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Pubbl. Lun, 21 Giu 2021

La Cassazione sul reato di danneggiamento seguito da incendio

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Gino Di Cesare
AvvocatoNessuna



Con sentenza del 9 aprile 2021, n. 13421, la Corte di cassazione si è pronunciata sull´ambito applicativo dei reati ex artt. 423 e 424 del Codice penale, affermando che il reato di danneggiamento seguito da incendio richiede, come elemento costitutivo, il sorgere di un pericolo di incendio e pertanto non sarà ravvisabile ogniqualvolta il fuoco appiccato non abbia caratteristiche di un tale pericolo. In assenza di incendio o di pericolo di incendio, dunque, sarà configurabile il diverso reato di danneggiamento che è un reato contro il patrimonio e non i descritti reati contro la pubblica incolumità.


ENG With sentence of 9 April 2021, n. 13421, the Court of Cassation ruled on the scope of the offenses pursuant to art. 423 and 424 of the Criminal Code, stating that the crime of damage followed by fire requires, as a constitutive element, the arising of a fire danger and therefore it will not be recognizable whenever the fire started does not have the characteristics of such a danger. In the absence of fire or fire danger, therefore, the different crime of damage will be configurable, which is a crime against property and not the described crimes against public safety.

Sommario: 1. Premessa; 2. I reati di "Incendio" e di "Danneggiamento seguito da incendio"; 3. La sentenza n. 13421/2021 del 9 aprile 2021; 4. Conclusioni.

1. Premessa

Con la sentenza n. 13421 depositata il 9 aprile 2021,  la Prima Sezione della Corte di cassazione confermava il costante indirizzo ermeneutico secondo cui

«Il reato di danneggiamento seguito da incendio richiede, come elemento costitutivo, il sorgere di un pericolo di incendio, sicché non è ravvisabile qualora il fuoco appiccato abbia caratteristiche tali che da esso non possa sorgere detto pericolo per cui, in questa eventualità o in quella nella quale chi, nell’appiccare il fuoco alla cosa altrui al solo scopo di danneggiarla, raggiunge l’intento senza cagionare né un incendio né il pericolo di un incendio, è configurabile il reato di danneggiamento, mentre se detto pericolo sorge o se segue l’incendio, il delitto contro il patrimonio diventa più propriamente un delitto contro la pubblica incolumità e trovano applicazione, rispettivamente, gli articoli 423 e 424 c.p.»

e rigettava così il ricorso proposto dall’indagato. Quest’ultimo si doleva di violazione di legge e di vizio di motivazione del provvedimento con cui il Tribunale del riesame di Bologna confermava l’ordinanza di custodia cautelare nei suoi confronti, perché, a parere del ricorrente, lo stesso Tribunale del riesame non avrebbe ben motivato sia in ordine all’inquadramento ex art. 423 c.p. del fatto, sia in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo del contestato reato di incendio.

La sentenza assume particolare interesse perché riaccende i riflettori su un settore del diritto penale, quello dei delitti contro l’incolumità pubblica, negli ultimi tempi troppo spesso balzato agli onori delle cronache. Con il seguente commento, dopo una breve analisi del bene giuridico protetto, si passerà dapprima a ricostruire sistematicamente i reati di «Incendio», ex art. 423 c.p., e di «Danneggiamento seguito da incendio», ex art. 424 c.p., per poi delineare il percorso argomentativo con cui la Corte di cassazione perveniva al rigetto del ricorso. Nelle conclusioni si cercherà di dar conto dei motivi per cui la Suprema Corte, così statuendo, sembra aver correttamente inquadrato la vicenda sotto la cornice del più grave art. 423 c.p.

2. I reati di «Incendio» e di «Danneggiamento seguito da incendio»

I delitti ex artt. 423 e 424 c.p. sono inseriti all’interno del Titolo VI del nostro codice penale in cui si disciplinano i «Delitti contro la pubblica incolumità». Secondo la prevalente dottrina[1], la categoria dei reati contro la pubblica incolumità si ricollega alla nozione di pericolo comune, ossia quel pericolo di una lesione generale tale da estendersi sino a coinvolgere una generalità indeterminata di persone.

