• . - Liv.
ISCRIVITI (leggi qui)
Pubbl. Mar, 2 Mar 2021

La Corte di cassazione si pronuncia sul nuovo abuso di ufficio

Modifica pagina

Simona Iachelli
Funzionario della P.A.Università degli Studi di Catania



L’articolo si propone di analizzare il delitto di abuso di ufficio alla luce della recente riforma operata dal decreto legge “semplificazioni” (d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito dalla legge 11 settembre 2020, n. 120), nonché della giurisprudenza della Corte di Cassazione, la quale ha provveduto a chiarire sia la portata della riforma (Cass. pen., sez. fer., 17 novembre 2020, n. 32174) sia i problemi di diritto intertemporale (Cass. pen., sez. VI, 8 gennaio 2021, n. 442).


ENG The article analyzes the crime of abuse of authority changed by “simplifications” law (legislative decree n. 76 on 16 July 2020, converted by the law n. 120 on 11 September 2020), especially considering the supreme Court of Cassation, which clarified the application scope of the law (Criminal Cassation, weekday Sec., n. 32174 on 17th November 2020) and the sequence of laws over time (Criminal Cassation, sixth Sec., n. 442 on 8th January 2021).

Sommario: 1. La tormentata figura dell’abuso d’ufficio: dal codice Rocco alla riformulazione dell’art. 323 c.p. nel 1997; 2. Il decreto semplificazioni e il nuovo delitto d’abuso d’ufficio; 3.  Le prime questioni al vaglio della Cassazione. 4. Considerazioni conclusive.

1. La tormentata figura dell’abuso d’ufficio: dal codice Rocco alla riformulazione dell’art. 323 c.p. nel 1997

L’abuso d’ufficio può essere considerato una fattispecie di reato piuttosto tormentata, poiché, sin dalla sua origine, oltre ad essere stata oggetto di vivaci riflessioni, ha subito ben quattro formulazioni che hanno contribuito a renderla una figura instabile.

Il carattere traballante di tale figura discende soprattutto dalla continua ricerca, normativa e giurisprudenziale, dell’esigenza di restringere il campo di applicazione di una fattispecie di chiusura del sistema, configurabile “salvo che il fatto non costituisca un più grave reato”.

Se la “valvola” dell’abuso d’ufficio non viene opportunamente stretta entro contorni definiti, compatibili con il principio di precisione, il rischio è che la “funzione repressiva di chiusura dell’insieme dei reati dei pubblici amministratori” trasmodi in panpenalizzazione; se però quella valvola risulta troppo stretta, il rischio è l’impunità e l’inefficacia preventiva dell’incriminazione.[1]

Per comprendere le ragioni delle innumerevoli riforme, occorre un viaggio nel passato, uno sguardo alle origini della fattispecie incriminatrice.

Nella sua versione primigenia, l’abuso d’ufficio si configurava quando il pubblico ufficiale, con abuso dei poteri inerenti alle sue funzioni, commetteva qualsiasi fatto allo scopo di recare ad altri un danno o di procurargli un vantaggio.

La fattispecie sussidiaria di cui all’art. 323 c.p., ereditata dal codice del 1930, identificava un abuso “innominato”, cioè caratterizzato da profili di indeterminatezza che sono stati sottoposti all’attenzione della Corte costituzionale, la quale, però, ritenne la legittimità costituzionale della norma.[2]

In particolare, secondo la Consulta, il concetto di abuso dei poteri inerenti le funzioni pubbliche era sufficientemente definito, in quanto basato sia sull’identificazione di un vizio di legittimità dell’atto compiuto dal pubblico ufficiale sia su una finalità privata idonea a caratterizzare la direzione illecita del potere.

