Pubbl. Gio, 1 Lug 2021
La Corte di cassazione sugli elementi costitutivi del reato di frode in pubbliche forniture
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Cristian Bozzato
Con la recente sentenza Cass. Pen., Sez. VI, 8 ottobre 2020, n. 28130, la Suprema Corte ripercorre la disciplina dei delitti in tema di pubbliche forniture e ribadisce la portata delle nozioni di ”contratto di fornitura” e di frode delle pubbliche forniture.
Sommario: 1. Premessa; 2. L’inadempimento di contratti di pubbliche forniture (art. 355 c.p.); 3. La frode nelle pubbliche forniture (art. 356 c.p.); 4. L’accezione atecnica del contratto di fornitura; 5. Il significato di “fornitura” fatto proprio dalla Corte di Cassazione; 6. Differenza tra la condotta di frode e il semplice inadempimento doloso del contratto; 7. Conclusioni.
1. Premessa
Con sentenza della Corte di Cassazione, sez. VI, 8 ottobre 2020 (ud. 18 settembre 2020), n. 28130, con riferimento al reato di frode nelle pubbliche forniture, di cui all’art. 356 c.p. si afferma il seguente principio:
«In tema di inadempimento di contratti di pubbliche forniture e di frode nelle pubbliche forniture, il termine “fornitura” si riferisce sia alle cose che alle opere, e quindi anche al facere costituito dalle prestazioni di materiali e attività tecniche e lavorative di un’impresa, volte ad assicurare il soddisfacimento delle finalità sottese al servizio pubblico».
La citata sentenza, che in motivazione ripercorre la disciplina del reato di frode nelle pubbliche forniture, è di particolare interesse perché si sofferma sia sulla nozione di pubbliche forniture, sia sul concetto di frode che caratterizza la fattispecie delittuosa in questione.
Prima di analizzare la pronuncia della Suprema Corte, si ritiene opportuno percorrere brevemente la disciplina degli artt. 355 e 356 c.p., non solo in ossequio all’impostazione dottrinale che spesso tratta unitamente i delitti relativi alle pubbliche forniture[1] ma, soprattutto, per le relazioni che intercorrono tra le due disposizioni e perché il citato principio si riferisce, a ben vedere, ad entrambe le ipotesi di reato.
2. L’inadempimento di contratti di pubbliche forniture (art. 355 c.p.)
L’art. 355 c.p. stabilisce al primo comma:
Chiunque non adempiendo agli obblighi che gli derivano da un contratto di fornitura concluso con lo Stato, o con un altro ente pubblico, ovvero con un’impresa esercente servizi pubblici o di pubblica necessità, fa mancare, in tutto o in parte, cose od opere, che siano necessarie a uno stabilimento pubblico o ad un pubblico servizio, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa non inferiore ad euro 103».
Il secondo comma prevede alcune circostanze aggravanti speciali ad effetto comune nel caso in cui la fornitura riguardi particolari sostanze (ad esempio alimentari o medicinali) oppure cose od opere (ad esempio destinate all’equipaggiamento delle forze armate dello Stato o per ovviare ad un comune pericolo o pubblico infortunio), disposizione richiamata anche dal successivo art. 356 c.p.
Il terzo comma prevede poi una pena più mite nel caso in cui il reato sia commesso a titolo di colpa. Infine, al quarto comma si enumerano i soggetti, diversi dal fornitore, a cui si applica la disposizione, in particolare: il subfornitore, il mediatore e i rappresentanti dei fornitori quando essi, violando i loro obblighi contrattuali, hanno fatto mancare la fornitura[2].
L’interesse protetto è sempre quello del buon andamento della pubblica amministrazione o, più precisamente, del regolare e corretto adempimento dei contratti di fornitura conclusi con lo Stato.
Si può inoltre osservare che risultano parimenti tutelate anche imprese private quando esercitano un servizio pubblico o di pubblica necessità, segno che la tutela viene apprestata all’interesse pubblico che alcuni contratti sono intesi a realizzare[3].
