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Pubbl. Lun, 1 Giu 2020
Sottoposto a PEER REVIEW

Spunti di riflessione tra giustizia riparativa e mera retribuzione nel diritto penale sostanziale e processuale

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Domenico Trapani



Un’analisi degli istituti della sospensione del procedimento con messa alla prova, della sospensione condizionale della pena e della riabilitazione del condannato volta a comprendere se, in relazione ai caratteri generali di ciascuno, la riparazione del danno prevalga sul risanamento del rapporto con la persona offesa in un’ottica rieducativa.


ENG An examination of some institutes with ancillary features (of substantive and procedural law) in the light of the typical characteristics of Restorative Justice

Sommario: 1. Premessa: l’importanza del “punto di vista”; 2. La giustizia riparativa in Italia; 3. La sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato; 3.1. Caratteri generali; 3.2. La riparazione del danno; 4. La sospensione condizionale della pena; 4.1. Caratteri generali; 4.2. La riparazione del danno; 4.2.a. Premessa: la riparazione pecuniaria come condizione alla concessione della sospensione condizionale della pena; 4.2.b. Una misura priva di contenuti, se non obbligati; 4.2.c. La subordinazione della concessione all’adempimento dell’obbligo restitutorio in caso di mancata costituzione di parte civile; 4.2.d. Revoca della sospensione condizionale della pena subordinata al risarcimento del danno in caso di impossibilità ad adempiere o gravità di condizioni economiche; 5. La riabilitazione; 5.1. Caratteri generali e ratio; 5.2. La riparazione del danno: buona condotta e obbligazioni civili; 6. Conclusioni

1. Premessa: l’importanza del “punto di vista”

In un saggio del 1925[1], Virginia Woolf, analizzando le difficoltà che possono incontrarsi nel comprendere un testo tradotto dalla lingua originale - in quel caso il russo - perché snaturato e privato dell’anima di un’intera cultura, scriveva: «Quando traduciamo ogni parola di una frase dal russo all’inglese, quindi alterando un po’ il senso e completamente il suono, nonché il peso e l’accento delle parole l’una in relazione all’altra, non rimane nulla eccetto una versione cruda e grossolana del significato. Dopo questo trattamento, i grandi scrittori russi sono come persone spogliate, a causa di un terremoto o di un incidente ferroviario, non solo di tutti gli abiti, ma anche di qualcosa di più sottile e fondamentale: le loro abitudini, le idiosincrasie dei loro caratteri»[2].

E cosa accade di diverso - mutatis mutandis - ai sintagmi giuridici che, espunti dalle tradizioni di legge di altre culture, vengono tradotti e inseriti in un ordinamento a volte completamente differente?

In contesti sovranazionali quale, ad esempio, quello europeo, le diversità tra sistemi di common e civil law sono spesso foriere di discrepanze nella traslazione di taluni concetti.

Emblematico è il caso dell’evoluzione - tanto giuridica quanto linguistica - del sistema di “giustizia riparativa”.

La ricostruzione delle origini del sintagma “restorative justice” in contesti eterogenei, condotta da attenta e scrupolosa dottrina, ha sottolineato in modo cristallino che le scelte operate in seno al lavorio della traduzione giuridica non hanno mai carattere di neutralità.

Non può, in tal senso, non rilevarsi che «in Italia, per esempio, la giustizia riparativa ha alle spalle un retroterra culturale di straordinaria ricchezza, che include sia tradizioni giuridiche risalenti ai codici preunitari, sia un dibattito giusfilosofico e criminologico di matrice neokantiana e positivistica; né le prime, né il secondo possono dirsi comuni alle tradizioni giuridiche e al dibattito del mondo anglosassone. […] Il ruolo dominante della lingua inglese ha alimentato, in altre parole, un’autoreferenzialità ermeneutica che rischia di rivelarsi una vera e propria trappola epistemologica, caduti nella quale si continua a cercare l’origine del termine e perciò dell’idea stessa di giustizia riparativa unicamente nella cultura giuridica e filosofica anglosassone»[3].

Posta tale breve premessa di metodo e tenuto ben presente il necessario andirivieni tra mondo e parola giuridici, si intende qui provare la compatibilità di taluni istituti - in cui il risarcimento del danno (o, rectius, la sua riparazione) si atteggia diversamente a seconda delle finalità precipue cui l’istituto stesso tende - con il generale schema della giustizia riparativa.

2. La giustizia riparativa in Italia

Nel multiforme panorama dei sistemi definitori, il punto di partenza per comprendere cosa si intenda oggi per restorative justice è segnato dall’art. 2, c. 1, lett. d), Dir. 2012/29/UE, secondo cui è giustizia riparativa «qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale».

Le caratteristiche necessarie a che, dunque, possa parlarsi del modus operandi disegnato dal legislatore europeo[4] sono da rintracciarsi nella partecipazione attiva delle parti, nella finalità orientata alle esigenze della vittima, nella riparazione globale dell’offesa, nella volontarietà, nell’auto-responsabilizzazione del reo e nell’imparzialità del terzo mediatore[5].

La premessa di principio necessaria a porre le basi della giustizia riparativa (o, più a monte, di un sistema sanzionatorio basato su di essa) consiste nell’insufficienza della punizione tradizionale ad affrontare il conflitto sociale che dalla commissione dell’illecito promana, e da cui consegue l’abdicazione da parte dello Stato al monopolio dello jus puniendi[6].

Se, però, forte si sente al giorno d’oggi la volontà - spesse volte la necessità - di un potenziamento delle dinamiche a carattere riparatorio nel sistema penale italiano[7], d’altro canto gli istituti deflativi del contenzioso che si ispirano a tali logiche poco sono inquadrabili nella cornice fornita dagli elementi della giustizia riparativa, ove rilievo preminente hanno quelle dinamiche di contatto, confronto e dialogo, atte a risanare la frattura creatasi a livello interpersonale (vittima - reo) e sociale (incrinatura dell’ordinata e pacifica convivenza sociale)[8].

Se questi profili - talora anche solo in nuce - possono facilmente ritrovarsi nelle ipotesi di procedimento differenziato[9], gli istituti di diritto processualpenalistico che più vorrebbero avere una connotazione - oltre che deflativa del contenzioso - specialpreventiva e di mediazione, a oggi, sembrano assegnare un ruolo preponderante (quando non imprescindibile) al risarcimento del danno alla vittima.

Nel prosieguo, si prenderanno in considerazione gli istituti della sospensione del procedimento con messa alla prova, della sospensione condizionale della pena e, infine, della riabilitazione del condannato, proprio nell’intento di comprendere quanto - in relazione ai caratteri generali di ciascuno - la riparazione del danno prevalga sul risanamento del rapporto con la persona offesa (in un’ottica rieducativa).

3. La sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato

In tema di sospensione del procedimento con messa alla prova, si potrebbe pensare, come è stato in effetti osservato[10], che l’aver mutuato l’istituto originariamente proprio del diritto penale minorile abbia consentito l’ingresso delle logiche riparative entro il sistema penale - non solo processuale, ma anche sostanziale.

Tanto, specie se si consideri che «la messa alla prova comporta la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato» (art. 168-bis, c.p.) e che il programma di trattamento di cui si dirà deve prevedere in ogni caso «le condotte volte a promuovere, ove possibile, la mediazione con la persona offesa» (art. 464-bis, c.p.p).

Eppure, la prevalente dottrina rileva come la complessiva disciplina dell’istituto (unitamente alla successiva pratica nei tribunali) segni una vera e propria dicotomia tra l’intento conciliativo e la pervicace resistenza di elementi tipici della retribuzione, ragion per cui il dialogo tra reo e persona offesa dal reato viene relegato sul fondale della scena del procedimento[11].

3.1. Caratteri generali

Figlia del sistema nordamericano di probation sviluppatosi intorno al XIX secolo[12], la sospensione del procedimento con messa alla prova (d’ora innanzi anche solo m.a.p.) è stata introdotta quale causa di estinzione del reato dalla legge 28 aprile 2014, n. 67, la quale ha inserito gli artt. da 168-bis a 168-quater, c.p., e l’intero Titolo V-bis del codice di rito.

Gli obblighi ai quali il sottoposto a m.a.p. dovrà ottemperare, pertanto, sono scanditi a rintocchi alterni dal diritto sostanziale e da quello processuale (talora con discrasie di non poco conto).

Affinché il giudice ammetta l’imputato (o l’indagato) alla prova debbono ricorrere requisiti formali, presupposti oggettivi e presupposti soggettivi.

Quanto ai primi, l’art. 464-bis, c.p.p., dispone che la richiesta sia formulata - oralmente o per iscritto - personalmente o a mezzo del difensore munito di procura speciale e che alla medesima sia posto a corredo un programma di trattamento elaborato dall’Ufficio esecuzione penale esterna di competenza territoriale (o anche solo un’istanza volta all’elaborazione de qua).

