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Pubbl. Mar, 21 Lug 2015

Il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso

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Simone Luca


Analisi e struttura dell’art. 416-bis c.p.


1. Premessa

L’art. 416- bis c.p. è stato introdotto dalla l. 646/1982, ed integrato dalla l. 356/1992, al fine di rendere punibili condotte associative di stampo mafioso non sussumibili nell’ambito di cui all’art. 416 c.p.

I connotati dell’associazione mafiosa sono dati al comma 3 dell’art. 416- bis c.p., infatti, il legislatore li ha individuati nella particolare forza intimidatrice del vincolo associativo e nella condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva; fattori di cui si avvalgono i componenti dell’associazione non solo per commettere delitti ma anche per “acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni di appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire o ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri”.

Come precisato dalla più recente giurisprudenza, l’associazione mafiosa si distingue, inoltre, dalla comune associazione per delinquere per il fatto che la prima non è necessariamente diretta alla commissione di una pluralità di delitti, ben potendo essere costituita per il generico fine di acquisire potere estendendo la propria influenza; ne deriva che non è richiesta l’indispensabilità della prova della finalità di realizzare più specifici delitti, richiesta, invece, per la fattispecie di cui all’art. 416 c.p..

Dunque, mentre non può parlarsi di associazione per delinquere ordinaria quando gli associati abbiano come scopo esclusivo la commissione non di un numero indeterminato di delitti, ma solo di uno o più delitti previamente individuati, nulla vieta la configurabilità, in tale ipotesi, del reato di associazione mafiosa.

Non è comunque semplice trovare formule capaci di definire con esattezza il fenomeno mafioso.

La dottrina ha messo in luce che la finalità di arricchimento dei mafiosi, sfruttando rapporti di dipendenza personale a tutti i livelli e strati sociali, ha fatto sì che l’attenzione del legislatore si concentrasse sul carattere prevaricante di una forma di attività imprenditoriale o para-imprenditoriale. Il tutto nel quadro di quella che è possibile definire come una logica di dominio e di conquista illegale e violenta di spazi di potere reale.

 

2. La giurisprudenza sulla configurazione del 416 bis.

La giurisprudenza, dal canto suo, ha precisato che non è sufficiente il mero accordo ai fini della configurazione del reato ma occorre una struttura organizzativa, anche se l’art. 416- bis c.p. non la definisce. Ciò, probabilmente, è dovuto anche al carattere ambiguo e complesso dell’associazioni mafiose, aggiunto al fatto che non tutte le “mafie” presentano la medesima struttura.

Tuttavia, la giurisprudenza di legittimità ha cercato di individuare degli elementi sintomatici dell’organizzazione mafiosa quali la segretezza del vincolo, la religione dell’omertà, riti di iniziazione, linguaggio oscuro e convenzionale, assoluto vincolo gerarchico, accollo alla cosca delle spese di giustizia, etc.

In ogni caso è necessaria la presenza di una struttura organizzativa stabile e permanente, ancorché non particolarmente complessa ed articolata.

Pertanto, il rapporto tra l’art 416 e 416-bis c.p. è ricostruito in termini di specialità, con la conseguenza che l’integrazione del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso esclude il concorso con l’art. 416 c.p.

Il bene giuridico protetto è costituito dall’ordine pubblico inteso in senso materiale, minacciato dal dispiegamento della forza di intimidazione e dalla conseguente condizione di assoggettamento e omertà ingenerate nelle vittime del reato.

Dunque, si ritiene che il reato abbia natura plurioffensiva, in quanto idonea a tutelare parimenti il bene giuridico della libertà economica, intesa come libertà di mercato ed iniziativa economica, nonché il principio di legalità democratica e rappresentativa delle istituzioni pubbliche.

Trattandosi di reato comune, soggetto attivo può essere chiunque, con la precisazione che la norma prevede delle sanzioni più gravi per i dirigenti, i promotori o gli organizzatori; oltre che per, ovviamente, la figura del mero partecipe.

