Dalla parte della disabilità: per una vita normale
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Luana Leo
Il presente contributo si pone l´obiettivo di inquadrare la persona disabile nell´ordinamento costituzionale italiano, sottolineando l´importanza assunta da tale soggetto in ciascun settore della vita quotidiana. Un apporto fondamentale proviene dalla giurisprudenza costituzionale che, alla luce delle disposizioni costituzionali, finisce per riconoscere ai diritti dei soggetti con disabilità una completa protezione. Di recente, la Corte Costituzionale è apparsa ambiziosa nel rafforzare la tutela del soggetto disabile a prescindere dal campo dell´assistenza materiale, promuovendo il suo inserimento nell´ambito familiare, tant´è che si è parlato di ”diritti sociali della famiglia”.
Sommario: 1. L’inquadramento costituzionale della persona disabile; 2. La legge n. 104 del 1992 nella giurisprudenza costituzionale; 3. Il diritto all’istruzione dei disabili: una lotta senza tregua; 3.1 Un nuovo intervento in difesa dell’istruzione degli alunni disabili; 4. L’inserimento del soggetto disabile nel contesto lavorativo; 5. La disabilità nello scenario sovranazionale; 6. Disabile e sessualità: l'urgenza di un mutamento di approccio?; 7. Conclusioni: la famiglia come primo punto di riferimento del soggetto disabile.
1. L’inquadramento costituzionale della persona disabile
Con l’entrata in vigore della Costituzione del 1948 si definisce il fondamento giuridico della tutela costituzionale dei soggetti con disabilità.
Esso è ravvisabile del principio personalistico, in virtù del quale la titolarità delle situazioni esistenziali dell’individuo e le capacità intellettive si pongono su due binari diversi. Da ciò ne deriva che, le persone con disabilità sono ritenute, a tutti gli effetti, soggetti giuridici titolari di tutte le situazioni giuridiche soggettive approvate a livello costituzionale.
Nella Costituzione Repubblicana non si rilevano norme ad hoc in ordine alla tutela della persona disabile[1], salvo il diritto all’educazione e all’avviamento professionale, di cui al comma terzo dell’art. 38 Cost.
La tutela costituzionale del soggetto disabile, dunque, è garantita dal combinato disposto degli artt. 2 e 3.
Il primo, come sopraindicato, riconosce[2] ed assicura ad essi – in quanto persone – i diritti inviolabili[3].
Il secondo integra la protezione costituzionale delle persone disabili in un duplice[4] senso: il primo comma, vieta al legislatore di introdurre normative antidiscriminatorie in ragione delle condizioni personali e, allo stesso tempo, lo obbliga a realizzare la “pari dignità sociale”; il secondo comma, invita il legislatore a perseguire il fine del “pieno sviluppo della persona umana” e a predisporre nei riguardi di detti soggetti una specifica tutela, data la loro “diversità”[5].
Come sostenuto da una parte della di dottrina, l’art. 3 Cost. viene a porsi a fondamento del riconoscimento, anche e soprattutto, nei riguardi delle persone disabili, del prospero catalogo di costituzionale di diritti sociali che ovviamente è eredità di tutti, ma che per la particolare condizione di “fragilità” in cui versano tali soggetti si rivela essenziale “per realizzare un’effettiva eguaglianza (o quel tanto di eguaglianza che sia realmente attingibile”[6].
Altra parte della dottrina[7] ravvisa nel combinato disposto degli artt. 2 e 3 Cost. un impegno dello Stato a conseguire l’integrazione dei soggetti disabili, mediante la pianificazione di interventi di sostegno, in modo tale da assicurare a tali soggetti un “posto” nella società.
A tal proposito, si osserva che, se da un lato, la Costituzione riconosce i diritti e le libertà personali, etico-sociali, politiche ed economiche a tutti gli individui (compresi i soggetti disabili), dall’altro, tace in ordine ai diritti esistenziali (status personae) e alle prerogative della tutela dei soggetti vulnerabili dell’ordinamento. Sebbene la persona disabile non venga menzionata, l’art. 30 Cost., relativo ai doveri dei genitori nei confronti della prole, abbraccia tacitamente anche i figli con disabilità[8].
La Costituzione si prefigge lo scopo di realizzare uno stato di completo benessere psico-fisico dell’individuo: l’art. 32 Cost., infatti, eleva la salute come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, ammettendo cure gratuite nei confronti dei soggetti più deboli.
Tale articolo, nel suo secondo comma, enuncia il principio in base al quale l’obbligo dell’espletamento di determinati trattamenti o accertamenti sanitari può essere previsto solo per legge, aggiungendo che, in ogni caso, non devono essere violati “i limiti imposti dal rispetto della dignità umana”. Sotto tale profilo, il riferimento alla dignità umana non solo impedisce al legislatore di adottare taluni trattamenti sanitari, ma determina la configurazione di tecniche tollerabili[9].
In forza dell’art. 38 Cost.[10], sullo Stato italiano grava la c.d. assistenza sociale, espressione traducibile nell’adozione di misure volte a garantire un adeguato tenore di vita a soggetti versanti in situazioni di indiscutibile svantaggio, tra cui gli inabili ed i minorati, estendendo ad essi il diritto costituzionale all’avviamento professionale.
In tale quadro normativo, particolare rilevanza assume la riforma del Titolo V, Parte II della Costituzione, attuata tramite la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 31. La suddetta legge di riforma costituzionale, attraverso, la riformulazione dell’art. 117, lett. m), ha riversato sullo Stato la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni inerenti ai diritti civili e sociali, che devono essere assicurati su tutto il territorio nazionale[11].
Alla Regione, invece, spetta la potestà legislativa concorrente in materia di salute e la totale competenza in materia di servizi socioassistenziali 12]. A fronte di ciò, ne discende che, l’art. 118, commi 1 e 4 Cost., attraverso la manifestazione del principio di sussidiarietà, dal quale scaturisce la devoluzione dei poteri dallo Stato alle Regioni, ha inciso sull’organizzazione pubblica della salute, dal momento che definisce il passaggio da una gestione della tutela statale ad un assetto in cui l’erogazione dei servizi sanitari compete agli Enti regionali, locali e al privato sociale[13].
A parere di chi scrive, appare opportuno evidenziare che la “disabilità” è una condizione dalle mille sfaccettature, nonché un fenomeno variegato, complesso. Sotto tale punto di vista, ne deriva che il disabile non necessità soltanto di prestazioni assistenziali di natura sanitaria e/o economica, ma anche e soprattutto di ottenere, da un lato, il suo pieno inserimento nella vita sociale (occupazione e istruzione) e, dall’altro, l’abbattimento di tutti i tipi di barriere che intralciano la sua strada[14].
La persona disabile, dunque, mira a portare a termine il progetto prescritto dall’art. 3, comma 2, Cost., con la conseguente rimozione di tutti quelli ostacoli che impediscono il suo sviluppo quale persona umana. Gli interventi pubblici in favore dei soggetti disabili devono essere tali da tener conto della molteplicità delle esigenze degli stessi; da qui, la richiesta di abbandono di politiche vaghe. Alla luce del quadro delineato, appare ineccepibile – a parere di chi scrive- l’indifferenza mostrata, a livello pubblico, nei confronti della persona disabile[15]. Al contrario, il compito di una buona società è quello di condurre i soggetti più vulnerabili, in questo caso i disabili, ad acquisire una mentalità che permette ad essi di non sentirsi “diverso” dagli altri.
2. La legge n. 104 del 1992 nella giurisprudenza costituzionale
Al fine di garantire una maggior protezione costituzionale alle persone con disabilità, la Corte costituzionale si è soffermata sulle misure incluse nella legge 5 febbraio 1992, n. 104[16], che rappresenta il punto di riferimento per la tutela dei diritti delle persone portatrici di handicap.
Come noto, tale legge prevede una serie di misure dirette a promuovere la piena integrazione del soggetto con handicap in ciascun ambito nel quale si concretizza la sua identità, da quello familiare a quello istruttivo, lavorativo e sociale, tramite l’abbattimento di tutte le condizioni che frenano lo sviluppo della persona umana e la partecipazione attiva alla vita della società.
La legge in discussione è stata approvata dal Parlamento, anche su pressione della medesima giurisprudenza costituzionale[17], che nella precedenza pronuncia 18 aprile 1991, n. 167, aveva sollecitato il legislatore italiano a adottare misure più ampie a tutela delle persone portatrici di handicap.
La legge n. 104/1992, volta ad “assicurare in un quadro globale ed organico la tutela del portatore di handicap”[18], supera il controllo di costituzionalità attuato dalla Corte Costituzionale con la sentenza 29 ottobre 1992, n. 406, a fronte delle censure regionali, poiché il suo disegno complessivo è imperniato sulla “esigenza di perseguire un evidente interesse nazionale, stringente ed infrazionabile, quale è quello di garantire in tutto il territorio nazionale un livello uniforme di realizzazione di diritti costituzionali fondamentali dei soggetti portatori di handicap. Al perseguimento di simile interesse partecipano, con lo Stato, gli enti locali minori e le Regioni…”.
Con riguardo alla suddetta pronuncia, occorre evidenziare due aspetti.