I caratteri essenziali di tali delitti sono rappresentati: da una connotazione superindividuale, ovvero la prospettiva di un pregiudizio verso la generalità dei consociati o comunque di un numero indeterminato di essi; dall’espansività non dominabile degli effetti; da una logica fortemente preventiva che ispira tali tipologie criminose. Si può concludere, quindi, in via di approssimazione che per pubblica incolumità debba intendersi la vita, l’integrità fisica e la salute della collettività, ossia quel complesso di condizioni, garantite dallo Stato di diritto e dall’ordine giuridico, necessarie per la sicurezza della vita, come beni di tutti e di ciascuno, indipendentemente dal loro riferimento a determinate persone.

L’art. 423 c.p. prevede due distinte fattispecie: al primo comma il c.d. “incendio di cosa altrui”, e punisce «chiunque cagiona un incendio». Al secondo comma, invece, è disciplinato il c.d. “incendio di cosa propria”, ma solo se «dal fatto deriva pericolo per l’incolumità pubblica». Salta subito agli occhi dell’interprete la diversa costruzione delle due fattispecie. Infatti, mentre l’incendio di cosa altrui è costruito dal Legislatore come il classico reato di pericolo presunto o astratto (cioè quel reato in cui il pericolo è dato come insito nella stessa condotta, senza necessità di ulteriori accertamenti), l’incendio di cosa propria è un reato di pericolo c.d. concreto, in cui è necessario che il giudice accerti l’effettiva realizzazione del pericolo per il bene giuridico protetto. 

La ratio di questo discrimen tra le fattispecie è fatta risalire dalla dottrina[2] nel principio di non contraddizione dell’ordinamento, in quanto, come noto, il diritto di proprietà implica anche il potere di distruggere la cosa oggetto del diritto dominicale, per cui sarebbe illogico se l’ordinamento, da una parte, consentisse al dominus di distruggere il proprio bene e, dall’altro, lo punisse per lo stesso motivo.

Per cui il pericolo per la pubblica incolumità nell’incendio di cosa propria andrebbe considerato come un elemento costitutivo del reato, perché su di esso pare incentrarsi il disvalore del fatto. La concretezza del pericolo (con conseguente più preciso accertamento da parte del giudice) discenderebbe dal fatto che il Legislatore ha così inteso conciliare la tutela della pubblica incolumità con il diritto del proprietario di disporre della cosa propria.

Ne deriverebbe che il danneggiamento della cosa propria deve ritenersi lecito, ma fintanto che non cagioni un pericolo alla pubblica incolumità: lettura che renderebbe la fattispecie più aderente ai principi costituzionali in materia di proprietà[3]

L’art. 424 c.p. punisce chi, «al solo fine di danneggiare la cosa altrui, appicca il fuoco a una cosa propria o altrui […], se dal fatto sorge il pericolo di un incendio. […]. Se segue l’incendio, si applicano le disposizioni dell’art. 423, ma la pena è ridotta da un terzo alla metà». La condotta consiste nell’appiccare il fuoco alla cosa propria o altrui, ma deve essere ulteriormente qualificata dal dolo specifico di danneggiare la cosa altrui: l’incendio che ne segue, o il pericolo di esso, è da considerarsi come evento non voluto dall’agente.

Nella norma in esame l’anticipazione della tutela è ancora più evidente, in quanto viene punito un c.d. pericolo indiretto, cioè il pericolo di una situazione a sua volta pericolosa per la pubblica incolumità. Ratio del delitto, dunque, è la volontà del Legislatore di punire le condotte dirette a danneggiare beni altrui, attuate con un mezzo particolarmente pericoloso e insidioso come il fuoco. Entrambe le fattispecie di cui agli artt. 423 e 424 ruotano intorno all’interpretazione del concetto di incendio, in base alla quale il fatto deve essere caratterizzato da una spiccata connotazione di insidiosità, pericolosità, diffusività, tendenza a progredire rapidamente, difficile dominabilità delle fiamme.