L’elemento oggettivo consiste nell’inadempimento di determinati obblighi derivanti dal contratto di fornitura. Il concetto di inadempimento è da ritenersi quello civilistico di mancata o inesatta esecuzione della prestazione, che avrebbe dovuto essere realizzata con la diligenza del buon padre di famiglia. L’inadempimento contrattuale non è punito come tale, ma soltanto nel momento in cui esso fa mancare in tutto o in parte le predette cose od opere[4].
Inoltre, il contratto di fornitura deve essere stato stipulato con lo Stato, un ente pubblico o con un’impresa esercente servizi pubblici o di pubblica necessità, queste ultime da ritenersi quelle attività economiche organizzate aventi ad oggetto l’esecuzione di prestazioni o servizi di utilità generale. In più, l’ipotesi delittuosa in questione si configura qualora la mancanza della cosa o dell’opera metta in pericolo la regolarità dell’attività amministrativa, turbando uno stabilimento pubblico o un pubblico servizio. Con il primo si intende un luogo destinato all’esecuzione di attività di interesse generale, mentre il secondo si sostanzia in un’attività regolamentata in forma pubblicistica ed oggettivamente diretta all’esecuzione ed alla realizzazione di finalità pubbliche di utilità sociale (si può fare riferimento alle nozioni previste dagli artt. 358 e 359 c.p.).
Si tratta di un reato proprio, in quanto può essere compiuto soltanto dal fornitore e dai soggetti indicati al quarto comma. Discussa è invece la configurabilità del delitto come reato di evento o di mera condotta. Appare però preferibile la prima impostazione in quanto, secondo il dettato normativo, l’inadempimento deve far mancare in tutto o in parte le cose od opere, cosicché la significativa e rilevante difficoltà nel soddisfare il bisogno che ha indotto lo Stato, l’ente pubblico o l’impresa a stipulare il contratto deve considerarsi l’evento del reato[5].
L’elemento soggettivo è il dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di non adempiere in tutto o in parte agli obblighi contrattuali con la consapevolezza che tale inadempimento farà mancare cose od opere necessari al soddisfacimento dei bisogni della pubblica amministrazione[6], con esclusione dell’ipotesi colposa prevista al comma terzo.
3. La frode nelle pubbliche forniture (art. 356 c.p.)
L’art. 356 c.p. dispone: «Chiunque commette frode nella esecuzione dei contratti di fornitura o nell’inadempimento degli altri obblighi contrattuali indicati nell’articolo precedente, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa non inferiore a euro 1.032.
La pena è aumentata nei casi preveduti dal primo capoverso dell’articolo precedente».
Come si può facilmente intuire, anche in questo caso, l’interesse tutelato è quello del buon andamento della pubblica amministrazione, in particolare l’interesse pubblico che alcuni contratti sono intesi a realizzare[7]. Questo, infatti, sarebbe messo in pericolo dalla frode commessa ai danni dello Stato, degli enti pubblici e delle imprese esercenti servizi di utilità generale, relativamente all’esecuzione di contratti di fornitura di cose od opere che sono indispensabili per il conseguimento delle finalità istituzionali della pubblica amministrazione.
L’elemento oggettivo del reato consiste nella realizzazione di una condotta fraudolenta che ha ad oggetto l’esecuzione dei contratti di fornitura o l’adempimento di determinati obblighi scaturenti dai contratti. In particolare, si deve precisare che la frode in esame si distingue dalla truffa. Infatti, l’art. 356 c.p. non richiede artifici o raggiri né alcun atto di disposizione patrimoniale dannoso né si sofferma sull’inganno e l’induzione in errore.
