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Pubbl. Ven, 14 Mag 2021

Tentativo di rapina e atti preparatori: l´appostamento in prossimità di un esercizio commerciale costituisce l’inizio di esecuzione del reato

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Francesco Gregorace
AvvocatoUniversità di Pisa



Con la recente sentenza Cass. Pen., Sez. II, 19 ottobre 2020, n. 28905, la Suprema Corte torna sulla tormentata questione relativa all´individuazione dell´inizio dell´attività punibile, confermando il suo costante orientamento e ritenendo che l´appostamento nei pressi di un esercizio commerciale configuri tentativo di rapina.


ENG With the recent ruling, Cass. Pen., Sez. II, 19 ottobre 2020, n. 28905, the Supreme Court returns to the troubled question of the introduction of the beginning of punishable activity, confirming his constant orientation and believing that the move near a business constitutes an attempted robbery.

Sommario: 1. Premessa; 2. La vicenda; 3. L’iter criminis; 4. Il delitto tentato e l’inizio dell’attività punibile; 4.1.Il requisito dell'idoneità degli atti4.2 Il requisito dell'univocità degli atti; 5. Il tentativo di rapina; 6. Le conclusioni della Corte. 

1. Premessa

Con la recente pronuncia n. 28905 del 2020, la II Sezione penale della Cassazione ha ritenuto, in maniera conforme ai suoi precedenti arresti, che il tentativo di delitto di cui all’art. 56 c.p., si configura anche in presenza di quegli atti che, seppur classificabili come preparatori, facciano ritenere che l’agente abbia iniziato ad attuare il piano criminoso e che, probabilmente, riuscirà nel proprio intento.

La pronuncia in esame, riguardante un tentativo di rapina, analizza diversi aspetti di particolare interesse in relazione ai requisiti costitutivi del tentativo di delitto nonché del delitto di rapina che meritano approfondimento.

2. La vicenda

La vicenda che ha fatto da sfondo alla pronuncia della Suprema Corte riguardava la condotta degli indagati che, dopo essersi appostati nelle vicinanze dell’esercizio commerciale preso di mira, si avvicinavano verso l’obiettivo ed indossavano il passamontagna, ma erano costretti ad abbandonare il progetto criminale per circostanze imprevedibili, quali la presenza di un soggetto e la chiamata delle forze dell’ordine effettuata dallo stesso.

Condannati in Appello per tentativo di rapina, gli imputati ricorrevano in Cassazione lamentando, tra le altre cose, un'erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 56 e 628 c.p. a causa di una lettura distorta della norma sul tentativo di delitto, la quale non consente di punire condotte prive di qualsiasi offensività. Ma non solo.

Le doglianze riguardavano anche l’esclusione della desistenza volontaria da parte degli imputati che si erano allontanati dall’esercizio commerciale spontaneamente, ritenendo che la mera minaccia di chiamare le forze dell’ordine non potesse equipararsi ad una causa autonoma ed esterna che aveva impedito l’azione.[1]

Ciò premesso, prima di analizzare la soluzione offerta dalla Suprema Corte, è necessario delineare brevemente il delitto tentato e, in particolare, la configurabilità del tentativo di rapina.

3. L’iter criminis

Il delitto tentato costituisce il paradigma dei reati di pericolo, ovverosia quelli nei quali il legislatore, per ragioni di politica criminale, intende anticipare la soglia del penalmente rilevante punendo non la lesione effettiva del bene giuridico, ma la sola messa in pericolo dello stesso.

Per meglio comprendere la condotta tentata è necessario individuarne correttamente la collocazione nell’iter criminis. In particolare, la commissione di un reato passa attraverso diversi momenti: vi è la fase dell’ideazione, che si svolge all’interno della psiche del reo tramite un processo di motivazione che culmina nella risoluzione criminosa e, ovviamente, non è punibile. Segue la fase della preparazione, che può aversi soprattutto nei delitti posti in essere con dolo di proposito ed in caso di premeditazione. Successivamente, si ha la fase dell’esecuzione che coincide con il compimento della condotta esteriore richiesta per la configurazione del reato. Infine, la perfezione e la consumazione.