In primo luogo, il riconoscimento che la legge n. 104/1992, assicurando “un livello uniforme di realizzazione di diritti costituzionalmente fondamentali dei soggetti portatori di handicap”, miri specificatamente ad un interesse “evidente, stringente ed infrazionabile”. In concreto, l’abrogazione della legge in esame sarebbe impensabile, giacché spoglierebbe di efficacia più principi costituzionali, costituendo i suoi valori ed obiettivi diretta applicazione degli stessi[19].
In secondo luogo, l’affermazione secondo cui la tutela dei diritti dei disabili, ed il loro effettivo appagamento, comporti la partecipazione di tutti i livelli territoriali, nonché della società. In tale contesto, appare necessario riportare anche la sentenza 10 maggio 1999, n. 167, nella quale la Consulta sottolinea come la legge n. 104/1992 “non si è limitata ad innalzare il livello di tutela in favore di tali soggetti, ma ha segnato, come la dottrina non ha mancato di sottolineare, un radicale mutamento di prospettiva rispetto al modo stesso di affrontare i problemi delle persone affette da invalidità, considerati ora quali problemi non solo individuali, ma tali da dover essere assunti dall’intera collettività”.
In seguito, con la sentenza 6 luglio 2001, n. 226, la Corte ha riassunto i propositi perseguiti dalla legge in discussione, consistenti “nel promuovere la piena integrazione della persona handicappata in ogni ambito nel quale si svolge la sua personalità, da quello familiare a quello scolastico, lavorativo e sociale, attraverso la rimozione delle condizioni invalidanti che impediscono lo sviluppo della persona umana e la partecipazione della persona handicappata alla vita della collettività (art. 1, lettere a e b).
Infine, nella sentenza 7 dicembre 2017, n. 258[20], assodata l’inclusione della disabilità tra le condizioni limitanti l’eguaglianza, la Corte costituzionale ha rimarcato, ancora una volta, che “tale fenomeno è espressamente considerato dalla Costituzione: assume esplicito rilievo nell’art. 38 Cost. che, al primo comma, riconosce il diritto all’assistenza sociale per gli inabili al lavoro, mentre al terzo comma riconosce agli “inabili” e ai “minorati” il diritto all’educazione e alla formazione professionale.
La Consulta, altresì, tiene a precisare la mancanza di dubbi circa l’attuazione da parte della legge in oggetto dei principi riscontrati dalla stessa, la quale rappresentando il principale quadro normativo in materia di disabilità, non si limita “solo a prestare assistenza ma anche a favorire l’integrazione sociale del disabile”.
La Corte, dunque, evidenzia come alla suddetta disciplina spetti il merito di aver profondamente mutato la “prospettiva rispetto al modo stesso di affrontare i problemi delle persone affette da invalidità, considerati […] quali problemi non solo individuali, ma tali da dover essere assunti dall’intera collettività” (sentenza 10 maggio 1999, n. 167).
Occorre non trascurare che, per il tramite di tale legge, si è giunti finalmente alla definizione di “persona handicappata”, nonché “colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione”[21].
La condizione di handicap presenta evidenti connotati di gravità “qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione”.[22] In entrambi i casi, “la persona handicappata ha diritto alle prestazioni stabilite in suo favore in relazione alla natura e alla consistenza della minorazione, alla capacità complessiva individuale residua e alla efficacia delle terapie riabilitative”[23]. Con riguardo agli accertamenti inerenti alla minorazione e alla capacità residua, l’art. 4 della legge in discussione affida tale compito alle commissioni imputate all’accertamento dell’invalidità civile[24].
Nella circolare del 6 aprile 1994, il Ministero della Salute ha sottolineato che l’attività delle commissioni “non consiste solo in un accertamento medico delle condizioni fisiche o psichiche del soggetto, ma deve accertare, nei suoi vari ambiti, l’handicap che la minorazione produce, ossia la natura e l’entità dello svantaggio sociale e gli interventi necessari alla sua diminuzione”. Appare necessario precisare che la “persona handicappata” non coincide né con la “persona disabile” – la cui definizione è sancita nella legge 12 marzo 1999, n. 68, rubricata “Norme per il diritto al lavoro dei disabili”[25] – né con l’individuo “invalido”[26], né tanto meno con il soggetto “inabile” – i cui significati sono enunciati nella legge 12 giugno 1984, n. 222[27].
3. Il diritto all’istruzione dei disabili: una lotta senza tregua
La Costituzione del 1948, nell’ottica del riconoscimento dei diritti inviolabili di ogni essere umano (art. 2) e della rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della personalità singolare (art. 3 comma 2), dichiara che “la scuola è aperta a tutti” (art. 34 comma 1).
In generale, essa prescrive che “l’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”, mentre agli capaci e dei meritevoli, anche sprovvisti di mezzi economici, riconosce il “diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi” (art. 34, comma 3).
Nella legge n. 104/1992 ben cinque articoli – dal 12 al 16 – sono riservati al diritto[28] all’educazione, all’istruzione e all’integrazione scolastica[29]. Prima di vagliare la giurisprudenza costituzionale, appare opportuno soffermarsi sui concetti di educazione ed istruzione, spesso contrapposti. Il concetto di istruzione, inteso comunemente come acquisizione di conoscenze relative ad una preparazione tecnica o culturale, attiene alla sfera intellettiva della psiche, mentre quello di educazione, concepito abitualmente come apprendimento di principi intellettuali e morali conformi alle esigenze dell’individuo, concerne la sfera morale della psiche[30].
Una parte della dottrina inquadra in tale contesto l’attività di insegnamento, funzionale a pieno svolgimento della personalità dell’individuo[31]. Sotto tale profilo, occorre precisare che la divulgazione della cultura costituisce solo uno dei tratti tipici dell’insegnamento. Il percorso di formazione dello studente, infatti, si impreziosisce quotidianamente di nuovi elementi assiologici. In tal senso, il riconoscimento del diritto all’istruzione costituisce un obbligo irremovibile di ciascun Stato democratico, animato dal principio di solidarietà. Il compito dello Stato, dunque, è sia quello di rendere accessibile il sistema scolastico a tutti gli individui, sia quello di incentivare le più brillanti intelligenze a prescindere dalla classe sociale di appartenenza.
Esso deve approntare tutte le misure necessarie ad assicurare la libertà di insegnamento. Alla luce di tale quadro, il diritto all’istruzione, unito alla libertà di insegnamento, oltre che assumere la veste di diritto civico[32], diviene un valore costituzionale primario[33].
Un discorso del genere deve abbracciare soprattutto le categorie più vulnerabili, tra cui i disabili, spesso oggetto di discriminazione, in ragione delle loro gravi condizioni fisiche e mentali. In codesto scenario, la società civile deve affiancare la persona portatrice di disabilità, attraverso la predisposizione di misure idonee a contenere le difficoltà associate allo stato della stessa, al fine di rimuovere tutti gli ostacoli di carattere economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana.
In tale senso, una voce definisce l’ambiente scolastico come “lo spazio della presenza e della partecipazione dell’intera comunità: l’esatto contrario della separazione e della segregazione”[34]. Con l’intento di evitare che il soggetto disabile venisse osservato come “diverso” agli occhi della comunità, nel 1997[35] si provvide ad abolire le classi differenziali[36].
Tuttavia, occorre evidenziare che, fino a qualche anno fa, i dirigenti scolastici potevano precludere l’accesso alla scuola superiore nei confronti dei ragazzi disabili. A tal proposito, si segnala la sentenza 8 giugno 1987, n. 215, derivante da una questione di legittimità sollevata nel corso di un giudizio innanzi al Tar Lazio, incentrato sul rifiuto di consentire ad una studentessa portatrice di handicap di ripetere la frequenza della prima classe di un istituto professionale. Tale negazione era stata giustificata dal Consiglio di classe in ragione dell’incapacità assoluta dell’alunna di acquisire giovamento dalla frequenza scolastica, scontrandosi con i servizi specialistici dell’Unità sanitaria locale, i quali ritenevano che l’alunna avrebbe tratto dei benefici in termini di socializzazione.
La Consulta non si limita ad affrontare tale situazione attraverso l’espunzione di una norma illegittima, ma coglie anche l’occasione per sbrogliare taluni nodi spinosi, a partire dall’interpretazione dell’art. 34 Cost.
Per la Corte costituzionale [37], il diritto all’educazione non deve essere inteso come un diritto in senso stretto, bensì come un diritto alla comunicazione del soggetto portatore di handicap, che spetta anche agli individui condizionati da disturbi psichici e non solo ai menomati fisici. Con riguardo al diritto di raggiungere i più alti gradi degli studi, assicurato dall’art. 34 Cost. solo ai “meritevoli e capaci”, la Consulta non riscontra un’esclusione dei soggetti portatori di handicap in tale espressione[38]. Appare opportuno precisare che, l’intento della Corte, non era di certo quello di accordare ai soggetti disabili un impegno inferiore a livello di istruzione[39].
Al contrario, la Corte intendeva promuovere un messaggio volto al rispetto delle specifiche caratteristiche e potenzialità dell’individuo, in modo tale da consentire ai soggetti più deboli di sviluppare pienamente la propria personalità, a prescindere dalla condizione di svantaggio.