Circa i presupposti, in senso obiettivo è richiesto che il reato per cui si procede sia punito con la sola pena pecuniaria, ovvero con pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni (sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria), ovvero ancora che sia fra quelli previsti dall’art. 550, c. 2, c.p.p., rubricato Casi di citazione diretta a giudizio; in senso subiettivo, invece, si stabilisce che la richiesta provenga da soggetto che non sia stato dichiarato delinquente, contravventore abituale, professionale o per tendenza, che non abbia già ottenuto l’ammissione poi revocata, ovvero che abbia fornito riscontro negativo all’esito del programma cui previamente era stato ammesso[13].

3.2. La riparazione del danno

L’art. 464-bis, c. 4, lett. b), c.p.p., e l’art. 168-bis, c.p., valorizzano, in prospettive differenti ma omogenee, il dato di matrice aquiliana costituito dall’obbligo di attutire o rimuovere gli effetti dovuti al pregiudizio subito dalla persona offesa ex delicto. Tre, in particolare, sono i profili che connotano il valore assegnato alle condotte riparatorie nell’istituto in oggetto: la costruzione del programma di prova; il termine entro cui gli adempimenti latamente risarcitori debbono essere posti in essere; la possibilità che ad adempiere sia un terzo.

Quanto al primo punto, la condotta richiesta all’imputato/indagato, secondo la disciplina del codice di rito, deve prevedere degli specifici adempimenti che, pertanto, confluiranno essenzialmente nella redazione del programma di prova a cura dell’Ufficio esecuzione penale esterna. Più in particolare, il quomodo e il quantum del risarcimento saranno definiti e parametrati sulla scorta delle specificità del caso concreto: la dosimetria dell’obbligazione restitutoria/riparatoria/risarcitoria si atteggerà in modo differente a seconda delle conseguenze che l’illecito ha prodotto, calibrandosi in maniera tale che esse possano elidersi quanto più possibile. Proprio per questo motivo il codice di rito prevede in via alternativa che l’indagato/imputato provveda al risarcimento del danno in senso tecnico (attribuzione di una somma di danaro volta a ricostituire in capo alla persona offesa l’integrum patrimoniale e non intaccato dal reato), alle restituzioni (in particolare, nelle ipotesi in cui il reato consista, ad esempio, nella sottrazione di una res con successivo impossessamento della medesima) ovvero alle condotte qualificabili come latamente riparatorie (si pensi, anche qui a titolo di esempio, alle condotte di spaccio di stupefacenti di minore entità, in relazione alle quali la persona concretamente offesa dal reato viene spesso individuata con la collettività in genere)[14]. La quantificazione e definizione delle modalità di riparazione, quindi, assume una funzione di particolare delicatezza, attesa la necessaria considerazione che dev’esser compiuta su tutti gli elementi (patrimoniali e non) che compongono il danno subito dalla vittima: l’opera di mediazione dell’U.e.p.e, pertanto, non potrà risolversi in un superficiale tentativo di conciliazione e dialogo, poiché gli assistenti preposti dovranno indicare se la quantificazione e le modalità di ristoro derivino da un accordo raggiunto con la persona offesa o meno e, in quest’ultimo caso, dovranno dar conto del perché non si è potuti addivenire a un punto di incontro. Solo in questo modo il giudice avrà a disposizione sufficienti parametri che gli consentano di ammettere o meno in maniera motivata l’imputato/indagato alla sospensione del procedimento e al contestuale inizio del programma.

Quanto, poi, alle tempistiche di adempimento del programma di prova in generale e dell’obbligazione riparatorio-restitutoria nello specifico, è d’uopo notare che esse non procedono di pari passo. L’ammesso alla prova, infatti, dispone di un arco temporale definito entro il quale provvedere al ristoro della persona offesa che non coincide con quello del programma e degli altri impegni in esso previsti[15]. Il dato di partenza è costituito dalla norma di diritto sostanziale, la quale prevede che il risarcimento ex delicto avvenga «ove possibile» (art. 168-bis, c. 2, c.p). Se, dunque, l’obbligazione risarcitoria sorge ex lege, per contro essa è subordinata a una valutazione di esigibilità in concreto da operarsi sul piano tanto obiettivo quanto subiettivo: i parametri sono rappresentati, nello specifico e in prima battuta, dalle condizioni economiche e personali dell’imputato/indagato, sì che si preveda - in astratto - l’evenienza per cui sussista una giustificazione al mancato adempimento delle medesime[16]. A ogni modo, fermo il dato per cui non è richiesto che il danno sia integralmente rimediato (al danneggiato, di più, resta la possibilità di esperire l’azione civilistica, essendo esclusa l’applicazione dell’art. 75, c. 3, c.p.p.), è sempre richiesta, invece, al danneggiante una condotta diligentemente finalizzata al risarcimento: il mancato assolvimento dell’obbligazione, infatti, deve essere valutato dal giudice ai fini dell’esito della prova (declaratoria di non positivo esperimento) o della revoca della stessa (art. 168-quater, n. 1, c.p).

Ciò consente di trattare anche l’ultimo rilevante aspetto della questione, consistente nella possibilità che l’adempimento provenga da un terzo diverso dal danneggiante. Sebbene sia l’indagato/imputato a sottoscrivere il programma dell’U.e.p.e. e, dunque, a obbligarsi personalmente in seno al procedimento penale che lo riguarda, è sorto - in dottrina e in giurisprudenza - il dubbio circa la possibilità che egli possa giovarsi dell’adempimento da parte di terzi.

Con riferimento ad altri istituti dell’ordinamento italiano, inizialmente si erano espresse in senso negativo le Sezioni Unite della Corte di cassazione[17], le quali hanno poi mutato orientamento nel senso che il risarcimento non proveniente personalmente dall’imputato è utile ai fini della concessione delle attenuanti ex art. 62, c.p., e della estinzione del reato ex art. 35, d.lgs. n. 274/2000[18]. Questo revirement ha trovato fondamento in una sentenza - interpretativa di rigetto - della Corte costituzionale[19], ove si afferma: «il risarcimento del danno, strutturato nell’ordinamento generale attorno al principio di solidarietà, verrebbe privato di quell’insieme organizzato di garanzie patrimoniali che per volontà del legislatore indefettibilmente l’accompagnano, e ridotto a prestazione personale del danneggiante isolatamente considerato, secondo una visione premoderna dell’istituto della responsabilità civile in questo settore; una visione che non solo comporterebbe una macroscopica disparità di trattamento tra danneggianti a seconda delle loro condizioni patrimoniali, ma si risolverebbe in un inammissibile restringimento del diritto alla resipiscenza o al ravvedimento che verrebbe riservato alle sole persone provviste di mezzi finanziari che siano in grado di provvedere personalmente all’integrale ristoro dei danni».

Simmetricamente, anche per la sospensione del procedimento con messa alla prova devono valere i medesimi princìpi.

4. La sospensione condizionale della pena

La sospensione condizionale della pena - causa estintiva del reato sui generis - si configurava originariamente come atta a evitare, al condannato a pena breve e per reati di non grave entità, gli effetti più deleteri della carcerazione a favore della sua piena risocializzazione. Il principio motore dell’istituto - originariamente scevro di contenuti concreti - si rinveniva, appunto, nell’effetto intimidatorio della minaccia di esecuzione della pena irrogata nel caso in cui si commettessero altri reati.

A oggi, invece, molteplici spinte riformatrici hanno impresso alla sospensione condizionale della pena caratteri ben differenti che è necessario vedere, seppur sommariamente, prima di analizzare le questioni ancora irrisolte in punto di riparazione del danno ex delicto.

4.1. Caratteri generali

A norma di quanto dispone l’art. 163, c.p., presupposto a che possa applicarsi il beneficio di legge di cui trattasi è che un giudice abbia non solo accertato la sussistenza di un fatto di reato e la responsabilità in capo all’autore del medesimo, bensì anche che il medesimo abbia quantificato una sanzione - che deve cadere, come si vedrà a breve, entro un determinato range - e l’abbia irrogata al condannato.

Più specificamente, il condannato deve aver commesso un reato punito con l’arresto o la reclusione per un tempo non superiore agli anni due, ovvero con la pena pecuniaria che da sola o congiunta alla pena detentiva sia equivalente a una privazione della libertà personale non superiore complessivamente ai due anni (secondo i parametri di ragguaglio dettati dall’art. 135, c.p). Con legge 11 giugno 2004, poi, il legislatore ha ampliato il novero delle ipotesi di applicabilità del beneficio di legge de quo, prevedendo la concedibilità dello stesso a seguito di condanna a pena pecuniaria congiunta a pena detentiva non superiore a due anni, quando la pena complessiva (sempre ragguagliata ex art. 135, c.p.) sia superiore agli anni due. In tali ipotesi - che rappresentano il requisito oggettivo dell’istituto - il giudice ha facoltà di disporre che l’esecuzione della pena rimanga sospesa per un determinato periodo di tempo (cinque anni per le condanne a seguito di delitto, due per quelle a seguito di contravvenzione).

Un ulteriore presupposto (a carattere però soggettivo) è richiesto perché si abbia sospensione condizionale della pena: l’art. 164, c.p. prescrive l’ammissibilità della stessa «soltanto se, avuto riguardo alle circostanze indicate nell’articolo 133, il giudice presume che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati»: si tratta di una valutazione discrezionale a carattere prognostico sulla resipiscenza del condannato e, conseguentemente, sulla concreta possibilità che questi non commetta ulteriori reati. Se, effettivamente, il ravvedimento del reo sussiste e nel periodo sospensivo egli non commette un delitto, ovvero una contravvenzione della stessa indole per cui v’era stata la condanna, il reato è estinto e non si fa luogo alla esecuzione della pena (art. 167, c.p.).