Sotto il profilo strutturale, il reato era caratterizzato dalla tutela anticipata e generica, dalla qualificazione di illiceità interamente dipendente dalla natura abusiva della condotta, dal dolo specifico, nonché da un campo di applicazione piuttosto marginale, in virtù della contestuale previsione, da un lato, del peculato per distrazione (art. 314 c.p.) e, dall’altro, dell’interesse privato in atti d’ufficio (art. 324 c.p.).[3]

La struttura del reato rispecchiava l’idea per cui il disvalore del fatto era dato dalla violazione del dovere di fedeltà del pubblico funzionario nei confronti dello Stato.[4]

Una simile struttura, però, aveva attirato numerose critiche provenienti sia dall’opinione politica, in ragione della sua obsolescenza rispetto alla realtà sociale, sia dalla dottrina, per la sua scarsa determinatezza e, conseguentemente, per il rischio di ingerenza dell’Autorità Giudiziaria nel merito dell’azione amministrativa.

Alla luce di tali critiche, la legge n. 89 del 1990 è intervenuta a riscrivere il reato di abuso d’ufficio che, in virtù dell’eliminazione della forma per “distrazione” dal peculato e l’abolizione dell’interesse privato in atti d’ufficio, assunse un ruolo centrale nel sistema dei reati contro la P.A.

L’art. 323 c.p. sarebbe stato riformulato essenzialmente allo scopo di poter fungere da “legatario” di una parte delle condotte originariamente sussumibili negli artt. 314 e 324 c.p., assicurando (almeno secondo le intenzioni) un filtro selettivo più adeguato a definire la loro offensività.[5]

La riforma legislativa, in particolare, aveva introdotto la dicotomia tra abuso patrimoniale e abuso non patrimoniale, con due distinte ed autonome figure di reato, nonché un elemento di illiceità speciale, ossia l’ingiustizia del danno o del vantaggio. Rimaneva, invece, invariato il dolo specifico, come elemento soggettivo del reato di mera condotta (esteso anche agli incaricati di un pubblico servizio).

Queste modifiche, però, non avevano risolto il problema della sufficiente determinatezza della fattispecie di abuso d’ufficio.

Da qui l’ulteriore riforma avvenuta, a distanza di pochi anni, con la l. n. 234 del 1997, una riformulazione che rappresenta il testo vigente fino al mese di luglio 2020.[6]

L’intento del legislatore del 1997 era quello di conferire alla fattispecie contorni definiti, compatibili con il principio di determinatezza e, conseguentemente, tentare di limitare gli sconfinamenti del giudice penale nel merito amministrativo.

Lo sforzo più importante verso un maggiore coefficiente di determinatezza è avvenuto con il passaggio da una formula onnicomprensiva di abuso d’ufficio, nella quale rientrava tendenzialmente ogni “strumentalizzazione” del pubblico ufficio, a una tipizzazione analitica delle condotte rilevanti, previste in forma alternativa: la violazione di norme di legge o di regolamento e l’omessa astensione nei casi di conflitto di interesse del pubblico ufficiale o di un suo prossimo congiunto.[7]

Sotto il profilo oggettivo, la condotta tipica di abuso d’ufficio si configurava con due forme alternative: la “violazione di legge o di regolamento” e la mancata astensione “in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti”.

La condotta abusiva del pubblico agente, pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio (reato proprio), doveva peraltro avvenire “nello svolgimento delle funzioni o del servizio”, con conseguente atipicità dei comportamenti realizzati al di fuori dei compiti funzionali, di quelli semplicemente occasionati dal relativo svolgimento e dei c.d. “abusi soggettivi”.[8]  

Tale condotta doveva cagionare un ingiusto vantaggio patrimoniale del pubblico agente o di altri (quello non patrimoniale perde rilevanza) oppure un danno ingiusto arrecato ad altri.

La riforma del 1997 trasformò l’abuso d’ufficio da reato di mera condotta a reato di evento, il cui disvalore penale si realizzava al momento della effettiva produzione del vantaggio o del danno.

