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Pubbl. Lun, 28 Dic 2020

Giusto processo nel sistema internazionale, italiano e canonico: le finalità del processo canonico

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Andrea Giovita
Dottore di ricerca



La finalità del diritto canonico è ordinare la vita della Chiesa nella sua doppia dimensione personale e comunitaria. Tale finalità non è immediatamente inseribile in una istanza giuridica meramente positiva, prendendo a prestito un sistema giuridico processuale statuale; perciò la Chiesa necessita di strumenti idonei al processo canonico nella sua peculiare essenza veritativa sia quando si tratta di accertare lo stato di vita delle persone (processi matrimoniali), sia nei processi contenziosi o penali. L’attenzione alla persona e contemporaneamente al caso concreto, uniti a un agire equitativo che guarda all’ermeneutica dei rapporti sociali e interpersonali, mette in evidenza gli obiettivi di verità e giustizia propri dei processi canonici, alla luce della norma missionis della Chiesa.


ENG The purpose of canon law is to order the life of the Church in its double personal and community dimension. This purpose cannot be immediately inserted into a purely positive juridical instance, by borrowing a state procedural juridical system; therefore the Church needs suitable instruments for the canonical process in its peculiar truthful essence both when it comes to ascertaining the state of life of persons (matrimonial processes), and in contentious or criminal processes. Attention to the person and at the same time to the concrete case, combined with an equitable action that looks at the hermeneutics of social and interpersonal relationships, highlights the objectives of truth and justice proper to canonical processes, in the light of the norm missionis of the Church.

Sommario: 1. Il giusto processo; 2. Il giusto processo nel diritto internazionale; 3. Il giusto processo nel diritto italiano; 4. La finalità del diritto e del processo canonico.

1. Il giusto processo

Il processo è predisposto dagli ordinamenti giuridici come strumento per risolvere situazioni controverse incidenti nella posizione giuridica soggettiva, sia quando le conseguenze delle disposizioni legali o altre fonti del diritto siano dubbie nel caso concreto, sia quando siano luogo a pretese soggettive incompatibili[1].

Questa finalità strumentale e applicativa di cui fa parte anche il processo canonico, deve essere armonizzata con la peculiarità dell’ordinamento ecclesiale che non recepisce l’aspirazione alla incontrovertibilità delle sue disposizioni giuridiche negli stessi termini di certezza, imperatività e coercibilità che sono invece caratteristiche cardine degli ordinamenti statuali e di gran parte delle fonti del diritto internazionale.

La finalità del diritto canonico è ordinare la vita della Chiesa, facendo attenzione che regole e precetti non imbriglino la sua doppia dimensione personale e comunitaria[2].

Tale finalità non è immediatamente inseribile in una istanza giuridica meramente positiva, prendendo a prestito un qualche sistema giuridico processuale statuale; per questo motivo, la Chiesa necessita di interrogare il diritto per poter trovare strumenti idonei al processo canonico nella sua peculiare essenza veritativa sia quando si tratta di accertare lo stato di vita delle persone, come accade nei processi matrimoniali, sia nei processi contenziosi o penali.

Inoltre, vuole essere strumento per stabilire l’oggettiva fondatezza delle convinzioni di coscienza dei fedeli e si caratterizza per un ricorso costante all’equità[3] intesa come giustizia del caso concreto, il cui obiettivo ultimo è la salus animarum[4].

L’assunzione dello strumento processuale da parte della Chiesa è un elemento costitutivo di quella scelta per il diritto che essa fece e sviluppò fin dai primi passi, non quindi per la mera legge positiva[5]. Non è luogo del mio studio soffermarmi sulla storia della recezione dello strumento processuale nella sua applicazione alle comunità ecclesiali.

I principi che reggono la struttura giuridica del processo sono tanto importanti da non poter essere interpretati come mera statuizione positiva, ma rappresentano un elemento dinamico per comprendere nel confronto processuale le originali e fondanti istanze di giustizia che il Diritto, in ogni ordinamento, è chiamato a non tradire. Queste caratteristiche risultano essenziali a tal punto che se venissero negate, si negherebbe il processo nella sua essenza, come metodo reale e vero di composizione delle controversie.

Potrebbe sembrare superfluo identificare il processo come giusto, come è ad esempio definito nella riformulazione dell’art. 111 della Costituzione Italiana. Che il processo debba essere giusto è chiaro e fondamentale[6]: chiaro, perché un istituto che amministra la giustizia non può trascurare di essere giusto, nel senso di praticare la giustizia; fondamentale, poiché la decisione sarà socialmente accettabile e accettata solo se il processo sarà svolto con determinate caratteristiche e ritualità[7].

La terminologia di giusto processo in realtà è una formula di antica e illustre ascendenza alle cui origini si trovano i concetti di fair trial e due process of law[8] nella trazione di common law angloamericana[9].

L’attributo di giusto però sembra suggerire una sorta di “eccedenza”, non accontentandosi di una parità, ma proponendo una dinamica processuale cognitiva fondata su un sapere che deve essere dialogicamente approfondito e dialetticamente elaborato, capace quindi di giungere a pronunciare una decisione giusta[10] almeno in linea di principio.

Il processo inoltre, molto spesso, è definito come giusto per il solo fatto che le sue procedure offrono, almeno teoricamente, la possibilità concreta e razionale di giungere a una decisione adeguata, il più possibile condivisa nei suoi fondamenti sostanziali e procedurali, tutto questo in tempi ragionevoli.

La ragionevolezza, che viene abbinata all’esigenza di celerità del processo esprime la necessità di un equilibrio nel quale siano contemperate le istanze di una giustizia amministrata senza ritardi, ma anche di una giustizia non frettolosa e sommaria[11]. Non si può non raggiungere la verità solo per limiti di tempo.

