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Pubbl. Mar, 24 Nov 2020

I caratteri essenziali del processo penale romano in età monarchica (753 - 509 a.C.)

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Riccardo Samperi
Dottorando di ricerca



Nella fase più antica del diritto romano, non esisteva una netta distinzione tra illecito civile ed illecito penale, conseguentemente la repressione degli illeciti avveniva, a seconda della gravità (e, cioè, se fosse o meno stata compromessa la pax deorum) dal re o dal privato offeso, in tale ultima ipotesi assumendo i caratteri di una vera e propria vendetta privata, non dissimile dalla faida di diritto germanico, termine ancora oggi utilizzato per indicare la violenza e la vendetta tra organizzazioni criminali.


ENG In the most ancient era of Roman Criminal Law, there was no clear distinction between torts and crimes, consequently the repression of offenses took place, depending on the gravity (and, that is, whether or not the Pax Deorum was compromised) by the King or offended private citizen, in the latter case assuming the characteristics of a private revenge.

Sommario: 1. La repressione criminale tra vendetta privata e potestà pubblica; 2. Le leges regiae; 3. I delitti puniti con pene sacrali.

 

1. La repressione criminale tra vendetta privata e potestà pubblica

Durante la monarchia, la repressione dei crimini più gravi era affidata al re, mentre quella degli illeciti di minore gravità era lasciata alla «libertà di vendetta» dei privati che avevano subito l’offesa.

In tale epoca, infatti, i pubblici poteri intervenivano raramente «nella repressione dei crimini, che resta(va) in ampia misura devoluta alla reazione degli offesi»[1]. Dunque, se non producevano la violazione di pubblici interessi (nel qual caso sarebbe stato giustificato l’intervento repressivo e punitivo del rex), gli illeciti venivano considerati questione privata[2].

Le fonti pervenuteci – fra le quali si distingue il Niger Lapis, una delle più importanti epigrafi latine arcaiche – contengono una precisa indicazione dei reati la cui repressione era demandata al monarca, in qualità di capo politico e religioso della comunità:

«Dion. Hal. 2.29.1: [Romolo] Rese […] i giudizi riguardanti le offese reciproche non lunghi, ma rapidi, alcuni reati giudicando personalmente, altri rimettendoli ad altri, e commisurava le pene alla gravità dei reati. Vedendo che soprattutto la paura poteva distogliere gli uomini da ogni delitto, preparò a tal fine, nel punto più visibile del foro, un posto in cui giudicava stando seduto; inoltre una scorta di soldati, in numero di trecento, che erano davvero tremendi per aspetto, e dodici uomini che portavano verghe e scuri, con le quali battevano nel foro quelli che avevano compiuto azioni degne di castighi e decapitavano in pubblico quelli che avevano compiuto i delitti più gravi»[3].

Da precisare che «nell’ordinamento giuridico romano non [n.d.r. era] teorizzata la distinzione moderna tra processo penale e civile», bensì esclusivamente tra «processo pubblico e processo privato. Ciò sia perché civilis assume solo in epoca tarda un significato antitetico a criminalis, sia in quanto il mondo romano, a differenza del mondo moderno, in cui la richiesta della pena prevista dal sistema delle sanzioni, parte sempre dalla pubblica autorità, distingue anche le pene in pubbliche e private, secondo che vengano inflitte a pubblica richiesta cioè per iniziativa del magistrato o per azione popolare, o a richiesta dell’interessato e che il profitto ne vada allo Stato o al cittadino accusatore o all’interessat[4].

La potestà punitiva pubblica veniva, quindi, esercitata dal re esclusivamente quando la gravità dell’infrazione fosse tale da compromettere la «pax deorum», cioè quella peculiare «situazione di benevolenza e di amicizia da parte degli dèi»[5]. E «poiché della pace con gli dei [era, n.d.r.] naturale custode il re, sommo sacerdote della comunità, a lui spetta(va) l’applicazione di idonee sanzioni di natura religiosa nei confronti di chi, con il suo comportamento (aveva cagionato, n.d.r.) l’esposizione del gruppo alla collera divina»[6].