In particolare, il promotore è colui che da origine alla compagine associativa, creando ex novo una struttura penalmente rilevante. Peraltro, promotore è, altresì, colui che modifica la struttura associativa, tramutando un’associazione preesistente ai sensi dell’art. 416 c.p. in un’associazione di stampo mafioso.

La direzione consiste nella detenzione di poteri di iniziativa e di decisione, avuto riguardo non tanto all’investitura formale quanto al contenuto delle funzioni esercitate di fatto.

L’organizzazione si compone di una pluralità di attività di vario genere, avente quale denominatore comune l’effetto di produrre lo sviluppo o di garantire la stabilità dell’associazione stessa.

La condotta di partecipazione è a forma libera, purché si traduca in un contributo non marginale ma apprezzabile alla realizzazione degli scopi dell’associazione stessa. Non si richiede alcun formale atto di inserimento nel sodalizio, dovendosi avere riguardo soltanto all’obiettività della condotta, al fine di verificare se, alla stregua della logica e della comuna esperienza, nei fatti si sia verificata l’adesione.

Pertanto, ciò che rileva è la consapevolezza di dare un contributo alla vita del sodalizio di cui l’associato conosca le caratteristiche, sapendo di avvalersi della forza di intimidazione del vincolo associativo e delle condizioni di assoggettamento ed omertà che ne derivano.

A tal proposito, la giurisprudenza ha ritenuto sussistere la condotta di partecipazione nella tenuta di mezzi materiale appartenenti all’associazione e nell’attività di trasmissione di messaggi scritti fra membri influenti della stessa, in quanto inerenti al meccanismo funzionale dell’attività criminale (Cass. n. 13008/1998).

Contrariamente, la mera manifestazione di stima nei confronti dei partecipanti al sodalizio criminoso è priva di rilievo penale.

Discusso il rapporto intercorrente fra le diverse figure delineate dalla norma incriminatrice. Secondo l’orientamento della Suprema Corte, trattasi di figure autonome fra loro caratterizzate dall’alternatività delle une rispetto alle altre. Secondo parte della dottrina, al contrario, le figure del promotore, organizzatore nonché dirigente costituiscono aggravanti della fattispecie base della partecipazione al sodalizio criminale.
Diverso orientamento dottrinale condivide la tesi della Suprema Corte, ravvisando nelle attività di promozione, direzione, organizzazione e partecipazione fattispecie autonome e distinte.

 

3. L'uso del metodo mafioso.

E’ importante specificare che nel reato di associazione mafiosa è richiesto un quid pluris che è costituito dall’uso del metodo mafioso.
Esso consiste, dal lato dell’associazione, nell’utilizzazione verso l’esterno della forza intimidatrice nascente dal vincolo utilizzato dagli associati, e dal lato passivo delle persone offese, dalla condizione di assoggettamento e di omertà nei confronti dell’associazione conseguente all’intimidazione da questa esercitata che da luogo ad un vero e proprio stato di dipendenza psicologica, tale da imporre al soggetto passivo comportamenti non voluti, cui non si può sottrarre per il timore di gravi conseguenze anche solo insinuate con riferimenti generici o con azioni esemplari (Cass., n. 16464/1990).

Ciò ha indotto la giurisprudenza a ritenere che l’associazione di tipo mafioso si caratterizzi non tanto per la sua struttura quanto per una certa intensità e stabilità del vincolo sodale.

L’esercizio della forza intimidatrice può esplicarsi in una pluralità di forme, sia limitandosi ad estendere l’effetto di intimidazione già conseguita dal sodalizio, sia ponendo in essere nuovi atti di violenza e minaccia che rafforzino la precedente capacità intimidatrice del vincolo associativo. Di conseguenza la violenza e la minaccia costituiscono un accessorio eventuale, ovvero latente, della stessa. Il vincolo di omertà costituisce, più che l’effetto di singoli atti di sopraffazione, la conseguenza del prestigio criminale dell’associazione che si presenta all’esterno quale autorevole centro di potere (Cass. n. 4893/2000).