Tuttavia, si ritiene di concordare con quella dottrina che richiede, al fine della configurazione del reato, qualcosa di più “sostanzioso” e di più grave rispetto all’inadempimento, seppur doloso, del contratto e comunque una qualche forma di dissimulazione, stante anche l’evidente divario di pena edittale[8]. Sul punto la giurisprudenza si riferisce ad un comportamento qualificabile in termini di malafede contrattuale, che consiste nel porre in essere un espediente malizioso o ingannevole, idoneo a fare apparire l’esecuzione del contratto conforme agli obblighi assunti[9].
Si tratta di un reato proprio, in quanto può essere compiuto soltanto dal fornitore, dal subfornitore, dal mediatore o dal rappresentante del fornitore, previsti dal precedente art. 355 c.p. e da ritenere pacificamente compresi nell’alveo della figura delittuosa in esame.
Il reato è poi da ritenersi di mera condotta[10] e a forma libera. La consumazione si compie quando il soggetto agente pone in essere il comportamento fraudolento e il tentativo è ammissibile[11]. L’elemento soggettivo è il dolo generico, da intendersi come coscienza e volontà di consegnare cose diverse da quelle pattuite.
Infine, è interessante operare un confronto tra il delitto di frode nelle pubbliche forniture e quello di truffa. Com’è noto, l’art. 640 c.p. prevede, al fine di integrare la condotta delittuosa, il necessario ricorso ad artifici o raggiri idonei ad indurre taluno in errore e un conseguente danno per la parte offesa. Secondo la giurisprudenza è ipotizzabile il concorso tra il reato di cui all’art. 356 c.p. e quello di truffa, orientamento ribadito, da ultimo, anche dalla sentenza in commento[12].
Infatti, tale deduzione è coerente se si ritiene che la frode nelle forniture non richieda necessariamente quegli elementi ulteriori, quali artifici o raggiri, previsti dal reato di truffa. Mentre per il configurarsi della frode prevista dall’art. 356 c.p. è sufficiente la maliziosa mancata esecuzione degli obblighi contrattuali assunti, ragione per cui i reati di truffa e di frode nelle pubbliche forniture possono coesistere.
Di diverso avviso appare la dottrina che tende ad escludere il concorso formale tra i due delitti, ravvisando nella frode di cui all'art. 356 c.p. una figura speciale rispetto alla truffa contrattuale aggravata prevista nell'art. 640, comma 2, n. 1, c.p.[13] . Ipotizzando una truffa che riguardi pubbliche forniture, ovvero nel fatto risultino artifizi o raggiri con induzione in errore e un atto di disposizione con conseguente danno patrimoniale per lo Stato, ente pubblico o impresa. Il disvalore oggettivo e soggettivo della condotta non potrà che essere unico e da valutare unitariamente ritenendo in questo caso irragionevole il concorso di reati[14].
4. L’accezione atecnica del contratto di fornitura
Prima di passare all’analisi della citata sentenza del 2020 della Suprema Corte, vale la pena soffermarsi brevemente sulla nozione di contratto di fornitura. Secondo un’autorevole dottrina, a tale espressione va dato un significato ampio che comprende non solo il contratto di somministrazione, con il quale un soggetto si obbliga, verso corrispettivo di un prezzo, ad eseguire a favore di un altro prestazioni continuative o periodiche ma, più in generale, gli approvvigionamenti di beni o servizi dello Stato o enti pubblici[15].
Infatti, il dato normativo degli artt. 355 e 356 c.p. non pone l’accento su uno o più tipi nominati di contratto. Quindi, il contratto di fornitura ben può coincidere con una qualsiasi pattuizione sinallagmatica, idonea ad assicurare il soddisfacimento di un bisogno dello Stato, ente pubblico o impresa e, pertanto, il punto decisivo in ordine all’effettiva estensione dell’incriminazione è il requisito della necessità[16].
A seguito della pronuncia della Corte di Cassazione in esame è possibile ritenere ulteriormente ampliata tale nozione.