Secondo la giurisprudenza, ai fini dell’integrazione del reato, era necessaria la cosiddetta “doppia ingiustizia”, nel senso che ingiusta doveva essere sia la condotta, in quanto connotata da violazione di legge, sia il vantaggio patrimoniale conseguito, perché non spettante in base al diritto oggettivo regolante la materia.[9]

La trasformazione dell’abuso d’ufficio da reato di pura condotta a reato di evento incise inevitabilmente sull’elemento soggettivo del reato, rappresentato dal dolo intenzionale, qualificato dall’avverbio “intenzionalmente”.

In particolare, il dolo intenzionale riguardava l’evento del vantaggio patrimoniale o del danno, che doveva essere la conseguenza immediatamente perseguita. In altri termini, occorreva che l’evento lesivo fosse il fine preso di mira dall’agente, con la conseguenza che erano escluse le condotte poste in essere con dolo eventuale e con dolo diretto.[10]

Il passaggio dal dolo specifico a quello intenzionale pose la questione se il fine illecito perseguito dal pubblico agente dovesse essere unico o, al contrario, potesse concorrere con il perseguimento della finalità pubblica.

Sul punto, dottrina e giurisprudenza affermarono che il motivo illecito potesse concorrere con la finalità pubblica, purché assumesse un carattere predominante.[11]

Orbene, la formulazione introdotta nel 1997 aveva determinato un contrasto nella giurisprudenza in ordine alla configurabilità del delitto di abuso d’ufficio in presenza di un comportamento viziato da eccesso di potere.

Al riguardo, mentre per un primo orientamento tale condotta era stata espunta dall’area della rilevanza penale,[12] un diverso l’orientamento,[13] in linea con la dottrina,[14] in base all’ampiezza del termine “norme di legge”, riteneva integrata la condotta a fronte di una violazione dei principi costituzionali e, in particolare, dei principi di buon andamento e di imparzialità della P.A., di cui all’art. 97 Cost.

Questo secondo orientamento, prevalente nella giurisprudenza, valorizzava i principi costituzionali al fine di recuperare lo schema dell’eccesso di potere nella configurazione del delitto di abuso d’ufficio, senza nominare questo vizio di legittimità, ma facendo riferimento alla nozione di sviamento di potere che ne rappresenta la figura sintomatica per eccellenza.

In questa prospettiva, accolta dalle Sezioni unite,[15] l’abuso d’ufficio si configurava non solo quando la condotta del pubblico agente fosse svolta in contrasto con le norme di legge regolanti l’esercizio del potere, ma anche quando difettassero le condizioni funzionali che legittimavano lo stesso esercizio del potere, cioè quando la condotta fosse funzionale alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere era conferito.

Tuttavia, questa interpretazione dell’art. 323 c.p. finì col frustrare, sul versante della condotta, le intenzioni legislative, che procedevano in tutt’altra direzione.[16]

2. Il decreto semplificazioni e il nuovo delitto d’abuso d’ufficio

Il d.l. 16 luglio 2020, n. 76 (cosiddetto “decreto semplificazioni”) convertito con l. 11 settembre 2020, n. 120 contiene, nell’ambito delle misure di semplificazione “in materia di responsabilità del personale dell’amministrazione”, al fine di fronteggiare le ricadute economiche conseguenti all’emergenza epidemiologica da COVID-19, la riforma dell’buso d’ufficio ex art. 323 c.p.

La riforma, in particolare ha inciso su una delle due modalità tipiche di realizzazione: la condotta di abuso non è più integrata dalla violazione “di norme di legge o di regolamento”, bensì dalla violazione “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.

Restano invariati, invece, la condotta alternativa dell’inosservanza di un obbligo di astensione, l’evento e l’elemento soggettivo.