Il giusto processo diventa una esigenza diremmo quasi un vero e proprio diritto sul quale molti si interrogano non essendo un’istanza ben definita e pacifica in dottrina, ma in continuo divenire.

Vedremo l’esigenza di giusto processo sia in ambito internazionale che in ambito costituzionale statuale, questo ci permetterà di coglierne gli elementi fondamentali e di vedere come anche nella Chiesa sia un’istanza necessaria e dibattuta.

Queste premesse trovano uno sviluppo applicativo nel tradizionale concetto di giusto processo.

2. Il giusto processo nel diritto internazionale 

Il diritto al “giusto processo” compare in numerosi atti e convenzioni di diritto internazionale a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo[12].

Nonostante la diffusione di questa nozione, l’esistenza di un obbligo consuetudinario universale degli Stati di garantire determinati diritti processuali ai propri cittadini in campo civile ed amministrativo sembra difficilmente configurabile, a causa delle enormi differenze giuridiche sia sostanziali che processuali, senza tener conto delle discrepanze culturali che rendono difficile definire con esattezza quale forma di processo sia giusta.

Un discorso diverso vale per la materia penale, dove, a ragione dell’importanza dei diritti che vengono toccati, sia per la vittima sia per l’accusato, si è sostenuta l’esistenza di obblighi consuetudinari in capo ad entrambi[13].

L’esistenza di un principio del giusto processo anche in materia civile ed amministrativa nel diritto internazionale generale è riscontrabile all’interno delle norme inerenti al trattamento degli stranieri[14].

Il problema si è essenzialmente posto nel momento in cui bisognava definire cosa fosse un ricorso effettivo, il cui mancato esperimento potesse inibire l’esercizio della protezione diplomatica, sulla base del principio del “previo esaurimento dei rimedi interni”[15].

Una parte, più risalente, della dottrina internazionalistica ha delineato una più restrittiva nozione di “accesso alla giustizia”, la quale consisterebbe nel diritto a presentare un ricorso di fronte ad un tribunale ed a vederlo esaminato[16].

Tale nozione, eccessivamente formale e ristretta, è stata superata da un’idea di “accesso alla giustizia” come possibilità di fruire di un processo regolare, in quanto ispirato ai principi di correttezza ed equità, fondato sul principio della rule of law e della divisione dei poteri[17].

Il tema del giusto processo, pur essendo riconosciuta come un’esigenza, non è così pacifico e chiaro da potersi delineare sia a livello internazionale sia a livello dei singoli ordinamenti.

Infatti, tra gli articoli più importanti e discussi della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali (CEDU)[18], vi è senza dubbio l’art. 6 che al § 1 afferma che ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, precisa che la sentenza deve essere resa pubblicamente[19].

Per il § 2 si sottolinea la presunzione di innocenza: “Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata”.

Il § 3 lett. d, stabilisce che ogni accusato ha diritto di: esaminare o far esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico.

L’art. 6, è direttamente collegato con le altre norme a tutela del giusto processo, esso garantisce infatti numerosi diritti contenuti anche in altri strumenti internazionali: non soltanto il diritto ad un processo “equo”[20], ma anche ad un processo pubblico[21], ad una sentenza resa pubblicamente[22], il diritto ad un processo ragionevolmente celere[23] ed il diritto ad un tribunale indipendente, imparziale e stabilito per legge[24].

L’art. 6 della CEDU non prevede invece esplicitamente garanzie contemplate da altre norme internazionali in materia di giusto processo, come il diritto ad un giudice competente[25] oppure il diritto ad un doppio grado di giurisdizione[26].

Il fondamento dell’art. 6 è rappresentato dal principio della rule of law o principio della preminenza del diritto, che permea tutte le questioni inerenti alla sua interpretazione e applicazione.

I principi di indipendenza[27] ed imparzialità[28] del giudice sono strettamente connessi, tanto che il primo potrebbe essere considerato uno strumento in funzione del secondo[29].

Il principio del contraddittorio, pur non essendo espressamente nominato nell’art. 6[30], è desunto dall’utilizzo della parola “hearing” (udienza, ma anche “diritto di essere sentito”) nel testo della norma. Il principio del contraddittorio è usualmente enunciato col brocardo “audiatur et altera pars” ed è inteso come “incrocio delle attività mediante le quali ciascuna delle parti offre all’altra (od alle altre) ed al giudice i dati, le idee, le ragioni che ritiene meglio rappresentino i propri interessi ed interloquisce sui dati, le idee, le ragioni provenienti dall’altra (o dalle altre parti)”[31].

Il principio del contraddittorio implica la parità delle “armi” processuali[32], poiché difficilmente si potrà efficacemente verificare tale incrocio delle attività argomentative se le parti sono in posizione di ineguaglianza.

Il principio della “parità delle armi” ha importanti conseguenze sul processo amministrativo, nel quale una delle parti è generalmente la Pubblica Amministrazione e quindi un soggetto che non è strutturalmente e funzionalmente in posizione di parità con le parti private.

Il diritto ad un processo e ad una sentenza pubblica mira a preservare la credibilità degli organi giudiziari e, con la trasparenza che conferisce all’amministrazione della giustizia, contribuisce alla realizzazione di un giusto processo[33]. L’art. 6 garantisce inoltre che il processo si concluda in un “reasonable time”.

La Corte ha allora elaborato tre criteri utili per definire se vi sia stata o meno violazione del termine ragionevole garantito dall’art. 6: la complessità del caso in fatto e in diritto; la condotta delle autorità nazionali, sia giudiziarie che amministrative (rinvii d’ufficio, sostituzioni di magistrati, atti nulli, ritardi, ecc.); la condotta del ricorrente nel processo in cui sostiene si sia violato l’art. 6[34].