In seguito a riflessioni generali, la Consulta si è pronunciata sull’art. 28, comma 3, della legge 30 marzo 1971, n. 118, il quale prevedeva che “sarà facilitata, inoltre, la frequenza degli invalidi e mutilati civili alle scuole medie superiori ed universitarie”.
Essa ha emanato una sentenza sostitutiva, rimpiazzando la formula “è favorita” con quella di “è assicurata”, che obbliga il legislatore a istituire una serie di mezzi idonei all’attuazione del diritto all’istruzione. Qualche tempo dopo, la Corte ha evidenziato la rilevanza della frequenza nelle classi, partendo dal presupposto che la formazione in ambito privato non equivale all’istruzione acquisita nelle classi scolastiche[40]. Una pronuncia rilevante in materia risale al 2010, con la quale la Consulta ha provveduto a dichiarare l’incostituzionalità della norma[41] che, per motivi riguardanti il controllo della spesa pubblica, fissava un limite massimo delle ore e degli insegnanti di sostegno e di conseguenza impediva di assumere tali insegnanti in caso di disabilità gravi.
La suddetta sentenza[42] si rivela particolarmente rilevante per due aspetti.
In primo luogo, la Corte dichiara che “i disabili non costituiscono un gruppo omogeneo. Vi sono, infatti, forme diverse di disabilità: alcune hanno carattere lieve ed altre gravi. Per ognuna di esse è necessario, pertanto, individuare meccanismi di rimozione degli ostacoli che tengano conto della tipologia di handicap da cui risulti essere affetta in concreto una persona. Ciascun disabile è coinvolto in un processo di riabilitazione finalizzato ad un suo completo inserimento nella società; processo all’interno del quale l’istruzione e l’integrazione scolastica rivestono un ruolo di primo piano”.
in secondo luogo, la pronuncia associa il diritto all’istruzione delle persone con disabilità a quel “nucleo indefettibile di garanzie” che non deve essere violato dal legislatore. Una decisione storica si è avuta nel 2016: la Corte costituzionale oltre a ribadire che “il diritto all’istruzione del disabile è consacrato nell’art. 38 Cost.”, ha riconosciuto la sua prevalente tutela rispetto ai vincoli derivanti dalle esigenze di bilancio regionale.
Tale pronuncia discende da una controversia tra Regione Abruzzo e Provincia di Pescara, a seguito della richiesta di quest’ultima, dell’adempimento, da parte della prima, di una quota pari al 50% delle spese necessarie e registrate per il servizio di trasporto dei soggetti disabili[43]. Nel caso di specie, la Giunta Regionale si era assunta onere di contribuire al servizio di trasporto, ma non aveva annunciato la misura della contribuzione, ripercuotendosi negativamente sull’erogabilità delle prestazioni[44]. A fronte di ciò, la Consulta ha ridefinito il rapporto tra equilibrio finanziario e istruzione dei disabili[45].
Da tale pronuncia, ne è scaturita l’illegittimità costituzionale di una norma che attribuiva ingiustificata prevalenza all’equilibrio di bilancio, non garantendo idonea tutela alla formazione dei soggetti disabili, la cui frequenza scolastica non poteva dipendere da un effettivo servizio di trasporto[46]. Occorre segnalare che, la sentenza della Corte costituzionale sembra aver motivato i giudici comuni[47].
3.1 Un nuovo intervento in difesa dell’istruzione degli alunni disabili
Con la recente sentenza 11 aprile 2019, n. 83, la Corte Costituzionale è tornata a pronunciarsi sul fragile bilanciamento[48] tra tutela dei diritti sociali – in tale caso, il diritto all’istruzione degli studenti affetti da disabilità – e l’esigenza di bilancio, dichiarando non fondate o inammissibili talune questioni di legittimità costituzionale sollevate in via principale dalla Regione Veneto circa varie disposizioni della legge dello Stato sul bilancio di previsione per l’anno finanziario 2018 e per il triennio 2018-2020.
In particolare, la Corte si è espressa sulle disposizioni incluse nell’art. 1, comma 70, attinenti al finanziamento delle funzioni[49] di assistenza per l’autonomia e la comunicazione personale degli studenti con disabilità fisiche o sensoriali e dei servizi di sostegno all’istruzione degli stessi o di quelli in situazione di svantaggio[50].
I motivi che hanno portato la Regione Veneto a denunciare l’illegittimità costituzionale della disposizione sono due: la provvisorietà dello stanziamento, che inficiando il principio dell’autonomia finanziaria regionale di cui all’art. 119, quarto comma, Cost., non permetterebbe alla Regione di mettere a punto una programmazione dei propri interventi ed il volume dello stanziamento, in grado di soddisfare parzialmente il fabbisogno.
Con riguardo a quest’ultimo profilo, la Consulta ha dichiarato inammissibile la questione in ragione dell’eccessiva genericità del ricorso che non precisa né la portata delle risorse in precedenza riservate alle Province e Città metropolitane per l’attuazione delle funzioni sopraindicate, né sottolinea la differenza tra quanto riassegnato e quanto trattenuto da parte dello Stato nazionale.
Per quanto concerne la provvisorietà dello stanziamento, la Corte ha dichiarato infondata la questione, sostenendo che la disposizione impugnata “in linea con le leggi di bilancio dei due anni precedenti, rinnova il finanziamento per l’anno di riferimento, senza alcuna discontinuità e senza pregiudicare l’effettiva erogazione dei servizi che attengono al nucleo essenziale dei diritti delle persone con disabilità; erogazione che deve essere sempre comunque assicurata e finanziata”.
Occorre evidenziare che, con la suddetta pronuncia, la Corte arricchisce il filone giurisprudenziale dedicato al riconoscimento del diritto all’istruzione delle persone affette da disabilità. D’altro canto, l’art. 34 Cost., statuendo che “la scuola è aperta a tutti”, pone in luce un fatto ormai consolidato, nonché l’apertura della stessa nei confronti di ciascun individuo.
4. L’inserimento della persona disabile nel contesto lavorativo
L’art. 4 Cost., nella parte in cui esalta il diritto al lavoro, introduce un principio di particolare rilevanza sulla base del quale devono essere interpretate tutte le ulteriori norme in materia di lavoro.
Esso racchiude un impegno costituzionale che obbliga il legislatore e gli altri organi dello Stato a compiere una politica economica tesa all’attuazione completa dell’occupazione. Il cittadino ha piena libertà di scelta in ordine allo svolgimento di una attività professionale o lavorativa.
Tale circostanza si concretizza, dal punto di vista negativo, per l’abbattimento di tutte le barriere che possano ostruire l’accesso al lavoro, mentre dal punto di vista positivo, per la libertà di espletare un’attività compatibile alle proprie esigenze e alle proprie capacità professionale. In termini generali, la Costituzione invoca il diritto al lavoro all’art. 36, il quale enuncia esplicitamente il diritto del lavoratore ad una retribuzione proporzionata e sufficiente a vivere una vita dignitosa, al riposo e alle ferie retribuite[51].
In tal senso, è possibile osservare che, così come ad ogni lavoratore abile è concesso il diritto-dovere di adempiere un’attività lavorativa dalla quale ne scaturisca una retribuzione, parimenti a ogni cittadino privo di una capacità psico-fisica conforme al lavoro, è assicurato il diritto ad ottenere un minimo di mezzi economici, in modo tale da garantire allo stesso un’esistenza dignitosa[52].
Come già dichiarato in precedenza, la Costituzione sancisce il diritto all’educazione e all’avviamento professionale degli inabili e dei minorati.
L’art. 38, comma 3, Cost. rappresenta il fulcro del diritto al lavoro delle persone con disabilità. Il compito di uno Stato democratico non si riduce ad assicurare a tali soggetti lo svolgimento di un’attività lavorativa, ma si spinge fino a favorire l’inclusione degli stessi nel mercato del lavoro. In tale senso, appare opportuno specificare che, gli inabili e i minorati, nonché i soggetti affetti da alterazioni psico-fisiche e dotati di un’esigua capacità lavorativa, risultano non necessariamente anche inabili all’esecuzione di un’attività lavorativa.
D’altro canto, lo stesso art. 38, comma 4, prevede che all’avviamento professionale debbano provvedere “organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato”, sottolineando, da un lato, la necessità di predisporre delle misure di inclusione e assistenza nei confronti delle persone disabili in ambito lavorativo e, dall’altro, l’obbligo delle istituzioni pubbliche di adempiere tali compiti. Sebbene la Costituzione supporti la persona disabile, l’accesso al mondo del lavoro per quest’ultima continua a porsi come un problema spinoso.
Particolarmente rilevante è la legge 2 aprile 1948, n. 482, in materia di collocamento obbligatorio che, pur con i suoi netti limiti, introduceva l’assunzione obbligatoria dei disabili presso le pubbliche amministrazioni. Secondo una corrente di pensiero[53], un sistema è equo quando tiene in considerazione il fatto che un soggetto disabile, anche a seguito di sviluppi riabilitativi, è comunque contraddistinto da un’esigua capacità lavorativa rispetto ad un lavoratore abile; viceversa, non è equo quando pretende da un’impresa l’assunzione di soggetti disabili in modo indiscriminato.