La prima si ha nel momento in cui si siano verificati tutti i requisiti per la configurazione del reato, in maniera tale che il reato venga ad esistenza; la consumazione, invece, si ha quando il reato già perfezionato giunge alla massima gravità. Le due ultime fasi, esecuzione e consumazione, possono anche non coincidere, come ad esempio accade nel reato permanente.[2]

Ciò posto, il tentativo di delitto si colloca a metà strada tra la fase della preparazione e quella dell’esecuzione. In un sistema penale come il nostro, oggettivo ed ispirato ai principi di materialità ed offensività, la punibilità non potrebbe mai collocarsi nelle fasi precedenti all’inizio dell’esecuzione. La fase puramente ideativa, infatti, è sempre irrilevante (cogitationis poenam nemo patitur).[3]

4. Il delitto tentato e l’inizio dell’attività punibile

Ai sensi dell’art. 56, co.1, c.p. "chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica". La norma configura una fattispecie autonoma di reato, che si ottiene dal combinato disposto della norma indicata con le singole norme di parte speciale. La conseguenza è che ogni delitto potrà configurarsi, nei limiti della compatibilità logica, in forma tentata. La funzione dell’art. 56 c.p. è quella di estendere la punibilità anche a quelle condotte atipiche che, ove la norma non esistesse, non costituirebbero reato.

Premesso ciò, una delle maggiori problematiche concernenti il delitto tentato riguarda l’individuazione dell’inizio dell’attività punibile. Come anticipato, in ragione dei principi che governano il nostro diritto penale, l’inizio della punibilità non potrà che coincidere con la messa in pericolo del bene giuridico protetto dalla norma. Ciò, tuttavia, non risolve il problema, rimanendo incerto il criterio che consente di individuare il momento esatto in cui il bene giuridico inizia ad essere in pericolo.

A tal fine, nell’Ottocento si propose la distinzione tra atti preparatori e atti esecutivi, individuando questi ultimi come soglia minima penalmente rilevante. Coerente a tale impostazione, il codice Zanardelli definì il tentativo come il "cominciamento dell’esecuzione", con conseguente irrilevanza di tutti gli atti preparatori[4]. Tuttavia, la prassi dimostrò l'incertezza della distinzione tra le due tipologie di atti. Per riportare un esempio di scuola, nel caso di omicidio deve considerarsi inizio dell’esecuzione l’appostamento, prendere la mira o premere il grilletto? Diversi i criteri elaborati allo scopo di risolvere il problema.

Un primo orientamento distingueva gli atti preparatori dagli atti esecutivi a seconda della loro equivocità, tipica dei primi, o univocità tipica dei secondi. Un diverso criterio riteneva preparatori gli atti che rimanevano nella sfera del soggetto attivo, mentre quelli invasivi dell’altrui sfera venivano qualificati come atti esecutivi. Ancora. Un terzo criterio era quello della teoria formale oggettiva, secondo cui gli atti esecutivi sarebbero solamente quelli che danno inizio all’esecuzione della condotta descritta dalla fattispecie. Infine, la teoria materiale oggettiva riteneva punibili anche gli atti prossimi strettamente connessi e contigui a quelli tipici.[5]

Le notevoli incertezze hanno portato il legislatore del 1930 a superare l’impostazione del codice Zanardelli per accogliere quella riportata in apertura che fa riferimento alle idoneità e univocità degli atti.

4.1. Il requisito dell'idoneità degli atti 

Il requisito dell’idoneità degli atti ha sostituito l’idoneità astratta del mezzo utilizzato del codice del 1889. La modifica si è resa necessaria in considerazione del fatto che è apparso ben possibile che un mezzo astrattamente fatale possa, in concreto, rilevarsi inidoneo e viceversa. Ragion per cui si è optato per l’idoneità in concreto degli atti. Tale requisito, tuttavia, ha posto tre problemi essenziali: il grado necessario di idoneità, il suo accertamento e la valutazione delle circostanze.