Il comma secondo dell’art. 164, c.p., poi, detta delle condizioni ostative alla concessione del beneficio: la sospensione non può esser concessa

- a chi ha riportato una precedente condanna a pena detentiva per delitto (anche se intervenuta la riabilitazione);

- al delinquente o contravventore abituale o professionale;

- alla persona nei cui confronti si applica - in aggiunta alla comminata pena - una misura di sicurezza personale derivante dalla pericolosità sociale del condannato;

- a chi abbia già beneficiato dell’istituto con l’eccezione stabilita dall’art. 164, ult. c., c.p[20].

Quando la sospensione condizionale della pena viene concessa a chi ne abbia già usufruito ai sensi di quest’ultima norma, è previsto ex art. 165, c. 2, c.p., che essa sia necessariamente subordinata all’adempimento di almeno uno degli obblighi di cui al comma primo del medesimo articolo. Nel caso di concessione per la prima volta, invece, tali obblighi sono solamente facoltativi, poiché è il giudice che, ordinando discrezionalmente l’irrogazione della pena nel suo quantum e nel quomodo, può subordinare il beneficio all’adempimento di uno o più obblighi[21].

Giova precisare, anche ai fini dell’analisi che immediatamente seguirà, che l’art. 165, c.p., ha subito talune modifiche a opera di due recenti provvedimenti normativi.

Ci si riferisce, in primo luogo, all’art. 1, c. 1, lett. g), l. 9 gennaio 2019, n. 3 (in G.U. 16 gennaio 2019, n. 13), che ne ha modificato il comma quarto, ove oggi si prevede che «nei casi di condanna per i reati previsti dagli articoli 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 321 e 322-bis, la sospensione condizionale della pena è comunque subordinata al pagamento della somma determinata a titolo di riparazione pecuniaria ai sensi dell’articolo 322-quater (di cui meglio si dirà infra, ndr), fermo restando il diritto all’ulteriore eventuale risarcimento del danno». Vieppiù, in una prospettiva di sistema, si ricordi che l’art. 1, c. 1, lett. h), della medesima legge ha aggiunto un periodo anche all’art. 166, c. 1, c.p., che così recita: «nondimeno, nel caso di condanna per i delitti previsti dagli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis e 346-bis, il giudice può disporre che la sospensione non estenda i suoi effetti alle pene accessorie dell’interdizione dai pubblici uffici e dell’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione».

Pertanto, al fine di rendere più salde le sanzioni accessorie introdotte con la nuova formulazione dell’art. 317-bis, c.p.[22], la l. n. 3 del 2019 è intervenuta, tra l’altro, sull’istituto in esame riconoscendo al giudice il potere di disporre, in deroga a quanto già previsto dall’originario - e oggi anch’esso riformato - art. 166 c.p., che la sospensione condizionale non estenda i suoi effetti alle pene accessorie dell’interdizione dai pubblici uffici e dell’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, nel caso di condanna per i reati previsti dagli artt. 314, c. 1, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, c. 1, 320, 321, 322, 322-bis e 346-bis, c.p.

Un secondo intervento, poi, si è avuto con l’approvazione in via definitiva da parte del Senato del disegno di legge recante “Modifiche al codice penale e altre disposizioni in materia di legittima difesa” avvenuta il 28 marzo del 2019.

Il testo, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 102 del 3 maggio 2019, amplia l’ambito di applicazione della legittima difesa, con particolare riguardo alla c.d. difesa domestica e all’eccesso colposo nella legittima difesa, e inasprisce il regime sanzionatorio dei reati di furto, rapina e violazione di domicilio.

Il provvedimento, tra le altre cose, introduce modifiche anche alla disciplina della sospensione condizionale della pena e alla liquidazione degli onorari e delle spese di giustizia. Per quanto qui interessa, l’art. 3 del promulgando testo di legge recita: «All’articolo 165 del codice penale, dopo il quinto comma è aggiunto il seguente:
“Nel caso di condanna per il reato previsto dall’articolo 624-bis, la sospensione condizionale della pena è comunque subordinata al pagamento integrale dell’importo dovuto per il risarcimento del danno alla persona offesa”».

Si noti, dunque, che anche con riferimento alla fattispecie di furto con strappo - giusta il richiamo all’art. 624-bis nella sua interezza - il beneficio della sospensione viene subordinato al ristoro integrale del danno subito dalla vittima del reato, in un contesto (già per più vie criticato dalla dottrina[23]) in cui il legislatore vorrebbe attuare una piena tutela della vittima dei reati di furto in abitazione e furto con strappo anche quando in concreto si realizzi un vero e proprio chiasmo tra agente e vittima: quando, cioè, la vittima diviene a sua volta (legittimo?) aggressore di chi originariamente aggrediva[24].

Val la pena accennare - ma non è questa la sede per un approfondimento esaustivo del tema - che il provvedimento de quo incide anche sulla formulazione dell’art. 2044, c.c., annettendovi un nuovo secondo comma per il quale «nei casi di cui all’art. 52, commi secondo, terzo e quarto del codice penale, la responsabilità di chi ha compiuto il fatto è esclusa»[25] e un nuovo terzo comma, per cui, invece, «una indennità la cui misura è rimessa all’equo apprezzamento del giudice, tenuto altresì conto della gravità, delle modalità realizzative e del contributo causale della condotta posta in essere dal danneggiato»[26].

4.2. La riparazione del danno

4.2.a. Premessa: la riparazione pecuniaria come condizione alla concessione della sospensione condizionale della pena

Con le Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio - è stato introdotto nell’ordinamento sostanziale penale l’istituto della riparazione pecuniaria. L’originaria norma recitava: «con la sentenza di condanna per i reati previsti dagli articoli 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320 e 322-bis, è sempre ordinato il pagamento di una somma pari all’ammontare di quanto indebitamente ricevuto dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio a titolo di riparazione pecuniaria in favore dell’amministrazione cui il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio appartiene, ovvero, nel caso di cui all’articolo 319-ter, in favore dell’amministrazione della giustizia, restando impregiudicato il diritto al risarcimento del danno» (art. 322-quater, c.p. nell’originaria formulazione). Pertanto, tale forma di riparazione investiva l’agente pubblico in favore della Pubblica Amministrazione, si aggiungeva al risarcimento del danno, e si sostanziava nel pagamento di una somma pari a quanto indebitamente ricevuto[27]: tale dazione costituiva un requisito di ammissibilità della sospensione condizionale della pena (art. 165, c. 4, c.p.).

Sin dalle prime analisi dottrinali, la riparazione pecuniaria si è mostrata come «istituto di difficile lettura e inquadramento giuridico»[28]. Essa, infatti, si connota come una forma di riparazione coattiva, di tipo non risarcitorio (poiché impregiudicato rimane il risarcimento dei danni), non affidata all’iniziativa volontaria del reo e neppure subordinata ad un’espressa richiesta della persona offesa.

Per di più, «la quantificazione dell’ammontare dovuto a titolo compensativo non è rimessa all’apprezzamento del giudice né commisurata ai pregiudizi complessivamente subiti dall’amministrazione di appartenenza, ma forfettariamente calibrata sui proventi materiali indebitamente ricevuti. Tali peculiarità rendono la misura del tutto inedita nel nostro sistema penale. Di certo, essa ha assai poco a che spartire con l’idea della riparazione del danno quale possibile “terza via” del diritto penale, cioè quale misura volta a sostituire o attenuare la pena laddove risulti più idonea a soddisfare gli scopi di quest’ultima e i bisogni della vittima. Nel caso di specie, la restituzione coattiva dell’indebito costituisce una sanzione patrimoniale che si aggiunge inderogabilmente alla reclusione, operando contestualmente e indipendentemente da questa, anche in sede esecutiva. Non v’è dubbio, comunque, che l’aver assoggettato la sospensione condizionale della pena all’obbligo restitutorio del turpe lucrum può costituire per il reo un forte stimolo a procedere in questa direzione. Va, inoltre, osservato che nonostante il nomen iuris (“riparazione pecuniaria”), l’istituto tradisce una vocazione funzionale ancipite: non solo compensatoria, ma anche (e soprattutto) punitivo-deterrente»[29].

Anche su tale istituto è intervenuta la l. n. 3/2019, la quale ha riformulato il contenuto dell’art. 322-quater.

Si prevede oggi che «on la sentenza di condanna per i reati previsti dagli articoli 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 321 e 322-bis, è sempre ordinato il pagamento di una somma equivalente al prezzo o al profitto del reato a titolo di riparazione pecuniaria in favore dell’amministrazione lesa dalla condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, restando impregiudicato il diritto al risarcimento del danno».