Il diritto romano delle origini, infatti, era caratterizzato da una inscindibile commistione tra fas e ius, come chiaramente spiegato da Gaetano Scherillo:

«la parola fas – che per solito si fa derivare dalla stessa radice di fari, parlare – significa in senso obiettivo norma di carattere religioso; nelle espressioni fas est, fas non est, ha il senso di liceità di fronte alla religione, alla morale, al diritto. Nel primo significato, fas si contrappone a ius, cioè alla norma giuridica. Tale contrapposizione, usuale presso i Romani, per quanto risalente nel tempo, non può però essere originaria, perché in origine anche presso i Romani, come dovunque, le norme giuridiche non si erano differenziate dalle norme religiose; d’altro canto l’etimologia preferibile di ius riconduce pure a un originario significato religioso della parola: qual fosse il senso della primitiva contrapposizione fra fas e ius non si può sapere. Comunque, può ritenersi certo che le più antiche norme giuridiche dei Romani, i mores maiorum, risalenti alla vita precittadina, riposassero appunto sul fas[7]. Ma anche in seguito il fas continua ad aver notevole importanza in parecchi campi: così nell’ordinamento interno delle genti e delle famiglie, dove lo stato non interviene; così pure nel diritto pubblico. Parimenti molte norme giuridiche e molti istituti recano visibilissime tracce del loro originario carattere religioso»[8].

Ora, se da un lato la ricostruzione del diritto e del processo penale in età arcaica è «uno dei compiti più complessi ed ardui per lo storico del diritto», poiché «lo stato delle testimonianze, […], è esiguo, frammentario [e] spesso contraddittorio», dall’altro, «non grava alcun dubbio […] sul valore fondante della civitas della pax deorum, cioè il patto tra la comunità […] e gli dèi»[9]

Riepilogando quanto sinora detto, nella fase più antica del diritto romano, non esisteva una netta distinzione tra illecito civile ed illecito penale, conseguentemente la repressione degli illeciti avveniva, a seconda della gravità (e, cioè, se fosse o meno stata compromessa la pax deorum) dal re o dal privato offeso, in tale ultima ipotesi assumendo i caratteri di una vera e propria vendetta privata, non dissimile dalla faida di diritto germanico, termine ancora oggi utilizzato per indicare la violenza e la vendetta tra organizzazioni criminali[10]. Nel prosieguo, si approfondirà la repressione penale ad opera dei pubblici poteri.

2. Le leges regiae

Le leges regiae costituiscono le fonti più antiche del diritto penale romano e sono caratterizzate dalla commistione tra fas e ius di cui si è sinora detto, tanto che quelle che ai moderni potrebbero apparire norme volte alla salvaguardia della pubblica incolumità, per gli antichi, avevano invece, in primis, finalità di carattere sacrale e religioso e tutelavano la sicurezza e l’ordine pubblico solo in via indiretta e secondaria[11].

Altra importante caratteristica è che l’insieme di tali norme non assume (né tenta di assumere) i caratteri dell’organicità e della sistematica esaustività, lasciando amplissima libertà di azione punitiva sia al monarca (potestà pubblica) che alla comunità (vendetta privata)[12].

Nel periodo compreso tra l’VIII e il VI sec. a. C., «secondo le fonti, [n.d.r. le leges] sarebbero state sottoposte al voto del popolo, riunito nei comizi curiati, in maniera non dissimile da quanto avvenne nella successiva epoca repubblicana; [n.d.r. tuttavia], a giudizio degli studiosi moderni[13], è del tutto improbabile che una procedura tanto evoluta sia stata esperita già ai primordi dell’esperienza costituzionale romana»[14].