Per quanto concerne il primo punto, le tesi in gioco sono due: quella che ritiene sufficiente la mera possibilità di commissione del delitto e quella che, al contrario, richiede un’alta probabilità. Autorevole dottrina aderisce alla tesi della probabilità e ciò in ragione del fatto che il tentativo costituisce un reato di pericolo ed il pericolo può definirsi tale solo nel momento in cui vi sia la probabilità di una lesione, e non in presenza di una mera possibilità. [6]

Con riferimento all’accertamento della idoneità degli atti, ad un primo orientamento che proponeva di adottare il medesimo criterio utilizzato per l’accertamento del nesso causale, ovverosia quello ex post, si è obiettato come fosse difficilmente immaginabile una condotta causale di un evento che, poi, non si è verificato. Per tali ragioni, la dottrina prevalente[7] ha optato per la c.d. prognosi postuma. Trattasi di un criterio di elaborazione dottrinale che prende il nome dal suo carattere, al tempo stesso, prognostico ma effettuato ex post. In particolare, il giudizio dell’interprete avverrà dopo l’accadimento dei fatti ma valutando la situazione ex ante, ovverosia nel momento antecedente la mancata realizzazione del reato. In altri termini, l’interprete deve collocarsi mentalmente nel luogo e nel momento in cui l’agente abbia posto in essere gli atti, perché solo in tal modo sarà possibile valutarne l’idoneità a cagionarne l’evento.[8]

Infine, per quanto concerne la valutazione delle circostanze concrete destinate ad assumere rilevanza nel giudizio di idoneità, le alternative sono: un giudizio a base parziale che valuti solo le circostanze esistenti e conosciute dall’agente al momento dell’azione; ovvero il giudizio a base totale che, al contrario, tenga conto anche di quelle circostanze esistenti ma che non erano né conosciute né conoscibili per l’agente al momento della sua azione. La scelta per una o l’altra soluzione ha rilevanti ripercussioni pratiche, perché sposta la punibilità del reo. Infatti, si prenda il caso di scuola del borseggiatore che non riesca a rubare il portafogli della vittima in quanto non presente nella borsa. In tal caso, un giudizio a base totale condurrebbe all’assoluzione dell’agente per inidoneità dell’azione; al contrario, con il giudizio a base parziale, e quindi valutando le sole circostanze conosciute dall’agente, l’azione sarebbe ritenuta idonea e quindi punibile ai sensi dell’art. 56 c.p.[9]

In conclusione, dottrina e giurisprudenza prevalenti sostengono che l’idoneità degli atti nel tentativo deve essere accertato tramite la c.d. prognosi postuma, in concreto ed a base parziale.[10]

4.2 Il requisito dell'univocità degli atti

Il carattere dell’univocità degli atti costituisce il vero novum rispetto al codice Zanardelli, la cui previsione mira proprio a superare le problematiche emerse nel previgente codice nella distinzione tra gli atti preparatori e gli atti esecutivi.

Tuttavia, non può certamente ritenersi che tale criterio sia andato esente da dubbi ed infatti anche con riferimento all’univocità deve registrarsi un contrasto tra due orientamenti, quello soggettivo e quello oggettivo.

La tesi soggettiva ritiene che la direzione non equivoca degli atti non sia una caratteristica della condotta ma, al contrario, attiene alla sfera soggettiva e rappresenta l’interesse che l’agente persegue con quel comportamento. In sostanza, l’univocità non costituirebbe un elemento costitutivo del delitto tentato ma sarebbe solo un richiamo all’esigenza che la prova dell’intenzione sia certa. Diverse le obiezioni. In primo luogo, la condotta assume rilevanza probatoria rispetto all’elemento soggettivo in ogni reato, ragion per cui non si comprende perché il legislatore ci tenga a precisarlo in tema di tentativo; in secondo luogo, appare anomala la collocazione di un riferimento processuale in una norma a contenuto sostanziale; infine, in tal modo si amplierebbe molto la gamma di atti univoci con conseguente arretramento della soglia di punibilità, perché, a ben vedere, qualsiasi atto anche risalente nel tempo può essere considerato soggettivamente univoco se parametrato al delitto.[11]