L’istituto, di carattere - per così dire - più punitivo che riparatorio, viene allargato a ricomprendere anche le fattispecie di corruzione poste in essere dai privati (il riferimento è alle ipotesi di cui all’art. 321 c.p. menzionato nella nuova formulazione) e non risulta più fondato su quanto illecitamente ottenuto dal pubblico agente grazie al reato, bensì sulle nozioni di prezzo e profitto dell’illecito, che rappresentano il parametro quantitativo su cui calcolare la somma che ciascuno degli agenti del fatto di corruzione (considerata sia dal lato attivo che passivo) deve in favore della Pubblica Amministrazione[30].

Rimane invariato il dato per cui la dazione della somma in riparazione pecuniaria  condizione per accedere al beneficio della sospensione condizionale della pena, a questo punto, però, anche per il privato che ha corrisposto il denaro o la diversa utilità al pubblico agente[31].

4.2.b. Una misura priva di contenuti, se non obbligati

Nelle aule di giustizia si assiste all’applicazione dell’istituto della sospensione condizionale della pena in maniera sostanzialmente automatica[32]. Quanto al contenuto, nonostante l’espansione voluta dal legislatore[33], l’applicazione della sospensione «è rimasta nella quasi totalità dei casi una misura vuota (solo nel 2% dei casi, infatti, i giudici prevedono l’imposizione di un obbligo ex art. 165 c.p[34].

Tuttavia, stante la saturazione dell’attuale sistema penitenziario, anche la dottrina più rigida e attenta ha dovuto cedere a comprendere le ragioni di tale uso parzialmente distorto del beneficio sospensivo: allo stato degli atti, l’applicazione quasi-automatica della mera sospensione (non condizionata, cioè, ad alcun obbligo per il reo) si rivela una misura più necessitata che altro.

Unica tendenza in senso opposto si può avvertire con riferimento alle forme di sospensione previste più di recente: la c.d. “sospensione breve” di cui all’art. 163, c. 4, c.p.; la sospensione precipuamente preveduta per determinate categorie di reato quali il danneggiamento (art. 635, c. 3, c.p.) o i reati dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione. In queste ipotesi la ratio dell’intervento legislativo risiede sicuramente nell’ispirazione a un abbozzato sistema di tipo riparativo, ma, in fin dei conti, la ristrettezza e specificità dei casi previsti rimane un’isola nella tentata deflazione[35].

4.2.c. La subordinazione della concessione all’adempimento dell’obbligo restitutorio in caso di mancata costituzione di parte civile

La Corte di cassazione è stata chiamata più volte a pronunciarsi sulla possibilità che il giudice, in mancanza di costituzione di parte civile, possa subordinare d’ufficio la sospensione condizionale della pena al risarcimento del danno e alle restituzioni.

Gli orientamenti seguiti sono stati essenzialmente due.

Un primo filone[36] ha assunto la posizione per cui al giudicante sarebbe preclusa la subordinazione della sospensione condizionale della pena all’adempimento degli obblighi restitutori qualora la parte civile non si sia costituita.

La Corte perviene alla suddetta soluzione chiarendo, preliminarmente, la distinzione tra danno criminale e danno civilistico: tale preliminare chiarimento risulta d’uopo allorché si consideri che la commissione di un reato provoca sia la violazione del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, sia i danni - patrimoniali e non - subiti dalla persona offesa. In questa prospettiva, per danno criminale la Corte asserisce che bisogna intendersi l’insieme di «quelle conseguenze che ineriscono alla lesione o alla messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma penale violata […]. Si tratta, quindi, di un danno che, a seguito della violazione della norma penale, essendo arrecato alla società, ha natura pubblicistica». Diversamente si atteggia il danno civilistico, in quanto consistente nel «danno che il reato arreca alle singole persone offese e del quale può essere richiesto il risarcimento e/o la restituzione, nel processo penale attraverso la costituzione di parte civile». Di evidenza, allora, la natura squisitamente privatistica di quest’ultimo.

Ricostruito, poi, alla luce di queste considerazioni, l’avvicendarsi delle norme modificative della disciplina ex art. 165, c.p., il Collegio espone i motivi posti a fondamento della decisione, chiarendo che, sotto il profilo formale, la locuzione “risarcimento danni e obbligo di restituzioni” viene riferita sistematicamente alle pretese avanzate dalla parte civile (similmente a quanto accade in seno agli artt. 74, 538 e 578, c.p.p). Da ciò discende, da un lato, il dato per cui medesima riferibilità deve esser assegnata all’art. 165, c. 1, prima parte, c.p., laddove si tratta di subordinazione «all’adempimento dell’obbligo delle restituzioni, al pagamento della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno»; dall’altro lato che se, per assurdo, si facesse coincidere l’adempimento restitutorio con il disposto dell’art. 165, c. 1, secondo periodo (ossia con l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato), la norma medesima sarebbe superflua.

In conclusione, le restituzioni e il risarcimento del danno sono adempimenti inerenti al danno civile e non anche al danno criminale che, invece, coincide con le conseguenze pubblicistiche che dalla violazione della norma incriminatrice discendono: anche la condanna alla restituzione dei beni oggetto del commesso reato, allora, in tanto potrebbe essere pronunciata in quanto vi sia una parte civile regolarmente costituitasi in giudizio che chieda la condanna dell’imputato in tal senso.

Secondo, invece, altro orientamento[37], la subordinazione del beneficio sospensivo all’adempimento degli obblighi restitutori risulterebbe legittima in ragione di una diversa esegesi: le restituzioni, infatti, devono esser fatte rientrare tra le condotte di eliminazione delle conseguenze dannose del reato.

A seguito della modifica legislativa apportata dalla l. n. 689 del 1981 - motiva la Corte - la subordinazione di cui si tratta ha assunto rango di istituto a carattere generale: «[…] in giurisprudenza questa Corte condivide l’orientamento secondo il quale, mentre per l’imposizione degli obblighi di risarcimento è necessaria la preventiva costituzione di parte civile, l’imposizione dell’obbligo delle restituzioni e dell’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose dei reato invece prescinde da tale evenienza (Cass., sez. 3^, 4 aprile 1986, n. 5590, C.E.D. cass. n. 172180). Tale posizione ha trovato conferma anche nella giurisprudenza di merito […] secondo la quale l’applicabilità dell’art. 165 c.p. presuppone la costituzione di parte civile nel solo caso in cui il giudice intenda subordinare la sospensione condizionale della pena al pagamento della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno o provvisoriamente assegnata sull’ammontare di esso e non, invece, nei caso in cui tale subordinazione inerisca all’adempimento dell’obbligo delle restituzioni o alla eliminazione delle conseguenze dannose del reato, in quanto le restituzioni non sono più finalizzate alla tutela degli interessi civili del danneggiato, bensì al reinserimento sociale del reo, motivandolo a comportamenti sintomatici di una maggiore socialità. Infatti, la sospensione condizionale della pena subordinata ad obblighi del condannato si ispira ai principi di legalità e tassatività e per questo la subordinazione può essere disposta, come è avvenuto nel caso di specie, solo con riferimento a prestazioni certe e determinate in modo da assicurare l’esatta corrispondenza tra obbligo imposto e suo corretto adempimento»[38].

4.2.d. Revoca della sospensione condizionale della pena subordinata al risarcimento del danno in caso di impossibilità ad adempiere o gravità di condizioni economiche

Sussiste un contrasto giurisprudenziale anche in ordine al dovere del giudice di accertare quali siano le condizioni economiche dell’imputato prima di ordinare la sospensione condizionale della pena subordinata al risarcimento del danno.

Con la sentenza n. 49718 del 25 luglio 2017, da ultimo, la Sesta Sezione penale della Corte di legittimità ha dato atto della sussistenza, sul punto, di almeno tre orientamenti.

Secondo il primo di questi, il giudice non è tenuto a effettuare alcun accertamento sulle condizioni economiche dell’imputato: ciò si ricaverebbe dal fatto che la Corte costituzionale, con la nota sent. 49 del 1975, abbia escluso l’illegittimità costituzionale dell’art. 165, c.p., in relazione all’art. 3, Cost., nella parte in cui, attribuendo al giudice la facoltà di concedere la sospensione condizionale della pena subordinatamente all’effettiva riparazione del danno, comporterebbe una discriminazione a carico del condannato che, a causa delle sue condizioni economiche, non sia in grado di prestare il dovuto risarcimento. Da ciò si fa derivare il principio per cui «all’imputato non potrebbe comunque derivare un grave ed irreparabile danno per l’ipotesi di incolpevole inadempimento dell’obbligo risarcitorio, non comportando l’inosservanza dello stesso la revoca automatica del beneficio e potendo il soggetto interessato, in sede di esecuzione, allegare la comprovata assoluta impossibilità dell’adempimento, nonché il giudice valutare la attendibilità e la rilevanza dell’impedimento dedotto», che sposta in executivis il problema della verifica di cui si discute. Vieppiù, si sottolinea anche che in sede di cognizione il giudice spesso non ha a disposizione gli strumenti più idonei a verificare la reale capacità economica dell’imputato e che, tra l’altro, il medesimo accertamento potrebbe poi essere condotto in duplicazione anche dal giudice dell’esecuzione, sebbene qui l’interesse a dimostrare la situazione economica si sposti più in capo al reo (criterio della vicinanza della prova e dell’interesse alla medesima).