Caratteristiche delineate già da decenni dalla Corte costituzionale[4], la quale ha avuto modo di affermare che, alla luce del bene giuridico protetto della pubblica incolumità,

«non è sufficiente un qualunque fuoco volontariamente appiccato sulla cosa altrui perché si verifichi l’elemento materiale del delitto […], ma occorre un’entità dell’incendio ed una collocazione della cosa incendiata idonee, nelle circostanze date, a porre pericolo per la incolumità pubblica […] in forza della vastità, della violenza, della capacità distruttiva e diffusibilità che il fuoco appiccato deve evidenziare».

Tale orientamento interpretativo viene fatto proprio anche dalla successiva giurisprudenza di legittimità, con cui non solo si rimarcano le anzidette caratteristiche dell’evento, ma si chiarisce anche che il giudizio sulla ricorrenza del pericolo di incendio (nel reato ex art. 424 c.p.) va formulato sulla base di una c.d. prognosi postuma, “ex ante” e a base parziale, avuto cioè riguardo alle circostanze esistenti al momento della condotta, senza alcuna rilevanza dei fattori eccezionali e sopravvenuti, quale l’intervento tempestivo dei Vigili del fuoco o della persona offesa nello spegnimento delle fiamme[5].  

3. La sentenza n. 13421/2021 del 9 aprile 2021

Premesso quanto detto, va ora ripercorso l’iter logico-motivazionale con cui la Suprema Corte perviene al rigetto del ricorso nella sentenza in esame. La Corte di cassazione ritiene esente da vizi logici la ricostruzione in fatto operata dal Tribunale del riesame di Bologna, secondo cui la vicenda dovrebbe essere così ricostruita.

L’indagato si recava nelle pertinenze di un condominio in cui era presente l’auto della persona offesa, con la quale aveva avuto poco prima dei dissidi, dato circostanziale che sembrerebbe ricondurre a un movente ritorsivo dell’azione incendiaria. Individuata l’auto, appiccava il fuoco su di essa e le fiamme avviluppavano almeno altri tre veicoli, raggiungendo significative proporzioni, tali da richiamare l’attenzione di un testimone oculare, il quale, giunto sul posto, trovava l’indagato e lo invitava a chiamare i Vigili del fuoco, ma questi si rifiutava categoricamente. L’incendio veniva domato, non senza difficoltà, solo a seguito dell’intervento della forza pubblica allertata dal testimone oculare. 

Secondo la Corte di cassazione tutti questi elementi indiziari, in particolare la significativa dimensione e diffusività delle fiamme, evidenziavano l’esistenza degli elementi costitutivi del reato di incendio e permettevano di ritenere corretta la qualificazione giuridica operata dal Tribunale delle libertà di Bologna, scongiurando la derubricazione del fatto a mero danneggiamento con la riaffermazione del principio di diritto in commento. La pronuncia, tuttavia, non si limita a questo profilo, ma, dopo aver inquadrato la vicenda all’interno di uno degli articoli a presidio della pubblica incolumità, ritiene corretto anche il riferimento a precedenti interventi giurisprudenziali con cui si giustifica la scelta, nel caso di specie, per il più grave delitto ex art. 423 c.p. Invero, la Corte conferma anche il prevalente orientamento[6] secondo cui