Nel quadro della legge n. 482/1948, il primo principio era rispettato, poiché l’obbligo di assunzione era previsto soltanto nei confronti di soggetti dotati di una modesta capacità lavorativa accertata; l’imprenditore, altresì, aveva la facoltà di risolvere il rapporto laddove il peggioramento delle condizioni di salute del lavoratore non permettesse all’impresa di continuare ad impiegare lo stesso in maniera economicamente produttiva. Il secondo principio, invece, era palesemente insoddisfatto, dal momento che i lavoratori entravano a far parte dell’impresa a prescindere dalla conformità o meno delle loro capacità rispetto al tipo di attività da svolgere.
Tale legge non è altro che il frutto delle dichiarazioni rilasciate dalla giurisprudenza costituzionale nella sentenza 15 giugno 1960, n. 38[54]. Con tale pronuncia, la Corte costituzionale specifica che la locuzione “avviamento professionale” non deve intendersi come sinonimo di “educazione”, in quanto assume il significato di “effettivo collocamento al lavoro”.
La stessa Corte, altresì, tiene a precisare che l’obbligo di assunzione gravante sul datore di lavoro non impedisce allo stesso di mutare le dimensioni della compagine aziendale, ma soltanto di riservare una certa percentuale di posti a favore dei soggetti rientranti nelle categorie protette.
Infine, la Consulta nega la mera natura assistenziale dell’obbligo di assunzione a carico dell’imprenditore, dato che dall’onere imposto dalla legge agli stessi non discende un dovere di mantenimento degli individui minorati, ma un regolare rapporto di lavoro.
La ratio del sistema del collocamento obbligatorio non è, dunque, “quella di procurare ai minorati del lavoro un mantenimento caritativo, ma di porre in essere le condizioni per la formazione di un contratto di lavoro, in ordine al quale l’idoneità al lavoro è richiesta per la persistenza del rapporto medesimo”[55].
La tutela dei diritti delle persone disabili trova piena attuazione con la legge 12 marzo 1999, n. 68, avente come finalità “la promozione dell'inserimento e della integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento mirato”.
L’inserimento delle persone disabili nel mondo del lavoro è garantito tramite il collocamento mirato, la principale novità introdotta dalla legge 68/1999.
In particolare, per collocamento mirato dei disabili si intende “quella serie di strumenti tecnici e di supporto che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto, attraverso analisi di posti di lavoro, forme di sostegno, azioni positive e soluzioni dei problemi connessi con gli ambienti, gli strumenti e le relazioni interpersonali sui luoghi quotidiani di lavoro e di relazione”.
Tale legge capovolge l’impostazione adottata dalla precedente normativa: da un lato, essa stabilisce che il lavoratore possa essere collocato nel posto di lavoro più consono alle sue qualità e capacità, dall’altro, sopprime i limiti personali, e di conseguenza riconosce al disabile, pur privo di una residua capacità lavorativa, l’opportunità di chiedere l’iscrizione nelle liste di collocamento e di attendere l’inclusione dello stesso in un dato posto di lavoro.
Sotto tale profilo, occorre riflettere – a parere di chi scrive – sull’equità dei limiti sopraindicati.
Data l’impossibilità di pervenire ad un equilibrio, si assiste ad un circolo vizioso: il legislatore, intento a incrementare l’occupazione delle categorie più deboli inevitabilmente pregiudica il datore di lavoro; al contrario, il legislatore intento a favorire l’imprenditore automaticamente sacrifica i lavoratori affetti da disabilità.
Di recente, il legislatore è intervenuto a modificare il quadro normativo[56] con il proposito di conferire maggiore effettività al collocamento mirato dei disabili, accordando alle aziende private la possibilità di assumere i soggetti disabili tramite la richiesta normativa. Nella sentenza 7 aprile 2006, n. 140, la Corte è tornata a pronunciarsi sul sistema di protezione e retribuzione dei lavoratori con disabilità, analizzando la questione di legittimità costituzionale riguardante l’art. 9, comma 1, della legge 29 marzo 1985, n. 113, nella parte in cui attribuisce l’indennità di mansione solo ai centralinisti non vedenti occupati e non a quelli assunti in via ordinaria.
Nel caso di specie, la Corte costituzionale ha posto in luce la necessità di tenere presente delle specifiche caratteristiche dell’attività lavorativa svolta da soggetti affetti da una grave disabilità fisica. In tale scenario, particolare rilevanza assume una sentenza della Suprema Corte[57], nella quale si ribadisce la necessità di prestare attenzione, al momento di collocamento della persona disabile in un contesto lavorativo, delle specifiche condizioni personali dello stesso, allo scopo di tutelarne il diritto alla salute e, parallelamente, stimolandone le capacità lavorative[58].
5. La disabilità nello scenario sovranazionale
La Comunità europea ha rivolto particolare attenzione alla condizione delle persone disabili solo a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta.
Inizialmente, i diritti di tali soggetti non trovavano spazio nel contesto normativo europeo. Sulla scia di una Risoluzione del Consiglio che proponeva la realizzazione di un Programma di azione per l’integrazione occupazionale e sociale delle persone portatrici di handicap (1994), vennero predisposti quattro programmi di azione tendenti a sostenere gli Stati membri nel promuovere l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità. Nel 1996 viene approvata la c.d. Strategia della comunità europea nei confronti dei disabili, un documento non vincolante da cui si evince la volontà di garantire i diritti dei soggetti con disabilità mediante una serie di interventi coordinati.
Tale documento si contraddistingueva per un mutamento di prospettiva derivante dalle Norme standard per le pari opportunità delle persone con disabilità e dal consolidamento del c.d. modello sociale della disabilità[59], che identificava la disabilità non come conseguenza dello stato di incapacità del singolo, bensì come conseguenza di fattori sociali. Con l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam nel 1999, si compie un passo in avanti sul piano della tutela dei diritti dei disabili.
L’art. 13 TCE (attuale art. 19 TFUE) prescriveva che “fatte salve le altre disposizioni del presente trattato e nell'ambito delle competenze da esso conferite alla Comunità, il Consiglio, deliberando all'unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali”[60].
Il primo intervento legislativo diretto a garantire il diritto al lavoro dei soggetti disabili è rappresentato dalla Direttiva 2000/78/CE, la quale obbliga i datori di lavoro ad assumere comportamenti idonei[61], nell’ottica della parità di trattamento in materia di occupazione.
Nel 2000, il Consiglio europeo di Nizza approva la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europa, che contiene due disposizioni attinenti alla disabilità[62]. Verso la fine del 2003, proclamato “Anno europeo delle persone con disabilità”, viene approvato un Piano di azione europeo sulla disabilità, diretto ad integrare l’attuazione della Direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione[63].
Un potenziamento delle competenze dell’Unione Europea in materia di disabilità si è avuto con il Trattato di Lisbona, adottato nel 2009. Il legislatore europeo mantiene l’art. 19 TFUE (prima art. 13 TCE) nella sua veste integrale, apportando talune modifiche alla parte attinente alla procedura legislativa. In particolare, si assiste ad un mutamento del ruolo del Parlamento: mentre in precedenza il Consiglio deliberava previa consultazione del Parlamento, il Trattato in questione reclama la procedura legislativa ordinaria, in base alla quale il Consiglio deve guadagnarsi l’approvazione del Parlamento[64].
Il Trattato di Lisbona, altresì, racchiude la c.d. clausola orizzontale di non discriminazione[65], la quale impone un obbligo di mainstreaming. Di recente, l’Unione europea ha definito una “Strategia europea sulla disabilità”[66], volta a focalizzare gli impegni comunitari nei confronti delle persone con disabilità in determinate aree tematiche, quali l’accessibilità, la partecipazione, l’uguaglianza, l’occupazione, l’istruzione-formazione, la protezione sociale, la salute e le azioni esterne.
L’attenzione riposta in ambito internazionale nei confronti di una delle categorie più vulnerabili culmina con l’adozione della Convenzione delle Nazioni unite sui diritti delle persone con disabilità del 2006, da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni unite.
Tale Convenzione, entrata in vigore a livello internazionale nel 2008 e ratificata in Italia con la legge 3 marzo 2009, n. 18, costituisce il primo strumento internazionale vincolante in materia di disabilità[67].
Prima dell’adozione della Convenzione, infatti, la tutela dei disabili era assegnata a fonti di soft law[68], in quanto la normativa internazionale convenzionale in materia di diritti umani non prevedeva alcun richiamo alle persone disabili.
La suddetta Convenzione è incentrata su di una serie di principi, quali la dignità, l’accessibilità, l’eguaglianza e inclusione nella società[69]. Una parte della dottrina[70] riconosce a tale Convenzione particolare rilevanza, per il semplice fatto di discostarsi dal c.d. modello medico, tendente a qualificare la disabilità come mero stato di menomazione e di malattia, e accostarsi al modello sociale della disabilità.