Contrapposto a tale indirizzo, quello che, invece, ritiene debba considerarsi illegittima la decisione del giudice di cognizione che subordini il beneficio sospensivo al risarcimento del danno contestualmente liquidato senza, però, procedere - con apprezzamento motivato - alla valutazione sommaria delle condizioni economiche dell’imputato e della concreta possibilità di sostenere l’onere del risarcimento pecuniario. Si scrive: «Tale ultima impostazione deve ritenersi costituzionalmente orientata al rispetto dell’art. 3 Cost., anch’essa richiamando, ma a fini opposti, la sentenza n. 49 del 1975 della Corte Costituzionale, laddove questa ha avvertito che spetta al giudice di valutare, con apprezzamento motivato ma discrezionale, la capacità economica del condannato e la sua concreta possibilità di sopportare l’onere del risarcimento pecuniario.

Secondo tale orientamento, quindi, solo una preventiva valutazione, sia pure sommaria, delle condizioni economiche del condannato costituisce mezzo idoneo per evitare che si realizzi in concreto un trattamento di sfavore a carico dello stesso in ragione delle sue condizioni economiche».

Si dà atto, infine, di un ultimo filone giurisprudenziale - cui la sentenza 49718/2017 aderisce - per il quale il motivato apprezzamento delle condizioni economiche dell’imputato è necessario solo nei casi in cui emergano dagli atti elementi che risultino idonei a far dubitare della capacità del soggetto di soddisfare l’obbligo economico impostogli: «Ritiene il Collegio di aderire a quest’ultimo indirizzo che, pur non richiedendo automatismi accertativi sulle condizioni economiche dell’imputato, valorizza i principi affermati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 49 del 1975 e, sulla base dei singoli casi concreti, riconnette le ragioni delle parti civili al riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale della pena attraverso parametri di esigibilità logica della prestazione e canoni di ragionevolezza della obbligazione patrimoniale imposta».

 

5. La riabilitazione

Per assonanza di questioni, giova, infine, soffermarsi sull’istituto della riabilitazione, il quale interviene ben oltre il tempo della irrogazione ed esecuzione della sanzione e costituisce causa di estinzione delle pene accessorie e di ogni altro effetto penale della condanna (art. 178, c.p).

5.1. Caratteri generali e ratio

A norma dell’art. 179, c.p., affinché sia concessa - con ordinanza - la riabilitazione al condannato, è necessario che sussistano taluni elementi (comma primo, art. cit.):

- il decorso di tre anni[39] dal giorno in cui la pena principale è stata eseguita o si è in altro modo estinta (ad esempio, a seguito di indulto);

- la sussistenza di prove effettive e costanti di buona condotta mantenuta dal condannato nel periodo di tempo indicato.

Vi sono, poi, due condizioni ostative alla concessione della riabilitazione, consistenti nella sottoposizione attuale del richiedente a misura di sicurezza - con l’esclusione della espulsione dello straniero dallo Stato, ovvero della confisca - e nel mancato adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato - salvo che l’istante dimostri di versare nell’impossibilità di adempierle.

Il Tribunale di Sorveglianza, che in prima battuta decide de plano secondo quanto dettato dall’art. 678, c. 1-bis, c.p.p., in combinato disposto con l’art. 667, c. 4, c.p.p., revoca di diritto l’ordinanza che concede la riabilitazione allorché il riabilitato commetta entro sette anni un delitto non colposo per il quale sia inflitta la pena della reclusione per un tempo non inferiore a due anni, o più grave (art. 180, c.p).

Un punto di non scarsa importanza consiste nell’analisi della ratio (squisitamente premiale) posta a fondamento della causa di estinzione di cui sino a ora si è detto.

Per usare le parole della Cassazione, l’istituto è «nel contempo premiale, in quanto riguarda la correttezza della condotta tenuta dal condannato in epoca successiva all’esecuzione o all’estinzione della pena, e social-preventiva dal momento che la funzione degli effetti premiali induce i condannati a mantenere un comportamento socialmente corretto»[40].

In origine, nellarelazione del Guardasigilli Rocco al progetto preliminare del codice di procedura penale, si legge: «Anche in questa materia ho voluto ispirarmi a quei criteri di indulgenza e di larghezza verso i meritevoli, che mi hanno costantemente guidato nella riforma. Mi sono proposto, cioè, di agevolare in tutti i modi la riabilitazione a chi se ne è reso degno, perché è interesse dello Stato promuovere il ravvedimento dei rei, di confortarli con la speranza della redenzione sociale nei loro buoni propositi, di ridare ai condannati la possibilità di vivere onestamente, eliminando quegli ostacoli che prevengono dalla precedente o dalle precedenti condanne. [...] In questa materia, così profondamente umana e provvidamente sociale, non si devono ammettere preclusioni assolute»[41].

Si può, pertanto, dire con sicurezza che a oggi la riabilitazione presenta i caratteri della premialità - per quanto attiene alla risocializzazione del condannato - e della incentivazione al rispetto della legge - sotto la controspinta intimidatoria della revoca in caso di commissione di ulteriori reati[42].

Detto in altri termini, la riabilitazione «restituisce al condannato la capacità di esercitare le facoltà giuridiche, escluse o menomate dalla sentenza di condanna; […] infatti, nella misura in cui elimina gli ostacoli alla vita di relazione e allo svolgimento di attività lavorative creati sia dalle pene accessorie […] sia dagli effetti penali della condanna […], restituisce al condannato il ruolo precedentemente occupato nella società»[43].

5.2. La riparazione del danno: buona condotta e obbligazioni civili

Alla luce di quanto sopra, la buona condotta diviene il perno di tutta la disciplina volta alla concessione della riabilitazione.

Se - da un lato - non si può certo improntare l’esegesi della locuzione a criteri di stampo morale, ben può ricondursi la buona condotta, come è stato fatto, al comportamento non tanto esemplare, ma che non comporti significative violazioni delle norme penali[44].

L’accertamento de quo, ne discende, deve essere ancorato a fatti specifici, aventi una obiettiva rilevanza, intervenuti o verificatisi nell’arco temporale ricompreso tra la sentenza di condanna e la richiesta di riabilitazione[45]: inoltre, «la valutazione della buona condotta del condannato, non può fondarsi sulla mera “presa d’atto” dell’astensione dal compimento di fatti costituenti reato, “ma postula l’instaurazione ed il mantenimento di uno stile di vita improntato al rispetto delle norme di comportamento comunemente osservate dalla generalità dei consociati, pur quando le stesse non siano penalmente sanzionate o siano, addirittura, imposte soltanto (senza la previsione di alcun genere di sanzione giuridica) da quelle elementari e generalmente condivise esigenze di reciproca affidabilità che sono alla base di ogni ordinata e proficua convivenza sociale”»[46].

La medesima logica deve sorreggere l’analisi dell’adempimento (rectius, del mancato adempimento) delle obbligazioni civili (ivi comprese le spese processuali) derivanti dal reato che si vuole emendare.

Condizione imprescindibile per la concessione della riabilitazione, infatti, è da ritenersi quella dell’adempimento de quo, salva l’ipotesi in cui il condannato risulti versare in impossibilità. In questo senso, chiaramente, i criteri valutativi della situazione di impossibilità si discostano da quelli civilistici per avvicinarsi alla ratio della dimostrazione di ravvedimento e di mantenimento della buona condotta successivamente alla condanna.

A tal proposito, la casistica giurisprudenziale risulta alquanto variegata: se, per un verso, la mancata richiesta di risarcimento del danno non equivale a una rinuncia al credito da parte della persona offesa, parallelamente non gioverà l’intervenuta remissione di querela o la mancata costituzione di parte civile, poiché il legislatore pone in capo al riabilitando lo specifico onere di fornire concreti indizi circa la volontà di ristorare la vittima del commesso reato sia dei danni patrimoniali che di quelli morali[47]. L’impossibilità di adempiere le obbligazioni civili derivanti dal reato, infatti, «non va intesa in senso restrittivo, e cioè come sinonimo di impossidenza economica, ma ricomprende tutte le situazioni non imputabili al condannato che gli impediscono, comunque, l’adempimento delle obbligazioni civili, al quale è tenuto al fine di conseguire il beneficio richiesto. La ragione del principio va ovviamente individuata nella esigenza di evitare un ingiustificato impedimento al reinserimento sodale del riabilitando che abbia, per altro verso, dato prova, attraverso la buona condotta tenuta, di essere meritevole della riabilitazione»[48].

Recentemente, la Corte di cassazione è intervenuta sul peso da assegnare all’accordo transattivo intervenuto tra reo e persona offesa: in tale ipotesi, comunque la buona condotta deve desumersi aliunde, da fatti concretamente dimostrativi della medesima: «Se è vero che il requisito della integralità del risarcimento dei danni non può dirsi aprioristicamente escluso dall’esistenza di un accordo transattivo (Sez. 1^, n. 5767 del 08/01/2010, Scotuzzi, Rv.246564), è tuttavia onere del giudice di merito verificare, in base all’entità delle somme convenzionalmente pattuite e ad ogni altro elemento ritenuto rilevante, che quanto versato a seguito di accordo tra le parti corrisponda, nella sostanza, ad un risarcimento integralmente satisfattorio del diritto alla riparazione dei danni vantato dalle persone offese»[49].