La novella interviene sulla condotta tipica del reato con l’obiettivo politico-criminale di circoscrivere l’area dell’abuso d’ufficio penalmente rilevante, a fronte del fenomeno della cosiddetta “amministrazione difensiva”, intesa come atteggiamento di inerzia che i pubblici funzionari assumono per timore di subire sanzioni imprevedibili e ingiustificate, costituite, nel caso dell’abuso d’ufficio, soprattutto dall’avvio di un procedimento, più che dal suo statisticamente improbabile esito infausto.[17]

In particolare, la nuova formulazione pretende che la condotta produttiva di responsabilità penale del pubblico funzionario sia connotata, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, dalla violazione di regole cogenti per l’azione amministrativa che per un verso siano fissate dalla legge e per altro verso siano specificamente disegnate in termini completi e puntuali.

Più nel dettaglio, sono tre gli interventi attraverso i quali il decreto semplificazioni ha fortemente ridimensionato l’abuso d’ufficio:

  1. è stata esclusa la rilevanza della violazione di norme contenute in regolamenti: l’abuso potrà infatti essere integrato solo dalla violazione di “regole di condotta previste dalla legge o da atti aventi forza di legge”, cioè da fonti primarie;
  2. si è precisato che rileva la sola inosservanza di regole di condotta “specifiche” ed “espressamente previste” dalle citate fonti primarie;
  3. si è altresì precisato che rilevano solo regole di condotta “dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.

Quanto al primo intervento, la scelta di escludere i regolamenti dal novero delle fonti normative, la cui inosservanza qualifica la condotta tipica, rischia più di ogni altra di sterilizzare la norma sull’abuso d’ufficio: proprio nei regolamenti, spesso frutto di processi di delegificazione, si rinvengono infatti regole di condotta espresse e specifiche, relative alla funzione o al servizio esercitato in una determinata amministrazione pubblica e, pertanto, più vicine al caso concreto e capaci di orientare e uniformare l’operato degli amministratori.[18]

Ciò nonostante, la formulazione della norma si presta a favorire “i rinvii a catena innescati dall’elemento normativo in violazione di specifiche regole di condotta”, con il rischio di attrarre all’interno dei parametri di qualificazione della condotta abusiva, anche la violazione di norme sub-primarie emanate in forza della legge, ed usate, quindi, come norme interposte. [19]

Quanto al secondo intervento, deve trattarsi di regole di condotta specifiche ed espressamente previste dalla legge e, dunque, contenenti la descrizione puntuale di un comportamento evincibile da un testo di legge.

Ne discende un ambito applicativo ben più ristretto rispetto a quello definito con la previgente definizione della modalità di condotta punibile, in quanto risultano escluse sia le regole meramente procedimentali o strumentali alla mera regolarità sia i principi generali e, in particolare, quelli di imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost.

Sotto quest’ultimo profilo, la riforma supera l’orientamento di una parte della dottrina e della giurisprudenza che riteneva che la norma costituzionale rilevasse come parametro della violazione di legge di cui all’art. 323 c.p., in forza della sua portata precettiva. Secondo questa impostazione, il dovere di imparzialità faceva sorgere un obbligo, direttamente cogente a carico dei pubblici agenti, di orientare il proprio agire, evitando di perseguire scopi privatistici, di ingiusto vantaggio o di danno ingiusto.[20]

Alla luce del nuovo art. 323 c.p., il divieto di favoritismi privati, per quanto deducibile in via indiretta dal principio di imparzialità, non è oggetto di un’espressa previsione da parte della norma costituzionale, come oggi espressamente prescritto.[21]

Quanto infine al terzo intervento, il legislatore attribuisce rilevanza alle sole regole che non implicano l’esercizio di un potere discrezionale da parte del soggetto agente. Ne consegue che la violazione di una specifica ed espressa regola di condotta, caratterizzata da margini di discrezionalità, non può integrare un abuso d’ufficio penalmente rilevante.

L’intervento riformatore si giustifica in ragione dell’esistenza di orientamenti giurisprudenziali che, a determinate condizioni, ritengono configurabile l’abuso d’ufficio in ipotesi di eccesso di potere, sotto forma di sviamento, che ricorre quando nei provvedimenti discrezionali il potere viene esercitato per un fine diverso da quello per cui è attribuito.