La tesi oggettiva sostiene che l’univocità deve emergere a livello obiettivo, quale caratteristica essenziale e caratterizzante della condotta. In altri termini, gli atti devono presentare un nesso finalistico obiettivamente rilevante con la commissione del delitto. Tuttavia, se tale requisito debba rilevare solo dagli atti compiuti, si corre il rischio che risulti impossibile giudicare un atto diretto in modo non equivoco a commettere uno specifico reato; chi spara, infatti, può voler uccidere, ferire o fare uno scherzo. Pertanto, un simile giudizio necessita di un termine di riferimento rispetto al quale può affermarsi l’univocità. [12] Per evitare gli eccessi, si ritiene che l’univocità potrà riscontrarsi in tutti quegli atti che, in virtù del grado di sviluppo raggiunto dall’azione, lascino prevedere come verosimile, sulla scorta di un giudizio probabilistico sia sulla realizzazione del delitto che sull’intenzione a commetterlo, la realizzazione del reato.[13]

Orbene, quel che resta da capire è quando gli atti idonei abbiano raggiunto un grado di sviluppo sufficiente a fondare il giudizio di probabile realizzazione sopra indicato. In dottrina[14] si ritiene che il grado massimo di probabilità si abbia, senza dubbio, con il tentativo compiuto. Perché in tal caso l’agente ha posto in essere l’intera condotta e l’evento non si è verificato per ragioni a lui estranee. Un grado intermedio è rinvenibile nel caso in cui il soggetto abbia iniziato la condotta tipica, come ad esempio il superamento delle prime cerchia di mura per evadere, e nulla faceva credere che il delitto non sarebbe stato portato a termine. Infine, il grado minimo in presenza del quale si ritiene che comunque il tentativo si realizzi è individuato nei c.d. atti pretipici, cioè nel compimento di quegli atti che precedono l’inizio della condotta tipica[15]. Questi ultimi dovranno valutarsi in concreto ma solitamente vengono ricondotti in tale alveo, ad esempio, il rapinatore mascherato e armato che suoni il campanello dell’appartamento preso di mira, il ladro che abbia già scavalcato il cancello del giardino ma non sia ancora entrato nel domicilio, come anche i rapinatori che siano scesi dalla macchina per entrare in una banca. Di recente, la giurisprudenza sembrerebbe avallare tale orientamento.[16]

5. Il tentativo di rapina

L’ammissibilità del tentativo di rapina pone particolari problemi interpretativi, derivanti dal fatto che la rapina costituisce la principale tipologia di reato complesso; ragion per cui la questione riguarda, più in generale, la compatibilità del delitto tentato con il reato complesso. In tal caso, infatti, posto che è pacificamente ammesso il tentativo di delitto con riferimento al reato complesso, è tuttavia possibile che gli estremi ex art. 56 c.p. siano integrati solo con riferimento ad un solo reato che compone il reato complesso. In questa ipotesi, a rigore, l’agente dovrebbe rispondere per delitto tentato con riferimento a quest’ultimo e non, invece, di tentativo del reato complesso.

In ogni caso, per quel che ci riguarda in questa sede, l’ipotesi da analizzare è l’ammissibilità del tentativo con riferimento al reato complesso composto da due singoli reati e cioè l’ipotesi del delitto di rapina ai sensi dell’art. 628 c.p.