6. Conclusioni

Alla luce dell’analisi sin qui condotta, si può notare come le misure latamente sospensive del procedimento ovvero della pena (messa alla prova e sospensione condizionale della pena) o estintive degli effetti del reato (riabilitazione), collocate in diversi momenti della vicenda penale, siano permeate da una molteplicità di logiche che - per il tramite della riparazione e dell’assolvimento delle obbligazioni civili ex delicto - solo in parte coincidono con quelle della giustizia riparativa in senso proprio.

In riferimento a una pletora più ampia di istituti anche di legislazione speciale, è stato detto che «la ricerca del dialogo e l’importanza delle condotte riparatorie sono valori in linea con l’opzione per un diritto penale “mite”, soprattutto là dove ad assumere un ruolo centrale siano le esigenze rieducative dell’imputato minorenne. Da ultimo, però, con la l. 2 maggio 2014, n. 67, si è andati oltre questo approccio: anche nel rito ordinario è comparsa la mediazione, elevata a tratto saliente della “prova” (art. 464-bis, comma 4, lett. c, c.p.p).

In ogni caso, a fungere da comune denominatore dei meccanismi basati in grado variabile su istanze riconciliative sono sempre finalità di economia processuale: se le forme mutano, lo sbocco auspicato resta identico, quello - cioè - di una chiusura anticipata della vicenda giudiziaria»[50].

Illuminante, a proposito, il saggio di Massimo Donini, Il delitto riparato. Una disequazione che può trasformare il sistema sanzionatorio[51],in cui si rileva la direzione assunta dalla più recente legislazione in senso sostanzialmente opposto alla concezione generalpreventiva e spersonalizzante del diritto penale e della pena, più nello specifico: una panoplia di ipotesi riparative, sradicate da un intervento sistematico di ripensamento sanzionatorio, che fuoriescono dal tracciato della giustizia riparativa, perché preminentemente volte alla «collaborazione processuale», al «ravvedimento condizionato a delazioni», a «condotte di ripristino di situazioni del tutto indipendenti da una vera vittima».

«È in corso, al riguardo, la più grande decodificazione della storia del codice Rocco. […] L’idea che il delitto, in quanto tale, sia un illecito dal quale “non si torna indietro”, sì che altro non rimanga, salvo la grazia sovrana, che subire la pena meritata, non appartiene alla politica criminale contemporanea in numerosi settori di intervento penale»[52].

Ed è qui, allora, che viene in gioco l’offesa penale subita dalla vittima in relazione al risarcimento del danno: se quest’ultimo è coercibile mediante i noti strumenti civilistici, la riparazione dell’offesa non può essere imposta se non tramite la minaccia di una alternativa privazione della libertà personale[53].

«[…] la pena c’è in quanto la riparazione non è possibile, non c’è stata, e comunque non serve a “compensare” il delitto, perché la riparazione non è una pena subita, non si subisce e dunque non è una pena, perché è sempre agita dal soggetto. Del resto, la regola per i delitti è che dal delitto non si torna indietro, se si è compiuta l’azione (art. 56, c.p.) e l’impedimento dell’evento o la riparazione dell’offesa valgono solo come attenuanti (art. 56 u.mo co. e art. 62 n. 6 c.p)»[54].

Il Professor Donini, allora, si spinge agli estremi confini del ripensamento del sistema sanzionatorio: il delitto riparato non già come frammentazione di ipotesi di legislazione speciale o istituti processuali deflativi, bensì come base epistemologica della pena criminale e figura di parte generale[55].

Estranee le logiche moralistiche del pentimento e del perdono, i tratti della giustizia riparativa (partecipazione attiva delle parti, finalità orientata alle esigenze della vittima, riparazione globale dell’offesa, volontarietà della mediazione) sono assenti nei più risalenti istituti qui analizzati (riabilitazione e sospensione condizionale della pena con le relative vicende modificative), come nelle recenti introduzioni (la sospensione del procedimento con messa alla prova), ove la prevaricazione delle logiche - deflativa del procedimento ed emergenziale per la condizione strutturale e di sovraffollamento delle carceri - relegano al di là del pomoerium processuale la vittima del reato.

 
 

Note e riferimenti bibliografici

[1] V. Woolf, The Russian Point of View, originariamente pubblicato nella raccolta di saggi The Common Reader. First Series, Hogarth Press, Londra 1925.

[2] Traduzione di Veronica La Peccerella in V. Woolf, L’anima russa, Elliot, Roma 2015, p. 40. Il testo originale recita: «When you have changed every word in a sentence from Russian to English, have thereby altered the sense a little, the sound, weight, and accent of the words in relation to each other completely, nothing remains except a crude and coarsened version of the sense. Thus treated, the great Russian writers are like men deprived by an earthquake or a railway accident not only of all their clothes, but also of something subtler and more important — their manners, the idiosyncrasies of their characters».

[3] Il riferimento è al lavoro di G. Mannozzi, Traduzione e interpretazione giuridica nel multilinguismo europeo: il caso paradigmatico del termine «giustizia riparativa» e delle sue origini storico-giuridiche e linguistiche, in Riv. it. Dir. Proc. pen., fasc. 1, 2015, p. 137, nell’alveo del più ampio percorso di ricerca del Centro Studi sulla Giustizia Riparativa e la Mediazione, istituito presso l’Università degli Studi dell’Insubria.

[4] Non si tralascino, però, anche le altre definizioni - comunque in termini con quanto si dirà appresso - fornite in altre sedi come, ad esempio, quella delle Nazioni Unite per cui si parla di restorative justice con riferimento a «any process in which the victim and the offender and, where appropriate, any other individuals or community members affected by crime participate together actively in the resolution of matters arising from the crime, generally with the help of a facilitator».

[5] In questo senso anche G. Mannozzi - G.A. Lodigiani, La giustizia riparativa. Formanti, parole e metodi, Torino 2017, pp. 99ss.

[6] D. Girolamo, Il “principio riparativo” quale paradigma di gestione del conflitto generato dal reato: applicazioni e prospettive, in Dir. pen. proc., 2013, 3, 357, rinviene la «crisi di credibilità del sistema sanzionatorio classico» per un verso nell’ingolfamento dello stesso che, quindi, non è in grado di soddisfare la richiesta di giustizia della comunità e della vittima; per altro verso, nella marginalità accordata alla vittima del reato all’interno del processo, poiché considerata spesso quale mera destinataria di un ammontare di danaro a titolo risarcitorio.

[7] Per un’approfondita disamina del più recente istituto figlio dell’approccio riparatorio (la estinzione del reato per condotte riparatorie ex art. 162-ter, c.p) si rimanda a G.P. Demuro, L’estinzione del reato mediante riparazione: tra aporie concettuali e applicative, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., fasc.1/2019, pp. 437ss., nonché a D. Carcano, Giustizia riparativa con uno sguardo alla nuova disciplina delle “condotte riparatorie”, in Cass. Pen., fasc.12/2018, pp. 4038ss.

[8] Incisivamente critico, in tal senso, sulla qualificazione di alcuni istituti come “riparatori”, C. Grandi, L’estinzione del reato per condotte riparatorie. Profili di diritto sostanziale, rinvenibile su www.lalegislazionepenale.eu.

[9] Il riferimento è, chiaramente, alle discipline che prevedono più o meno espressamente il ricorso alla mediazione penale: paradigmatico, a proposito, il giudizio innanzi al giudice di pace, per il quale l’art. 2, c. 2, d.lgs. 274/2000 dispone che il giudicante «deve favorire, per quanto possibile, la conciliazione tra le parti», sì che sia valutato concretamente anche il grado di offensività dell’illecito ai fini della particolare sua tenuità, ovvero la possibilità concreta di riparazione dell’offesa che conduce alla pronuncia di estinzione ex art. 35, d.lgs. cit. (tra i tanti, cfr. C. Mazzucato,  La giustizia penale in cerca di umanità. Su alcuni intrecci teorico-pratici fra sistema del giudice di pace e giustizia riparativa, in  Contenuti e limiti della discrezionalità del giudice di pace in materia penale, a cura di L. Picotti, G. Spangher,  Milano 2006, pp. 139ss.); si veda anche, sebbene manchi un riferimento esplicito alla tecnica gestoria della mediazione, il procedimento dinanzi al Tribunale per i minorenni, avente come fine precipuo la rieducazione del minore e il reinserimento dello stesso nel tessuto sociale, previa la ricucitura dello strappo con la vittima (artt. 9, c. 2, 27 e 28, d.p.r. n. 448/1988, per cui si veda A. Ceretti,  La mediazione reo-vittima nel sistema penale minorile. Rivisitazione di alcuni nodi teorici dopo quindici anni di pratiche, in  Rass. it. crim., 2013, pp. 286ss).

[10] Cfr. C. Grandi, cit.