La modifica dell’art. 323 c.p. ad opera del decreto-semplificazioni sembra riflettere la preoccupazione del legislatore a fronte del rischio, che si annida dietro alla figura dell’eccesso di potere, dell’invasione del sindacato e del controllo penale nell’attività amministrativa.

Il nodo centrale della nuova figura di abuso d’ufficio è rappresentato proprio dalla previsione dell’assenza di margini di discrezionalità come “elemento negativo” della fattispecie.

Secondo una prima lettura, la riforma a tutti gli effetti "sterilizza" l'art 323 c.p., lasciando un residuo, angusto spettro applicativo per quelle forme di abuso commesse nell'esercizio delle attività vincolate della pubblica amministrazione: l'abuso dovrebbe risolversi nell'inosservanza di un dovere vincolato nell'an, nel quid e nel quomodo dell’attività.[22]

In questa prospettiva, l’azione penale sarebbe circoscritta ad un'area davvero marginale dell'attività amministrativa o, comunque, relegata agli atti meramente esecutivi,[23] o ai provvedimenti vincolati.

Questa lettura restrittiva del nuovo art. 323 c.p. evidenzia una “flagrante violazione del principio di uguaglianza”,[24] determinata dalla disparità di trattamento in cui si risolve la creazione di un’area di vera e propria intangibilità nell’esercizio di poteri discrezionali da parte di pubblici agenti, e cioè in quell’ambito dell’attività che rappresenta il fulcro stesso della funzione amministrativa.[25]

Per una diversa impostazione, la nozione di discrezionalità accolta dal legislatore nel nuovo art. 323 c.p. riguarda le ipotesi in cui l’interesse pubblico funga da argine esterno alla discrezionalità, consentendone l’esercizio nel rispetto della disciplina dell’ufficio o del servizio.

Ne consegue che l’esercizio della discrezionalità per mancato superamento dei “limiti interni” alla stessa[26]non sarebbe sindacabile dal giudice penale.

In questa direzione, la riforma non chiude del tutto la strada all'orientamento giurisprudenziale che recupera l'eccesso di potere per sviamento allorquando nei provvedimenti discrezionali il potere medesimo sia esercitato in vista della realizzazione di un interesse collidente con quello per cui il potere è attribuito, purché tale distorsione funzionale si traduca nell'inosservanza di una precisa regola comportamentale e cioè in una violazione estrinseca del dettato normativo.[27]

3. Le prime questioni al vaglio della Cassazione

La Corte di cassazione ha svolto alcune interessanti riflessioni sulla nuova fattispecie di abuso di ufficio ad opera del decreto semplificazioni.

Il primo aspetto di interesse riguarda la portata della riforma che è stata chiarita nella recente sentenza della Corte di cassazione n. 32174 del 17 novembre 2020.[28]

La pronuncia è stata determinata dall’impugnazione della sentenza di condanna per abuso d’ufficio per avere il ricorrente omesso di astenersi in presenza di una situazione di conflitto di interessi.

La Corte di cassazione, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha colto l’occasione per chiarire la portata della riforma dell’abuso di ufficio, rilevandone l’ininfluenza sulla fattispecie di abuso per omessa astensione.

In particolare, i giudici di legittimità hanno evidenziato che la modifica dell’art. 323 c.p. non ha inciso sulla seconda condotta punita dalla norma, la quale è rimasta invariata, vale a dire quella del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che, omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto.

La modifica, quindi, “investe solo uno dei due segmenti di condotta che sono considerati rilevanti ai fini dell’integrazione del delitto di abuso d’ufficio”, ossia quello della violazione delle norme di legge che disciplinano lo svolgimento delle funzioni o del servizio, che può essere ora integrato solo dalla violazione di “regole di condotta previste dalla legge o da atti aventi forza di legge”, cioè da fonti primarie, con esclusione dei regolamenti attuativi, e che abbiano, inoltre, un contenuto vincolante precettivo da cui non residui alcuna discrezionalità amministrativa.