In linea generale, esse prescrivevano (o vietavano) di tenere determinate condotte, punendo l’eventuale violazione con sanzioni dal carattere sacrale, oppure regolavano l’esercizio della vendetta privata[15].

Rientravano nella prima categoria tutte quelle disposizioni volte al perseguimento degli illeciti concernenti la sfera religiosa e i rapporti fondamentali della comunità primitiva (ad esempio, di famiglia, di vicinato o di clientela).

Per quanto concerne il rapporto tra i c.d. mores maiorum e le leges regiae, in alcuni casi le seconde “codificavano” i primi[16] (è il caso della legge, attribuita a Romolo, che attribuiva al marito il diritto di uccidere la moglie in caso di adulterio)[17]; in altri, invece, le leggi dettavano una disciplina innovativa (soprattutto in materia di vendetta privata, che veniva per lo più sostituita dall’esercizio della potestà punitiva pubblica) e determinavano così l’obsolescenza e il superamento dei mores[18].

Occorre poi distinguere l’ipotesi in cui il fatto compiuto costituiva minaccia per la coesione interna del singolo gruppo familiare, da quella in cui ad essere oggetto di minaccia era, invece, il quieto vivere fra due o più familias[19]. «Nel primo caso [n.d.r. infatti] la repressione avveniva all’interno del gruppo sociale, [n.d.r. mentre] nel secondo caso le modalità punitive seguivano la logica della vendetta privata da parte del gruppo offeso, rispetto alle quali l’opinione pubblica svolgeva una funzione di controllo sociale»[20]:

«Dion. Hal. 2.25.6: Se la donna commetteva qualche colpa, aveva come giudice e arbitro dell’entità della pena l’offeso. Queste colpe le giudicavano i suoi parenti insieme con il marito; fra di esse vi era l’adulterio e, cosa che sarebbe apparsa ai Greci la più piccola di tutte le colpe, se qualche donna fosse stata trovata a bere vino. Infatti Romolo permise di punire con la morte entrambe queste colpe, come la più turpi delle colpe femminili, ritenendo l’adulterio principio di follia e l’ubriachezza [n.d.r. principio] di adulterio»[21].

3. I delitti puniti con pene sacrali

Nelle fonti si è ravvisata la distinzione tra «scelus expiabile», illecito di minore gravità, e «scelus inexpiabile», illecito grave[22].

I primi facevano sorgere, in capo all’autore della condotta, il semplice obbligo di espiazione mediante un’offerta, il c.d. «piaculum», che consisteva nel sacrificio di un animale o nel pagamento di una somma di denaro in favore del culto della divinità offesa[23].

Esempi di scelus expiabile erano:

- La violazione, da parte della vedova, del divieto di contrarre matrimonio prima della scadenza del termine di lutto, punito dalla Lex Numa con l’imposizione dell’obbligo di sacrificare una vacca gravida, verosimilmente a Tellus, dea romana della Terra[24], desumibile da:

«Plut., Numa, 12.3: Lo stesso (Numa Pompilio) stabilì la durata del lutto in relazione all’età: non doveva esserci lutto per un bimbo inferiore a tre anni e per chi era più grande il lutto non doveva durare più mesi degli anni vissuti, fino a dieci, e per nessuna età il tempo del lutto poteva essere più lungo di dieci mesi, che è anche il tempo per il quale dovevano restare vedove le mogli di coloro che erano morti. Chi si fosse sposata prima, doveva, secondo una legge di Numa, sacrificare una vacca pregna»[25]

- L’infrazione, da parte della concubina, del divieto di toccare l’ara di Giunone[26], sanzionata con l’obbligo di immolare un’agnella alla dea «crinibus dimissis», cioè «con i capelli sciolti», ricavabile da:

«Fest. – Paul. s.v. Pelices (L. 248). Pelices nunc quidem appellantur alienis succumbentes non solum feminae, sed etiam mares. Antiqui proprie eam pelicem nominabant, quae uxorem habenti nubebat. Cui generi mulierem etiam poena constituta est a Numa Pompilio hac lege: “Pelex aram Iunonis ne tangito; si tanget, Iunoni crinibus demissis agnum feminam caedito”»[27].