Il diritto ad un processo ragionevolmente celere è diretto ad impedire che la situazione di incertezza giuridica in cui si trova il destinatario della decisione nel corso del processo si protragga oltre il termine necessario per addivenire ad una decisione accurata[35].

3. Il giusto processo nel diritto italiano

Il principio del giusto processo di origine convenzionale, grazie all’opera del legislatore costituzionale italiano, ha trovato una precisa collocazione attraverso la riformulazione dell’art. 111 della Costituzione.

Anche prima di tale fondamentale modifica costituzionale, sono stati numerosi i richiami fatti all’art. 24, 1° comma, della Costituzione, al fine di sostenere la costituzionalizzazione delle norme convenzionali relative soprattutto al diritto di difesa.

Tale articolo (prevedendo che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”) ha rappresentato, sino alla riforma dell’art. 111, la norma fondamentale per la tutela costituzionale del giusto processo in Italia[36].

La norma costituzionale riprende nelle sue linee fondamentali l’art. 6 della CEDU, anche se con una differenza di impostazione: nella Convenzione le garanzie sono formulate in termini di diritto soggettivo, mentre nel nuovo art. 111 Cost. tali garanzie sono poste come elementi oggettivi del giusto processo, come principi di diritto.

Questi principi sono in tale norma costruiti come limiti destinati ad operare nei confronti del legislatore nell’elaborazione della disciplina che regola lo svolgimento del processo.

Tuttavia, tale differenza risulta stemperata nella concreta interpretazione delle due norme, le quali sono entrambe considerate tanto un canone oggettivo quanto un diritto individuale[37].

L’espressione giusto processo, contenuta nel primo comma, rappresenta tutto l’insieme dei diritti processuali tutelati dalle norme costituzionali, corrispondente a una serie di valori condivisi dalla collettività, percepiti come principi di civiltà giuridica e parte essenziale dello Stato di diritto[38].

Il giusto processo, continua la norma citata, è regolato dalla legge. Con ciò si pone dunque una riserva di legge rispetto alla normazione di ogni forma di esercizio della giurisdizione. Tale riserva sembra essere di natura assoluta poiché espressa in termini molto chiari si afferma che il processo deve essere regolato dalla legge, piuttosto che in base alla legge[39] ed è una novità nel dettato costituzionale.

Quindi, dopo l’approvazione della riforma, non potrebbe più adottarsi alcun tipo di disciplina processuale mediante norme di rango non legislativo. Tuttavia, non sembra essere incompatibile con la ratio della norma la predisposizione, da parte del legislatore, di norme che contengano un certo margine di elasticità e che siano dunque aperte al contributo degli atti regolamentari[40].

Il principio del contraddittorio, enunciato nel primo comma dell’art. 111 Cost., potrebbe sembrare una tautologica ripetizione di un dato già acquisito dalla precedente dottrina e giurisprudenza costituzionale. In realtà, se è vero che esso è già implicitamente dichiarato dall’art. 24, 2° comma, la sua riaffermazione esplicita nella Costituzione non è del tutto inopportuna, in quanto idonea a sottolineare che il contraddittorio, oltre ad essere diritto delle parti, è regola del processo per il giudizio[41].

Per quel che concerne il principio di imparzialità del giudice il suo inserimento nel panorama delle garanzie afferenti al processo merita di essere apprezzato perché mette in chiaro che l’imparzialità, in quanto concetto ben distinto dall’indipendenza, non deve dunque essere in nessun caso presunta ove il giudice non sia sottoposto ad un’autorità superiore, come si era in una risalente giurisprudenza di legittimità ritenuto[42].

Riguardo, infine, al principio della ragionevole durata del processo, tale norma, pur esplicitamente introdotta nel nostro ordinamento attraverso la riforma costituzionale, era già in precedenza ricavabile dal combinato disposto degli articoli 3 e 24 Cost.[43], tanto che la sua introduzione nell’art. 111, comma 2, è addirittura stata considerata inutile da una parte della dottrina[44].

Il concetto di giusto processo vi assume un significato sostanziale, in quanto sottolinea la portata relazionale[45] delle diverse garanzie costituzionali afferenti al processo e la loro stretta interdipendenza funzionale. Infatti, esse non devono più venir lette come entità a sé stanti, ma in un’ottica dinamica e sistemica.

Il giusto processo con le sue caratteristiche peculiari poggia su due principi di fondo che possiamo identificare nei pilastri di verità e di giustizia. Gli elementi che costituiscono il giusto processo, come abbiamo visto, sono portatori di desiderio, di anelito di verità e di realizzazione della giustizia, tutelando la persona e la comunità.

Nel giusto processo l’elemento unificante è il diritto all’argomentazione della propria visione processuale unita a superare la ristretta visione di parte e aprirsi alla prospettiva veritativa, sia in ambito internazionale (CEDU), sia nella costituzione italiana con l’artico 111, nel diritto canonico con il § 2 del c. 221 CIC’83 che assicura il diritto al contraddittorio nel processo giudiziale. Comunque, detto processo non è affermato come l’unico modo per infliggere le pene canoniche: I fedeli hanno il diritto di non essere colpiti da pene canoniche, se non a norma di legge (§ 3).

4. La finalità del diritto e del processo canonico

L’attenzione alla persona e contemporaneamente al caso concreto, uniti a un agire equitativo[46] che guarda all’ermeneutica dei rapporti sociali e interpersonali, mette in evidenza gli obiettivi di verità e giustizia propri dei processi canonici, alla luce della norma missionis della Chiesa[47].

Tale dinamismo è in opera anche quando è lo stesso istituto processuale, volto ad amministrare giustizia nelle situazioni concrete di tensione o incertezza, a essere chiamato a un rinnovamento, perché «ogni proposta di riforma esige di prestare speciale attenzione all’inscindibile rapporto tra fondamento e metodo. […] Le esigenze della missione obbligano a disegnare metodi idonei a rendere testimonianza di una cultura processuale all’altezza di detti obiettivi, nel segno della miglior tradizione».[48]

Le esigenze proprie della norma missionis obbligano a organizzare il processo al fine di poter rendere testimonianza di una cultura processuale all’altezza della missione della Chiesa[49].