5. Il significato di “fornitura” fatto proprio dalla Corte di Cassazione
La pronuncia n. 28130 del 2020, della VI sezione, trae origine da un ricorso avverso l’ordinanza del Tribunale della libertà di Cagliari che confermava il provvedimento con cui il G.i.p. del Tribunale di Oristano rigettava la richiesta di revoca del divieto temporaneo di esercitare attività imprenditoriali, applicato al ricorrente.
Tale provvedimento del G.i.p. veniva adottato in relazione al delitto di cui all’art. 356 c.p. in quanto si ritiene che il ricorrente, attraverso l’agenzia di lavoro interinale da questi gestita, abbia commesso frode nell’esecuzione del contratto di appalto stipulato tra l’agenzia e l’Azienda sanitaria locale, somministrando manodopera interinale (in particolare somministrazione di personale paramedico) senza osservare le clausole contrattuali finalizzate a selezionale il personale in modo oggettivo.
Il ricorrente contesta l’inosservanza o erronea applicazione degli artt. 1 e 356 c.p., oltre che dell’art. 25 Cost., in quanto sarebbe stato violato il principio di tassatività perché il contratto stipulato non riguarderebbe “cose od opere”, come richiesto dal combinato disposto degli artt. 335 e 336 c.p., ma prestazioni lavorative che non rientrano nel novero dei contratti di fornitura di cose materiali.
Con riferimento a questo motivo di ricorso, la Suprema Corte statuisce che: nell’applicazione degli art. 355 e 356 c.p. devono intendersi per “forniture” sia le cose che le opere e, quindi, anche il facere costituito dalle prestazioni di materiali e attività tecniche e lavorative di una impresa che assicurano il soddisfacimento delle finalità sottese al suddetto servizio, categoria in cui rientra la fornitura di prestazioni lavorative, anche con contratto di lavoro interinale». In altre parole, il giudice di legittimità ritiene che la fornitura, come si evince dal dettato normativo, consiste in cose ed opere e, in queste ultime, rientrano pure le prestazioni lavorative, anche erogate con contratto di lavoro interinale.
A maggior ragione, se si considera che nella somministrazione di lavoro interinale, il rapporto di lavoro non intercorre fra due agenti (datore e lavoratore) ma fra tre: somministratore, in questo caso agenzia per il lavoro, lavoratore ed ente pubblico o azienda. Il lavoratore dipende giuridicamente dalle agenzie fornitrici e da queste viene retribuito, ma funzionalmente presta il suo lavoro presso gli enti che hanno bisogno di professionalità per periodi di tempo limitato. Il lavoro interinale somministrato alla pubblica amministrazione da una agenzia del lavoro interinale non è riconducibile giuridicamente alla categoria del pubblico impiego, al quale soltanto è correlata la previsione costituzionale dell’accesso mediante concorso secondo il disposto dell’art. 97, comma 4 della Costituzione.
Partendo da questo presupposto, la Suprema Corte ritiene necessario stabilire:
«se le modalità di selezione e formazione del personale, coerenti con i principi di imparzialità, di buon andamento e di accesso al pubblico impiego mediante concorso, siano espressamente previste in specifiche norme legislative e/o negli accordi contrattuali fra la Pubblica amministrazione e l’Agenzia che somministra il lavoro interinale».
Insomma, data la particolare natura del lavoro interinale, è necessario procedere ad una verifica circa le specifiche previsioni, legislative o contrattuali, che disciplinano il rapporto tra la Pubblica amministrazione e l’agenzia. Proprio da questa verifica sarà poi possibile stabilire se una determinata condotta rientra nell’alveo dell’art. 355 c.p. o dell’art. 356 c.p.
6. Differenza tra la condotta di frode e il semplice inadempimento doloso del contratto
La sentenza in commento risulta di particolare interesse in quanto ripercorre la differenza strutturale tra le due ipotesi criminose considerate, quella dell’inadempimento e quella della frode nel contratto di pubbliche forniture. Infatti, si stabilisce che: «il primo consiste nella mancata consegna, totale o parziale, ovvero nella ritardata consegna di cose o opere che non solo siano dovute ma che siano anche “necessarie a uno stabilimento pubblico o a un pubblico servizio” in questo caso bastando la constatazione dell’illiceità civile dell’inadempimento per la configurazione del reato».