Pertanto, la riforma “non esplica alcun effetto con riguardo al segmento di condotta che, in via alternativa rispetto al genus della violazione di legge, riguarda esclusivamente e più specificamente l’inosservanza dell’obbligo di astensione, rispetto al quale la fonte normativa della violazione è da individuarsi nella stessa norma penale salvo che per il rinvio agli altri casi prescritti, rispetto ai quali non pare ugualmente pertinente la limitazione alle fonti primarie di legge, trattandosi della violazione di un precetto vincolante già descritto dalla norma penale, sia pure attraverso il rinvio, ma solo per i casi diversi dalla presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto, ad altre fonti normative extra-penali che prescrivano lo stesso obbligo di astensione”.

Il secondo aspetto, invece, riguarda le questioni di diritto intertemporale affrontate dalla Suprema Corte, nella recentissima sentenza n. 442 dell’8 gennaio 2021.[29]

La sentenza scaturisce dall'impugnazione, in sede di legittimità, di una condanna per abuso d'ufficio nei confronti di un pubblico ufficiale accusato di aver adottato un atto amministrativo in violazione di una norma di legge.

Il ricorrente censurava la sentenza impugnata assumendo che l'atto amministrativo non violava alcuna normativa primaria, riconducendo anzi a legalità una situazione consolidatasi solo in via di fatto, e non recava un danno ingiusto alla parte civile.

Orbene, la Corte di cassazione, dopo aver affermato preliminarmente che il reato contestato risulta pacificamente prescritto, ha escluso l’integrazione della fattispecie di abuso d’ufficio, per effetto della recente riformulazione normativa del reato.

In particolare, la Suprema Corte ha affermato che la modifica introdotta dal decreto semplificazioni, nel restringere l’ambito di operatività dell’art. 323 c.p., con riguardo alle diverse modalità della condotta, ha determinato “una parziale abolitio criminis” in relazione alle condotte commesse prima dell’entrata in vigore della riforma “mediante violazione di norme regolamentari o di norme di legge generali e astratte, dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse o che comunque lascino residuare margini di discrezionalità”. Ne discende la logica conseguenza sul piano processuale, ai sensi dell’art. 2, co. 2, c.p., il proscioglimento dell’imputato con la formula “perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato”.

4. Considerazioni conclusive

L’ennesima riforma del delitto di abuso d’ufficio introdotta dal decreto semplificazioni si inscrive nell’ambito di una lunga e travagliata storia normativa della fattispecie incriminatrice che sembra non trovare una stabilità nel sistema giuridico.

La nuova formulazione, nel richiedere che la condotta penalmente rilevante del pubblico funzionario sia connotata, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, dalla violazione di regole cogenti per l’azione amministrativa, fissate dalla legge e specificamente descritte in termini completi e puntuali, ha notevolmente ristretto l’ambito applicativo della fattispecie rispetto al testo precedente.

La conseguenza della riforma è stata quella di sottrarre al giudice sia l’apprezzamento dell’inosservanza di principi generali o di fonti normative di tipo regolamentare, sia il sindacato del mero cattivo uso della discrezionalità amministrativa.

Il drastico ridimensionamento solleva principalmente due questioni: in primo luogo, bisogna verificare se tale scelta non privi il reato di abuso d’ufficio di ogni sua pratica funzione; in secondo luogo, occorre chiedersi se gli spazi non più coperti dall’abuso d’ufficio non rischino di essere occupati da fattispecie contigue.