Tuttavia, è controverso se sia sufficiente che l’associazione si ponga quale fine l’esercizio del metodo mafioso ovvero se sia necessaria ai fini della punibilità l’effettiva attuazione dello stesso:

  1. Un primo orientamento ritiene sufficiente la mera potenzialità dell’esercizio della forza di intimidazione, con conseguente ricostruzione del reato in termini di pericolo astratto.
  2. La tesi prevalente seguita dalla Suprema Corte e condivisa da parte della dottrina ritiene che l’intimidazione deve essere effettivamente attuata.
  3. Un terzo orientamento dottrinale intermedio ravvisa nella forza intimidatrice, non tanto una modalità di realizzazione della condotta, quanto un elemento strutturale che discende direttamente dal vincolo associativo, a prescindere dai singoli atti di intimidazione.

 

4. Lo scopo dell'associazione di stampo mafioso.

Per quanto riguarda gli scopi perseguiti dall’associazione di stampo mafioso, secondo parte della dottrina le finalità dell’associazione mafiosa entrerebbero a far parte dell’aspetto oggettivo della fattispecie incriminatrice. Contro tale ricostruzione, si sottolinea che gli scopi presi di mira non debbono essere necessariamente realizzati al fine dell’integrazione del reato.

Per quanto concerne, invece, le singole finalità – poiché il reato si configura quale norma a più fattispecie – l’unicità del reato permane anche qualora la struttura associativa persegua una pluralità di scopi descritti dal legislatore.

In particolare:

  1. Lo scopo di acquisire la gestione o il controllo di attività economiche può esplicarsi tanto in ambito pubblico quanto privato e consiste in attività aventi rilevanza economica nonché nella detenzione di un potere tale da influire sulla gestione di un determinato settore economico anche mediante lo strumento dell’interposizione fittizia di persone o mediante la costituzione di mere società fantoccio.
  2. Quanto all’acquisizione del controllo di concessioni, autorizzazioni, appalti o servizi pubblici, il legislatore ha implicitamente rinviato ai relativi concetti propri del diritto amministrativo.
  3. La finalità di realizzare vantaggi o profitti ingiusti per sé o per altri rappresenta una formula di chiusura idonea a ricomprendere nella fattispecie incriminatrice ogni forma di condotta in cui si manifesta il metodo mafioso ancorché non rientrate tra le finalità espressamente descritte dal legislatore.

Tuttavia, non si ravvisa unanimità di vedute in dottrina e giurisprudenza circa il valore da attribuire all’aggettivo ingiusto.

Secondo un primo orientamento, l’ingiustizia va desunta esclusivamente sulla base di una valutazione stricto sensu giuridica.

Tale orientamento è contrastato da chi ravvisa l’ingiustizia nella contrarietà al concetto di giustizia la cui valenza va colta a prescindere da valutazioni di carattere giuridico. Infine, vi è chi interpreta il termine ingiusto nell’accezione di sproporzionato e pertanto ingiustificato.
L’art. 11-bis della l. n. 306/1992 ha introdotto l’ulteriore finalità di ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasioni di consultazioni elettorali. Dunque, rientra nell’ambito operativo del precetto penale ogni forma di attività volta a coartare, interdire ovvero influire sulla libera esplicazione del diritto di voto.

Inoltre, per quanto riguarda l’elemento oggettivo, si precisa che l’individuazione concreta del delitto in questione, non appare condizionata da considerazioni relative all’origine regionale del fenomeno; dal momento che il legislatore, al comma 6, estende la punibilità alla camorra e alle altre associazioni, comunque localmente denominate.

Sul versante soggettivo, è necessario verificare l’affectio societatis, ovvero la consapevolezza desumibile anche da fatti concludenti di aver assunto il vincolo criminale con contestuale coscienza delle caratteristiche dell’organizzazione stessa, fra cui in primo luogo, l’avvalersi del metodo mafioso, nonché degli scopi perseguiti (Cass., n. 1332/1991).