La dinamica processuale ruota intorno alla centralità della persona, libera e responsabile, titolare di diritti e doveri giuridici, necessariamente in relazione dialogica con l'altro, attenta al tu del rapporto giuridico.[50].

In questa prospettiva, il processo non può essere solo espressione dell’utilitarismo individualista, per il quale la massima realizzazione del giusto è il vantaggio per sé; il processo canonico invece nascendo e sviluppandosi in un irrinunciabile spazio di comunione, tratta ciascuna istanza come se essa sia al tempo stesso individuale perché ciascuno riconosca la propria identità, e personale perché nel riconoscersi ciascuno incontra l’altro e ne assume la prospettiva; nel rispetto delle procedure nella consapevolezza che nel confronto libero e dialogico che si sviluppa nella razionalità delle argomentazioni si afferma il bene e si crea quella comunione necessaria affinché tutti possano trovarsi nelle condizioni di ricercare la Verità oggettiva attraverso gli strumenti del giusto processo[51].

Rifiutando la tentazione di invadere la vita delle persone con norme e regole, l’ordinamento canonico preferisce orientarsi a una dinamica fatta di valutazioni, secondo una logica di tipo analoga al modello giurisprudenziale, capace di affrontare i casi concreti sulla base di criteri per applicare le norme già esistenti alle nuove situazioni, senza cristallizzare queste in norme[52].

Si aggiungono poi l’analogia, in base a quando disposto per i casi simili, i principi generali del diritto, la giurisprudenza, la dottrina del magistero e degli autori quando è comune e costante, il tutto da applicare con equità, intesa come elemento dinamico della giurisdizione, attenta all’ordine sempre mutabile delle cose[53].

Il problema è quello di dimostrare, da una parte, il carattere non assoluto della proposizione secondo cui nella Chiesa il diritto al giusto processo richiede sempre il processo giudiziale, relativizzando quindi l’interpretazione dei Principi per la riforma del CIC approvati dal Sinodo del 1967.

Dall’altra parte, bisognerà continuare a identificare le condizioni richieste dal contraddittorio come previsto nel Diritto Internazionale dall’art. 6 CEDU e nella Costituzione Italiana dall’art. 111, anche il diritto canonico nella scelta per il Diritto nella sua via processuale, nonostante la possibilità della via amministrativa che chiaramente deve comunque essere intesa come eccezione e mai del tutto slegata dal principio del contraddittorio.

Nel diritto canonico però né il c. 221 del CIC, né il c. 24 del CCEO sono canoni di natura costituzionale, né le norme di procedura penale recepiscono in modo pieno l’identificazione fra il concetto canonico di diritto al giusto processo e quello di diritto al processo giudiziale, pur affermando la preferenza per la via giudiziale quando essa sia, di fatto, possibile e non diventi, anche nella realtà della prassi canonica, un ostacolo per tutelare il bene comune della Chiesa, bene che include necessariamente la tutela reale del diritto di difesa dell’accusato.

Comunque, tale preferenza per la via giudiziale non si riscontra sempre, considerata la piena legittimità della procedura amministrativa purché rispetti gli elementi essenziali del diritto di difesa.

La disamina della giurisprudenza della Rota Romana sul diritto al giusto processo[54] dimostra che nell’ordinamento canonico vi è una sostanziale equivalenza, fondata sul diritto naturale, fra il diritto all’equo processo e quello al contraddittorio e al diritto di difesa come mezzi per garantire la giustizia della decisione, cioè essa riflette l’assioma: giusto processo è quello che meglio garantisce il raggiungimento della verità, senza eccessi, né scrupoli patologici[55]. Anche G. Dalla Torre giunge alla conclusione che:

«l’ordinamento canonico non si accontenta mai della mera “verità processuale”, dinnanzi alla quale spesso i giudici secolari debbono arrestarsi a tutela del principio di certezza del diritto, ma si propone di perseguire - per quanto umanamente possibile - la “verità vera”. In definitiva, è proprio il raggiungimento della “verità vera” che costituisce, al tempo stesso, ragione e obbiettivo del “giusto processo” ».[56]

Tale impostazione del giusto processo non richiede in modo univoco il processo giudiziale, bensì la concretizzazione di una dinamica atta a ricercare la verità perché assicura alle parti implicate la conoscenza di tutte le prove e la possibilità di contraddirle e perché offre un sostanziale diritto al doppio grado di giurisdizione. Perciò, con un sapiente atteggiamento giurisprudenziale, proprio del diritto canonico classico, è stato affermato che il problema del giusto processo attiene precisamente alla realtà dello svolgersi della funzione giudicante, alla concretezza della prassi[57].

Quindi il processo (giudiziale o amministrativo) sarà giusto se servirà efficacemente a offrire i mezzi idonei a garantire, per quanto possibile, il raggiungimento della verità[58], come sottolinea Elena Di Bernardo: “solo una decisione che corrisponda alla verità effettiva dei fatti realizza in pieno le istanze della giustizia”[59].

Inoltre, l’ultimo discorso alla Rota di S. Giovanni Paolo II ebbe a tema la verità come fine del processo[60]. Il Papa usava parole forti, rivolte a quanti sono costituiti in autorità e devono prendere decisioni nelle quali il margine di discrezionalità è minimo perché sono molto pregnanti le esigenze di giustizia implicate in una causa, come, ad esempio, in quelle di nullità del matrimonio o penali, senza che tale decisione secondo verità possa essere condizionata dal timore di dispiacere le persone implicate[61].