In tal senso, già nel Preambolo si riscontra un nuovo approccio alla disabilità: essa non è più intesa quale menomazione rispetto alla normalità, ma come “il risultato dell’interazione tra persone con minorazioni e barriere attitudinali ed ambientali, che impedisce la loro piena ed efficace partecipazione nella società su una base di parità con gli altri”.
Con codesto strumento, il legislatore internazionale intende introdurre delle norme puntuali ed universali, volte ad assicurare ai soggetti affetti da disabilità il godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali, la partecipazione sociale ed il rispetto della loro dignità[71]. In tale quadro, si inserisce una corrente di pensiero[72], la quale esalta l’importanza della suddetta Convenzione, poichè essa “ha riformulato i bisogni delle persone con disabilità in termini di diritti umani, così esprimendo una svolta e un allontanamento dalla risposta a tali bisogni in termini di welfare state”.
6. Disabile e sessualità: l'urgenza di un mutamento di approccio
A prescindere da taluni interventi giurisprudenziali, la questione della sessualità della persona disabile richiama poco l’attenzione del panorama giuridico.
L’identificazione della disabilità come malfunzionamento della persona in chiave biologica comincia a radicarsi in occasione della pubblicazione delle Regole standard delle Nazioni Unite.
Essa, in seguito, viene recepita dall’Organizzazione mondiale della sanità. In tal senso, l’Oms rinuncia al modello di disabilità fondato sulla visione medica, incluso nella Classificazione internazionale delle menomazioni, disabilità e handicap del 1980 e accoglie la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute[73], intenta a garantire un linguaggio standard per la spiegazione della condizione di salute e degli aspetti ad essa correlati.
Un passo importante viene attuato con l’adozione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, esaminata in precedenza.
Essa concepisce i soggetti disabili come persone umane dotate degli stessi diritti degli altri individui. Stando alle previsioni incluse in tale Convenzione, anche alla persona disabile è riconosciuto, al pari di tutte le altre, il diritto fondamentale alla vita sessuale. In realtà, la dimensione della sessualità del soggetto disabile non trova alcun riconoscimento giuridico.
Una parte della dottrina imputa tale silenzio normativo ad un “comune atteggiamento mentale per il quale qualsiasi espressione di vitalità sessuale da parte delle persone disabili è percepita come un fatto innaturale, frutto di perversione, da reprimere o ignorare piuttosto che assecondare”[74]. Un riscontro deriva dalla fattispecie abrogata[75] ex art. 519 c.p. Quest’ultima racchiudeva una presunzione assoluta di violenza carnale tutte le volte che un rapporto sessuale interessasse un individuo “malato di mente” o in “condizioni di inferiorità fisica o psichica”.
La suddetta presunzione, dunque, trasformava la norma di protezione in una norma di repressione; la persona disabile era ritenuta incapace di autodeterminarsi nella sfera sessuale ed il soggetto che intratteneva con essa una relazione era condannato come abusante di una situazione di inferiorità.
Con la riforma del 1996, tale reato si configura nel momento in cui la persona non disabile approfitta della condizione di disabilità del partner[76]. Alla novella del 1996 spetta così il merito di avere conciliato l’esigenza di difesa della persona disabile con quella di garantirle la realizzazione di un’effettiva vita sessuale, al pari degli altri consociati. In rapporto con il diritto civile, vi sono vari fatti connessi alla sessualità.
Sotto tale profilo, si pensi alla possibilità di contrarre nozze, all’interruzione di gravidanza, al riconoscimento e al disconoscimento di prole, garantite dalla Convezione. L’intento del legislatore nazionale è quello di potenziare la tutela della capacità di agire, passando da una logica dello status ad un’impostazione del regime giuridico degli atti compiuti dalla persona[77].
A tal proposito, il Tribunale di Varese ha affermato che la tutela del soggetto debole non deve tradursi in una privazione dei suoi diritti; il giudice tutelare, perciò, deve intervenire solo nel momento in cui la sessualità è vissuta dall’interdetto non come un soggetto, ma come “oggetto”, nonché in circostanza di violenza, abuso o sfruttamento della vulnerabilità.
Vi sono, poi, altri fatti di natura non patrimoniale che, in rapporto con il diritto al welfare, costituiscono esercizio della sessualità.
Si pensi, ad esempio, alla controversa figura dell’assistente sessuale, che trova una regolamentazione in molteplici ordinamenti giuridici (Danimarca, Olanda, Germania e Svizzera)[78]. In Italia, si segnala la proposta[79] presentata da un Comitato, costituito da attivisti per la disabilità e professionisti, sfociato nel disegno di legge n. 1442, che però non ha trovato alcuna concretizzazione[80].
Il tema della sessualità della persona disabile potrebbe essere risolto definitivamente solo una volta superato l’approccio secondo cui la disabilità rappresenta un ostacolo sia dal punto di vista fisico che cognitivo-sensoriale; la sessualità del disabile viene infatti localizzata nel contesto socioculturale.
7. Conclusioni: la famiglia come primo punto di riferimento della persona disabile
Da sempre, il contesto familiare assume un ruolo cruciale nell’assistenza del soggetto disabile. Una conferma proviene dalla Corte costituzionale che, nella sentenza 14 gennaio 2016, n. 2, definisce espressamente la famiglia “la sede privilegiata del più partecipe soddisfacimento delle esigenze connesse ai disagi del relativo componente, così da mantenere intra moenia il relativo rapporto affettivo e di opportuna e necessaria assistenza”. In tale occasione, la Consulta pone in luce la non essenzialità di interventi assistenziali esterni[81].
Tuttavia, l’importanza della famiglia nell’assistenza e nella socializzazione del disabile è stata evidenziata nella sentenza 5 dicembre 2003, n. 350, in tema di concessione del beneficio della detenzione domiciliare alla madre condannata e, in appositi casi, al padre condannato, conviventi con un figlio portatore di handicap del tutto invalidante, nella quale il Giudice delle Leggi ha dichiarato che la salute psico-fisica della persona affetta da handicap invalidante potrebbe essere considerevolmente danneggiata dalla totale mancanza di assistenza da parte della figura materna e che “in questa prospettiva, la possibilità di concedere la detenzione domiciliare al genitore condannato convivente con un figlio totalmente handicappato, appare funzionale all’impegno della Repubblica, sancito nel secondo comma dell’art. 3 della Costituzione, di rimuovere gli ostacoli di ordine sociale che impediscono il pieno sviluppo della personalità”.
Occorre marcare che, la tutela della salute psico-fisica del disabile, costituente la finalità perseguita dalla legge 5 febbraio 1992, n. 104, comporta anche l’adozione di soluzioni economiche integrative di sostegno alla famiglia.
Sotto tale profilo, si rinvia al filone della giurisprudenza costituzionale inerente alla disciplina dei congedi parentali che viene associata al diritto della socializzazione, malgrado tali interventi spettino ad un soggetto diverso dal disabile. In tale senso, si segnala quella giurisprudenza costituzionale[82] che ha dilatato l’impiego dei permessi mensili retribuiti di cui all’art. 33 della legge n. 104 del 1992, nonché dei congedi straordinari per sostenere le persone con handicap grave di cui all’art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001.
La decisione da parte della giurisprudenza costituzionale di estendere tali misure, comportanti un aumento dei costi a carico delle finanze pubbliche, sembra sottolineare la prevalenza della tutela dei soggetti più vulnerabili rispetto ai motivi economici[83].
A parte le note sentenze del 2013 e del 2016, la disciplina dei congedi parentali ha subito una radicale trasformazione a partire dai primi anni del nuovo secolo. Di recente, la Corte costituzionale è intervenuta sulla questione dei congedi parentali, dichiarando costituzionalmente illegittimo l’art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001 per violazione degli articoli 2, 3 e 32 Cost. La Consulta ritiene che la ratio del congedo straordinario consista nell’assistenza familiare al disabile.
Essa, dunque, estende tale misura a nuovi beneficiari non previsti a livello legislativo[84]. Inizialmente, con la sentenza 16 giugno 2005, n. 233, la Corte aveva esteso il beneficio sancito all’art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001 nei confronti dei fratelli o delle sorelle conviventi con un soggetto disabile, nel caso in cui i genitori fossero impossibilitati ad assistere il figlio disabile[85].
Nella successiva sentenza 8 maggio 2007, n. 158, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della stessa disposizione, nella parte in cui non includeva tra i soggetti beneficiari il coniuge convivente della persona con disabilità[86]. Con la sentenza 30 gennaio 2009, n. 19, la Consulta ha statuito l’illegittimità costituzionale dell’art. 42, comma 5, del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, nella parte in cui non prevedeva nel cerchio dei beneficiari il figlio convivente, in carenza di soggetti che possano assistere il soggetto affetto da disabilità. In definitiva, la famiglia costituisce la prima agenzia di socializzazione della persona disabile, soprattutto nella fase primaria[87].