In particolare il dolo è specifico, dal momento che non si richiede che le finalità dell’associazione siano concretamente ed effettivamente realizzate, bastando che le stesse costituiscano lo scopo in vista del quale l’associazione si costituisce ed opera (Cass., n. 7627/1996).

Parte della dottrina distingue l’elemento soggettivo a seconda del ruolo rivestito dall’agente nell’ambito dell’associazione criminale, dovendo il dolo ricomprendere anche la consapevolezza della specifica attività svolta dal consociato nella compagine associativa.

L’art. 416-bis è strutturato come reato permanente, pertanto la consumazione si protrae fino alla cessazione dello stato antigiuridico, cioè fino a quando si verifica lo scioglimento dell’associazione.

 

5. La custodia cautelare nei confronti del consociato.

Quanto all’arresto dell’associato, la giurisprudenza asserisce che la permanenza non è interrotta dallo stato di detenzione, tranne che sia raggiunta la prova dell’estromissione della persona dall’associazione criminosa o del suo recesso da questa. Infatti, il delitto di cui all’art. 416-bis c.p. può continuare a consumarsi anche dopo l’emissione di un provvedimento restrittivo della libertà personale, essendo legato non solo a condotte tipiche ma anche soltanto alla mancata cessazione dell’affectio societatis scelerum fino ad un atto di desistenza legale o volontaria (Cass., n. 4804/1993). L’associato può ben continuare a far parte del sodalizio e a mantenere i contatti con i complici in libertà anche durante lo stato di detenzione.

Tuttavia se interviene una sentenza di condanna, anche non irrevocabile, per finzione giuridica, si ritiene che l’attività, ancora eventualmente in corso, sia interrotta automaticamente; con la conseguenza che la parte di condotta illecita successiva alla pronuncia sarà perseguibile a titolo di reato autonomo.

 

6. Associazione mafiosa come reato di pericolo?

Stante la peculiarità di tale norma, ci si è chiesto se poteva configurarsi o meno come reato di pericolo. A tal proposito non si risconta unanimità di vedute circa la natura da riconoscere al reato in oggetto.

Un primo orientamento ritiene trattarsi di reato di pericolo, in particolare si afferma che è sufficiente la mera capacità di intimidire che l’associazione abbia dimostrato all’esterno, da valutare tenendo conto del sodalizio, dell’ambiente di operatività, dei metodi utilizzati, della struttura organizzata e di qualsiasi altro elemento utile. In particolare, considerata la funzione anticipatoria della fattispecie incriminatrice, tale capacità può essere anche solo potenziale (Cass. n. 45711/2003). O ancora, per l’integrazione del delitto di associazione mafiosa, che il legislatore ha configurato quale reato di pericolo, è sufficiente che il gruppo criminale sia potenzialmente capace di esercitare intimidazione (Cass. n. 38412/2003).

Secondo un diverso orientamento trattasi di reato di lesione, in quanto la condotta incriminata effettivamente e concretamente danneggia il corretto funzionamento del sistema democratico. In altri termini, la capacità di intimidazione deve essere attuale, effettiva ed obiettivamente riscontrabile, capace di piegare ai propri fini la volontà di quanto vengono a contatto con i suoi componenti (Cass. 25242/2011).

Quanto al tentativo, lo si ammette nell’ipotesi in cui un soggetto tenti di entrare a far parte della struttura associativa ma non vi riesca per cause estranee alla sua volontà.

 

7. I criteri per l'attribuzione dei reati commessi dai consociati

Trattandosi di un reato plurisoggettivo, occorre individuare i criteri in base ai quali possono essere attribuiti ai singoli consociati i reati commessi da diversi soggetti al fine di salvaguardare l’associazione ovvero di realizzare gli scopi prefissati.

L’orientamento più recente della giurisprudenza ritiene che gli associati non possono ritenersi, per ciò solo, autori o concorrenti dei delitti commessi, in esecuzione del comune programma criminoso; perché, in applicazione della responsabilità penale personale, occorre verificare in concreto la riferibilità del reato-fine all’associato, mediante la corrispettiva prova.