«i delitti di incendio e di danneggiamento seguito da incendio si distinguono in relazione all’elemento psicologico in quanto mentre il primo è connotato dal dolo generico, ovvero dalla volontà di cagionare l’evento con fiamme che, per le loro caratteristiche e la loro violenza, tendono a propagarsi in modo da creare un effettivo pericolo per la pubblica incolumità, il secondo è caratterizzato dal dolo specifico, consistente nel voluto impiego del fuoco al solo scopo di danneggiare, senza la previsione che ne deriverà un incendio con le caratteristiche prima indicate o il pericolo di un siffatto evento. Pertanto, nel caso di incendio commesso al fine di danneggiare, quando a detta ulteriore e specifica attività si associa la coscienza e volontà di cagionare un fatto di entità tale da assumere le dimensioni previste dall’art. 423 c.p., è applicabile quest’ultima norma e non l’art. 424 c.p., nel quale l’incendio è contemplato come evento che esula dall’intenzione dell’agente».

In sostanza, secondo l’interpretazione prevalente in giurisprudenza e di tutt’altro avviso rispetto all’opinione dottrinaria vista nel precedente paragrafo, nel reato di incendio ex art. 423 c.p. deve ritenersi che il pericolo per la pubblica incolumità non sia un elemento costitutivo del reato, bensì una condizione obiettiva di punibilità c.d. intrinseca, cioè strettamente correlata all’interesse tutelato, tale che – con riferimento all’elemento psicologico del reato – il fatto sarebbe punibile ogniqualvolta si verifichi la situazione di pericolo, a prescindere dal fatto che l’agente l’abbia voluta o se la sia soltanto rappresentata[7].

4. Conclusioni

Se a una prima lettura la sentenza n. 13421/2021 sembra lasciare qualche perplessità in ordine all’inquadramento del fatto all’interno della più grave cornice edittale del reato di incendio, dopo un’attenta analisi degli elementi di fatto desumibili, e dalla lettura della precedente giurisprudenza di legittimità in tema, i dubbi si dipanano.

Invero, nella vicenda caduta sotto la lente di ingrandimento della Suprema Corte elemento dirimente sembrerebbe essere quello del profilo soggettivo del reato, imputabile all’indagato quanto meno a titolo di dolo eventuale. Infatti, mentre non sussistono dubbi circa la portata delle fiamme e quindi sull’elemento oggettivo del reato, alcune circostanze di fatto avallano la scelta del Tribunale del riesame di Bologna, confermata dalla Corte di cassazione, come ad esempio le circostanze che l’imputato, nonostante la presenza di vari veicoli vicini all’auto della persona offesa, abbia comunque appiccato il fuoco, oppure il successivo dato secondo cui, nonostante la vista della pericolosità e vastità delle fiamme sviluppatesi, si sia rifiutato di allertate i Vigili del fuoco, rispondendo all’invito del testimone presente con la frase provocatoria «chiamali tu».

Tutti dati che convergono verso un’imputazione del fatto quanto meno a titolo di dolo eventuale e permettono quindi di ritenere consumato il più grave reato di incendio e non di danneggiamento seguito da incendio, nel quale, come visto, la provocazione dell’incendio non deve rientrare nel focus volitivo dell’agente.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Cfr. LUIGI CORNACCHIA, I delitti contro l’incolumità pubblica, in Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, di CANESTRARI-CORNACCHIA-GAMBERINI-INSOLERA-MANES-MANTOVANI-MAZZACUVA-SGUBBI-STORTONI-TAGLIARINI, Monduzzi Editoriale, sesta edizione, pag. 359 e ss.

[2] Cfr. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte speciale. Vol. I, Zanichelli, quarta edizione, pag. 500 e ss.

[3] E, segnatamente, a quello della c.d. funzione sociale della proprietà, ex art. 42, secondo comma, Cost.

[4] Cfr. sentenza n. 71/1979.

[5] Cfr. ex multiis Corte di cassazione, Sez. V, n. 47596 del 22 novembre 2019.

[6] Cfr. sentenza Corte di cassazione, Sez. II, n. 17558 del 08.03.2017.

[7] Cfr. sentenza Corte di cassazione, Sez. I, n. 29294 del 17.05.2019.