«Ora si chiamano pelices non solo le donne che soggiacciono sessualmente ad altri, ma anche i maschi. Gli antichi chiamavano pelex colei che si univa a un uomo sposato. Per questo genere di donne fu anche stabilita una Pena da Numa Pompilio, con questa disposizione: ‘La pelex non tocchi l’ara di Giunone; se la toccherà, con i capelli discinti sacrifichi a Giunone un’ancella’»[28].

- L’ingiustificato ripudio della moglie votata alla dea Tellus, comportante, per il marito, l’onere di versare metà del proprio patrimonio alla dea e metà alla ripudiata[29].

Le funzioni dei piacula erano essenzialmente due: da un lato, la placatio, cioè placare l’ira della divinità offesa, e dall’altro l’expiatio, nel significato di espiazione della colpa[30].

Per i comportamenti più riprovevoli si parlava di «scelus inexpiabile». In tali casi, il semplice piaculum non era sufficiente per espiare la colpa e, dunque, veniva irrogata una pena sacrale denominata «supplicium», che poteva rivestire due diverse forme: abbandono del colpevole e/o dei suoi beni alla divinità offesa («consecratio capitis et bonorum») e la sua messa a morte («deo necari»)[31]:

«Dion. Hal. 2.10.3: [..] per entrambi (patronus e cliens) era empio e illegale muoversi reciprocamente accuse in tribunale o recare testimonianze avverse o dare un voto contrario o essere annoverato tra i nemici. E se qualcuno era dimostrato colpevole di aver compiuto qualcuna di tali azioni, era reo di tradimento in base alla legge che Romolo aveva stabilito, e, se catturato era lecito, a chi lo volesse, ucciderlo come vittima di Zeus Katacthonios (cioè sotterraneo)»[32].

«Plut., Romulus 22.3: Stabilì anche alcune leggi, tra le quali c’è quella severa che non consente alla donna di abbandonare il marito, ma permette all’uomo di ripudiare la moglie per uso di veleni, per sostituzione di neonati o di chiavi per adulterio; ed ordinò che, se qualcuno l’avesse ripudiata per altri motivi, parte del suo patrimonio fosse della donna e parte venisse consacrata a Demetra; e chi avesse scacciato la moglie doveva sacrificare agli dèi infernali»[33].

Con il passaggio dalla monarchia alla repubblica, la repressione dei reati venne attuata dal popolo riunito in apposite assemblee comiziali.


Note e riferimenti bibliografici

[1] B. Santalucia, Osservazioni sulla repressione criminale romana in età regia, in Le délit religieux dans la cité antique. Actes de la table ronde de Rome (6-7 aprile 1978), Roma, École Française de Rome, 1981, 39. (Publications de l'École française de Rome, 48); https://www.persee.fr. P. Tonini, Manuale di procedura penale, Milano, 2019, 13-14.

[2] T. Canonico, Introduzione allo studio del diritto penale: del giudizio penale, Torino, 1871, 27-28.

[3] Frammento tratto da F. Arcaria, O. Licandro, Diritto Romano: I – Storia costituzionale di Roma, Torino, 2014, 108. «Nel diritto romano, la pena capitale assumeva varie forme, come vario era lo status giuridico dei condannati a morte. Nel diritto penale arcaico erano contemplati atroci supplizi: il colpevole di alto tradimento veniva fustigato a morte (supplicium more maiorum); l’incendiario veniva condannato al rogo (vivi crematio); il debitore insolvente veniva tagliato a pezzi; l’assassino di un parente veniva cucito in un otre di pelle con un cane, un gallo, una vipera e una scimmia, poi gettato in acqua (poena cullei). In età repubblicana, il cittadino romano aveva diritto alla condanna per decapitazione; il non romano era condannato alla crocifissione (crucifixio). In età imperiale, si diffusero supplizi spettacolari, come la damnatio ad bestias, tanto spesso inflitta ai martiri cristiani», M. Falcone, Il lavoro penitenziario, Tesi di Laurea in Diritto dell’esecuzione penale, LUISS Guido Carli, relatore Paola Balducci, A.A. 2016-2017, nota n. 44, 17-18.