La norma prevede due ipotesi autonome di reato, che si distinguono in ragione del momento e dello scopo. Più nello specifico, quando la minaccia o la violenza costituiscono il mezzo necessario al soggetto attivo per sottrarre ed impossessarsi della cosa altrui, si configura la c.d. rapina propria. Al contrario, la rapina è detta impropria, quando la violenza e minaccia avvengano successivamente alla sottrazione, o alla tentata sottrazione, e siano strumentali ad assicurare il possesso della cosa ovvero a procurare a sé o ad altri l’impunità.[17] Mentre con riferimento alla rapina propria il tentativo è pacificamente configurabile qualora il reo, pur avendo usato violenza o minaccia alla persona, non sia riuscito a sottrarre o ad impossessarsi della cosa[18], con riferimento alla rapina impropria l’ammissibilità del tentativo è stata oggetto di un dibattito, giunto dinnanzi alle Sezioni Unite nel 2012. In particolare, ci si chiedeva se fosse configurabile il tentativo di rapina impropria quando il soggetto attivo, dopo aver tentato senza successo di impossessarsi del bene, avesse posto in essere comportamenti violenti e minacciosi per assicurarsi l’impunità. Sul punto, ad una prima tesi che escludeva la sussistenza del tentativo di rapina impropria, perché riteneva necessario che si perfezionassero e consumassero entrambe le fattispecie ivi previste, si è contrapposta un'altra teoria, accolta dal Supremo Consesso, che ha ammesso la configurazione della rapina impropria anche nella forma tentata. La norma, infatti, nel porre la finalità di assicurarsi il possesso della cosa in alternativa a quello di procurarsi l’impunità non è di ostacolo alla configurazione del tentativo anche se non vi sia stato l’impossessamento.[19]

La Corte ha infatti affermato che “Se il legislatore ha ritenuto con il delitto di rapina di sanzionare in maniera ben più severa le condotte di per sé autonomamente punibili della violenza o minaccia e del furto, in ragione del nesso di contestualità che unisce le due offese, attribuendo così maggiore gravità anche al furto, appare ragionevole ritenere che tale ratio sussista anche nel caso in cui il soggetto agente tenta di sottrarre il bene altrui ed è poi disposto per assicurarsi l'impunità ad usare violenza o minaccia”.[20]

Ciò chiarito, la giurisprudenza anche con riferimento alla rapina propende a configurarne la punibilità a titolo di tentativo anche in presenza di meri atti preparatori. In particolare, gli ermellini in un caso nel quale gli imputati - studiato il percorso, acquisita la conoscenza dei luoghi di predisposizione degli incassi ed altresì approntata un'autovettura di origine furtiva per garantirsi la fuga - avevano pedinato il mezzo muniti di un'arma e di una maschera, non portando a termine l'azione per l'imprevisto transito di un'auto dei carabinieri, erano stati condannati per tentata rapina hanno affermato che “Per la configurabilità del tentativo rilevano non solo gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quegli atti che, pur classificabili come preparatori, facciano fondatamente ritenere che l'agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo, che l'azione abbia la significativa probabilità di conseguire l'obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili indipendenti dalla volontà del reo”.[21]

Negli stessi termini, è stato riconosciuto il tentativo di rapina nella condotta degli imputati che, acquisita la disponibilità di guanti e cappelli, avevano compiuto una ricerca in auto di istituti bancari non eccessivamente protetti e, per ben due volte, scesi dalla vettura si erano portati, in un caso, nei pressi della porta d’ingresso di una banca e, nell’altro, all’interno salvo poi allontanarsi per la percepita presenza della vigilanza.[22]

Orientamento ribadito, oltre che in sede di legittimità, anche nelle sentenze di merito. È il caso della Corte d’Appello di Ancona che ha avuto modo di chiarire che “In merito al delitto di rapina anche i c.d. atti preparatori possono integrare gli estremi del tentativo punibile purché siano idonei e diretti in modo non equivoco alla consumazione di un reato ossia qualora abbiano la capacità, sulla base di detta valutazione "ex ante", in relazione alle circostanze del caso, di raggiungere il risultato prefisso ed a tale risultato siano univocamente diretti.”.[23]

Da queste breve disamina giurisprudenziale sembra potersi affermare che la precedente distinzione tra atti preparatori ed atti esecutivi è ormai definitivamente superata, potendo integrare tentativo punibile anche una attività preparatoria a condizione che si rinvengano i requisiti dettati dall’art. 56 c.p.

