualitative Report on Exploratory Data on the Possible Emotional/Behavioral Correlates of Covid-19 Lockdown in 4-10 Years Children in Italy, in PsyArXiv, 2020; R. ROSSI, V. SOCCI, D. TALEVI, S. MENSI, C. NIOLU, F. PACITTI, A. DI MARCO, A. ROSSI, A. SIRACUSANO, G. DI LORENZO, COVID 19 Pandemic and Lockdown Measures Impact on Mental Health among the General Population in Italy. An N=18147 Web Based Survey, in medRxiv, 14 April 2020.

[64] Sul tema, si veda A. SCATTAGLIA, Emergenza sanitaria: fra bigenitorialità e salute, in Rivista Familia, n. 2, 2020; G. COLACINO, Emergenza sanitaria da Covid-19, fra istanze di bigenitorialità e tutela del best interest of the child, in Ordines, n. 2, 2020.

[65] F. DI LASCIO, Il sistema nazionale di istruzione di fronte all’emergenza sanitaria, in Federalismi, n. 4, 2021, 94.