Nella sua prima allocuzione, Benedetto XVI desiderò ritornare al fulcro di ciò che rende giusto il processo, ovvero essere strumento di verità in tanto in quanto vengono applicati mezzi che servono a raggiungerla, malgrado ciò sia non di rado complesso:

«Il processo canonico di nullità del matrimonio costituisce essenzialmente uno strumento per accertare la verità sul vincolo coniugale. Il suo scopo costitutivo non è quindi di complicare inutilmente la vita ai fedeli né tanto meno di esacerbarne la litigiosità, ma solo di rendere un servizio alla verità.

L’istituto del processo in generale, del resto, non è di per sé un mezzo per soddisfare un interesse qualsiasi, bensì uno strumento qualificato per ottemperare al dovere di giustizia di dare a ciascuno il suo.

Il processo, proprio nella sua struttura essenziale, è istituto di giustizia e di pace. In effetti, lo scopo del processo è la dichiarazione della verità da parte di un terzo imparziale, dopo che è stata offerta alle parti pari opportunità di addurre argomentazioni e prove entro un adeguato spazio di discussione.

Questo scambio di pareri è normalmente necessario, affinché il giudice possa conoscere la verità e, di conseguenza, decidere la causa secondo giustizia».[62]

Riguardo al giusto processo come strumento di verità grazie ai suoi elementi essenziali e in particolare al contraddittorio, G. Dalla Torre fa notare «che la nozione di “giusto processo” ha una certa indeterminatezza di contorni e di contenuti.

Le diverse espressioni convergono però sostanzialmente nel sottolineare l’esigenza che l’ascolto delle diverse ragioni delle parti nel processo, da parte di chi deve giudicare, sia ispirato a correttezza, lealtà, equità».[63]

Ora, se nel processo giudiziale penale[64] il Vescovo diocesano ha la completa disponibilità dell’azione penale (che richiede un particolare fumus boni iuris emerso dall’indagine previa o dall’evidenza del delitto) e, nella generalità delle cause, può essere anche il giudice monocratico (c. 1425 § 1, 2º), non sembra che la procedura amministrativa penale possa intaccare di per sé, necessariamente, le garanzie richieste dal diritto al giusto processo, benché, il processo giudiziale con giudici vicari sia da preferire, quando non sia di fatto impossibile, perché garantisce meglio rispetto alla procedura amministrativa l’indipendenza e la terzietà di chi decide la causa[65].

Non vi è alcun dubbio che i contenuti essenziali del diritto di difesa sono il dialogico contraddittorio che fanno parte di un discorso che coinvolge i principi guida del diritto naturale, indipendentemente dalla natura amministrativa o giudiziale della procedura.

Pertanto, il diritto a conoscere l’identità del denunciante, l’oggetto preciso della denuncia e le relative prove, e a contraddirle, non può mancare in ogni processo giusto (giudiziale o amministrativo).

E ciò non solo perché è richiesto dal diritto di difesa, ma anche perché, se è la persona la centro e l’istanza che ci muove è la norma missionis: in una dinamica dialogica, perciò i detti istituti sono strumenti preziosi e necessari per assicurare la ricerca della verità, in un’ottica di giustizia.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Cfr. M.J. Arroba Conde, Diritto processuale canonico, Roma 2012.

[2] Cfr. A. Iaccarino, Verità e Giustizia, per un’ontologia del pluralismo, Roma 2008.

[3] M.J. Arroba Conde – C. Izzi, Pastorale giudiziaria e prassi processuale, cit., p.50.

[4] M.J. Arroba Conde, la misericordia nel diritto occidentale, in «Monitor Ecclesiasticus» 130 (2015), p.540-542.

[5] M. Arroba – C. Izzi, Pastorale giudiziaria e prassi processuale, cit., p.47 nota 1.

[6] P. Ferrua, il “giusto processo”, Bologna 2012, p.87.

[7] Ossia nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale. Molti studi di stampo sociologico hanno dimostrato che una impressione positiva sulla procedura eseguita aumenta la disponibilità ad accettare sentenze pronunciate contenenti misure che comportano svantaggi. Afferma Ferrua: “l’ingiustizia di una procedura è molto più dannosa che l’ingiustizia di una decisione” cfr. Ibidem.

[8] Due process of law esprime l’esigenza di legalità, nel senso che sottolinea una vera e propria necessità di rispettare le regole nella procedura, questo mette in evidenza un principio fondamentale che è il principio di legalità. Fair trial (l’attributo tradotto con equo/giusto processo) si ispira e suggerisce l’idea di un equilibrio simmetrico, riferimento esplicito a quella parità in cui le parti dovrebbero trovarsi quando chiamate davanti al giudice.

[9] Ibidem. p.86.

[10] G. Giorgio, La via del comprendere, epistemologia del processo di diritto, Torino 2015. p.211.

[11] Ibidem.

[12] L’art.10 stabilisce infatti che: «Everyone is entitled in full equality to a fair and public hearing by an independent and impartial tribunal, in the determination of his rights and obligations and of any criminal charge against him».

La Dichiarazione, come è noto, non è di norma vincolante per gli Stati, ma il diritto all’equo processo è stato in seguito ripreso da numerosi strumenti internazionali: l’art. 14 del Patto internazionale per i diritti civili e politici; l’art. XVIII della Dichiarazione americana sui diritti e i doveri dell’uomo del 2 maggio 1948; l’art. 8 della Convenzione americana sui diritti dell’uomo; l’art. 7 della Carta africana sui diritti dell’uomo e dei popoli del 26 giugno 1981; l’art. 19 della Dichiarazione del Cairo sui diritti dell’uomo nell’Islam del 5 agosto 1990 (oltreché in vari atti e documenti elaborati nell’ambito della Comunità e dell’Unione Europea, i quali saranno trattati specificamente oltre). Disposizioni sul giusto processo sono inoltre presenti nell’art. 21 dello Statuto del Tribunale delle Nazioni Unite per i crimini commessi nella ex-Jugoslavia, nell’art. 20 dello Statuto del Tribunale delle Nazioni Unite per i crimini commessi in Ruanda e degli articoli 55 e 65-67 dello Statuto della Corte penale internazionale.