[11] La riparazione del danno cagionato per il tramite del reato, infatti, ha assunto e continua ad assumere oggi notevole rilievo nell’ambito penale, specie per mezzo dell’introduzione di una serie di istituti che alle condotte - in senso lato - riparatorie affidano un ruolo preponderante: si veda, in tal senso, L. Bartoli, Il trattamento nella sospensione del procedimento con messa alla prova, in Cass. pen., fasc. 5, 2015, pp. 1755ss., ove si punta l’obiettivo sulle peculiarità della m.a.p. e si portano a esempio gli istituti della sospensione condizionale della pena, delle attenuanti comuni, della definizione alternativa del procedimento dinanzi al giudice di paca, con un cenno sulla - al tempo - non ancora introdotta figura della estinzione del reato a seguito di condotte riparatorie.

[12] Se le radici storiche sono da rinvenire nel sistema di probation, come si è detto, altrettanto rilevante è il dato per cui la messa alla prova sensibilmente si discosta dal suo retroterra di origine. Senza pretesa di esaustività, si ricorda solo che il probation system si sostanzia nella sospensione della pronuncia di una condanna a pena detentiva: a seguito dell’accertamento compiuto della responsabilità penale, al responsabile non è inflitta una condanna. Egli viene lasciato in libertà, ma sotto la supervisione del c.d. probation officer, il quale, per un determinato periodo di tempo, dovrà vigilare sul corretto adempimento delle precise prescrizioni dettate dal giudice (probation conditions) e, al contempo, fornire sostegno al condannato.

La sospensione del procedimento con messa alla prova si radica in un momento totalmente differente rispetto a quello del probation system che opera, invece, in executivis: essa prescinde dall’inflizione di una condanna e dalla conseguente irrogazione di una pena.

Per un’analisi sulle contraddittorietà strutturali interne dell’istituto, R. Bartoli, La sospensione del procedimento con messa alla prova: una goccia deflattiva nel mare del sovraffollamento?, in Dir. pen. proc., 2014, 6, 659.

[13] Per un quadro più completo, F. Fiorentin, Rivoluzione copernicana per la giustizia riparativa, in Guida al Diritto, n. 21, 2014, pp. 63ss. e R. Bartoli, op. cit.

[14] Art. 464-bis, c. 4, lett. b)

[15] Il termine, a norma dell’art. 464-quinquies può essere prorogato per una sola volta su istanza dell’ammesso e solo per gravi motivi.

[16] Per un’articolata casistica, F. Fiorentin, op. cit., pp. 75ss., in cui l’A. si premura anche di correlare la questione del quantum debendi all’ipotesi in cui sia radicato il giudizio innanzi al giudice civile.

[17] Cass., SS.UU., 23 novembre 1988, con nota di Padovani, in Cass. pen, 1989, pp. 1181ss, sulla concedibilità delle attenuanti comuni.

[18] Cass., IV, 24 settembre 2008, n. 41043: «che cosa dovrebbe fare il responsabile del sinistro per godere della causa di estinzione? Operare perché la compagnia non provveda al risarcimento e provvedere personalmente ovvero procedere a un risarcimento personale anche se la compagnia vi ha già provveduto? L’assurdità delle conseguenze cui conduce la tesi proposta dal ricorrente non sembra meritare ulteriori commenti».

[19] C. cost., 23 aprile 1998, n. 138.

[20] A seguito della sent. n. 95/1976 della Corte costituzionale l’ultimo comma dell’art. 164, c.p. è stato modificato e prevede adesso che è consentita una seconda concessione del beneficio quando la pena da infliggere, cumulata a quella già sospesa, non superi i limiti oggettivi dell’art. 163, c.p.

[21] In particolare, il giudice può o deve (a seconda dei casi) subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena

- all’adempimento degli obblighi restitutori;

- al pagamento della somma liquidata a titolo di risarcimento o di provvisionale;

- alla pubblicazione della sentenza quale forma di riparazione del danno;

- all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato;

- alla prestazione di attività lavorativa non retribuita in favore della collettività, qualora il condannato non si opponga.

[22] «La condanna per i reati di cui agli articoli 314, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis e 346-bis importa l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e l’incapacità in perpetuo di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio. Nondimeno, se viene inflitta la reclusione per un tempo non superiore a due anni o se ricorre la circostanza attenuante prevista dall’articolo 323-bis, primo comma, la condanna importa l’interdizione e il divieto temporanei, per una durata non inferiore a cinque anni né superiore a sette anni. Quando ricorre la circostanza attenuante prevista dall'articolo 323-bis, secondo comma, la condanna per i delitti ivi previsti importa le sanzioni accessorie di cui al primo comma del presente articolo per una durata non inferiore a un anno né superiore a cinque anni».

[23] Per tutti, G.L. Gatta, La nuova legittima difesa nel domicilio: un primo commento, in Diritto Penale Contemporaneo, reperibile anche su https://www.penalecontemporaneo.it/d/6596-la-nuova-legittima-difesa-nel-domicilio-un-primo-commento-.

[24] Si noti anche che la promulgazione della legge in commento - avvenuta il 26 aprile 2019, nel massimo arco temporale che la procedura ex art. 73, Cost. concede al Presidente della Repubblica per meditare sulla opportunità della semplice promulgazione ovvero sulla restituzione alle Camere per una nuova deliberazione ai sensi dell’art. 74, Cost. - è stata accompagnata da una lettera del Capo dello Stato indirizzata ai Presidenti delle Camere e al Presidente del Consiglio dei Ministri ove si legge: «Segnalo, infine, che l’articolo 3 della legge in esame subordina al risarcimento del danno la possibilità di concedere la sospensione condizionale della pena, nel caso di condanna per furto in appartamento o per furto con strappo ma che lo stesso non è previsto per il delitto di rapina. Un trattamento differenziato tra i due reati non è ragionevole poiché - come indicato dalla Corte costituzionale, nella sentenza n. 125 del 2016 - “gli indici di pericolosità che possono ravvisarsi nel furto con strappo si rinvengono, incrementati, anche nella rapina”».

[25] Norma dimentica del principio generale di efficacia universale delle cause di giustificazione per tutto l’ordinamento giuridico.

[26] Si notino, qui, le assonanze con il disposto dell’art. 2045, c.c., relativo allo stato di necessità. 

[27] Come ricorda G. Cocco, Le recenti riforme in materia di corruzione e la necessità di un deciso mutamento di prospettiva nell’alveo dei principi liberali, in Responsabilità Civile e Previdenza, fasc. 2, 2018, pag. 374, si tratta di misura già proposta da Cernobbio nel 1994, sul modello tipico della riparazione pecuniaria prevista dalla legge sulla stampa in materia di diffamazione.

[28] V. Mongillo, Le riforme in materia di contrasto alla corruzione introdotte dalla legge n. 69 del 2015 - Voce per il “Libro dell’anno del diritto Treccani 2016”.

[29] Ibidem.

Criticamente si è anche specificato che «di certo, non si tratta di una riparazione dei danni patrimoniali eventualmente subiti dalla P.A., e di rimando dalla collettività, a causa del reato, poiché non avrebbe senso commisurare in maniera rigida questi danni all’indebito arricchimento ottenuto dal reo col suo reato: non vi è alcuna ragione per presumere iuris et de iure che l’entità degli uni corrisponda all’ammontare dell’altro; e per la stessa ragione, non sembra che la prestazione ex art. 322-quater possa considerarsi come vera e propria riparazione dei danni cagionati alla P.A. in termini, ad es., di pregiudizio alla sua imparzialità e al suo buon andamento, o alla sua immagine, o alla fiducia dei consociati nell’imparzialità e nel buon funzionamento di essa. Ripeto: è la corrispondenza fissa stabilita tra l’ammontare di questa c.d. “riparazione” e “quanto indebitamente ricevuto” dal reo a rendere scarsamente plausibile una interpretazione dell’istituto in termini realmente riparatori, se è vero che una riparazione, per sua natura, non può non dipendere da una quantificazione del danno caso per caso. Il senso di questa c.d. “riparazione” sembra piuttosto di carattere simbolico, riassumibile nel messaggio – lanciato contestualmente al condannato (prevenzione speciale), ai potenziali futuri rei (prevenzione generale) e alla collettività nel suo complesso (sorta di prevenzione-integrazione) – che “il crimine non paga”: che, se si commette (o quantomeno, se si viene condannati per) un peculato, una concussione o una corruzione, si dovrà non solo subire la pena prevista dalla corrispondente norma incriminatrice, ma si dovrà anche rinunciare a quel guadagno indebito per il quale il reato era stato commesso; che il guadagno derivante dall’abuso del proprio ruolo di pubblico agente rischia, dunque, di essere del tutto effimero. Se di “riparazione” si vuole parlare, lo si può fare in termini atecnici, ad indicare che la c.d. “restituzione del maltolto”, o meglio di ciò che si è indebitamente guadagnato a spese della collettività, serve in qualche modo a riparare il senso di smacco e di demoralizzazione che viene inferto alla collettività dalla notizia di certi abusi pubblici, e a soddisfarne dunque, correlativamente, il senso di giustizia. Dietro l’uso del linguaggio della riparazione, sembra dunque celarsi, qui, una vera e propria pena pecuniaria, che peraltro si va ad aggiungere, non solo alle pene (detentive) già previste dalle singole norme incriminatrici, ma anche alla confisca del profitto o del prezzo del reato ai sensi dell’art. 322-ter c.p.» (A. Spena, Dalla punizione alla riparazione? Aspirazioni e limiti dell’ennesima riforma anticorruzione, in Studium Iuris, 10, 2015, pp. 1115 e ss.).