Mentre nel caso dell’art. 356 c.p., la condotta consiste
«in ogni inadempimento che sia effetto di malafede contrattuale, comprendente, secondo l’ampio contenuto della disposizione, senza la necessità di uno specifico richiamo, anche gli inadempimenti concernenti cose o opere necessarie a uno stabilimento pubblico o a un pubblico servizio».
Con riguardo a tale concetto di frode, la Suprema Corte precisa che «la nozione di frode si riferisce a ogni condotta che, nei rapporti con la Pubblica amministrazione, viola il principio di buona fede e lealtà nell’esecuzione del contratto sancito dall’art. 1375 c.c. e, trattandosi di un fatto oggettivo che danneggia l’interesse pubblico, sono irrilevanti le condizioni psicologiche dei contraenti, ma contano soltanto le modalità di presentazione del bene in relazione a quanto oggettivamente convenuto o disposto con legge o con atto amministrativo»; e si continua affermando che non si richiede un comportamento ingannevole, bastando la malafede nell’eseguire il contratto in difformità dai patti, perché il dolo nel delitto di frode nelle pubbliche forniture, consiste nella cosciente volontà di consegnare cose diverse da quelle pattuite – come nella frode nell’esercizio del commercio ex art. 515 c.p.».
Secondo la Suprema Corte, dunque, l’espressione “frode” non allude ad un comportamento ingannevole, ma identifica il fatto in ogni inadempimento che sia effetto di malafede contrattuale. Proprio in virtù di queste caratteristiche, secondo il giudice di legittimità, è configurabile il concorso tra il reato di frode nelle pubbliche forniture e quello di truffa, qualora ricorrano gli elementi caratterizzanti di quest’ultimo delitto.
Una condotta, quella prevista dall’art. 356 c.p., quindi più grave dell’inadempimento, già incriminato nella fattispecie dell’art. 355 c.p., che consiste in un comportamento caratterizzato da malafede nell’eseguire il contratto ma non da artifici o raggiri tali da indurre taluno in errore.
In precedenti decisioni, come si è visto, sempre in tema di reato di frode nelle pubbliche forniture, la Corte di Cassazione aveva precisato che la malafede va intesa come un comportamento che richiede la presenza di un espediente malizioso o ingannevole, in modo tale da far sì che l’esecuzione del contratto appaia conforme agli obblighi assunti.
Tuttavia, alla luce della pronuncia in commento, come si è avuto modo di vedere, il giudice di legittimità ritiene non necessaria la presenza di un comportamento ingannevole. Pare quindi ragionevole ritenere che la frode nella pubblica fornitura si sostanzi in quella condotta inadempiente, caratterizzata da un espediente malizioso, idoneo a far apparire l’esecuzione del contratto conforme agli obblighi assunti. L’attenzione va quindi rivolta sia al contenuto inadempiente della condotta, rispetto agli obblighi contrattuali assunti, sia al carattere malizioso di questa. Tuttavia, se in quest’ultima si riscontrano anche elementi che costituiscono artifici o raggiri, tali da indurre la controparte in errore, allora sarà ipotizzabile anche il delitto di truffa, in concorso con quello di frode nelle pubbliche forniture.
7. Conclusioni
Tale sentenza della Corte di Cassazione n. 28130 del 2020 risulta quindi interessante per un duplice aspetto. Da una parte, ritiene che nella nozione di pubblica fornitura rientri anche la somministrazione di lavoro interinale, che a ben vedere costituisce un facere idoneo ad essere ricompreso nelle “opere” richiamate dal dettato normativo. Tale impostazione, a ben vedere, conferma quell’orientamento dottrinale che già aveva sottolineato la natura atecnica del concetto di pubblica fornitura che, in quanto assimilabile all’approvvigionamento di cose ed opere, ragionevolmente ricomprende anche le prestazioni lavorative erogate con contratto di lavoro interinale all’ente pubblico (nel caso in esame, deputato all’erogazione di servizi sanitari).