[1] Tuttavia, non sono mancate richieste in tal senso. Sul punto, si veda F. Eramo, Handicappati: diritto alla sessualità, diritto al matrimonio, diritto all’adozione, in Famiglia e diritto, 2002, n, 4, p. 435. Si ricorda che, nel 1985, nell’ambito dei lavori della Commissione parlamentare per le Riforme istituzionali guidata dall’on. Bozzi, era stata avanzata una proposta incentrata sull’inclusione nella Costituzione italiana di un apposito articolo ad essi dedicato, ossia l’art. 32-bis (“La Repubblica tutela i disabili e ne promuove il recupero garantendo loro la partecipazione e l’eguaglianza in ogni settore della vita sociale”). A tal riguardo, si veda P. Bianchi, La tutela delle persone con disabilità nella prospettiva comparata, in Assistenza inclusione sociale e diritti delle persone con disabilità. A vent’anni dalla legge 5 febbraio 1992, n. 104, C. Colapietro, A. Salvia (a cura di), Editoriale Scientifica, Napoli, 2013, pp. 464 ss.
[2] Ai sensi dell’art. 2 Cost.: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
[3] Occorre sottolineare che, ciò avviene anche in forza del valore costituzionale della solidarietà.
[4] Ai sensi dell’art. 3 Cost.: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
[5] Sulla potenzialità espansiva dei diritti sociali, si veda A. Lo Calzo, Il diritto all’assistenza e alla cura nella prospettiva costituzionale tra eguaglianza e diversità, in osservatorioaic.it, Fasc. 3, 2018, pp. 211-216.
[6] S. P. Panunzio, Il cittadino handicappato psichico nel quadro costituzionale, in Scritti in memoria di Pietro Gismondi, III, Giuffrè, Milano, 1988, p. 525.
[7] M. Dogliotti, Diritti della persona ed emarginazione: minori, anziani e handicappati, in Giurisprudenza italiana, 1990, IV, p. 365.
[8] Ai sensi dell’art. 30, comma 1, Cost: “E` dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio”.
[9] Si ricordi che, nella sentenza 23 giugno 1998, n. 6240, la Cassazione ha sottolineato il rapporto tra gli artt. 32, comma 2 e l’art. 13 Cost.
[10] Ai sensi dell’art. 38 Cost.: “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale”.
[11] Si tratta dei c.d. LEA, ossia Livelli essenziali di assistenza. Sul tema, si veda M. Atripaldi, Diritto alla salute e livelli essenziali di assistenza (LEA), in federalismi.it, 2017; M. Mengozzi, Tutela dei livelli essenziali di assistenza e mobilità sanitaria nell’esperienza italiana ed europea: gli slanci e i limiti dell’azione dell’Unione nella tutela del diritto alle cure, in dirittoesalute.org, n. 4, 2017; T. Vecchiato, Livelli di assistenza o di cittadinanza per le persone disabili?, in Studi Zancan, Fasc. 3, 2003.
[12] Si ricorda che, in precedenza, tali materie erano regolate dalle leggi cornice: d.lgs. 19 giugno 1989, n. 229, “Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell’art. 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419 e l. 8 ottobre 2000, n.328, “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”.
[13] A. Tamborrino, Tutela giuridica delle persone con disabilità, Key, Milano, 2019, p. 41.
[14] Secondo C. Colapietro, I diritti delle persone con disabilità nella giurisprudenza della Corte costituzionale: il “nuovo” diritto alla socializzazione, in dirittifondamentali.it, Fasc. 2, 2020, pp. 127, la necessità di riconoscere al disabile prestazioni di differente natura trova una conferma nell’interazione tra la menomazione e la società.
[15] Del resto, come osserva F. Furlan, La tutela costituzionale del cittadino portatore di handicap, in Terzo settore, statualità e solidarietà sociale, C. Cattaneo (a cura di), Giuffrè, Milano, 2001, p. 257, “i problemi dei disabili sono problemi dell’intera collettività”.
[16] Legge 5 febbraio 1992, n. 104, recante “Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”.
[17] Nella sentenza 29 luglio 1996, n. 325, la Consulta sottolinea come la legge n. 104/1996 costituisca “una prima, significativa risposta al pressante invito, rivolto da questa Corte al legislatore, di garantire la condizione giuridica del portatore di handicap, la cui tutela passa attraverso "l'interrelazione e l'integrazione dei valori espressi dal disegno costituzionale".
[18] La Corte Costituzionale, nella suddetta sentenza, osserva che “essa incide perciò necessariamente in settori diversi, spaziando dalla ricerca scientifica ad interventi di tipo sanitario ed assistenziale, di inserimento nel campo della formazione professionale e nell'ambiente di lavoro, di integrazione scolastica, di eliminazione di barriere architettoniche e in genere di ostacolo all'esercizio di varie attività e di molteplici diritti costituzionalmente protetti”.
[19] Secondo G. Arconzo, La normativa a tutela delle persone con disabilità nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, in Università e persone con disabilità. Percorsi di ricerca applicati all’inclusione a vent’anni dalla legge n. 104 del 1992, M. D’Amico, G. Arconzo (a cura di), FrancoAngeli, Milano, 2013, p. 19, “siamo di fronte ad una di quelle leggi “costituzionalmente necessarie”.
[20] Sul tema, si veda S. Rossi, Incapacitazione e acquisto della cittadinanza. Nota a prima lettura a Corte cost. n. 258/2017, in Forum di Quaderni costituzionali, 2007; A. Randazzo, Disabilità e acquisto della cittadinanza. Prime notazioni a margine della sent. n. 258 del 2017 della Corte costituzionale, in osservatorioaic.it, Fasc. 1-2, 2019; C. Domenicali, La “doppia inclusione” dello straniero disabile (a margine di Corte cost. n. 258 del 2017), in Forum di Quaderni Costituzionali, 2018; P. Addis, Disabilità e giuramento per l’acquisizione della cittadinanza (osservazioni a Corte cost., sent. 258/2017), in Consulta Online, Fasc. II, 2018.
[21] Art. 3, comma 1, legge 5 febbraio 1992, n. 104.
[22] Art. 3, comma 3, legge 5 febbraio 1992, n. 104.
[23] Art. 3, comma 2, legge 5 febbraio 1992, n. 104.
[24] Secondo la circolare del Ministero della Salute del 30 ottobre 1993 “le commissioni mediche costituiscono il momento di approccio globale a livello di valutazione medico-sociale della personalità e delle esigenze del soggetto portatore di handicap, e quindi lo strumento idoneo a garantire la realizzazione di un’assistenza integrata completa, nell’ottica più ampia dell’inserimento sociale”.
[25] L’ambito di applicazione della suddetta legge comprende “a) le persone in età lavorativa affette da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali e i portatori di handicap intellettivo, che comportino una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45 per cento, accertata dalle competenti commissioni per il riconoscimento dell’invalidità civile in conformità alla tabella indicativa delle percentuali di invalidità per minorazioni e malattie invalidanti approvata, ai sensi dell’articolo 2 del decreto legislativo 23 novembre 1988, n. 509, dal Ministero della sanità sulla base della classificazione internazionale delle menomazioni elaborata dalla Organizzazione mondiale della sanità nonché alle persone nelle condizioni di cui all’articolo 1, comma 1, della legge 12 giugno 1984, n. 222”; le b) le persone invalide del lavoro con un grado di invalidità superiore al 33 per cento, accertata dall’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali (INAIL) in base alle disposizioni vigenti”; c) le persone non vedenti o sordomute, di cui alle leggi 27 maggio 1970, n. 382, e successive modificazioni, e 26 maggio 1970, n. 381, e successive modificazioni; d) le persone invalide di guerra, invalide civili di guerra e invalide per servizio con minorazioni ascritte dalla prima all’ottava categoria di cui alle tabelle annesse al testo unico delle norme in materia di pensioni di guerra, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 dicembre 1978, n. 915, e successive modificazioni”.
[26] L’art. 1, comma 1, della predetta legge definisce come tale “l’assicurato la cui capacità di lavoro, in occupazioni confacenti alle sue attitudini, sia ridotta in modo permanente a causa di infermità o difetto fisico o mentale a meno di un terzo”.
[27] L’art. 2, comma 1, della medesima legge qualifica come tale “l’assicurato o il titolare di assegno di invalidità con decorrenza successiva alla data di entrata in vigore della presente legge il quale, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, si trovi nell’assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa”.
[28] Ai sensi dell’art. 12, comma 2, di tale legge: “E' garantito il diritto all'educazione e all'istruzione della persona handicappata nelle sezioni di scuola materna, nelle classi comuni delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado e nelle istituzioni universitarie”.
[29] Ai sensi dell’art. 12, comma 3, di tale legge: “L'integrazione scolastica ha come obiettivo lo sviluppo delle potenzialità della persona handicappata nell'apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e nella socializzazione”.
[30] N. Daniele, La pubblica istruzione, Giuffré, Milano, 1986, p. 781.
[31] Sul punto L. Buscema, Il diritto all’istruzione degli studenti disabili, in rivistaaic.it, n. 4, 2015, p. 2, osserva che “la scuola diviene l’istituzione all’interno della quale, attraverso l’insegnamento, collettivamente impartito, si assiste al rafforzamento delle qualità intellettuali, morali, spirituali e fisiche dei discenti”.
[32] C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1969, p. 133.
[33] A. D’atena, Lezioni di diritto costituzionale, Giappichelli, Torino, 2001, p. 115.