[30] Si noti - ma la sede e la giovine età dell’innovazione legislativa non consentono un ulteriore approfondimento - come la nuova formulazione dell’articolo in esame abbia espunto l’elemento dell’effettivo incameramento delle somme corruttive per la parametrazione del quantum debendi a titolo restitutorio. Non vi è chi non veda il rischio di una duplicazione della restituzione-sanzione in tutte quelle ipotesi in cui siano obbligati ex art. 322-quater tanto il corruttore privato quanto il corrotto pubblico ufficiale, con l’inevitabile declino della funzione deterrente cui originariamente la norma era devota.

[31] Considerazioni del tutto analoghe a quelle appena enucleate possono farsi - mutatis mutandis - anche per le “Modifiche al codice penale e altre disposizioni in materia di legittima difesa” con riferimento all’art. 624-bis.

[32] Cfr. A. Della Bella, Un viaggio tra le misure sospensive: i nodi da sciogliere in attesa della promessa riforma del sistema sanzionatorio, in Dir. pen. proc., 2016, 3, pp. 337ss.

[33] Taluni interventi, per così dire, riempitivi sono da ravvisare certamente nella l. n. 689/1981 (necessaria subordinazione del beneficio a uno degli obblighi ex art. 165, c.p); nella l. n. 145/2014 (introduzione del lavoro di pubblica utilità tra i possibili contenuti); nella l. n. 69/2015 (in relazione alle condotte delittuose poste in essere dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio).

Si legge, tra l’altro, in Commissione Grosso - per la riforma del codice penale (1 ottobre 1998) - La riforma del sistema sanzionatorio (allegato alla Relazione del 15 luglio 1999), reperibile su www.giustizia.it/giustizia/it: «La maggioranza del gruppo di lavoro ritiene che la sospensione condizionale debba avere dei contenuti, in modo che il condannato avverta di aver subito una condanna e di essere sottoposto ad una “prova”. Riprendendo la proposta del progetto Pagliaro, si ritiene che anche in sede di prima concessione debbano essere imposti uno o più obblighi. Qualora vi sia una parte danneggiata, anche in assenza di costituzione di parte civile, la sospensione condizionale deve essere subordinata al pagamento di un risarcimento, parziale e provvisorio (in attesa di eventuale miglior definizione in sede civile e senza pregiudizio per un totale ristoro in tale sede); in caso di rifiuto da parte della persona offesa o danneggiata, il giudice stabilisce il versamento di una somma equivalente su un Fondo per le vittime dei reati (da disciplinare adeguatamente). L’imposizione di altri obblighi può avvenire sulla falsariga dell'affidamento in prova al servizio sociale quale misura alternativa. Si pensi, in tale ottica, alla prestazione di attività socialmente utili a favore di associazioni di volontariato, istituzioni assistenziali, nonché enti pubblici (purché la materia sia regolamentata anche ai fini assicurativi etc.)».

[34] Ibidem.

[35] È un tentativo dettato dall’alto: tra le altre esigenze, a seguito della sentenza Torreggiani - Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sez. II, causa Torreggiani e altri c. Italia, 8 gennaio 2013 (Ricorsi nn. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10) - con cui la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani (CEDU), forte si è riaffermata, nella riflessione dogmatica come nella pianificazione politica, quella di riforma del sistema sanzionatorio per il tramite non solo di provvedimenti c.d. svuota-carceri, bensì anche di misure parzialmente innovative (si pensi alla sospensione con m.a.p. di cui si è già detto) e deleghe al governo in materia sia di depenalizzazione che di riforma del sistema penitenziario e sanzionatorio.

[36] Ad esempio, Cass., II, 29 gennaio 2014, n. 3958.

[37] Cass, II, 23 novembre 2010, n. 41376.

[38] Ad colorandum, si riporta anche il passo successivo della pronuncia citata, ove la Cassazione prende consapevolezza delle implicazioni che tale esegesi può comportare (e in effetti comporta) e le pone in relazione con la funzione specialpreventiva della sospensione condizionale della pena: «Con riferimento all’ipotesi della subordinazione della concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, la Corte è consapevole come, in ogni caso, non possa essere prescritta al condannato un’attività ripristinatoria della situazione antecedente alla commissione dell’azione delittuosa, che di fatto risulti impossibile o si appalesi eccessivamente pesante per il destinatario. La funzione speciale preventiva della previsione normativa sarebbe fatalmente destinata ad acquisire una natura sanzionatoria impropria, utilizzabile poi in modo quasi automatico ai fini dell’applicazione della revoca del beneficio concesso. Proprio per evitare questi effetti distorsivi e superare la connaturata genericità della disposizione è stata ancorata l’individuazione delle conseguenze dannose del reato nell’ambito degli effetti oggettivi dello stesso, rimodellando però la riparazione non solo e non soltanto sulle modificazioni del mondo esterno derivanti dall’evento, come spesso ha ritenuto la giurisprudenza prevalente, ma anche su di una visibile adesione ai valori dell’ordinamento, cioè al bene giuridico protetto dalla norma, in questo caso l’integrità patrimoniale, secondo le modalità indicate dal giudice per ogni fattispecie concreta».

[39] Il termine è, invece, di almeno otto anni qualora si tratti di recidivi ex art. 99, c.p., ovvero di dieci se si tratta di delinquenti abituali, professionali o per tendenza (art. 179, cc. 2 e 3).

La l. n. 3/2019 ha, poi, introdotto un nuovo settimo comma all’articolo in esame per cui «la riabilitazione concessa a norma dei commi precedenti non produce effetti sulle pene accessorie perpetue. Decorso un termine non inferiore a sette anni dalla riabilitazione, la pena accessoria perpetua è dichiarata estinta, quando il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta».

[40] Cass, I, sent. 21 gennaio 2000, n. 6617.

[41] Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, Roma, 1929, rinvenibile su www.omeka.unito.it.

[42] In tal senso anche S. Sartarelli, Finalità ed efficacia rendono la riabilitazione sempre conveniente per il condannato, in Cass. pen., 7-8, 2001, pp. 2106ss.

[43] E. Lo Monte, Sulla valutazione del requisito della “buona condotta” ai fini della riabilitazione, in Cass. pen., 3, 2009, pp. 1034ss.

[44] G. Marinucci - E. Dolcini, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano 2006, p. 557. Contra, taluna giurisprudenza che vorrebbe dar rilievo a condotte oggettivamente sintomatiche di pericolosità sociale e a comportamenti moralmente riprovevoli (Cass., V, n. 5751/1998).

[45] Cass., I, 5 giugno 1984, ad esempio, ha ritenuto la semplice diffida emessa dal questore non idonea a ostare all’emenda del condannato, poiché volta solamente a finalità preventive che possono essere sintomo di pregiudizio alla sicurezza pubblica: l’esclusione della buona condotta, dunque, deve andare oltre al mero dato della sussistenza della formale diffida ed essere desunta da concreti fatti a supporto del mancato ravvedimento.

[46] E. Lo Monte, op. cit.

[47] Per una disamina, F.M. Passaro, Riabilitazione difficile per chi patteggia ma la ratio del procedimento è premiale, in Dir. e Giust., 24, 2006, p. 36ss.

[48] Cass., I, 25 marzo 2011, n. 18600.

[49] Cass., I, 29 ottobre 2012, n. 42164. Per un orientamento che da questo si discosta, si veda la nota a margine dell’ord. 26 maggio 2015 del Trib. Sorv. Torino, E. Cavallo, La riabilitazione si concede quando il condannato ha transatto con la persona offesa, dando aliunde prova di buona condotta, rinvenibile anche su www.penalecontemporaneo.it, ove si sottolinea che il Tribunale piemontese critica l’ampliamento dei poteri che si concederebbero al giudice in ordine alla valutazione della congruità del risarcimento. Questa, infatti, è di pertinenza tendenzialmente della vittima del reato.

[50] G. Spangher, La funzione rieducativa del processo, in Cass, pen., 3, 2017, pp. 1230ss.

[51] Su www.penalecontemporaneo.it.

[52] M. Donini, Ibidem.

[53] Sul punto, D. Pulitanò, In dialogo con “Luciano Eusebi”, “La Chiesa e il problema della pena, Milano 2014”, in Dir. pen. cont., aprile 2016, pp. 8ss: «[la restorative justice] dà rilievo a bisogni che non costituiscono oggetto di diritti, né del reo né della persona offesa. La soddisfazione dei bisogni cui guarda il paradigma della RJ, passa attraverso scelte libere, non coercibili: la RJ si incentra sulla valorizzazione della capacità di scelta, e dunque dell’autonomia, di ciascun individuo, che può essere promossa, ma non coartata».

[54] Ibidem.

[55] Si propone la disequazione «Delitto riparato ≤ delitto tentato», con una soglia di disvalore e del trattamento punitivo del primo minore o uguale alla soglia prevista per il secondo.