[13] Cfr. F. Francioni, Access to Justice as a Human Right, Oxford, 2007, p. 34 e ss.

[14] Come è noto, il diritto internazionale consuetudinario predispone una serie di obblighi per gli Stati nei confronti dei cittadini stranieri che, a vario titolo, si trovano sotto la loro giurisdizione. Fra questi, fermo restando il fatto che la disciplina del proprio sistema processuale resta appannaggio degli Stati, la possibilità di accedere al sistema giudiziario di tale Stato al fine di far valere le proprie situazioni giuridiche soggettive riveste un ruolo alquanto significativo. In merito all’ampiezza di tale obbligo di “accesso alla giustizia” si è ampiamente discusso in dottrina.

[15] Cfr. F. Salerno, Diritto Internazionale. Principi e norme, II edizione, Padova, 2011, p. 330 e 494-495.

[16] In questa direzione, l’Inter-American Juridical Committee ha affermato che: «The obligation of the State regarding judicial protection shall be considered as having been fulfilled when it places at disposal of foreigners the nazional court and the legal remedies essential for implementing their rights. The State cannot initiate diplomatic claims for the protection of its nationals nor bring an action before an international tribunal for this purpose when the means of resorting to the competent courts of the respective State have been made available».

Report of the Inter - American Juridical Committee, in M.M. Whiteman, Digest of international law, 1973, p 727. Nel medesimo senso, il rappresentante salvadoregno al Comitato di esperti per la progressiva codificazione del diritto internazionale ha definito il “diniego di giustizia” nella seguente maniera: “Denial of justice is therefore a refusal to grant foreigners free access to the courts instituted in a State for the discharge of its judicial functions, or the failure to grant free access, in a particular case, to a foreigner who seeks to defend his rights, although, in the ciscumstances, nationals of the State would be entitled to such access”.

[17] F. Francioni, Access to Justice, cit., p. 3.

[18] Le violazioni dei diritti sostanziali e processuali riconosciuti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), sono sanzionate dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, o Corte di Strasburgo (artt. 19 e ss. CEDU). La competenza della CEDU è sancita dall’art. 32 CEDU, a norma del quale essa “si estende a tutte le questioni riguardanti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli che le verranno sottoposti alle condizioni previste dagli artt. 33, 34, 46 e 47”. La Corte ha natura contenziosa, eccetto l’ipotesi dei pareri consultivi. Si potrà adire la CEDU, nel caso in cui si ritenga che lo Stato contraente non abbia rispettato gli obblighi contrattuali discendenti dall’art. 1 della Convenzione europea. CEDU e Corte sono fondamentali strumenti sovranazionali di tutela dei diritti umani. La modalità di accesso alla Corte prevede due tipi di ricorso: uno è il ricorso interstatale, solo per gli Stati membri, e l’altro il ricorso individuale, per i singoli (rispettivamente, artt. 33 e 34 CEDU). La Corte decide con sentenza definitiva e vincolante, garantendo, nella qualità di giudice ultimo della Convenzione, l’interpretazione conforme delle norme sovranazionali.

[19] L’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale, quando lo esigono gli interessi dei minori, la protezione della vita privata delle parti in causa o rischio di pregiudizio agli interessi della giustizia.

[20] Il diritto ad un processo “equo” è previsto anche dall’art. 14, par. 1 del Patto “All persons shall be equal before the courts and tribunals. In the determination of any criminal charge against him, or of his rights and obligations in a suit at law, everyone shall be entitled to a fair and public hearing by a competent, independent and impartial tribunal established by law. The press and the public may be excluded from all or part of a trial for reasons of morals, public order (ordre public) or national security in a democratic society, or when the interest of the private lives of the parties so requires, or to the extent strictly necessary in the opinion of the court in special circumstances where publicity would prejudice the interests of justice; but any judgement rendered in a criminal case or in a suit at law shall be made public except where the interest of juvenile persons otherwise requires or the proceedings concern matrimonial disputes or the guardianship of children”; dall’art. 8, par. 1 della Convenzione Americana dei diritti dell’uomo “Each person has the right to be heard, with due guarantees and within a reasonable time, by a competent, independent and impartial court, pre-established by law, for the determination of any criminal charge brought against him or for the determination of his rights or obligations in civil, labor, tax or any other nature”; dall’art. 19, lett. d) della Dichiarazione del Cairo sui diritti dell’uomo nell’Islam “There is no crime or punishment beyond what is foreseen by Shari'ah. An accused is innocent until his guilt is proven in fair trial in which he has all the guarantees of the defense”.

[21] Il diritto ad un processo pubblico si ritrova anche nell’art. 10 della Dichiarazione Universale; nell’art. 14, par. 1 del Patto; nell’art. 8, par. 5 della Convenzione americana (limitatamente ai procedimenti penali).

[22] Così anche l’art. 14, par. 1 del Patto.

[23] Il diritto ad un processo ragionevolmente celere è espresso anche dall’art. 8, par. 1 della Convenzione americana; dall’art. 7, par. 1, lett. d) della Carta africana; dall’art 14, del Patto (solo per i procedimenti penali).

[24] La medesima garanzia è prevista dall’art. 41, par. 1 e 47, par. 2 della Carta dell’Unione. L’art. 14, par .1 prevede invece soltanto che il tribunale sia “competente”, mentre la Carta africana richiama soltanto i requisiti della competenza e dell’imparzialità.

[25] Così come anche l’art. 14, par. 1 del Patto.