6. Le conclusioni della Corte

Alla luce della disamina effettuata, si comprende come gli ermellini nel caso oggetto di discussione abbiano concluso ritenendo configurato il delitto di rapina tentata anche nel caso di specie, respingendo le doglianze difensive. In particolare, hanno ribadito come, per orientamento costante

“per la configurabilità del tentativo rilevano non solo gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quegli atti che, pur classificabili come preparatori, facciano fondatamente ritenere che l'agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo, che l'azione abbia la significativa probabilità di conseguire l'obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili indipendenti dalla volontà del reo”.[24].

Alla luce di ciò, è stato ritenuto corretta la valutazione del giudice d’Appello, essendo evidente che l’individuazione dell’obiettivo e l’appostamento degli indagati fuori dall’esercizio commerciale preso di mira, nonché la manovra di calzare il passamontagna, costituiscano un’attività non meramente preparatoria, bensì esecutiva del piano delittuoso punibile ex art. 56 c.p. Inoltre, la mancata consumazione del delitto è derivata da circostanze sopravvenute del tutto imprevedibili che hanno costretto i correi ad interrompere l’azione. In tal caso, applicando le coordinate ermeneutiche prevalenti in tema di tentativo, tale condotta non può che integrare una condotta punibile.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Cfr. Cassazione penale, sez II, sentenza n. 28905 del 2020, in motivazione: “- erronea applicazione della legge penale ex art. 606 c.p.p., lett. b), in relazione agli artt. 56 e 628 c.p., poichè la corte di appello aveva ribaltato la decisione di primo grado sulla base di una lettura totalmente distorta della norma sul tentativo non potendosi estendere l'area della punibilità anche a condotte prive di qualsiasi offensività; in particolare, nel caso di specie, mancava l'univocità degli atti non potendosi ricavare tale dato dalla testimonianza del P. che era smentita dalla ricostruzione resa dagli imputati nonchè dalla sosta per circa un'ora all'esterno dell'esercizio commerciale e dalla successiva azione di allontanamento a bordo dell'auto che erano incompatibili con una volontà predatoria; inoltre, priva di idoneità era la condotta di indossare il passamontagna non causando la stessa alcuna situazione di pericolo attuale; - erronea applicazione della legge penale ex art. 606 c.p.p., lett. b), carenza di motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e), relativamente alla esclusione della ipotesi della desistenza volontaria nella condotta tenuta dagli imputati che si erano allontanati dall'esercizio commerciale spontaneamente, poichè la mera minaccia di chiamare le forze dell'ordine non poteva essere equiparata ad una causa esterna ed autonoma che aveva impedito l'azione criminosa posto che la desistenza opera anche senza il requisito della spontaneità sicchè la sola condotta di tenere il cellulare fra le mani posta in essere dal P. senza che si conoscesse l'interlocutore potesse valere.”.

[2] F. MANTOVANI, Diritto penale, CEDAM 2015, pag. 427.

[3] T. PADOVANI, Diritto penale, X edizione, Giuffrè Editore, Milano 2012, pag. 274.

[4] Cfr. Regio decreto n. 6133 del 1889, art. 61 “colui che, al fine di commettere un delitto, ne comincia con mezzi idonei l’esecuzione, ma per circostanze indipendenti dalla sua volontà non compie tutto ciò che è necessario alla consumazione di esso, è punito con la reclusione non inferiore a dieci anni, ove la pena prevista per il delitto sia l’ergastolo, e negli altri casi con la pena stabilito per il delitto diminuita dalla metà ai due terzi. Se volontariamente desista dagli atti d’esecuzione del delitto, soggiace soltanto alla pena prevista per l’atto esecutivo, ove quest’ultimo costituisca di per sé un reato.” ed anche art. 62 “colui che, al fine di commettere un delitto, compie tutto ciò che è necessario alla consumazione di esso, se questa non avvenga per circostanze indipendenti dalla sua volontà, è punito con la reclusione non inferiore a venti anni, ove la pena prevista per il delitto sia l’ergastolo, e negli altri casi con la pena prevista per il delitto diminuita da un sesto ad un terzo”.