Dall’altra, viene ribadita la differenza tra le condotte considerate negli art. 355 e 356 c.p. e, in particolare, si opera una delimitazione del concetto di frode, ancorandolo alla malafede contrattuale. Da notare che, la sentenza in commento, ribadisce la non necessità di un comportamento ingannevole per la configurazione della frode. Pertanto, in primo luogo, dovrà sussistere una condotta che si identifica in un inadempimento degli obblighi contrattuali assunti.
In secondo luogo, la condotta deve caratterizzarsi come maliziosa, infedele o scorretta che, seppur priva di una connotazione ingannatoria, dovrà comunque consistere in una dissimulazione tale da far apparire l’esecuzione del contratto conforme agli obblighi assunti. In questo modo, il delitto previsto dall’art. 356 c.p. mantiene la sua autonomia dal reato di truffa con cui potrà concorrere. Un’impostazione che se dal punto di vista teorico può apparire chiara, dal lato pratico, senza dubbio, richiede una approfondita verifica del caso concreto considerato.
[1] Cfr. A. BONDI, A. D. MARTINO, G. FORNASARI, Reati contro la pubblica amministrazione, Torino, 2008, 447 ss.; Reati contro la pubblica amministrazione e contro l’amministrazione della giustizia, a cura di Catenacci, Torino, 2011, 303 ss.; fattispecie analoghe a quelle in esame, poi, sono contenute negli art. 251 e 252 c.p., la cui applicazione è limitata al solo tempo di guerra (art. 310 c.p.).
[2] Cfr. M. ROMANO, I delitti contro la pubblica amministrazione, Milano, 2002, 210 «quella dei subfornitori, mediatori e rappresentanti dei fornitori è una responsabilità autonoma, che, posta dalla norma in capo a ciascuno di essi per la violazione di specifici obblighi a suo carico, prescinde da eventuali concorsi (peraltro ammissibili) con il fornitore. Da notare, inoltre, che le posizioni di tali soggetti sono diverse tra loro e diversamente significative».
[3] Cfr. M. ROMANO, op. cit., 208.
[4] Cfr. A. BONDI, A. D. MARTINO, G. FORNASARI, op. cit., 451.
[5] Cfr. A. BONDI, A. D. MARTINO, G. FORNASARI, op. cit.; M. ROMANO, op. cit., 214.
[6] Cfr. M. ROMANO, op. cit., 213 «quanto al significato di tale “necessità” della fornitura per lo stabilimento o servizio pubblico, poi, la soluzione non pare da cercare in un’alternativa radicale tra sufficienza di una necessità relativa ed esigenza di una necessità assoluta: ed infatti, vero che attribuire rilievo alla sola assoluta impossibilità – a seguito dell’inadempimento – di prosecuzione dell’attività di interesse pubblico, o comunque di soddisfacimento del bisogno che ha indotto l’ente alla stipulazione contrattuale, priverebbe la norma di gran parte della sua funzione, è altrettanto vero che, a fronte dell’estrema gravità della sanzione penale per la violazione di un obbligo di natura civile sarebbe singolare e eccessiva la rilevanza già di qualsiasi intralcio al normale svolgimento dell’attività o del servizio. Considerazione, questa, che induce a considerare pertinenti soltanto (come soglia iniziale di rilevanza) significative, consistenti difficoltà recate alla attività dello stabilimento o al servizio pubblico».
[7] Cfr. M. ROMANO, op. cit., 220.