[26] Così l’art. 14, par. 5 del Patto “Everyone convicted of a crime shall have the right to his conviction and sentence being reviewed by a higher tribunal according to law”; e l’art. 8, par. 2, lett. h della Convenzione Americana. garantito poi dall’art. 2 del Protocollo n.7, solamente in caso di condanna per un illecito penale.

[27] L’indipendenza “refers to the connection between the judge and the administration”, indica la libertà da condizionamenti esterni e si suddivide in indipendenza funzionale (il giudice nel singolo processo deve giudicare esclusivamente secondo la propria scienza e coscienza, senza essere condizionato da altri), organica esterna (indipendenza dell’organizzazione giudiziale nel suo complesso dagli altri centri di potere) ed organica interna (autonomia del singolo giudice all’interno dell’organizzazione). G. Ubertis, Principi di procedura penale europea. Le regole del giusto processo, Milano 2000, p. 24.

[28] L’imparzialità “must exist in relation to the parties to the suit” rappresenta invece la mancanza di legami fra il Giudice e le parti, tali da influenzarne il giudizio. Si richiede, a tale scopo che il Giudice “does not allow itself to be to be influenced by information from outside the court room, by popular feeling, or by any pressure whatsoever, but bases its opinion on the ground of what has been put forward at the trial”. Distinguendo così fra imparzialità in senso soggettivo, con cui si prende in considerazione “the personal conviction of a given judge in a given case” (che si presume sino a prova contraria) ed in senso oggettivo, vale a dire la sussistenza di alcune esteriori apparenze, per accertare se il Giudice “offered guarantees sufficient to exclude any legittimate doubt in this respect”. P. van Dijk – G.J.H. van HOOF, Theory and Practice of the European Convention on Human Rights, L’Aia, 1998, p. 451; D. Liakopoulos, Equo processo nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo e nel diritto comunitario, Padova 2007, p. 39.

[29] M. Chiavario, Commento all’art. 6, in S. Bartole- B. Conforti- G. Raimondi (curr.), Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova 2001, p.181.

[30] A differenza per esempio dell’art. 111, comma 2 della Costituzione italiana: “Ogni processo si svolge in contraddittorio fra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale. La legge ne garantisce la ragionevole durata”.

[31] A. Tizzano, Durata ragionevole dei processi comunitari e problemi di convivenza a Lussemburgo, in Il Diritto dell’Unione Europea, 1999, pp 174 e ss.

[32] CEDU, sent. 23 febbraio 1994, Fredin c. Svezia, ricorso n. 18928/91. Vedi anche: M. Wasrek-Wiaderek, The principles of equality of arms, in Criminal Procedure under article 6 of the European Convention on Human Rights and its function in criminal justice of selected european countries: A comparative view, Leuven 2000.

[33] La pubblicità è d’altronde funzionale alla realizzazione delle altre garanzie processuali, permettendo la verifica del loro rispetto da parte del pubblico e della stampa. Tale garanzia processuale è l’unica rispetto alla quale l’art. 6 preveda un’espressa clausola di limitazione, che deve in ogni caso essere interpretata restrittivamente. Dal principio di pubblicità della sentenza si ricava per via interpretativa l’obbligo di motivazione della decisione, il quale ha lo scopo di rendere, dopo il termine del processo, pubblico e controllabile il ragionamento del soggetto decidente, soprattutto nell’ottica di valutare se e come abbia tenuto conto delle ragioni del ricorrente cfr. R. Clayton- H. Tomlinson, The Law of Human Rights, Oxford 2000.

[34] C. Consolo, Disciplina “municipale” della violazione del termine ragionevole di durata del processo: Strategie e profili critici, in «Il Corriere giuridico» 2001, pp. 570 e ss.

[35] D. Liakopoulos, Equo processo nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo e nel diritto comunitario, Padova, 2007, p. 105; M.G. Aimonetto, La “durata ragionevole” del processo penale, Torino 1997, pp.41 e ss.

[36] Specifiche garanzie processuali sono altresì state ricavate da altre norme costituzionali, quali ad esempio gli articoli 3, 24, 25, 101, 104 della Costituzione.

[37] Il primo comma, stabilisce che “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge” ed il “nuovo” comma 2, a sua volta, prevede che “ogni processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale. La legge ne assicura la “ragionevole durata”.

[38] Cfr. L.P. Comoglio, Etica e tecnica del “giusto processo”, Torino 2004.

[39] L. Carlassarre, voce Legge (riserva di), in Enciclopedia giuridica italiana, vol. XVIII, Roma 1990, p. 5.

[40] G. Costantino, Il nuovo art. 111 della Costituzione e il “giusto processo civile”, Atti del Convegno dell’Elba (9-10 giugno), in «Quad. di Quest. Giust.» Milano, 2001, p. 270.

[41] G. Riccio, Diritto al contraddittorio e riforme costituzionali, in «Pol. Dir.», 1999, p. 496.

[42] Il principio di imparzialità non deve inoltre essere considerato come indicativo di un’opzione di modello processuale. Esso si può infatti applicare ad un modello di tipo tanto “accusatorio”, quanto “inquisitorio”, senza mettere in discussione o limitare “né l’esercizio dei poteri del giudice, né il principio di collaborazione fra il giudice e le parti. G. Tarzia, Le garanzie generali del processo nel progetto di revisione costituzionale, in Le garanzie della giurisdizione e del processo nel progetto della Commissione bicamerale, Milano 1999, p. 92.

[43] I. Andolina-G. Vignera, I fondamenti costituzionali della giustizia civile, Torino 1997, pp. 186 ss.

[44] Cfr. G. Vignera, Il “giusto processo” nell’art. 111, comma 1, Cost.: nozione e funzione - (3 febbraio 2020);

http://www.ambientediritto.it/dottrina/Dottrina%202004/giusto_processo_vignera.htm

[45] L.P. Comoglio, I modelli di garanzia costituzionale del processo, in «Riv. trim. dir. e proc. civ.» 1991, p. 305.