[34] L. Rondanini, Ragazzi disabili a scuola. Percorsi e nuovi compiti, Dogana, Repubblica di San Marino, 2012, p. 61.
[35] Art. 7, legge 4 agosto 1997, n. 517 (Norme sulla valutazione degli alunni e sull'abolizione degli esami di riparazione nonché altre norme di modifica dell'ordinamento scolastico).
[36] Art. 12 legge 31 dicembre 1962, n. 1859 (Istituzione e ordinamento della scuola media statale). Sul punto, si ricordi che la legge 30 marzo 1971, n. 18, stabiliva che l'istruzione dell'obbligo dei bambini affetti da handicap “deve avvenire nelle classi normali della scuola pubblica, salvi i casi in cui i soggetti siano affetti da gravi deficienze intellettive o da menomazioni fisiche di tale gravità da impedire o rendere molto difficoltoso l'apprendimento o l'inserimento nelle predette classi normali”.
[37] In particolare, secondo la Corte statuendo che: ".. “la scuola è aperta a tutti”, e con ciò riconoscendo in via generale l'istruzione come diritto di tutti i cittadini, l'art. 34, primo comma, Cost. pone un principio nel quale la basilare garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo “nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” apprestata dall'art. 2 Cost. trova espressione in riferimento a quella formazione sociale che è la comunità scolastica. L'art. 2 poi, si raccorda e si integra con l'altra norma, pure fondamentale, di cui all'art. 3, secondo comma, che richiede il superamento delle sperequazioni di situazioni sia economiche che sociali suscettibili di ostacolare il pieno sviluppo delle persone dei cittadini”.
[38] Secondo la Corte “assumere che il riferimento ai “capaci e meritevoli” contenuto nel terzo comma dell'art. 34 comporti l'esclusione dall'istruzione superiore degli handicappati in quanto “incapaci” equivarrebbe a postulare come dato insormontabile una disuguaglianza di fatto rispetto alla quale è invece doveroso apprestare gli strumenti idonei a rimuoverla, tra i quali è appunto fondamentale l'effettivo inserimento di tali soggetti nella scuola”.
[39] Sul punto, si veda C. Daniele, Alunni portatori di handicap nelle scuole superiori, in Riv. giur. della scuola, 1987, pp. 773-774.
[40] Nella sentenza 4 luglio 2001, n. 226, la Corte sostiene che “il diritto all’istruzione delle persone handicappate deve intendersi in senso estensivo, essendo finalizzato al raggiungimento degli obiettivi propri di ciascun ordine e grado di scuola ma nell’ambito di quelli perseguiti attraverso la integrazione scolastica”.
[41] Si tratta dell’art. 2, commi 413 e 414, della legge n. 244 del 2007.
[42] Per un approfondimento, si veda L. Nannipieri, Il diritto all’istruzione del disabile nelle fonti nazionali tra problemi definitori, giurisprudenza costituzionale e giudici di merito, in rivistaaic.it, n. 3, 2012, pp. 5-7.
[43] Per un commento sulla sentenza 16 dicembre 2016, n. 275, si veda A. Apostoli, I diritti fondamentali “visti” da vicino dal giudice amministrativo. Una annotazione a “caldo” della sentenza della Corte costituzionale n. 275 del 2016, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2016; L. Madau, “È la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione”. Nota a Corte cost. n. 275/2016, in osservatorioaic.it, Fasc. 1, 2017; A. Longo, Una concezione del bilancio costituzionalmente orientata: prime riflessioni sulla sentenza della Corte costituzionale n. 275 del 2016, in federalismi.it, n. 10, 2017; L. Ardizzone, R. Di Maria, La tutela dei diritti fondamentali ed il “totem” della programmazione: il bilanciamento (possibile) fra equilibrio economico-finanziario e prestazioni sociali (brevi riflessioni a margine di Corte cost., sent. 275/2016), in dirittiregionali.it, Fasc. II, 2017.
[44] Sul punto, la Corte afferma che “condizionare il finanziamento del 50% delle spese già quantificate dalle Province (in conformità alla pianificazione disciplinata dallo stesso legislatore regionale) a generiche ed indefinite previsioni di bilancio realizza una situazione di aleatorietà ed incertezza, dipendente da scelte finanziarie che la Regione può svolgere con semplici operazioni numeriche, senza alcun onere di motivazione in ordine alla scala di valori che con le risorse del bilancio stesso si intende sorreggere”.
[45] In particolare, la Corte ha statuito che “è la garanzia dei diritti incomprimibili a incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di quest’ultimo a condizionarne la doverosa erogazione”.
[46] Si ricordi che, la Corte, con la sentenza 11 aprile 2019, n. 83, è tornata a pronunciarsi sul tema.
[47] Cons. Stato, Sez. V, 7 febbraio 2018, n. 80. Sull’influenza generale delle pronunce costituzionali sui giudici comuni in materia, si veda F. Gambardella, Diritto all’istruzione dei disabili e vincoli di bilancio nella recente giurisprudenza della Corte Costituzionale, in Nomos-Le attualità nel diritto, n. 1, 2017, pp. 11-16.
[48] Si ricordi che, la pronuncia della Corte Costituzionale prende le mosse da un ricorso avanzato dalla Regione Veneto contro talune disposizioni della legge 27 dicembre 2017, n. 205, tra cui il comma 70 dell’art. 1, che ha rifinanziato per il 2018, un contributo alle spese delle Regioni relative a talune funzioni che, a seguito del processo di riordino delle Province, sono state alle stesse attribuite a partire dal 1°gennaio 2016, per effetto dell’art. 1 comma 947 della legge 28 dicembre 2015, n. 208.
[49] Art. 13, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104.
[50] Art. 139, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112.
[51] Si ricordi che, nelle sentenze 23 giugno 1964, n. 75 e 29 marzo 1980, n. 36, la Corte Costituzionale ha precisato che il termine lavoratore di cui all’art. 36 Cost. non si riferisce solo al lavoratore subordinato, ma anche al lavoratore autonomo. Nella sentenza 10 dicembre 1987, n. 559, invece, la Consulta ha chiarito che il concetto di retribuzione ex art. 36 Cost. non è un “mero corrispettivo del lavoro, ma compenso del lavoro proporzionale alla sua quantità e qualità e, insieme, mezzo normalmente esclusivo per sopperire alle necessità vitali del lavoratore e dei suoi familiari, che deve essere sufficiente ad assicurare a costoro un’esistenza libera e dignitosa”.
[52] Come osservato da F. Politi, voce Diritti sociali, in Enc. Treccani, 2017, “la giurisprudenza riconosce quelli posti dall’art. 36 Cost. diritti soggettivi perfetti, inviolabili, irrinunciabili e inalienabili in quanto propri della persona umana come lavoratore”.
[53] G. Pera, Assunzioni obbligatorie e contratto di lavoro, Giuffrè, Milano, 1965, p. 118.
[54] Per un commento sulla sentenza, si veda F. Bile, Legittimità costituzionale della costituzione coattiva di rapporti di lavoro, in Giust. civ., 1960, pp. 167 ss.
[55] In termini analoghi, si veda Corte Cost. 11 luglio 1961, n. 55 e Corte Cost. 25 maggio 1985, n. 173.
[56] D.lgs. 14 settembre 2015, n. 151.
[57] Cassazione civile, Sez. lav., 15 marzo 2017, n. 6771.
[58] In termini analoghi, si veda Cass. civile, 28 aprile 2017, n. 10576.
[59] Tale modello è stato elaborato verso la fine degli anni ‘70 dall’Union of Physically Impaired Against Segregation (UPIAS), fondata nel 1974. In particolare, C. Barnes, Capire il modello sociale della disabilità, in Intersticios, Vol. 1, 2018, p. 90, osserva che “il modello sociale di disabilità è uno strumento con cui è possibile smascherare le tendenze “disabilizzanti” della società moderna per generare politiche e pratiche in grado di facilitarne lo sradicamento. Non è una teoria, anche se è stata il fondamento per lo sviluppo di un approccio pratico onnicomprensivo come spiegato nel lavoro di Mike Oliver”. Sul recepimento di tale modello da parte della Corte Costituzionale, si veda D. Ferri, La giurisprudenza costituzionale sui diritti delle persone con disabilità e lo Human Rights Model of Disability: “convergenze parallele” tra Corte costituzionale e Comitato ONU sui diritti delle persone con disabilità, in dirittifondamentali.it, Fasc. 1, 2020, pp. 528-535.
[60] Si ricordi che, a margine di tale Trattato è stata approvata una dichiarazione allegata all’art. 95 TCE (attuale art. 114 TFUE), secondo la quale nella predisposizione di misure volte all’uniformazione del mercato interno si deve tenere conto delle “esigenze delle persone con disabilità”.
[61] L’art. 5 della suddetta Direttiva prevede che “il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, ameno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l'onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili”.
[62] Si tratta dell’art. 21, il c.d. principio di discriminazione, in base al quale “è vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l'etnia o le tendenze sessuali” e dell’art. 26, per il quale “l'Unione riconosce e rispetta il diritto dei disabili di beneficiare di misure intese a garantirne l'autonomia, l'inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità”.