[8] Cfr. M. ROMANO, op. cit., 222-223 «non si richiede cioè una vera e propria attitudine ingannatoria della condotta […] ma è comunque essenziale una dissimulazione che si proporzioni al tipo di controllo che ci si attenda dal destinatario della cosa».
[9] Cfr. Cassazione penale, sez. VI, sentenza n. 29374 del 2020 in motivazione «elemento della frode che si presenta come astuzia o malizia diretta ad ingannare; con la conseguenza che è configurabile il delitto di cui all’art. 356 c.p., quando l’opera venga compiuta, non solo in dispregio ed in violazione delle clausole dell’appalto e delle norme regolatrici delle clausole stesse, bensì anche con il proposito (fraudolento) di rappresentare una situazione apparente che sia conforme alle dette clausole ed alla legge». In senso analogo, Cassazione penale, sez. VI, sentenza n. 26231 del 2006.
[10] Cfr. A. BONDI, A. D. MARTINO, G. FORNASARI, op. cit., 456.
[11] Cfr. M. ROMANO, op. cit., 224 «il momento consumativo sarà da identificare con quello dell’effettiva incidenza della diversità dal pattuito nella sfera di interesse dell’altro contraente (Stato, ente pubblico, impresa) e da determinare in stretta relazione alle specifiche obbligazioni concretamente stipulate. Ma fatte salve pattuizioni diverse, pare fondamentalmente esatto affermare che detto momento di incidenza nella sfera del destinatario, e quindi in momento consumativo del reato, sarà da individuare di regola in quello della consegna della cosa oggetto della fornitura».
[12] Cfr. Cassazione penale, sez. VI, n. 38346 del 2014; Cassazione penale, sez. II, n. 15667 del 2009 e Cassazione penale, sez. VI, n. 5102 del 1998.
[13] Cfr. A. PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte speciale, vol. I, Milano, 2000, 475; M. ROMANO, op. cit., 227; S. VINCIGUERRA, I delitti contro la pubblica amministrazione, Padova, 2008, 431.
[14] Cfr. M. ROMANO, op. cit., 227-228, in tal caso, l’Autore ritiene preferibile l’applicazione della disciplina dell’art. 356 c.p. «che, pur “accontentandosi di meno” rispetto all’art. 640 c.p., ispirandosi tra l’altro ad un’anticipazione di tutela (e ad una semplificazione probatoria), prevede tuttavia un delitto altrettanto grave (o addirittura più grave considerando anche la pena pecuniaria, o se a sua volta aggravato) della truffa aggravata […]».
[15] Cfr. M. ROMANO, op. cit., 211.
[16] Cfr. M. ROMANO, op. cit., 213 «le cose od opere destinate allo Stato, altro ente pubblico o impresa esercente un servizio pubblico o di pubblica necessità, cioè, devono anche essere propriamente “necessarie” a detto pubblico stabilimento o servizio». Sul punto, anche A. BONDI, A. D. MARTINO, G. FORNASARI, op. cit., 449 «il termine non ha un proprio significato tecnico-civilistico; tuttavia, poiché l’oggetto del contratto è la prestazione di cose od opere, è pacifico che vengano in considerazione, oltre al contratto di somministrazione, anche la compravendita e l’appalto, ed in generale ogni contratto – indipendentemente dalla sua qualificazione – destinato a procurare alla P.A. cose od opere. Del resto, si è evidenziato che si tratta di termine corrente nelle pubbliche amministrazioni, equivalendo a “contratto di approvvigionamento”».
Bibliografia
BONDI A., MARTINO A. D., FORNASARI G., Reati contro la pubblica amministrazione, Torino, 2008
CATENACCI M., a cura di, Reati contro la pubblica amministrazione e contro l’amministrazione della giustizia, Torino, 2011
PAGLIARO A., Principi di diritto penale. Parte speciale, vol. I, Milano, 2000
ROMANO M., I delitti contro la pubblica amministrazione, Milano, 2002
VINCIGUERRA S., I delitti contro la pubblica amministrazione, Padova, 2008