[5] G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, settima edizione, Zanichelli Editore, p.480, Bologna, 2014

[6] F. MANTOVANI, op. cit.

[7] G. FIANDACA, F. MANTOVANI, T. PADOVANI.

[8] T. PADOVANI, op. cit.

[9] Cfr. F.MANTOVANI, op. cit.

[10] Cfr. Cassazione penale, sez. V, sentenza n. 392 del 2020, in motivazione “Del tutto consolidato, d'altro canto, è l'indirizzo della giurisprudenza di legittimità in ordine al requisito dell'idoneità degli atti richiesto per la configurabilità del reato tentato, idoneità che deve essere valutata con giudizio ex ante, tenendo conto delle circostanze in cui opera l'agente e delle modalità dell'azione, in modo da determinarne la reale adeguatezza causale e l'attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto dalla norma incriminatrice (Sez. I, n. 1365 del 02/10/1997 dep. 05/02/1998, Rv. 209688; conf., ex plurimis, Sez. 2, n. 44148 del 07/07/2014. Rv. 260855: Sez. 1, n. 27918 del 04/03/2010, Rv. 248305), indipendentemente dall'insuccesso determinato da fattori estranei (Sez. 6, n. 23706 del 17/02/2004, Rv. 229135; Sez. 6, n. 27323 del 20/05/2008, Rv. 240736).”

[11] Cfr. T. PADOVANI, op. cit.

[12] Cfr. F. MANTOVANI, op. cit.

[13] Cfr, Cassazione penale, sez. II, sentenza n. 24302 del 2017, in motivazione “Per la configurabilità del tentativo rilevano non solo gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quegli atti che, pur classificabili come preparatori, facciano fondatamente ritenere che l'agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo, che l'azione abbia la significativa probabilità di conseguire l'obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili indipendenti dalla volontà del reo. (Fattispecie relativa a tentativo di rapina ad un furgone portavalori, con riferimento alla quale la S.C. ha ritenuto che erroneamente il tribunale del riesame, in riforma dell'ordinanza coercitiva, avesse escluso l'univocità degli atti solo per la non imminenza dell'assalto, senza tener conto degli altri indici utilizzabili per stabilire se l'azione avesse una significativa probabilità di essere portata a compimento, tra cui l'individuazione dell'obiettivo, la progettazione dell'azione nei minimi particolari, la progressione nell'organizzazione - con l'approvvigionamento di una pala gommata, di armi e di maschere per i volti - nonostante la certezza del monitoraggio delle forze dell'ordine, nonché la scelta di un'idonea strada con curve a gomito per l'agguato)”.

[14] Cfr. F. MANTOVANI, op. cit.

[15] Cfr. Cassazione penale, sez. I, sentenza n. 9411 del 2010, in motivazione “Gli atti diretti in modo non equivoco a commettere un reato possono essere esclusivamente gli atti esecutivi, ossia gli atti tipici, corrispondenti, anche solo in minima parte, come inizio di esecuzione, alla descrizione legale di una fattispecie delittuosa a forma libera o vincolata, in quanto la univocità degli atti indica non un parametro probatorio, ma un criterio di essenza e una caratteristica oggettiva della condotta.” In senso analogo, Cassazione penale, sez. I, sentenza n. 40058 del 2008, in motivazione “In tema di tentativo, ai fini della configurabilità dell'ipotesi disciplinata dall'art. 56 c.p. è necessario il passaggio della condotta dalla fase preparatoria a quella esecutiva. Gli atti diretti in modo non equivoco a commettere un delitto possono, infatti, essere esclusivamente gli atti esecutivi, ossia gli atti tipici, corrispondenti, anche solo in minima parte - come inizio di esecuzione - alla descrizione legale di una fattispecie delittuosa a forma libera o a forma vincolata. Se l'idoneità di un atto può denotarne al più la potenzialità a conseguire una pluralità di risultati, soltanto dall'inizio di esecuzione di una fattispecie delittuosa può dedursi la direzione univoca dell'atto stesso a provocare proprio il risultato criminoso voluto dall'agente. Sono, pertanto, irrilevanti, a titolo di tentativo, gli atti preparatori, ossia le manifestazioni esterne del proposito delittuoso che abbiano carattere strumentale rispetto alla realizzazione, non ancora iniziata, di una figura delittuosa. Essi non sono puniti come tentativo per la loro “lontananza” dal risultato lesivo e, dunque, per la loro bassa pericolosità rispetto al bene giuridico.”.