[63] Oltre a tali atti, degna di considerazione risulta anche la Risoluzione sulle pari opportunità per gli alunni e gli studenti disabili nel settore dell’istruzione e della formazione del 5 maggio 2003, n. C134, tramite cui il Consiglio invita gli Stati Membri e la Commissione a favorire e a sostenere la piena integrazione dei bambini e dei giovani con esigenze specifiche nella società impartendo loro l’istruzione e la formazione adeguate, sostenendo il loro inserimento in un sistema scolastico adatto alle personali esigenze, ed a rendere l’apprendimento più accessibile ai disabili (in A. Tamborrino, Tutela giuridica delle persone con disabilità, Key, Milano, 2019. p. 80).
[64] Per un approfondimento sul tema, si veda R. Mastroianni, Trattato di Lisbona: osservazioni critiche sulla procedura legislativa e sul ruolo del Parlamento europeo e dei parlamenti nazionali, in ASTRID, Le nuove istituzioni europee. Commento al nuovo Trattato europeo (a cura di F. Bassanini, G. Tiberi), Il Mulino, Bologna, 2008.
[65] Ai sensi dell’art. 10 del TFUE: “Nella definizione e nell'attuazione delle sue politiche e azioni, l'Unione mira a combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale”. Sul tema, si veda V. Piccone, Parità di trattamento e principio di non discriminazione nell’ordinamento integrato, in questionegiustizia.it, 2017.
[66] Sul tema, si veda D. Ferri, L’Unione europea e i diritti delle persone con disabilità: brevi riflessioni a vent’anni dalla prima “Strategia”, in Politiche sanitarie, Vol. 17, n. 2, 2016, pp. 122-123.
[67] Si ricordi che, a seguito della ratifica, la Convenzione è diventata parte integrante del diritto dell’Ue, assumendo rango costituzionale.
[68] Si pensi, alla Dichiarazione sui diritti delle persone con ritardo mentale del 1971, avente l’obiettivo di precisare che i soggetti mentalmente deboli avessero gli stessi diritti umani di tutti gli altri individui; alla Dichiarazione dei diritti delle persone con disabilità del 1975, incentrata sulla promozione dei diritti fondamentali di tutte le persone diversamente abili; alle Regole per le pari opportunità delle persone disabili adottate dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1993, le quali richiedono agli Stati membri un impegno morale e politico ad agire e a cooperare nella definizione di strategie per la parità di opportunità dei disabili.
[69] Si tratta dei c.d. diritti di prima generazione, solitamente contemplati nella parte iniziale degli atti normativi internazionali. Vi sono, poi, i diritti economici, sociali e culturali, c.d. diritti di seconda generazione (si pensi, ad esempio, al diritto all’istruzione e al diritto al lavoro).
[70] R. Cera, voce La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, in Enc. Trecc., 2009.
[71] L. Simonetti, La Convenzione ONU sui diritti dei disabili, in I diritti dell’uomo: cronache e battaglie, Fasc. III, 2007, p. 75.
[72 G. Quinn, The Un Convention on the Rights of Persons with Disabilities, Brill, Leiden-Boston, 2009, p. 35.
[73] Sul tema, si veda F. Masci, La tutela costituzionale della persona disabile, in federalismi.it, Fasc. 1, 2020, pp. 148-152.
[74] M. R. Marella, Art. 8, Legislazione, in Handicap e diritto. Legge 5 febbraio 1992, n. 104, legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, in P. Cendon (a cura di), Torino,1997, p. 94.
[75] Tale fattispecie penale, abrogata dalla l. 15 febbraio 1966, n. 66, prevedeva che: “Chiunque, con violenza o minaccia, costringe taluno a congiunzione carnale è punito con la reclusione da tre a dieci anni. Alla stessa pena soggiace chi si congiunge carnalmente con persona la quale al momento del fatto: non ha compiuto gli anni quattordici; non ha compiuto gli anni sedici, quando il colpevole ne è l'ascendente o il tutore, ovvero è un'altra persona a cui il minore è affidato per ragioni di cura, di educazione, d'istruzione, di vigilanza o di custodia; è malata di mente, ovvero non è in grado di resistergli a cagione delle proprie condizioni d'inferiorità psichica o fisica, anche se questa è indipendente dal fatto del colpevole; è stata tratta in inganno, per essersi il colpevole sostituito ad altra persona”.
[76] Ai sensi dell’art. 609-bis: “Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni. Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali: abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto; traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona”.
[77] A. Rotelli, I diritti della sfera sessuale delle persone con disabilità, in questionegiustizia.it, 2016.
[78] Con riguardo ai vari ordinamenti giuridici, si veda B. Casalini, Disabilità, immaginazione e cittadinanza sessuale, in Etica & Politica, XV, 2013, pp. 303-309.
[79] Il suddetto Comitato, conosciuto come Love Giver, intende per assistente sessuale un operatore professionale (uomo o donna) con orientamento bisessuale, eterosessuale o omosessuale che deve avere delle caratteristiche psicofisiche e sessuali “sane” (importanza di una selezione accurata degli aspiranti assistenti sessuali). Attraverso la sua professionalità supporta le persone diversamente abili a sperimentare l’erotismo e la sessualità. Questo operatore, formato da un punto di vista teorico e psicocorporeo sui temi della sessualità, permette di aiutare le persone con disabilità fisico-motoria e/o psichico/cognitiva a vivere un’esperienza erotica, sensuale e/o sessuale.
[80] Occorre sottolineare che, l’assistenza sessuale non ha nulla a che vedere con la prostituzione.
81] Per un commento sulla sentenza, si veda R. Belli, Uno scivolone della Corte nega l’autodeterminazione e suona il de profundis per i disabili, in Osservatorio sulle fonti, Fasc. 3, 2018.
[82] In particolare, si veda Corte Cost. 18 luglio 2013, n. 203; Corte Cost. 23 settembre 2016, n. 213. Sulla sentenza del 2013, si veda E. Longo, La rilettura dei diritti sociali passa per il congedo straordinario a tutela di un parente disabile, in Giur. Cost., 2013. Sulla sentenza del 2016, invece, si veda A. Cordiano, La dichiarazione di incostituzionalità della legge 104/1992 e l’estensione del beneficio del permesso al lavoratore convivente di fatto, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2016; L. Pedullà, La sent. "additiva" n. 213 del 2016 della Corte costituzionale estende al convivente more uxorio del soggetto disabile grave i benefit previsti dall'art. 33, co. 3 della L. n. 104/92, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2017; M. Caldironi, L’incostituzionalità della legge 104/1992 tra costruzione e ricostruzione della ratio legis. Brevi cenni su Corte Cost., sent. 213 del 2016, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2017.
[83] In particolare, nella sentenza del 2013, la Corte Costituzionale afferma che tramite tali strumenti “lo Stato eroga una provvidenza sociale in forma indiretta, sostenendo gli oneri relativi al congedo straordinario retribuito, che consentono al lavoratore di farsi carico dell’assistenza di un parente disabile grave, percependo un’indennità commisurata alla retribuzione”. In concreto, il legislatore “ha inteso, dunque, farsi carico della situazione della persona in stato di bisogno, predisponendo anche i necessari mezzi economici, attraverso il riconoscimento di un diritto al congedo in capo ad un suo congiunto, il quale ne fruirà a beneficio dell’assistito e nell’interesse generale. Il congedo straordinario è, dunque, espressione dello Stato sociale che si realizza, piuttosto che con i più noti strumenti dell’erogazione diretta di prestazioni assistenziali o di benefici economici, tramite facilitazioni e incentivi alle manifestazioni di solidarietà fra congiunti”.
[84] Corte Cost. 13 luglio 2018, n. 158.
[85] Nella suddetta sentenza, la Corte evidenzia il legame tra l’istituto e la finalità della legge n. 104 del 1992, affermando che il diritto al congedo straordinario “rimane privo di concreta attuazione proprio in situazioni che necessitano di un più incisivo e adeguato sostegno, come quella, prospettata dal giudice rimettente, nella quale la presenza del genitore totalmente invalido e privo di autonomia - che nella specie ha altresì diritto ad assistenza - esclude che possano beneficiare dell’agevolazione in esame il fratello o la sorella conviventi del soggetto diversamente abile, benché questi si diano cura di entrambi. Ai fini della tutela prevista nella norma, la scomparsa del genitore deve essere considerata alla stregua dell’accertata impossibilità dello stesso ad occuparsi del soggetto handicappato”. Per un commento sulla suddetta sentenza, si veda F. Girelli, Ai fratelli di persone con disabilità spetta il congedo straordinario retribuito non solo dopo la “scomparsa” dei genitori ma anche quando questi siano totalmente inabili, in associazionedeicostituzionalisti.it, 2005.
[86] Sul punto, si veda A. Scimia, L’assistenza familiare al soggetto disabile: la Corte Costituzionale estende al coniuge convivente il diritto al congedo straordinario retributivo, in federalismi.it, n. 5, 2008.
[87] Per un approfondimento sul tema, si veda F. Ferrucci, La disabilità come relazione sociale. Gli approcci sociologici tra natura e cultura, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ), 2004, pp. 130-141.
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