Ma soprattutto la nuova norma, nell’ignorare il nesso “ontologico” tra abuso d’ufficio e sindacato sulla discrezionalità amministrativa, sembra delineare un’irragionevole sfera d’immunità per i pubblici funzionari titolari di un potere discrezionale, in considerazione sia della mancata previsione di strumenti alternativi alla sanzione penale, sia del recente depotenziamento che ha subito la responsabilità erariale.[30]


Note e riferimenti bibliografici

[1] G.L. GATTA, Da ‘spazza-corrotti’ a ‘basta paura’: il decreto-semplificazioni e la riforma con parziale abolizione dell’abuso d’ufficio, approvata dal Governo ‘salvo intese’ (e la riserva di legge?), in Sist. pen., 17 luglio 2020, p. 5.

[2] Corte Cost., 19 febbraio 1965, n. 7, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1966, p. 984 ss.

[3] T. PADOVANI, Vita, morte e miracoli dell’abuso d’ufficio, in www.giurisprudenzapenale.com, 28 luglio 2020.

[4] A. MANNA, Profili storico-comparatistici dell’abuso d’ufficio, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2001, p. 1201 ss.

[5] T. PADOVANI, Vita, morte e miracoli dell’abuso d’ufficio, cit.

[6] F. COPPOLA, La persistente ambiguità dell’abuso d’ufficio. Alcune (amare) riflessioni a margine del “Caso Termovalorizzatore”, in Dir. pen. cont., 2017, p. 4.

[7] A. PERIN, L’imputazione per abuso d’ufficio: riscrittura della tipicità e giudizio di colpevolezza, in www.lalegislazionepenale.eu, 23 ottobre 2020.

[8] Cass. Pen., Sez. VI, 29 gennaio 2015, n. 11394, in CED, n. 262793-01; Cass. Pen., Sez. VI, 4 novembre 2015, n. 48913, in CED, n. 265473-01.

[9] G. L. GATTA, cit.

[10] F. COPPOLA, cit.

[11] Cass. Pen., Sez. II, 29 aprile 2004, n. 37515, in CED, n. 229715; Cass. Pen., Sez. V, 13 novembre 2019, n. 49485, in CED, n. 278042-02.

[12] Cass. Pen., Sez. VI, 26 giugno 2013, n. 34086, in CED, n. 257036-01.

[13] A. PAGLIARO, L’antico problema dei confini tra eccesso di potere e abuso d‘ufficio, in Dir. pen. proc., 1999, p. 109.

[14] Cass., Sez. Un., 29 settembre 2011, Rossi, n. 155, in Cass. pen., 2012, p. 2410.

[15] S. CAMAIONI, Trasfigurazione e morte dell’abuso d’ufficio, in Cass. pen., 1997, p. 1938.

[16] A. NISCO, La riforma dell’abuso d’ufficio: un dilemma legislativo insoluto ma non insolubile, in Sist. pen., 20 novembre 2020.

[17] M. FRATINI, Manuale sistematico di diritto penale, Accademia del diritto, 2020-2021; G.L. GATTA, cit.

[18] N. PISANI, La riforma dell’abuso d’ufficio nell’era della semplificazione, in Dir. pen. proc., 2021, 1, 9; V. VALENTINI, Burocrazia difensiva e restyling dell’abuso d’ufficio, in Giust. pen., 2020, p. 508.

[19] G. L. GATTA, cit. 

[20] N. PISANI, cit.

[21] T. PADOVANI, cit.; N. PISANI, cit.

[22] M.S. GIANNINI, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione, Milano, 1939, p. 78.

[23] T. PADOVANI, cit.

[24] N. PISANI, cit.

[25] M. NADDEO, I tormenti dell’abuso d’ufficio tra teoria e prassi. Discrezionalità amministrativa e infedeltà nel nuovo art. 323 c.p., in www.penaledp.it.

[26] N. PISANI, cit.

[27] Cass. pen., Sez. fer., 17 novembre 2020, n. 32174, in www.giurisprudenzapenale.com.

[28] Cass. Pen., Sez. VI, 8 gennaio 2021, n. 442, in www.giurisprudenzapenale.com.

[29] A. NISCO, cit.