[4] V. Carro, Autorità pubblica e garanzie nel processo esecutivo romano, Torino, 2018, 1-2.

[5] «Per comprendere le dinamiche del sistema giuridico-religioso romano risulta fondamentale l’idea di pax deorum. Infatti, nella comunità romana arcaica e repubblicana, la sapientia (teologica e giuridica) dei sacerdoti, rivolgendo le sue prime e maggiori cautele alla regolamentazione dei rapporti tra uomini e dèi, perseguiva la finalità essenziale di instaurare, preservare e conservare la pax deorum: cioè una favorevole situazione di benevolenza e di amicizia da parte degli dèi. La conservazione della pax deorum richiedeva una perfetta conoscenza da parte dei sacerdoti di tutto ciò che potesse turbarla; degli atti che mai dovevano essere compiuti nel tempo e nello spazio; delle parole che mai dovevano essere pronunciate», F. Sini, Diritto e pax deorum in Roma antica, in Diritto e storia, n. 5/2006, http://www.dirittoestoria.it. In nota n. 7 dello stesso Autore: Per la definizione di pax deorum, vedi H. Fuchs, Augustinus und der antike Friedengedanke. Untersuchungen zum neunzehnten Buch der Civitas Dei, Berlino, 1926, 186 ss.; ampi riferimenti alle fonti attestanti i comportamenti umani suscettibili di violarla in P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, n. 19/1953, 49 ss. [= Id., Scritti di diritto romano I (Padova 1985), 226 ss.]; ai quali sono da aggiungere: J. Bayet, La religion romaine. Histoire politique et psychologique (1957) 2a ed. (Paris 1969 [rist. 1976]), 57 ss. [= Id., La religione romana. Storia politica e psicologica, trad. it. di G. Pasquinelli (Torino 1959, rist. 1992), 59 ss.]; M. Sordi, Pax deorum e libertà religiosa nella storia di Roma, in La pace nel mondo antico, Milano, 1985, 146 ss.; con qualche riserva, R. Fiori, Homo sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, Napoli, 1996, 167 ss.; E. Montanari, Il concetto originario di ‘pax’ e la ‘pax deorum, in Concezioni della pace (Seminario 21 aprile 1988), [Da Roma alla Terza Roma, Studi - VI] a cura di P. Catalano e P. Siniscalco (Roma 2006) 39, ss.

[6] B. Santalucia, op. cit., 39.

[7] Tale commistione permane oggi in taluni ordinamenti fondati sul precetto religioso; si pensi, ad esempio, al diritto canonico e a quello islamico.

[8] G. Scherillo, Fas, voce dell’Enciclopedia Treccani, 1938, https://www.treccani.it. In nota dello stesso autore, L. Mitteis, Das röm. Privatrecht bis auf die Zeit Diokletians, I, Lipsia, 1908, 22 e ss. «Per la vita del Popolo romano si riteneva indispensabile il permanere di una situazione di amicizia nei rapporti uomini e Dèi, considerati anch’essi una delle parti del sistema giuridico-religioso», F. Sini, Uomini e Dèi nel sistema giuridico-religioso romano: Pax deorum, tempo degli Dèi, sacrifici, Relazione presentata al VIII Colloquio dei romanisti dell’Europa centro-orientale e d’Italia «Studio e insegnamento del diritto romano. La persona nel sistema del diritto romano. La difesa dei debitori» (Vladivostok 5-7 ottobre 2000), organizzato dal «Juridi eskij Institut Dal’nevosto nogo Gosudarstvennogo Universiteta» (Istituto Giuridico dell’Università Statale dell’Estremo Oriente) in collaborazione con il Centro per gli studi su Diritto romano e sistemi giuridici del Consiglio Nazionale delle Ricerche e il Gruppo di ricerca sulla diffusione del Diritto Romano, in Diritto e Storia, n. 1/2002. La traduzione russa del testo, curata dalla Dott.ssa Maria Celintseva, è stata pubblicata in Ius Antiquum-Drevnee Pravo, 2001, 8-30, http://www.dirittoestoria.it.