[16] Cfr. Cassazione penale, sez. II, sentenza n. 25264 del 2016, in motivazione “Per la configurabilità del tentativo rilevano non solo gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quegli atti che, pur classificabili come preparatori, facciano fondatamente ritenere che l'agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo, che l'azione abbia la significativa probabilità di conseguire l'obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili indipendenti dalla volontà del reo (Fattispecie nella quale gli imputati, di cui uno recava con sé il taglierino e la sacca utilizzati per compiere altre rapine poste in essere attraverso un più o meno uniforme modus operandi avevano cercato di sottrarsi, in apparenza senza valida ragione, ad un controllo di P.G. eseguito sulla pubblica via, in prossimità di Ufficio postale presso il quale avevano parcheggiato la propria autovettura, con gli sportelli aperti e la chiave di accensione inserita nel relativo quadro, senza che di ciò fosse fornita apprezzabile giustificazione)”. In senso analogo Cassazione penale, sez. V, sentenza n. 392 del 2020, in motivazione “per la configurabilità del tentativo di delitto, rilevano non solo gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quegli atti che, pur classificabili come preparatori, facciano fondatamente ritenere che l'agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo, che l'azione abbia la significativa probabilità di conseguire l'obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili indipendenti dalla volontà del reo”.

[17] Art. 628, co. 1 e 2 cod. pen. ““1. Chiunque, per procurare a sè o ad altri un ingiusto profitto, mediante violenza alla persona o minaccia, s'impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni e con la multa da euro 927 a euro 2.500. 2. Alla stessa pena soggiace chi adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione, per assicurare a sè o ad altri il possesso della cosa sottratta, o per procurare a sè o ad altri l'impunità.”

[18] Cfr. F. CARINGELLA, A. SALERNO, A. TRINCI, Manuale ragionato di diritto penale parte speciale, pag. 502, Dike Giudirica, Roma, Ottobre, 2020

[19] Cfr. F. GREGORACE, “Risponde di rapina il coniuge che si impossessa con violenza del cellulare dell’altro” in Riv. Cammino Diritto, ISSN 2421-7123 Fasc. 04/2021

[20] Cfr. Cassazione penale Sezioni Unite, sentenza 34952 del 2012. In senso analogo, Cassazione penale, sez. IV, sentenza n. 32505 del 2019, in motivazione “È configurabile il tentativo di rapina impropria nel caso in cui l'agente dopo aver compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco alla sottrazione della cosa altrui, non portati a compimento per fatti indipendenti dalla sua volontà, adoperi violenza o minaccia per procurare a sé o ad altri l'impunità (la Corte, per l'effetto, ha dichiarato inammissibile il motivo di ricorso con il quale l'imputato pretendeva che il fatto fosse da riqualificare nel concorso del reato di tentato furto con quello di violenza privata)”.

[21] Cfr. Cassazione penale, sez. II, sentenza n. 11855 del 2017.

[22] Cfr. Cassazione penale, sez. II, sentenza n. 52189 del 2016, in motivazione “Per la configurabilità del tentativo rilevano non solo gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quegli atti che, pur classificabili come preparatori, facciano fondatamente ritenere che l'agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo, che l'azione abbia la significativa probabilità di conseguire l'obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili indipendenti dalla volontà del reo.”.

[23] Cfr. Corte d’Appello di Ancona, sentenza n. 979 del 2019.

[24] Cfr. Cassazione penale, sez. II, sentenza 19 ottobre 2020, n. 28905.