Tale tematica assume particolare rilevanza con riferimento agli appartenenti al vertice dell’organizzazione criminale. Infatti, un problema ampliamente discusso in dottrina e giurisprudenza è quello attinenti alla responsabilità dei capi ed organizzatori delle associazioni delinquenziali per i c.d. delitti-scopo.

In tal senso, la giurisprudenza ritiene che l’appartenenza meramente formale all’organismo dirigente non implica, per ciò solo, un concorso morale in ordine alla commissione di un reato rientrante nel pianto strategico dell’associazione. Dunque, occorre, ai fini della responsabilità, la sua partecipazione in termini sostanziali ed attuali e non meramente formali ed astratti (Cass., n. 6784/1994).

In tal senso, una più recente pronuncia del giudice di legittimità (Cass., n. 13349/2003), ha affermato che per l’effettuazione o meno di omicidi non può affermarsi che debbano risponderne tutti componenti dell’associazione sulla sola base di un consenso tacito, quando non risulti dimostrata l’esistenza anche di un generico interesse alla eliminazione delle persone risultate vittime dagli omicidi.

Sul piano probatorio vi è un orientamento secondo cui la sussistenza di un organismo collegiale centrale, dotato di poteri deliberativi, conduce alla presunzione fino a prova contraria che i componenti del suddetto organismo sia stati corresponsabili dei delitti compiuti dagli altri associati, quando risulta che costoro li avevano informati e non era stato opposto dai primi alcun espresso divieto (Cass., n. 6992/1992).

Tuttavia, la Suprema Corte ha ridimensionato la portata applicativa di tale indirizzo, ritenendo che la responsabilità concorsuale dei vertici va automaticamente riconosciuta solo in relazione a quei particolarissimi delitti per i quali sia provato che le regole interne non ne consentivano la consumazione in assenza dell’autorizzazione dei vertici decisionali.

Con un ulteriore pronuncia (Cass., n. 18845/2003), adottando un maggiore rigore probatorio oltre che sostanziale, si è affermato che l’appartenenza ai vertici dell’associazione mafiosa non integra ex se la prova della colpevolezza dei dirigenti del sodalizio, in riferimento ai delitti-fine commessi da taluno dei partecipi, anche se in attuazione di un disegno criminoso riferibile, in via programmatica, all’organizzazione.

Occorre, quindi, dimostrare ai fini dell’effettività del concorso morale che:

  1. Via sia stata un preventiva conoscenza del progetto delittuoso e delle connesse modalità esecutiva.
  2. Via sia stata una conseguente manifestazione di approvazione ovvero una mancanza di dissenso.

Diversamente, il delitto sarà ascrivibile al solo partecipe, dal momento che è escluso nel nostro ordinamento la configurazione di qualsiasi forma di anomala responsabilità di posizione.

 

8. Le aggravanti previste per l'associazione di stampo mafioso.

Infine, al quarto comma via è la circostanza aggravante speciale di natura oggettiva che si configura allorquando l’associazione abbia la disponibilità di armi e materie esplodenti, che ricorre anche se occultate o depositate in luoghi specifici (Cass., n. 7651/2010).

Tale circostanza si estende anche a coloro che, partecipando all’associazione, non ne abbiano la diretta disponibilità o l’immediato possesso, essendo sufficiente che anche solo uno dei componenti ne abbia la disponibilità, purché il singolo componente del gruppo, cui l’aggravante viene contestata, ne sia consapevole o quantomeno abbia ignorato per colpa diretta la circostanza in questione.

Al sesto comma è prevista l’aggravante oggettiva che si configura ove le attività economiche siano finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto ovvero il profitto dei delitti.

Ulteriori circostanze sono previste dalle leggi speciali.

Il settimo comma commina la confisca obbligatoria della cose che servirono o che furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne costituiscono il prezzo, il prodotto, il profitto ovvero l’impiego.