[9] F. Arcaria, O. Licandro, op. cit., Torino, 2014, 107.

[10] E. Tavilla, Le radici profonde d’Europa, 7, in Tempi del diritto: Età medievale, moderna, contemporanea, P. Alvazzi Del Frate, M. Cavina, R. Ferrante, N. Sarti, G. Speciale, C. Tavilla, S. Solimano, Torino, 2016.

[11] B. Santalucia, op. cit., 39.

[12] B. Santalucia, op. cit., 40.

[13] In questo senso, A. Guarino, Storia del diritto romano, Napoli, 1990, 131.

[14] Enciclopedia Treccani, voce Leggi regie, https://www.treccani.it. F. Arcaria, O. Licandro, op. cit., Torino, 2014, 108.

[15] B. Santalucia, op. cit., 40.

[16] Le Leges Regiae, spesso, non erano altro che «una riformulazione in forma scritta di antichi precetti consuetudinari orali anche, o forse in taluni casi soprattutto, di carattere religioso, in piena aderenza alla rappresentazione della figura del rex romano quale istituzione profondamente inserita “nella sfera del sacro”», F. Arcaria, O. Licandro, op. cit., Torino, 2014, 108.

[17] Vedi frammento Dion. Hal. 2.25.6 nel testo.

[18] B. Santalucia, op. cit., 40.

[19] Accusativo plurale di familia.

[20] F. Arcaria, O. Licandro, op. cit., Torino, 2014, 107-108.

[21] Frammento riportato da F. Arcaria, O. Licandro, op. cit., Torino, 2014, 107-108.

[22] F. Arcaria, O. Licandro, op. cit., Torino, 2014, 109.

[23] B. Santalucia, op. cit., 40.

[24] B. Santalucia, op. cit., 40.

[25] Frammento riportato da F. Arcaria, O. Licandro, op. cit., Torino, 2014, 109.

[26] Originariamente dea del matrimonio, poi «divenuta la massima divinità femminile della religione romana antica nel momento della sua sistemazione nel culto della triade capitolina, con Giove e Minerva. […] Era la divinità corrispondente alla greca Era, e dunque concepita come sposa di Giove», Enciclopedia Treccani, https://www.treccani.it.

[27] R. Laurendi, Leges regiae. «Ioui sacer esto» nelle leges Numae: nuova esegesi di Festo s.v. Aliuta, in G. Purpura (a cura di), Annali del seminario giuridico (AUPA), Fontes 1.3, Revisione ed integrazione dei Fontes Iuris Romani Anteiustiniani (FIRA), Studi preparatori, I, Leges, Torino, 2012, 32.

[28] Traduzione di F. Arcaria, O. Licandro, op. cit., Torino, 2014, 109.

[29] B. Santalucia, op. cit., 40.

[30] F. Arcaria, O. Licandro, op. cit., Torino, 2014, 109.

[31] F. Arcaria, O. Licandro, op. cit., Torino, 2014, 110.

[32] F. Arcaria, O. Licandro, op. cit., Torino, 2014, 110.

[33] F. Arcaria, O. Licandro, op. cit., Torino, 2014, 110.