[46] l’equità, da sempre presente nel lessico giuridico e che si è più volte manifestata con particolare evidenza nell’esperienza giuridica romana e poi della Chiesa e del common law, possa rappresentare uno schema interpretativo dell’intera esperienza giuridica nella sua complessità, libera di conservare la duplice fedeltà alla realtà, intesa in senso oggettivo e normativo, e alla persona, nella sua capacità e tensione ad accogliere, interpretare e plasmare il reale nel suo più vasto orizzonte si significato. L’equità non si limita, dunque, all’enunciazione di un principio, né si esaurisce nella limitatezza del singolo caso, ma si presenta come un’esperienza interpretativa che avvolge necessariamente l’intera attività giurisdizionale nella complessità dell’evoluzione delle sue diverse forme storiche. Cfr. A. Iaccarino, Il principio di equità, cit., p. 339.

[47] Alla luce della norma missionis, la Chiesa ha compiuto progressivamente la scelta per il Diritto, “inteso come uno strumento, certamente umano, ma molto utile per realizzare e annunciare la giustizia, quale aspirazione elevata, espressiva anch’essa di valori umani che una prospettiva evangelica autentica non altera, seppure possa arricchirli. Si tratta della scelta per il Diritto, con la maiuscola, non quindi per la Legge positiva. Dinnanzi ad eventuali incertezze su di essa si deve reagire cercando risposta con le armi del Diritto, compito affidato a tutti gli operatori del Processo”. M. J. Arroba Conde, Le “Litterae motu proprio datae” sulla riforma dei processi di nullità matrimoniale: prima analisi, in «Apollinaris» LXXXVIII (2015), p. 557, nota 14; P. Grossi, L’Europa del diritto, Roma-Bari 2011, pp. 33-34; M. Nacci, L’evoluzione storica del Diritto canonico e delle sue fonti giuridiche, in Manuale di Diritto canonico, M. J. Arroba Conde, (cur.), Città del Vaticano 2014, p. 26.

[48] M.J. Arroba Conde, La revisione delle norme processuali alla luce del recente Sinodo, in G. Dammaco (cur.), La Chiesa tra economia e famiglia, Bari 2015, p.168.

[49] Cfr. P. Gherri, Diritto canonico e Pastorale, cit.

[50] Cfr. G. Giorgio, L’agire della persona: per ripensare le categorie di actus hominis e actus humanus, in P. Gherri (a cura di), Diritto canonico, Antropologia e Personalismo (Atti della II Giornata canonistica interdisciplinare, 2007), Città del Vaticano 2008, pp. 295-345.

[51] A. Iaccarino, Il processo quale locus dialogico per la ricerca della verità, in «Vergentis» 7 (2018) pp.267-278.

[52] Questo aspetto è fondamentale nel diritto canonico e i canoni 17 e 19 sono testimonianza emblematica della ricerca di criteri ermeneutici per interpretare il Codice, oltre il testo della norma, ma nel contesto della sua applicazione. Cfr. Cfr. A. Iaccarino, il principio di equità, cit.

[53] Scrive S. Bauzon che l’equità “non può mai essere formalizzata, ma richiede l’intelligenza vigile e personale del giudice”, quale “prezioso argomento dialettico per realizzare operativamente la giustizia”. S. Bauzon, Equità, in Enciclopedia filosofica IV, Milano 2006, p. 3515.

[54] Cfr. J. Llobell, Il giusto processo penale nella Chiesa e gli interventi (recenti) della Santa Sede, in «Archivio giuridico» 96 (2012), pp.165-224.

[55] Per un riferimento comparatistico ad alcune Corti internazionali, cfr. S. Carmignani Caridi, Il diritto di difesa nella giurisprudenza delle Corti europee, in Aa.Vv., Il diritto di difesa nel processo matrimoniale canonico, Città del Vaticano 2006, pp. 179-238.

[56] G. Dalla Torre, Qualche riflessione su processo canonico e principio del «giusto processo», in J. Kowal-J. Llobell (a cura di), Iustitia et iudicium, Studi di diritto matrimoniale e processuale canonico in onore di Antoni Stankiewicz, Città del Vaticano 2010, vol. III, p. 1307.

[57] Ibidem p.1296

[58] Cfr. P. Erdö, Il processo canonico penale amministrativo, Mezzi possibili dell’efficacia del sistema penale canonico (questioni fondamentali e preliminari), in «Ius ecclesiae»12.3.2000, pp. 787-802.

[59] E. Di Bernardo, Modelli processualie finalità perseguite nell’Istruttoria civile e canonica. Rilievi comparativi, in «Apollinaris» LXXXVI 2013, p.38.

[60] Cfr. S. Giovanni Paolo II, “Discorso allaRota Romana”, 29 gennaio 2005, AAS 97 (2005) 164-166.

[61] il coniuge che è convinto della validità o della nullità del proprio matrimonio, la vittima che vuole veder condannato colui che accusa come aggressore anche quando quest’ultimo riesce a dimostrare di non aver commesso il crimine di cui viene sospettato o, viceversa, il condannato che urla la propria innocenza ma che le prove dimostrano colpevole, ecc.

[62] Papa Benedetto XVI, “Discorso alla Rota Romana”, 28 gennaio 2006, AAS 98 (2006) 136.

[63] G. Dalla Torre, Qualche riflessione su processo canonico e principio del «giusto processo», cit., pp. 1297-1298.

[64] Cfr. E. Martinelli, L’azione penale nell’ordinamento canonico, uno studio di diritto comparato, Torino 2011.

[65] Cfr. J. Llobell, Il giusto processo penale nella Chiesa, cit.

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